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La disfagia faringea nella Malattia di Parkinson

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

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CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

“La disfagia faringea nella Malattia di Parkinson”

RELATORE

Prof. Bruno Fattori

CANDIDATO

Marco Lovi

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SOMMARIO

RIASSUNTO ... 2

1. LA MALATTIA DI PARKINSON ED I PARKINSONISMI ... 4

2.LA DISFAGIA NELLA MALATTIA DI PARKINSON E NEI PARKINSONISMI... 9

2.1 FISIOPATOLOGIA DELLA DISFAGIA NELLA M.P. ... 9

2.2 CONTROLLO NEUROLOGICO DELLA DEGLUTIZIONE ... 14

3.VALUTAZIONE DELLA DISFAGIA ... 19

3.1 INDAGINE ANAMNESTICA... 20

3.2 VALUTAZIONE CLINICA ... 21

3.3 INDAGINI STRUMENTALI ... 24

Videofluorografia Digitale (VFG). ... 24

Scintigrafia Oro-Faringo-Esofagea (OPES). ... 28

Studio Fibroendoscopico della Deglutizione (FEES) ... 35

High-Resolution Manometry (HRM) ... 44 4.ESPERIENZA PERSONALE ... 57 4.1 MATERIALI E METODI ... 57 4.2 RISULTATI ... 64 FEES ... 64 HRM ... 69 Confronto FEES vs HRM ... 78 4.3 DISCUSSIONE ... 81

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5.BIBLIOGRAFIA ... 87

RIASSUNTO

La Disfagia è un sintomo di riscontro relativamente frequente nelle patologie neurologiche e rappresenta un rilevante fattore prognostico negativo per le complicanze a cui può dar luogo, come le infezioni broncopolmonari e la malnutrizione grave fino all’exitus.

Nel paziente con la Malattia di Parkinson (M.P.) la disfagia è presente tra i sintomi principali, nella descrizione originale della patologia, effettuata da Parkinson nel 1817, assumendo peraltro un ruolo rilevante da un punto di vista clinico (Parkinson, 1817; Suttrup, 2016).

La M.P. è una patologia neurodegenerativa assai comune, preceduta solo dalla Malattia di Alzheimer, con una prevalenza dello 0,3% nella popolazione generale, arrivando fino all’1% nei pazienti di età superiore ai 60 anni.

L'obiettivo della tesi è stato quello di studiare le caratteristiche della disfagia faringea in un gruppo di 20 pazienti affetti M.P., attraverso l’utilizzo ed il confronto dei risultati di due diverse metodiche di indagine dell’atto deglutitorio: Fiberoptic Endoscopic Evaluation of Swallowing (FEES) e High-Resolution Manometry (HRM), nell’intento di individuare le alterazioni biomeccaniche alla base dei disturbi deglutitori.

La FEES e la Videofluoroscopia (VFS) sono considerati attualmente gli esami gold standard per lo studio della disfagia orofaringea. La FEES è un esame di tipo prevalentemente qualitativo che fornisce precise immagini endoscopiche degli atti deglutitori, consentendo in modo semplice, accurato e ripetibile di valutare eventuali alterazioni della deglutizione. La HRM, esame che solo

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recentemente è stato proposto per lo studio della disfagia faringea, è, invece, un’indagine di tipo quantitativo che fornisce precisi valori pressori espressi dalle varie strutture anatomiche coinvolte nell’atto deglutitorio. L’analisi dei dati permette di ottenere informazioni importanti e accurate circa la funzionalità di tali distretti. La HRM infatti fornisce informazioni relative alla forza di contrazione e all'efficacia delle fasi di rilasciamento delle strutture muscolari coinvolte nella deglutizione: da questi dati è possibile verificare la validità o meno della spinta dei muscoli preposti alla progressione del bolo e l’efficacia del rilassamento delle strutture sfinteriche che dovrebbero essere pervie durante l’atto deglutitorio.

L’elaborazione statistica dei risultati ottenuti in questo gruppo di pazienti, ha consentito di ottenere importanti informazioni sulla funzionalità delle strutture muscolari coinvolte nella deglutizione, così da poter meglio comprendere i meccanismi fisiopatologici che stanno alla base della disfagia nel paziente con Malattia di Parkinson.

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1. LA MALATTIA DI PARKINSON ED I PARKINSONISMI

Il termine Sindrome Parkinsoniana descrive un quadro patologico caratterizzato da rigidità plastica, tremore a riposo, bradicinesia e sintomi non motori come disturbi neurovegetativi (tra cui stipsi, ipotensione ortostatica), disturbi olfattivi, del sonno, dell’umore, della deglutizione e di cui la Malattia di Parkinson è la manifestazione clinica principale (Chaudhuri et al, 2006). La M.P. è una patologia neurodegenerativa relativamente comune, la cui incidenza tende ad aumentare in maniera costante con l’età, variando da 40 a 1900 casi per 100.000 abitanti, considerando le decadi comprese tra quaranta e ottanta anni (Pringsheim, 2014, Von Campenhausen et al. 2005). Ad oggi non sono note le esatte cause di questa patologia, ma si ipotizza un modello eziopatogenetico multifattoriale, in cui si riconoscono fattori di rischio e fattori protettivi. Tra i primi possiamo distinguere: fattori di rischio genetici (intrinseci), come la presenza di un’anamnesi familiare positiva per M.P. e fattori ambientali (estrinseci) come l’esposizione lavorativa a metalli pesanti, pesticidi ed erbicidi, Il fumo di sigaretta sembra invece avere un ruolo protettivo. Nella M.P. vi è generalmente una presentazione asimmetrica ed una buona risposta alla terapia dopaminergica (L-Dopa e dopamino agonisti), in assenza di ulteriori segni neurologici e dati anamnestici che suggeriscano cause differenti responsabili dei sintomi. I reperti anatomo-patologici evidenziano principalmente un interessamento degenerativo della via nervosa dopaminergica nigrostriatale ed una riduzione dei neuroni dopaminergici della sostanza nigra pars compacta a livello del mesencefalo ventrale (la perdita cellulare è oltre il 60% all’esordio dei sintomi motori), con la presenza dei tipici corpi inclusi citoplasmatici di alfa-sinucleina (corpi di Lewy) che determinano un’alterazione

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della funzionalità neuronale andandosi a legare e ad interagire con il sistema microtubulare (Figura 2) . La diagnosi di certezza della M.P. primitiva (idiopatica) necessita della valutazione autoptica: tuttavia, la storia clinica e l’esame obiettivo del paziente permettono al neurologo esperto di predire con un notevole grado di accuratezza la diagnosi autoptica (Tolosa E et al, 2006). I termini M.P. familiare o Parkinsonismo familiare sono utilizzati per indicare forme a trasmissione autosomica dominante (con vario grado di penetranza) ed autosomica recessiva.

Il termine Parkinsonismo Degenerativo Atipico si riferisce a condizioni in cui i tipici segni parkinsoniani sono associati ad altri segni clinici, configurando un quadro più grave ed invalidante: comprendono la Demenza con corpi di Lewy, l’Atrofia multisistemica, la Paralisi sovranucleare progressiva e la Degenerazione cortico-basale.

Il termine Parkinsonismo Secondario si riferisce a sindromi extrapiramidali da cause note (es.: Parkinsonismo iatrogeno, tossico, vascolare…)

I sintomi motori cardinali della M.P. sono rappresentati da tremore a riposo, rigidità e bradicinesia. I sintomi non motori si presentano in genere in maniera subdola, sono difficilmente riconoscibili e compaiono precocemente alcuni anni prima della diagnosi (fase pre-clinica), i più caratteristici sono la presenza di disturbi olfattivi ed urinari, stipsi, disturbi del sonno e del tono dell’umore. Questo particolare andamento sembra ricondursi al progressivo interessamento ascendente di diverse strutture cerebrali, quali quelle olfattive e del tronco encefalico nella fase pre-clinica, i nuclei della base e la sostanza nigra nella fase conclamata fino ad arrivare alle strutture corticali nella fase avanzata, giustificando almeno in parte anche la presenza di disturbi cognitivi in questo stadio.. L’instabilità posturale compare di solito nelle fasi più avanzate di

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malattia, mentre è generalmente assente all’inizio (Figura 1). Il tremore a riposo è di particolare importanza, poiché costituisce il sintomo d’esordio nel 70% dei casi di M.P. Tipicamente ad insorgenza asimmetrica e distale, presenta una bassa frequenza di oscillazione (3-5 Hz), coinvolge prevalentemente le dita della mano, con un gesto caratteristico derivante dall’interessamento prevalente di pollice ed indice in opposizione, che viene definito come “contar monete” o “far pillole” (Figura 1) per poi diffondersi in tutti i distretti dell’organismo. La rigidità viene percepita dall’esaminatore come aumentata resistenza alla mobilizzazione passiva delle articolazioni nel loro movimento completo di escursione e si caratterizza qualitativamente come “rigidità plastica”. E' inoltre possibile apprezzare una sensazione di breve e regolare interruzione del movimento durante la mobilizzazione passiva, definita come “ruota dentata” o “troclea”, corrispondente ad un tremore sub-clinico. La bradicinesia si manifesta inizialmente come riduzione della destrezza manuale, con difficoltà ad eseguire compiti motori fini quali allacciare i bottoni della camicia oppure nella scrittura (micrografia). Il paziente presenta una riduzione delle sincinesie pendolari degli arti superiori durante la marcia. La bradicinesia progredisce poi fino ad interferire con tutti gli aspetti della vita quotidiana, in particolare con la deambulazione ed i passaggi posturali quali alzarsi da una sedia oppure girarsi nel letto. La marcia a piccoli passi con trascinamento dei piedi è un sintomo tipico della M.P.. Il cammino “festinante” deriva dalla combinazione di una postura in flessione (camptocormia) e dalla progressiva perdita dei riflessi posturali, che provoca l’accelerazione del paziente nel tentativo di “raggiungere” il proprio centro di gravità che si sposta anteriormente (Figura 1). Il caratteristico fenomeno del “freezing” (congelamento) della marcia si osserva solitamente all’inizio del

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cammino (start hesitation) e/o nel cambio di direzione. L’instabilità posturale deriva da un progressiva perdita dei riflessi posturali, con aumento del rischio di cadute. La presenza di una instabilità posturale significativa con frequenti cadute che si manifestano nel primo anno di malattia è fortemente suggestiva per una diagnosi non di M.P. ma di Parkinsonismo Degenerativo Atipico.

Sebbene la maggior parte dei casi di MP idiopatica sembri essere di tipo sporadico, evidenze sempre maggiori indicano un ruolo importante dei fattori genetici. Tali rilievi derivano da studi sui tassi di concordanza della M.P. tra gemelli monozigoti e dizigoti, suggerendo che l’ereditarietà possa svolgere un ruolo importante, soprattutto nei casi ad esordio inferiore ai 50 anni, mentre appare meno significativa per i casi ad esordio tardivo.

La definizione di Parkinsonismi Atipici si riferisce ad un gruppo di malattie neurodegenerative, caratterizzate dall'associazione di sintomi parkinsoniani ed altri segni neurologici (come precoci disfunzioni cognitive). Il decorso clinico è solitamente più rapido rispetto alla Malattia di Parkinson, dimostrano in genere una scarsa risposta alla terapia dopaminergica, i sintomi si presentano in modo simmetrico e la prognosi funzionale più invalidante. Le tre forme principali sono rappresentate dall'Atrofia Multisistemica, dalla Paralisi Sopranucleare Progressiva e dalla Degenerazione Corticobasale. Molteplici sono anche le cause di Parkinsonismo Secondario, che in ugual modo vanno differenziate dalla comune Malattia di Parkinson, attraverso un’attenta anamnesi. Non esistono marcatori biologici che consentano di formulare una diagnosi certa, pertanto, la presenza e la progressione nel tempo delle diverse caratteristiche del quadro clinico, costituiscono gli elementi principali per una diagnosi corretta. L'errore diagnostico è pertanto più frequente durante le fasi iniziali della malattia, quando

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è spesso meno chiara l'espressione degli aspetti caratteristici dell'uno o dell'altro quadro clinico. Tale dato rappresenta un limite significativo per gli studi epidemiologici e terapeutici in queste patologie. (Tarakad A, Jankovic J, 2017)

Figura 1. Postura tipica e sintomi motori nel paziente affetto da M.P.

Figura 2. Comparazione anatomica ed al microscopio della substantia nigra pars compacta mesencefalica di un paziente sano (in alto) e di uno affetto da M.P. (in basso).

Si noti, sulla destra, la presenza, al microscopio di un corpo di Lewy intracitoplasmatico di alfa sinucleina.

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2. LA DISFAGIA NELLA MALATTIA DI PARKINSON E NEI

PARKINSONISMI

2.1FISIOPATOLOGIA DELLA DISFAGIA NELLA M.P.

Con il termine “disfagia”, mutuato dal greco componendo le parole (dus) = male e (faghèin) = mangiare si definisce qualunque disturbo della progressione del cibo dal cavo orale allo stomaco. Il sintomo “disfagia” è frequente nella popolazione generale e si stima che i soggetti adulti che lamentano questo disturbo siano circa il 7% di quelli che si recano ad una visita di medicina generale. La percentuale aumenta sensibilmente raggiungendo il 25% se il campione considerato è quello dei pazienti ospedalizzati (Layne et al, 1989; Lindgren, Janzon, 1991).

Più dell’80% dei pazienti affetti da M.P. sviluppa disfagia nel corso della propria malattia (Kalf et al, 2012; Suttrup, Warnecke, 2016).

I disordini della deglutizione comportano una compromissione della qualità della vita, rendono complicata l’assunzione dei farmaci per via orale, implicano uno stato di malnutrizione e disidratazione, oltre ad un aumentato rischio di inalazione del bolo, con conseguente polmonite “ab ingestis”, riconosciuta come una delle principali cause di morte nel M.P. (Miller, 2006; Plowman et al, 2009; Fasano et al, 2015). L’insieme di queste evidenze fa sì che la disfagia sia considerata come uno dei principali indici di gravità e di progressione avanzata di malattia, nel paziente neurodegenerativo.

L’atto deglutitorio, d’altra parte, è un processo complesso, mosso da un fine gioco di pressioni e che richiede una precisa coordinazione di contrazione/rilasciamento muscolare a livello delle strutture implicate, al fine di

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consentire una efficace progressione del bolo dalla cavità orale fino allo stomaco (Figura 3-7).

Figura 3. Fase buccale. Il bolo è raccolto sul dorso della lingua; la protrusione anteriore del palato molle ed il sollevamento posteriore della base della lingua determinano la chiusura dell’istmo palato-linguale (Nacci et al, 2005).

Figura 4. Fase orale e fase oro-faringea. La lingua, con la punta fissata sul palato duro, dà inizio al movimento posteriore del bolo, che giunge all’imbocco delle fauci. Il sollevamento del velo palatino chiude il rinofaringe ed impedisce il reflusso nasale. Il piano inclinato, posteriormente rappresentato dalla lingua, favorisce la progressione del bolo nel cavo faringeo (Nacci et al, 2005).

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Figura 5A, 5B. Fasi faringee prossimale e distale. Si rafforza la chiusura velo-faringea mentre si verifica la retroflessione dell’epiglottide. La laringe si solleva e contribuisce alla chiusura dello sfintere laringeo; il bolo così giunge ai seni piriformi dove progredisce agevolmente (Nacci et al, 2005).

Figura 6. Fase faringo-esofagea. Apertura del SES per innalzamento e protrusione faringo-laringea e rilassamento del muscolo crico-faringeo. Il bolo progredisce nell’esofago cervicale (Nacci et al, 2005).

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Figura 7. Fase esofagea. Superato il SES, il bolo progredisce nell’esofago e le strutture faringo-laringee riprendono la loro posizione di riposo (Nacci et al, 2005).

La fisiopatologia della disfagia nella M.P. è a tutt’oggi poco conosciuta (Michou, Hamdy, 2010). E’ stato ipotizzato che possa essere correlata non solo ad un alterato controllo da parte del Sistema Nervoso Centrale (SNC), ma anche ad una disfunzione periferica (neuro)muscolare. I segni e i sintomi severi di disfagia si verificano spesso solo negli stadi avanzati di M.P., in conseguenza a meccanismi di compenso corticali presenti durante i primi stadi della malattia (Michou, Hamdy, 2010; Suntrup et al, 2013).

Relativamente alle cause periferiche neuro muscolari è stata individuata una molteplicità di fattori che influiscono sia sulla forza che sulla velocità di contrazione muscolare, in rapporto ad alterazioni dirette delle fibre muscolari (tipo I e tipo II) e a fenomeni di denervazione o reinnervazione delle stesse fibre. Nelle Sindromi Parkinsoniane infatti, oltre a rilevare una ridotta forza e velocità di contrazione muscolare, si apprezza una aumentata rigidità delle masse

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muscolari, per una progressiva diminuzione delle fibre ad elevata velocità (tipo II) e ad un parallelo aumento di quelle di tipo I a bassa velocità.

E’ stato inoltre visto che i pazienti con M.P. presentano non solo accumuli di alfa-sinucleina nelle fibre nervose sensitive afferenti ed efferenti motorie, ma anche alterazioni molecolari della catena pesante della miosina nelle fibre muscolari. Questi cambiamenti ultrastrutturali, correlabili ai continui fenomeni di denervazione e reinnervazione, sono poi responsabili di varie alterazioni istologiche come atrofia, fibrosi e raggruppamento delle fibre muscolari, cambiamenti rinvenibili nei reperti autoptici, con maggior frequenza nei pazienti affetti da M.P con disfagia, rispetto ai pazienti con M.P, ma con anamnesi negativa per disfagia.

Queste alterazioni strutturali si traducono, da un punto di vista clinico, in ridotta spinta muscolare e/o mancato rilasciamento di strutture chiave orofaringee, rivestendo quindi un ruolo importante nella patogenesi della disfagia in questi pazienti. (Mu et al, 2012; Suttrup et al, 2015-2016-2017). Le alterazioni fisiopatologiche della funzione muscolare sopradescritte, se rapportate ai distretti orofaringei ed esofagei, giustificano ampiamente la disfagia rilevata. In particolare è la Fase faringea in toto ad essere alterata nei pazienti disfagici affetti da M.P. e si concretizza in un aumento del tempo di transito faringeo, sia per diminuzione della peristalsi faringea, che per un ridotto “range of motion” delle strutture muscolari. Si rileva inoltre una difficoltà nella propulsione del bolo da parte della base lingua, una rallentata elevazione laringea con ritardo di chiusura delle vie aeree all’arrivo del bolo, una ridotta capacità d’innesco del riflesso deglutitorio (momento in cui la deglutizione passa da volontaria ad involontaria), ed infine una ridotta capacità di rilasciamento del sfintere esofageo superiore (SES) (Jones et al, 2018, Ellerston et al, 2016). E’ importante precisare

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però che i pazienti affetti da Malattia di Parkinson presentano anche frequenti alterazioni della fase buccale ed orale della deglutizione, seppur meno importanti rispetto a quelle della fase faringea. Si apprezza infatti deficit di chiusura dello sfintere labiale, disorganizzazione dei movimenti linguali, con tremori, fascicolazioni, oscillazione della lingua e fenomeni di “pumping”, tali da giustificare l’allungamento della fase orale e del trasferimento del bolo in faringe (Logemann, 1998). Deve essere sottolineato che solo il 20-40% dei pazienti con M.P. è consapevole del proprio disturbo deglutitorio e meno del 10% riferisce spontaneamente difficoltà a deglutire (Bird et al, 1994). Risulta quindi fondamentale studiare tempestivamente l’eventuale presenza di disfagia ed il suo grado di severità in tutti i pazienti con Malattia di Parkinson.

2.2 CONTROLLO NEUROLOGICO DELLA DEGLUTIZIONE

Il SNC ed in particolar modo le aree sede del Centro della Deglutizione (CPG), nel paziente con M.P., sono interessate da processi neurodegenerativi a più livelli.

Ancora oggi la neurofisiologia della deglutizione non è stata del tutto chiarita: a complicare lo studio è probabilmente la sua correlazione con altre funzioni complesse quali la Fonazione e la Respirazione e per l’intrinseca complessità di un processo, quale quello deglutitorio, che prevede una duplice modalità di attivazione, una volontaria e l’altra involontaria, alla quale corrispondono centri nervosi e input afferenti, in parte diversi (Uziel, Guerrier, 1986; Sessle, Henry, 1989; Schindler O, 1990; Piemonte, 1997). Il coordinamento neurofisiologico della funzione deglutitoria avviene a livello del tronco encefalico, in particolare nella formazione reticolare del bulbo, dove è presente uno specifico centro della

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deglutizione, dalla struttura assai complessa (Miller, 1982; Uziel, Guerrier, 1986; Krespi, Blitzer, 1988; Sessle, Henry, 1989; Miller, 1993; Logemann, 1995; Nacci et al, 2005). Tale centro riceve afferenze sia di tipo periferico sensitivo-sensoriale dai nervi trigemino (V n.c.), glossofaringeo (IX n.c.) e vago (X n.c.), correlate all’attivazione involontaria della deglutizione, sia di tipo centrale discendenti provenienti dal giro precentrale, frontale anteriore e collicolo superiore, che sono invece deputate all’attivazione volontaria dell’atto deglutitorio (Uziel e Guerrier 1986; Sessle, Henry 1989; Capra, 1995; Piemonte, 1997). Le afferenze centrali sono meno rapide ed efficaci rispetto a quelle che attivano la deglutizione involontaria, ma presentano sicuramente un effetto facilitatore sulla via riflessa e diventano di importanza irrinunciabile durante il trattamento riabilitativo in caso di deficit anatomo-funzionali (Piemonte, 1997). In condizioni normali, la stimolazione più efficace ai fini dell’attivazione involontaria dell’atto deglutitorio è rappresentata dallo stimolo meccanico sui recettori del nervo vago e glossofaringeo, particolarmente quelli posti a livello dell’istmo delle fauci e della base della lingua. Un ruolo di supporto potrebbe essere svolto anche dai recettori gustativi e termici (Piemonte, 1997; Schindler A et al, 2001-2011). Le afferenze mediate dal nervo laringeo superiore rivestono invece particolare importanza nel proteggere le vie aeree inferiori dall’inalazione di cibi solidi e liquidi o di semplici secrezioni fisiologicamente prodotte a livello del cavo orale e faringe.

Il centro della deglutizione viene suddiviso da un punto di vista funzionale in tre parti: una parte afferente o sensitiva, una parte efferente o motoria ed una parte deputata all’integrazione delle afferenze ed alla programmazione dell’atto motorio. La parte afferente o sensitiva è rappresentata dal nucleo solitario, a livello del quale giungono afferenze sensitive dei nervi glossofaringeo, vago e

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faciale e dal nucleo gelatinoso di Rolando che riceve afferenze sensitive da fibre del nervo trigemino. La parte efferente o motoria comprende i nuclei motori del nervo trigemino e del nervo faciale, il nucleo ambiguo ed il nucleo del nervo ipoglosso (Figura 8) (Schindler O, 1990; Piemonte, 1997; Schindler A et al, 2001-2011). La parte deputata all’integrazione e alla programmazione risulta costituita da una rete di interneuroni capaci di integrare le afferenze e programmare il comando motorio che in ultima analisi conduce all’atto deglutitorio: questo sistema interneuronico, quindi, rappresenta la parte neurologicamente più delicata perché ha in sé funzioni di integrazione dell’input sensoriale e funzioni di programmazione dell’output motorio, che determina la contrazione sequenziale di tutti i muscoli coinvolti nella deglutizione (Piemonte, 1997; Nacci et al, 2005; Schindler A et al, 2001-2011). Gli interneuroni sono raccolti in due gruppi denominati rispettivamente “dorsale” e “ventrale”. Il primo riceve afferenze sensitive dai nervi periferici, le elabora, le “processa” e, grazie ad altri interneuroni a diversa velocità di trasmissione (interneuroni precoci, lenti o molto lenti), determina la sequenzialità cronologica della deglutizione attraverso una coordinata stimolazione dei 18 nuclei dei nervi motori. Il gruppo ventrale è invece responsabile della coordinata distribuzione delle efferenze ai nuclei motori ed in particolar modo del collegamento funzionale tra fase faringea ed esofagea (Cunningham, Sawchenko, 1990; Piemonte, 1997; Schindler A et al, 2001-2011). L’output motorio, oltre a regolare in modo coordinato i muscoli coinvolti nella deglutizione, assicura la trasmissione dei riflessi per i centri respiratori e per la funzione del nervo frenico, in modo che anche la funzione respiratoria sia coordinata ed interconnessa con quella deglutitoria.

Si ipotizza che il riconoscimento centrale degli stimoli afferenti venga effettuato da un sistema di riconoscimento gestaltico, che elabora lo stimolo in rapporto

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alla configurazione d’insieme dei fenomeni percettivi e cognitivi, posto a livello della formazione reticolare del tronco e capace di identificare e riconoscere lo stimolo come appropriato per l’evento deglutizione, generando così, solo dopo questo processo, l’appropriata risposta neuromuscolare che si estrinseca con l’elicitazione della deglutizione faringea (Schindler O, 1990).

Figura 8. Schematizzazione della neurofisiologia della deglutizione (Nacci et al, 2005).

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Figura 9. Rappresentazione schematica della zona di integrazione interneuronale presente a livello del centro della deglutizione (Nacci et al, 2005).

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3. VALUTAZIONE DELLA DISFAGIA

Il momento diagnostico, per quanto concerne i disturbi della deglutizione, è fondamentale, sia per la grande variabilità delle condizioni in cui essi si presentano, sia per la difficoltà nel sospettarli in evoluzioni silenti. Infatti, se è relativamente facile riconoscere la patologia in alcuni casi (ad es. accidenti cerebro-vascolari in fase acuta) o addirittura prevederne la comparsa in altri (laringectomie e, in generale, exeresi chirurgiche a carico del cavo orale ed orofaringeo), esistono moltissime condizioni in cui il sintomo disfagia, espressione di altre patologie sistemiche o di altri organi delle basse vie digerenti, è scarsamente riconoscibile.

Il percorso diagnostico è caratterizzato da tre momenti correlati: 1. L’indagine anamnestica

2. La valutazione clinica 3. L’indagine strumentale

 Videofluoroscopia-videofluorografia (VFG)  Fibroscopia endoscopica transnasale (FEES)  Scintigrafia oro-faringo-esofagea (OPES)  Manometria ad alta risoluzione (HRM)

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20 3.1 INDAGINE ANAMNESTICA

Ha lo scopo di raccogliere le informazioni relative a:

 Diagnosi neurologica, epoca di insorgenza della disfagia, andamento della stessa nel tempo (migliorata, peggiorata o stabile), descrizione dell’eventuale intervento chirurgico che l'ha provocata;

 Condizioni generali con particolare riferimento allo stato nutrizionale (peso prima della malattia o dell’intervento operatorio e peso attuale) ed alle condizioni dell’apparato respiratorio, eventuali pregresse polmoniti ab ingestis;

 Abuso di alcool o stupefacenti;  Livello di vigilanza;

 Condizione neuropsicologiche;  Livello comunicativo;

 Dati relativi alla radio-terapia, se effettuata;

 Stato dell’alimentazione: modalità dell’assunzione orale, se in atto, (autonoma, supervisionata, indipendente di solidi/liquidi/semisolidi), presenza di sondino naso-gastrico o di gastrostomia percutanea (PEG);  Stato della respirazione, presenza di cannula (e sue caratteristiche);  Abitudini alimentari, con particolare riferimento alle preferenze.

I “campanelli d’allarme” a cui si deve prestare attenzione per eventualmente indirizzarsi verso indagini più approfondite sono:  Fastidio o dolore associato alla deglutizione

 Allungamento del tempo dedicato al pasto  Tosse non episodica

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 Progressivo cambiamento delle abitudini alimentari, con tentativi inconsci di autocompensazione

 Febbre anche non elevata

3.2 VALUTAZIONE CLINICA

La valutazione clinica comprende:

Valutazione morfo-dinamica degli organi coinvolti nella deglutizione:

a) Labbra: viene richiesto al soggetto di eseguire movimenti di protrusione, di retrazione e chiusura delle labbra.

b) Lingua: viene richiesto al soggetto di eseguire movimenti di protrusione, di retrazione, di lateralità, verso l’alto e verso il basso, successivamente con un abbassalingua si contrasta la protrusione della lingua.

c) Palato duro: ispezione diretta con fotoforo e abbassalingua. d) Velo del palato:

 a riposo: osservazione diretta con fotoforo;

 elevazione: viene richiesto al soggetto esaminato di pronunciare la vocale /a/, dapprima per maggior tempo possibile e successivamente ripetendo la vocale in rapida successione;

 funzionalità dello sfintere velofaringeo: viene richiesto al soggetto di gonfiare le guance.

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22 e) Mandibola:

 a riposo: osservazione diretta della apertura della bocca; valutando l’eventuale stato di edentulia (parziale o totale, corretta o meno)

 movimenti volontari: osservazione diretta dei movimenti di apertura e chiusura della bocca.

f) Laringe (elevazione): osservazione della morfologia e della motilità, richiedendo al soggetto di deglutire, o se non è collaborante, inducendolo a succhiare una bacchetta di ghiaccio aromatizzato. g) Controllo muscolare del capo e tronco: viene richiesto al soggetto di

eseguire movimenti di flessione, di estensione, di rotazione e di flessione laterale.

Valutazione delle prassie bucco-facciali: vengono fatte eseguire su comando e/o per imitazione le seguenti prassie: aprire la bocca,

gonfiare le guance, soffiare, schioccare la lingua, fischiare, sorridere, leccare la labbra, mandare un bacio.

Sensibilità: vengono esplorate le sensibilità superficiale e profonda della cute peri-buccale e le sensibilità, profonda e termica di labbra, lingua e regione palatale.

Riflessi normali:

a) Riflesso della tosse: si chiede al soggetto di tossire spontaneamente;

b) Riflesso del vomito: si applica con un abbassalingua una leggera pressione sulla lingua, in corrispondenza della linea mediana.

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c) Riflesso deglutitorio: si valuta se il soggetto deglutisce la saliva in modo automatico.

Riflessi patologici:

a) Riflesso del morso: con un bastoncino in gomma si sfiorano i molari inferiori;

b) Riflesso dei punti cardinali: viene sfiorata la cute della guancia in prossimità del labbro;

c) Riflesso di suzione-deglutizione: si invita il soggetto a deglutire con una cannuccia una piccola quantità di acqua.

Test di alimentazione: -Fase orale:

a) Suzione: si invita il soggetto esaminato ad aspirare con una cannuccia, e mantenere aspirato, un piccolo quadrato di carta di 2 cm di lato;

b) Masticazione: si invita il soggetto a masticare un piccolo pezzo di frutta sciroppata e si osservano i movimenti di apertura e chiusura della bocca, di lateralità della mandibola, ed i movimenti linguali. -Fase faringea:

a) Semisolidi: si invita il soggetto ad assumere con un cucchiaino un cibo semisolido, appoggiando delicatamente la mano sulla laringe per valutarne il movimento.

b) Liquidi: il test viene condotto invitando il soggetto ad assumere acqua sia dal bicchiere che, in caso di deficit di adesione delle labbra, con la cannuccia (Schindler O., 1990).

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24 3.3 INDAGINI STRUMENTALI

Numerose sono le indagini strumentali proposte per lo studio della deglutizione ed utilizzabili per indagare disfunzioni particolari: Videofluoroscopia (VFG), Scintigrafia oro-faringo-esofagea (OPES), Manometria ad alta risoluzione (HRM). Tuttavia, nella pratica clinica le tecniche più utilizzate risultano essere la Videofluorografia digitale (VFG), gold standard nel settore e lo Studio Fibroendoscopico (FEES). Esami di secondo livello come la Phmetria, Emg ed Ultrasonografia possono essere considerati a seconda del caso.

VIDEOFLUOROGRAFIA DIGITALE (VFG).

La VFG è una tecnica di indagine radiologica che consente di studiare in maniera dinamica l’atto deglutitorio. L’esame consiste nella registrazione delle immagini fluoroscopiche che compaiono sul monitor di un normale apparecchio radiologico telecomandato, durante la deglutizione di un bolo radiopaco. Permette di acquisire sino ad 8 immagini al secondo (più che sufficienti per valutare un atto deglutitorio in tutte le sue fasi) e fornisce immagini di buona qualità, passibili di rielaborazione grazie alle funzioni di post-processing, che vengono archiviate mediante un sistema di dischi ottici riscrivibili. (Figura 10 A, C e 11) Nella pratica clinica l’esame viene effettuato secondo una metodica standard (Jones, Donner, 1991).

Lo studio prescinde dalle condizioni fisico-cliniche del paziente, la cui valutazione può avvenire anche in barella, con tronco in situazione eretta, o in carrozzina. L’esecuzione dell’indagine non è vincolata dall’età del paziente, consentendo lo studio sia in pazienti molto anziani, sia in bambini anche di pochi mesi di vita (Figura 10 B).

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Figura 10 A. Immagini VFG dell’atto deglutitorio in un soggetto sano.

Figura 10 B. Posizione del paziente durante la VFG. Si notino le posizioni latero-laterale ed anteroposteriore rispettivamente a sinistra ed a destra.

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Figura 10 C: veduta videofluorografica in proiezione laterale confrontata con il disegno di uno spaccato anatomico. E=epiglottide; V=vallecola glosso-epiglottica; P=seni piriformi; Tr=trachea; Tg=lingua (da Jeffrey B.P. e coll e Nam-Jong P., modificate).

Figura 11: veduta videofluorografica in proiezione laterale di ristagno nelle vallecole e nei seni piriformi con segni di aspirazione confrontata con il disegno di uno spaccato anatomico di fase faringea normale. Vr=ristagno in vallecola; Pr=ristagno nei seni piriformi; As=aspirazione (da Nam-Jong P., modificata) L’esame viene eseguito somministrando una dose singola di mezzo di contrasto baritato, solido, semisolido o liquido, la cui quantità e consistenza sono stabilite

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dall’operatore in relazione al caso (normalmente 5-10 cc). Parimenti la modalità di somministrazione (cucchiaio, cucchiaino, siringa, bicchiere, cannuccia) (Jones, Donner, 1991; Logemann, 1983) è valutata a seconda del caso specifico, ricorrendo nei bambini molto piccoli al sistema e alla postura abitualmente impiegati nell’alimentarsi.

La VFG consente di dimostrare radiologicamente una disfunzione deglutitoria per l’alterazione della fase orale, della fase faringea e di quella esofagea della deglutizione, compresa la funzionalità del SES e SEI. L’obiettività radiologica evidenzia anche casi di ritardo dell’innesco del riflesso della deglutizione, non accompagnato dal passaggio del bolo o di parte di esso nella vie aeree inferiori. Più frequentemente la disfagia obiettivata dallo specialista si accompagna all’evidenza radiologica di penetrazione, cioè di passaggio di una piccola quantità di deglutito nel vestibolo laringeo, oppure di aspirazione, cioè di passaggio del bolo o di parte di esso nelle vie aeree inferiori oltre il livello delle corde vocali.

Nella proiezione antero-posteriore (Figura 12) è agevole la dimostrazione del lato malato, per l’evidenza del ristagno maggiore nel seno piriforme di quel lato, che appare ipotonico; con il capo flesso e ruotato verso il lato malato, così da escluderlo funzionalmente, migliora il transito e si riduce l’aspirazione.

Tale metodica tuttavia pecca di sensibilità nel rilevare le alterazioni precoci della funzionalità deglutitoria negli stadi iniziali di malattia, momento clinico di importanza fondamentale per l’attuazione di tempestive terapie riabilitative di vario genere che hanno lo scopo di mantenere una adeguata funzionalità deglutitoria, al fine di consentire una migliore sopravvivenza e qualità della vita; obiettivi chiaramente poco realizzabili in fasi avanzate di malattia (Jones et al, 2018).

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Figura 12: disegno anatomico di faringe e radiogramma di VFG in proiezione antero-posteriore documentante ristagni: Vr= ristagno nelle vallecole; Pr= ristagno nei seni piriformi. (da Nam-Jong P., e da Netter F.H. modificate)

SCINTIGRAFIA ORO-FARINGO-ESOFAGEA (OPES).

La OPES è una metodica di medicina nucleare che oltre a consentire una valutazione semi-quantitativa del materiale aspirato nelle vie respiratorie, permette di misurare i tempi di transito e gli indici di ritenzione delle tre principali fasi dell’atto deglutitorio (orale, faringea, esofagea). Per contro, questa tecnica ha il suo limite principale nella bassa risoluzione spaziale anatomica, propria di tutte le scintigrafie; la quantità di aspirato tracheo-bronchiale può essere calcolata tramite una formula, in cui la percentuale di aspirazione (PA) è data dall’aspirato tracheo-bronchiale diviso per la radioattività orale, prima e dopo l’atto deglutitorio, il tutto moltiplicato per 100 (Figura 13). In figura è riportata una scala colorimetrica che indica l’entità della radioattività: il bianco e la scala dei rossi corrispondono alla radioattività massima, mentre i blu fino al nero alla minima (Figura 14 ,15 e 16).

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29 PA= Asp. Tracheo-Bronchiale X 100 Radioattività Orale Prima-Dopo Deglutizione

Figura 13. Esempio applicativo della formula per calcolare la percentuale di aspirazione (PA).

Figura 14. Paziente affetto da Morbo di Parkinson. L’esame scintigrafico permette di visualizzare una modesta inalazione di bolo liquido a livello tracheale e di calcolarne la percentuale di aspirazione (PA=5%).

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Figura 15 e 16. Rispettivamente a sinistra e destra. Immagini scintigrafiche in cui la scala colorimetrica corrisponde ai livelli di radioattività; bianco e rosso massima, blu e nero minima. E’ possibile inoltre osservare la presenza di aspirato tracheo-bronchiale.

La metodica consiste nell’acquisizione d’immagini dinamiche, in rapida successione di un unico atto deglutitorio volontario. Il paziente, posizionato di fronte a una gamma camera, assume un singolo bolo di 10 ml di acqua marcata con 37 MBq di tecnezio99 nanocolloide (Figura 17). Il paziente tiene il bolo in bocca per due secondi per valutare eventuali cadute predeglutitorie, poi deglutisce in un unico atto. Vengono acquisite 8 immagini al secondo per un ulteriore minuto, per un totale di 480 frames. Al termine il paziente resta ancora fermo per un minuto davanti alla gamma camera per l’acquisizione statica, utile per ricercare l’eventuale aspirato tracheo-bronchiale. Dopo 30 minuti il test viene ripetuto, con 10 ml di bolo semisolido radiomarcato. L’analisi delle immagini acquisite consente di identificare pattern anomali di deglutizioni multiple,

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ritenzione del bolo nel cavo orale o faringeo, frammentazione del bolo, reflusso gastroesofageo, cadute pre-deglutitorie e anomalie esofagee, come il movimento scoordinato e caotico del bolo.

Figura 17. Paziente posizionato davanti alla gamma camera.

I dati più interessanti sono forniti, però, dall’analisi delle curve attività-tempo. Inizialmente il medico nucleare identifica le ROI (Regions of Interest), nelle tre aree della deglutizione: fondamentale è la faringea. La curva attività-tempo del transito orale è inizialmente caratterizzata da una radioattività massima, corrispondente al contenimento del bolo in bocca. Dopo due secondi il paziente deglutisce e la radioattività scende rapidamente a valori molto bassi ( v.n. dopo 10 secondi <5%) (Figura 18). La pendenza della curva permette di conoscere la velocità di progressione del bolo: il tempo per il transito orale (TTO) deve essere inferiore ad 1 secondo. Nel tempo di transito faringeo (TTF), al tempo 0 la radioattività è nulla; quando il bolo raggiunge la faringe, la radioattività sale rapidamente, per decrescere dopo la discesa del bolo verso l’esofago (Figura 19). Anche l’indice di ritenzione faringea dopo 10 secondi non deve superare il 5%,

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mentre il tempo di transito deve essere inferiore a 1,2 secondi. Nella fase esofagea, si nota l’innalzamento della radioattività con l’arrivo del bolo in esofago. Data la lunghezza dell’esofago, il tempo di transito è più prolungato: nel soggetto sano, l’indice di ritenzione esofagea è normale se dopo 10 secondi è inferiore al 20%. Il tempo di transito (TTE) è nel range di normalità se non supera i 10 secondi (Figura 20).

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Figura 19. Curva attività-tempo relativa alla regione faringea.

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Figura 20. Curva attività-tempo relativa alla regione esofagea.

La scintigrafia viene utilizzata nei casi di disfagia di varia origine ed anche nel paziente con patologie neurodegenerative. In questi pazienti i dati più tipici sono quelli rappresentati dall’aumento dei tempi di transito e degli indici di ritenzione, da cadute pre-deglutitorie, da frammentazione del bolo e, soprattutto, dall’aspirazione tracheo-bronchiale. L’aumento del tempo di transito orale espone il paziente neurologico ad un rischio più elevato di caduta pre-deglutitoria del bolo, con possibile inalazione. In questa popolazione di pazienti, inoltre, si osserva un ritardo dell’innesco dell’atto deglutitorio, associato a una maggiore probabilità di aspirazione post-deglutitoria. La scintigrafia permette di valutare l’intero atto deglutitorio, fino alla fase esofagea: per questo può essere utile quando si voglia fare uno studio semi-quantitativo e dinamico della

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funzione dell’esofago. Nella disfagia orofaringea la scintigrafia può affiancarsi alla FEES e alla Videofluoroscopia, per fornire dati aggiuntivi a conferma di quanto emerso con i test gold standard. Nella disfagia esofagea la scintigrafia può assumere un ruolo importante per studiare le anomalie di tipo motorio-funzionale. La scintigrafia è di facile utilizzo, economica, ripetibile, ben tollerata dai pazienti, e può essere presa in considerazione per un follow up sia post-intervento, sia nel corso di un trattamento riabilitativo (Fattori et al, 2007-2016).

STUDIO FIBROENDOSCOPICO DELLA DEGLUTIZIONE (FEES)

Lo studio fibroendoscopico della deglutizione (FEES) è una metodica diagnostica potenzialmente molto più limitata della VFS in quanto studia la sola fase faringea della deglutizione, ma per questa può essere considerata gold standard.

La FEES presenta una relativa facilità di esecuzione e la necessità di una strumentazione relativamente poco costosa; inoltre è ben tollerata dal paziente con minima invasività, che permette di eseguire l’esame anche con pazienti non collaboranti o in fase acuta o subacuta quindi non trasportabili (con possibilità di bedside examination). La buona tollerabilità dell’esame ci permette di compiere osservazioni per lunghi periodi di tempo, (decine di minuti) fino all’intero pasto. Questo permette di osservare il comportamento delle strutture anatomiche sottoposte ad affaticamento. Questa tecnica viene ormai utilizzata routinariamente quale metodica di primo impiego, in virtù di quanto sopra esposto. (Aviv et al, 2000; Nacci et al, 2016). Esiste, inoltre una buona correlazione tra videofluoroscopia e videoendoscopia nel rilevare aspetti patologici, quali l’aspirazione di bolo nelle vie aeree e la presenza di ristagni in faringe (Bastian, 1991; Langmore et al, 1991; Kidder et al, 1994; Fattori et al,

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2016). Viene detta “aspirazione” od “inalazione” il passaggio di parte del bolo nelle vie respiratorie al di sotto delle corde vocali.

La valutazione videoendoscopica si esegue generalmente a paziente seduto, con tronco e capo in posizione fisiologica. Viene utilizzato un nasofaringoscopio flessibile, munito di sorgente luminosa, collegato ad una telecamera, ad un supporto video e ad un apparecchio per la registrazione (Spiegel et al, 1998) (Figura 21). L’endoscopio è costituito da fibre ottiche, che consentono una visione in asse con l’apparecchio di 180° e una visione con il terminale angolabile verso l’alto e verso il basso di 130°. Il diametro distale dell’endoscopio è di circa 3,4 mm, mentre il prossimale di circa 3,6 mm; la lunghezza utile può variare da 25 a 30 cm (Figura 22).

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Figure 21 e 22. Endoscopio flessibile in alto e supporto video con registratore in basso.

La videoendoscopia nasale consente una valutazione statica e dinamica delle strutture delle alte vie aero-digestive. La valutazione statica deve avvenire con

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l’endoscopio nelle tre posizioni principali (Tesei et al, 1997; Farneti, 2001-2011): posizione rino-faringea, posizione faringea alta e bassa (Figura 23).

Figura 23. Posizioni rinofaringea, faringea alta e bassa del fibroendoscopio.

Nella posizione naso-rino-faringea, è possibile osservare la morfologia delle fosse nasali, delle coane, della faccia superiore del velo palatino e del rinofaringe. Il passaggio dello strumento, provocando fastidio al paziente, permette inoltre di saggiare la sensibilità delle strutture anatomiche indagate. Per quanto riguarda gli aspetti funzionali è possibile il riscontro di fascicolazioni, tremore, asimmetrie, in particolare durante la fonazione, mentre il paziente ripete in rapida successione diversi fonemi esplosivi (“pa”, “ba”, “ca” o le vocali). Durante la deglutizione della saliva si può osservare l’eventuale presenza di un gap di chiusura dello sfintere velo-faringeo, o individuare alterazioni funzionali del velo palatino.

La posizione faringea alta si ottiene nel momento in cui si arresta l’estremità dell’endoscopio a ridosso del velo palatino. Oltre alla valutazione morfologica

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delle strutture ipo-faringo laringee, consente il riscontro di ristagno di secrezioni a livello delle vallecule glosso epiglottiche, dei seni piriformi, della regione interaritenoidea e del vestibolo laringeo. Altre importanti informazioni sono rappresentate dalla possibilità di valutare la motilità della muscolatura faringea, ricercando movimenti patologici come quello a “tendina” verso il lato sano, in caso di paralisi del velo palatino, od alterazioni della motilità della base lingua, sia durante la fonazione spontanea, sia pronunciando una /e/ o una /i/ con tonalità più acuta possibile. La regione interaritenoidea e l’eventuale segno della “tendina” possono essere meglio apprezzati invitando il paziente ad eseguire la manovra di Valsalva (espirazione forzata con naso e bocca chiusi). Per ispezionare più accuratamente la regione retrocricoidea può risultare utile effettuare la manovra di Purser e Antippa, che consiste nel tirare in alto e in avanti la cute prelaringea durante la fonazione prolungata della /i/ (Purser, Antippa, 1995). La sensibilità e l’attività riflessa delle strutture ipo-faringee possono essere valutate toccando direttamente con lo strumento la base lingua per evocare il riflesso del vomito (“gag reflex”). Esistono in commercio anche fibroendoscopi con sensory testing (FEEST).

Nella posizione faringea bassa l’endoscopio viene posizionato a livello dell’aditus laringeo, per meglio osservare la conformazione dell’organo fonatorio, apprezzare il ristagno di secrezioni nei seni piriformi e nel vestibolo laringeo e valutare la funzione fonatoria, durante la fonazione spontanea o invitando il paziente ad emettere una /e/ o una /i/.

L’azione sfinteriale laringea si può testare sollecitando il paziente a tossire, a deglutire e ad effettuare una manovra di Valsalva. La sensibilità di questo distretto viene valutata portando a contatto la punta dell’endoscopio con l’epiglottide, le pliche ariepiglottiche, le corde vocali vere e le false corde,

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cercando di mettere in evidenza eventuali asimmetrie di percezione e la presenza di attività riflesse quali il riflesso di apnea, la reazione di difesa o di fastidio, i conati di vomito (Bastian, 1991; Aviv et al, 1997).

Nel caso in cui non sussistano controindicazioni, come la presenza di abbondanti secrezioni a livello del vestibolo laringeo o tosse non protettiva, alla valutazione statica della morfologia e funzione delle strutture aero-digestive superiori, segue la valutazione dinamica della deglutizione mediante somministrazione di bolo. Nei pazienti ad alto rischio di inalazione è opportuno somministrare un piccolo bolo di acqua colorata (ad esempio con blu di metilene) per apprezzare l’eventuale ingresso del liquido nelle vie aeree inferiori (Langmore et al, 1988). Qualora il test risulti positivo, scatenando riflessi protettivi tipo tosse, non è indicata la prosecuzione della valutazione dinamica con bolo. Se invece il test risulta negativo, è consigliabile proseguire il test dinamico, somministrando sostanze di consistenza ben tollerata dal paziente e dotate di una colorazione in grado di contrastare con quella della mucosa (ad esempio: latte, yogurt, pane, biscotti, etc.). Noi siamo soliti utilizzare boli di piccole dimensioni a temperatura ambiente, poiché boli freddi facilitano l’innesco del riflesso deglutitorio, cosa che può falsare l’interpretazione dell’esame (Logemann, 1995).

E’ buona norma eseguire la valutazione dinamica con l’endoscopio mantenuto in posizione faringea alta, per evitare il rischio di un suo contatto con il vestibolo laringeo, in grado di scatenare il riflesso della tosse, con conseguente possibile inalazione. Le dimensioni del bolo vengono aumentate progressivamente, in quanto il volume del bolo allunga il tempo di chiusura del vestibolo laringeo e di apertura dello sfintere cricofaringeo, con facilitazione dello svuotamento faringeo (Bisch et al, 1994).

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Alcuni Autori consigliano di iniziare la valutazione dinamica con cibi solidi, riducendo progressivamente la consistenza del bolo, perché i cibi solidi determinano un minore rischio di aspirazione. Inoltre i liquidi, somministrati nella fase finale della valutazione, avrebbero la funzione di rimuovere eventuali residui di bolo presenti a livello delle vallecule glosso-epiglottiche, della base della lingua, dei seni piriformi (Spiegel et al, 1998).

Una volta somministrato l’alimento, il paziente deve preparare il bolo nella cavità orale e deglutirlo soltanto a comando; in questo modo è possibile apprezzare l’eventuale caduta pre-deglutitoria, prima dell’innesco dell’atto deglutitorio volontario.

Si può valutare, anche, il ritardo dell’innesco deglutitorio sia in rapporto al momento in cui si invita il paziente a deglutire, sia in rapporto all’eventuale comparsa di bolo prematuro in faringe, la cui presenza si associa frequentemente a fenomeni di penetrazione di residui alimentari nel vestibolo laringeo e nelle vie aeree inferiori (inalazione pre-deglutitoria).

Questa fase dell’esame consente anche di rilevare un eventuale rigurgito nasale del bolo, associato ad incompetenza dello sfintere velofaringeo. Non è possibile visualizzare endoscopicamente la fase faringea, al momento dell’innesco del riflesso deglutitorio, in quanto l’endoscopio risulta a contatto con la base lingua e con l’epiglottide (white-out deglutitorio). In questa fase, è possibile che si verifichino fenomeni di penetrazione e inalazione di alimenti, in particolare per incompetenza glottica (inalazione intra-deglutitoria). Il sospetto di inalazione si fonda su segni indiretti, quali la comparsa di tosse e la presenza di residui di bolo a livello del vestibolo laringeo. Nel sospetto di inalazione intra-deglutitoria è consigliabile invitare il paziente a tossire più volte, poiché in alcuni casi è possibile osservare direttamente l’espulsione di residui di bolo dalle vie aeree

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inferiori, anche alcuni minuti dopo il passaggio degli alimenti. Al termine di ogni atto deglutitorio è importante osservare la presenza e la sede di eventuali residui che, se abbondanti, possono, in un secondo momento, anche in relazione ai movimenti del capo o durante la fonazione, penetrare in laringe e comportare inalazione (inalazione post deglutitoria). I principali eventi patologici da rilevare durante la valutazione endoscopica con somministrazione di bolo sono i seguenti:

- Prolungata latenza del riflesso della deglutizione. E’ conseguenza, di solito, di un deficit della fase orale.

- Caduta prematura del bolo. Si osserva, se lieve, anche in soggetti normali ed è espressione sia di un difettoso controllo del bolo nella cavità orale, sia di un ritardato o assente innesco del riflesso deglutitorio.

- Incompetenza glottica. E’ secondaria soprattutto a paralisi o paresi cordale e si associa ad inalazione intra-deglutitoria.

- Ristagno di alimenti. Questo quadro patologico può essere secondario a ridotta elevazione della laringe, ad incoordinazione faringo-esofagea, a ridotta peristalsi faringea. Quest’ultima deve essere sospettata anche quando si riscontra un ristagno di bolo lungo le pareti faringee (soprattutto in caso di bolo semiliquido o semisolido), o qualora siano evidenti contrazioni deboli del faringe (Périé et al, 1998).

- Gestione del ristagno di bolo da parte del paziente, variabile in relazione alla sensibilità delle strutture. Il paziente, se avverte la presenza di un residuo di bolo, può continuare ad eseguire più atti deglutitori fino alla scomparsa del residuo. Qualora il paziente non si accorga della persistenza del residuo alimentare o non riesca comunque ad eliminarlo dopo alcuni atti deglutitori, diventa molto alto il rischio che si verifichi un’inalazione post-deglutitoria.

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- Aspirazione del bolo. Si osserva come possibile conseguenza di qualsiasi alterazione deglutitoria a livello del distretto oro-faringo-laringeo e della ridotta efficacia del riflesso della tosse. E’ una condizione che può controindicare l’alimentazione per via orale.

La valutazione endoscopica statica e, soprattutto, quella dinamica hanno un’importanza fondamentale anche per stabilire l’efficacia delle diverse posture e manovre facilitanti l’atto deglutitorio, assunte spontaneamente dal paziente o acquisite dopo specifico trattamento riabilitativo.

La FEES mostra un’alta sensibilità nel riscontrare eventi deglutitori patologici rispetto alla fluoroscopia e alla manometria, anche se bisogna considerare che una singola valutazione del paziente, a volte, può risultare fuorviante, poiché l’abilità deglutitoria può risultare diversa, per ogni paziente, a seconda dei momenti della giornata e comportare quindi, in alcuni casi, una sovra o sottostima della gravità della disfagia. In particolare, la FEES fornisce indicazioni precise sull’adeguatezza della propulsione faringea (Mendelsohn, McConnel, 1987; Périé et al, 1998), che costituisce il principale parametro prognostico sia per decidere di effettuare una miotomia dello sfintere esofageo superiore, sia per identificare i casi con completa perdita di propulsione faringea, in cui la miotomia risulta, invece, controindicata (St Guily et al, 1995; Périé et al, 1998). Nella valutazione di una possibile aspirazione di bolo nelle vie aeree inferiori, la FEES ha mostrato un’alta sensibilità (88%) e specificità (92%), concordanti con i rispettivi valori dell’indagine videofluoroscopica (Langmore et al, 1991; Kaye, Zorowitz, 1997; Périé et al, 1998).

La FEES, a differenza della VFG, risulta essere una metodica a basto costo, di facile e rapida esecuzione anche al letto del paziente, poco invasiva, in genere ben tollerata (Amin, Postma, 2004), che consente una valutazione accurata della

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disfagia ed è ormai considerata quale esame di primo livello nella valutazione funzionale di ogni disturbo deglutitorio in particolare in sede faringea (Spiegel et al, 1998; Fattori et al, 2016).

L’esame FEES occupa un posto importante anche per stabilire le modalità di alimentazione del paziente disfagico (tipo e consistenza del cibo), per confermare l’adeguatezza del profilo dietetico già in atto, per suggerire le più idonee modalità di alimentazione orale di supporto in pazienti portatori di sonde alimentari (sondino naso-gastrico, PEG, etc.) (Spiegel et al, 1998; Fattori et al, 2016). Inoltre, la FEES costituisce un ausilio terapeutico nell’ambito di tecniche di biofeedback e rappresenta una valida tecnica di indagine per una valutazione clinico-strumentale nel follow-up del paziente disfagico (Leder et al, 2004). Il limite principale della FEES consiste nell’impossibilità di apprezzare la fase orale ed esofagea della deglutizione. Gli effetti avversi significativi (laringospasmo, epistassi, crisi vagali) sono rari o poco frequenti e si risolvono in genere facilmente (Nacci et al, 2016).

HIGH-RESOLUTION MANOMETRY (HRM)

La manometria esofagea è la metodica fondamentale con cui viene studiata la motilità dell’esofago, permettendo la misurazione delle variazioni della pressione endoluminale indotte dalle contrazioni delle pareti. I sistemi manometrici tradizionali prevedono l’utilizzo di un catetere con 4-8 canali perfusi con acqua bi-distillata la cui estremità viene collegata a un trasduttore di pressione esterno (Kelley, 1967).

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Figura 24. Confronto tra manometria convenzionale ed HRM.

Una recente evoluzione della tecnica manometrica è rappresentata dalla cosiddetta “alta risoluzione”. La High-resolution Manometry (HRM) utilizza un numero nettamente più elevato di sensori di pressione, fino a 36 micro trasduttori a stato solido (Sierra Scientific/Given Imaging, Los Angeles, CA, USA), densamente ravvicinati fra loro in modo da ottenere una rappresentazione grafica senza soluzione di continuità delle variazioni della pressione a partire dallo sfintere esofageo superiore fino a quello inferiore, fornendo uno studio topografico delle pressioni esofagee noto come “Spatiotemporal Clouse plot” (Figura 25) (Clouse, Staiano, 1991; Fox, Bredenoord, 2008; Savarino et al, 2016).

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Figura 25. Rappresentazione grafica dei 36 micro trasduttori posizionati in esofago durante l’esame di manometria esofagea ad alta risoluzione che forniscono una scala colorimetrica senza soluzione di continuità delle variazioni della pressione endoluminale. A questo si aggiunge la facile visualizzazione dei due sfinteri esofagei superiore ed inferiore.

L’analisi topografica delle pressioni endoluminali attuata con la metodica HRM prevede l’utilizzo di vari parametri di cui riporto i principali. Nella valutazione della giunzione esofago-gastrica (EGJ) il parametro più utilizzato è la pressione integrata di rilasciamento (integrated relaxation pressure, IRP), che valuta la pressione media più bassa raggiunta in 4sec, consecutivi o no, durante il rilasciamento dello sfintere esofageo inferiore (LES) (Bredenoord, Hebbard, 2012). Per valutare l’integrità della peristalsi vengono utilizzati due parametri. Il primo mira ad escludere la presenza di interruzioni lungo le linee isobariche a 20

TRANSITION ZONE

ESOPHAGO-GASTRIC JUNCTION (EGJ)

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mmHg e considera accettabili interruzioni fino a 5 cm. La presenza di “peristaltic breaks” superiori a questa soglia costituisce un marker di peristalsi inefficace. L’altro parametro misura la forza delle contrazioni nell’esofago distale e viene espresso come integrale (distal contractile integral, DCI) della lunghezza, ampiezza e durata (mmHg*s*cm) delle contrazioni nell’esofago distale. Valori compresi fra 450 e 8000 mmHg-s-cm sono considerati come range di normalità. Infine, utilizzando una linea di contorno isobarica fissata a 30 mmHg, si può stabilire il tempo intercorso tra l’inizio della deglutizione, che coincide con il rilassamento dello sfintere esofageo superiore (SES), ed il termine della sequenza peristaltica (distal latency, DL), che deve essere maggiore di 4.5 sec. In tal modo si possono identificare contrazioni premature che sono condizioni patologiche dovute a malfunzionamento dei meccanismi inibitori dei plessi intramurali (Pandolfino et al, 2009; Bredenoord, Hebbard, 2012).

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Figura 26. Manometria faringea HRM normale con la valutazione dell’integrale contrattile (CI) a livello del pistone linguale. Sono indagate anche le pressioni Massima. Media, Minima a livello del velo palatino, del pistone linguale e dello sfintere esofageo superiore.

A completamento diagnostico, durante l’esecuzione di una HRM, sono sempre più frequentemente utilizzati test provocativi mirati a rivelare la presenza di fini caratteristiche motorie dell’esofago, tra cui, ad esempio, l’utilizzo di materiale più viscoso come la polpa di mela, deglutizioni di boli solidi, libera assunzione di maggiori volumi di acqua, e test con pasti (Basseri et al, 2011; Gyawali et al, 2013). Fra questi, il più semplice è il test provocativo a basso volume con deglutizioni rapide multiple (MRS), in cui cinque deglutizioni sono somministrate in rapida sequenza. Tale test è utilizzato come manovra provocativa per valutare sia la fase inibitoria che eccitatoria della contrazione

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esofagea post-deglutitoria, rappresentando una misura della riserva funzionale contrattile della muscolatura liscia esofagea (Fornari et al, 2009). Dal punto di vista clinico, è necessario sottolineare che recentemente è stata proposta una nuova classificazione dei disordini motori dell'esofago, la Chicago Classification, che incorpora i nuovi dettagli e la maggiore accuratezza diagnostica della HRM rispetto alla manometria convenzionale (Kahrilas et al, 2008). Questa nuova classificazione utilizza i diversi parametri topografici della pressione esofagea e, mediante la ricostruzione colorimetrica del tracciato (rosso alta pressione, blu bassa pressione; Figura 25), è in grado di caratterizzare accuratamente ogni singola deglutizione (Pandolfino, Sifrim, 2012; Bredenoord et al, 2012). Attualmente è disponibile la revisione più aggiornata di tale classificazione, la versione 3.0 (Kahrilas et al, 2015). Infine, studi con videofluoroscopia o impedenziometria hanno mostrato che la HRM, utilizzando la presentazione topografica dei dati pressori, migliora la capacità di predire l’efficacia del trasporto di bolo in esofago rispetto alla manometria convenzionale (Fox et al, 2004). In particolare, un recente lavoro di Roman et al. ha evidenziato che le interruzioni > 5 cm sono uniformemente associate con alterazioni del transito del bolo (Roman et al, 2011).

Recentemente, la High-resolution Manometry (HRM) è stata introdotta nello studio della disfagia orofaringea; tale metodica, infatti, consente la misurazione delle caratteristiche spaziotemporali della deglutizione a livello orofaringeo e permette di definire con una accurata risoluzione temporale le pressioni a livello faringeo durante l’atto deglutitorio (Takasaki et al, 2008). In altre parole, la HRM permette di valutare, durante la deglutizione, le pressioni a livello delle strutture faringee implicate (Velo Palatino, Pistone Linguale, Ipofaringe, Sfintere Esofageo Superiore craniale [Cricofaringeo] e caudale) ed il rilasciamento dello

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sfintere esofageo superiore (SES). La deglutizione è un processo che si esplica grazie a complesse variazioni di pressione; di conseguenza, la misurazione e l'analisi dettagliate dei cambiamenti di pressione alla base del transito del bolo possono fornire informazioni preziose circa la fisiologia della deglutizione (Hoffman et al, 2013).

La HRM è in grado di fornire dati quantitativi, funzionali, riguardanti le pressioni faringee ed il rilassamento del SES, evitando l'esposizione del paziente a radiazioni ionizzanti e risultando quindi una metodica poco invasiva: tali caratteristiche la rendono uno strumento interessante per integrare le metodiche tradizionali nello studio della disfagia (Hoffman et al, 2013; Knigge et al, 2014). Infatti, la combinazione dei dati forniti dalla HRM con i reperti ottenibili mediante esami di imaging come la videofluoroscopia (VFS) o endoscopici come la FEES può migliorare la comprensione e l’interpretazione della fisiopatologia della deglutizione e favorire una più efficace pianificazione del trattamento riabilitativo (McCulloch et al, 2010; Takasaki et al, 2011; Hoffman et al, 2010, 2012; Mielens et al, 2011; Omari et al, 2011; Knigge et al, 2014; Walczak et al, 2017). A tale proposito, Hoffman e coll. hanno rilevato differenze nelle pressioni a livello faringeo (inclusi velo-faringe, base lingua e SES) e nel timing di eventi pressori chiave durante la somministrazione di diversi volumi di bolo, ritenendo, quindi, che conoscere le relazioni tra volume di bolo e attività pressoria faringea può essere utile nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti disfagici (Hoffman et al, 2010). McCulloch e coll. hanno evidenziato come la HRM, consentendo una risoluzione spaziale e temporale ottimale durante la registrazione di eventi pressori lungo tutta la faringe, abbia rivelato differenze di pressione e temporali task-dipendenti non rilevate in precedenza durante le

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manovre di “chin tuck” e “head turn” in adulti sani. Queste manovre sembrano influenzare il SES in misura maggiore del velo-faringe e della base lingua.

Ulteriori studi volti a quantificare l'effetto di altre manovre e consistenze di bolo sulla generazione di eventi pressori a livello faringeo sia in soggetti normali che patologici potrebbero condurre a trattamenti riabilitativi ottimali e individualizzati basati su dati oggettivi (McCulloch et al, 2010). Similmente, Umeki e coll., studiando mediante HRM gli effetti della manovra di “tongue-holding” durante la deglutizione, hanno ipotizzato come questa possa non avere un ruolo nel facilitare la spinta deglutitoria compensatoria durante la deglutizione (Umeki et al, 2009). Knigge e Thibeault, infine, analizzando le pressioni manometriche della regione della base lingua rispetto alla presenza di ristagno di bolo nelle vallecule, ipotizzano la mancanza di un rapporto esplicito tra generazione di pressione a livello della base lingua e clearance del bolo. Non essendoci differenze significative nelle misure di pressione manometriche tra individui con ristagno nelle vallecule e quelli senza ristagno, ipotizzano che debbano esistere molteplici contributi fisiopatologici per il verificarsi del ristagno nelle vallecule nella disfagia orofaringea (Knigge, Thibeault, 2016). La HRM rende possibile identificare pattern di deficit, in cui i profili spazio-temporali possono preannunciare eziologie sottostanti per la disfagia orofaringea. La HRM, inoltre, fornisce informazioni sulle cause biomeccaniche del ristagno di bolo all'interno delle vallecule e dei seni piriformi, utili per indirizzare gli interventi riabilitativi o chirurgici. Il timing e il grado di apertura del SES possono essere rappresentati oggettivamente quando i segni radiografici o endoscopici sono vaghi e offre la possibilità di pianificare e dimostrare progressi misurabili ottenuti con interventi riabilitativi e chirurgici che, se combinati con le valutazioni di aspirazione degli studi di imaging, possono oggettivamente

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