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La metonimia logica: uno studio sull'italiano

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA TEORICA E

APPLICATA

TESI DI LAUREA

La metonimia logica: uno studio sull’italiano

CANDIDATO

RELATORE

Debora Galardi

Chiar.mo Prof. Alessandro Lenci

CORRELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Giovanna Marotta

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Al mio migliore amico, che mi manca ogni giorno

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VII Prefazione

Parte I – La metonimia logica pag. 3 1.1. Introduzione

pag. 4 1.2. Definizione della metonimia logica pag. 5 1.3. Composizionalità e coercion pag. 7 1.4. Restrizioni della metonimia logica

pag. 10 1.5. Fattori che influenzano la metonimia logica pag. 10 1.5.1. La convenzionalità

pag. 11 1.5.2. Il contesto extra-frasale pag. 15 1.5.3. Il contesto intra-frasale pag. 18 1.5.4. Il tipo di verbo metonimico pag. 21 1.5.5. Il costo di elaborazione

pag. 23 1.6. Ma perché la metonimia logica è costosa a livello cognitivo? pag. 31 1.7. Sfide all’ipotesi di type-shifting

pag. 34 1.8. Le basi neurali della metonimia logica

pag. 38 1.9. Un approccio alternativo alla metonimia logica Parte II - Esperimenti

pag. 45 2.1. Introduzione pag. 45 2.2. Norming Study 1 pag. 45 2.2.1. Metodi pag. 45 2.2.2. Partecipanti pag. 46 2.2.3. Materiali pag. 47 2.2.4. Procedura pag. 48 2.2.5. Risultati pag. 51 2.2.6. Discussione pag. 55 2.3. Norming Study 2 pag. 55 2.3.1. Metodi

pag. 55 2.3.2. Partecipanti pag. 56 2.3.3. Materiali pag. 56 2.3.4. Procedura pag. 57 2.3.5. Risultati

pag. 59 2.4. Esperimento sulla metonimia logica pag. 59 2.4.1. Metodi

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pag. 60 2.4.4. Procedura pag. 60 2.4.5. Risultati pag. 64 2.4.6. Discussione

pag. 64  Il ruolo del soggetto

pag. 68  L’interpretazione dominante c’è o non c’è? pag. 69  La convenzionalità

Parte III - Conclusioni pag. 75 3.1. In sintesi

pag. 76 3.2. La metonimia logica è un fenomeno puramente linguistico? Ringraziamenti

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Il linguaggio non serve soltanto a comunicare agli altri i nostri pensieri, ma anche a rappresentarli a noi stessi. Tuttavia, non si può dire che pensare equivalga esattamente a parlare con sé stessi. Le espressioni linguistiche devono essere concepite più come degli indicatori di significato e non come delle rappresentazioni esplicite di quei significati. Uno dei problemi cruciali dell’analisi del lessico è quello di stabilire con precisione che cosa significhino le parole e la disciplina che si occupa di questo studio è conosciuta con il nome di semantica lessicale. Al contrario di quanto possa sembrare, si tratta di un compito particolarmente complesso, se si considera che le parole assumono significati diversi a seconda del contesto in cui si trovano; e che, anche se interpretiamo le frasi a partire dal significato delle parole che le compongono, raramente l’interpretazione corrisponde alla somma di quei significati. Generalmente si dice che il significato delle parole sia immagazzinato nel nostro lessico mentale. È chiaro quindi che la conoscenza lessicale varia da soggetto a soggetto. Le lingue poi si differenziano l’una dall’altra proprio per come esse lessicalizzano la nostra conoscenza e percezione del mondo. La ricerca psicolinguistica ha fatto notevoli passi in avanti nella comprensione dei meccanismi coinvolti nell’identificazione delle parole e nell’assegnazione della struttura grammaticale a livello incrementale. Tuttavia, ancora molto poco si sa riguardo la composizione semantica. Eppure i processi composizionali sono estremamente importanti dato che si collocano nell’interfaccia tra elaborazione lessicale e sintattica da un lato, ed elaborazione del discorso dall’altro. In questo studio si parlerà proprio di composizionalità e di un fenomeno che chiaramente contraddice tale principio: la metonimia logica. Fin dal primo istante in cui ne sono venuta a conoscenza, tale fenomeno ha catturato subito la mia attenzione: come riusciamo ad interpretare espressioni del tipo Luigi ha iniziato il libro? Come è possibile recuperare un evento che non è esplicitato in nessun modo nella frase? Da dove viene? ecc. Nella prima parte di questo elaborato quindi si passeranno in rassegna tutte le maggiori scoperte che la ricerca psico- e neurolinguistica hanno portato alla luce. Lungi dall’essere una raccolta completa

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ed esaustiva, il lavoro qui presentato si propone di mettere in evidenza i principali fattori che influenzano la metonimia logica e le problematicità ad essi collegate. La questione, purtroppo, resta ancora complessa e controversa e saranno necessarie ulteriori ricerche per poter comprendere meglio il suo funzionamento. Alla luce di ciò, la seconda parte dello studio affronta degli esperimenti condotti su parlanti di madrelingua italiana. La letteratura è piena di casi tratti dall’inglese e anche dal tedesco, che grazie alla sua grammatica si presta meglio ad indagare la metonimia logica. Molto poco è stato fatto, invece, sull’italiano. Si cerca quindi qui di cominciare a colmare questa mancanza con l’intento di offrire maggiori spunti per le ricerche che seguiranno. Nella terza ed ultima parte, infatti, saranno forniti alcuni suggerimenti utili a quanti vorranno proseguire l’indagine di questo fenomeno che ci conferma, ancora una volta, l’eccezionalità del linguaggio.

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Parte I – La metonimia logica

Il compito del linguaggio non è quello di riprodurre semplicemente determinazioni e distinzioni che sono già presenti nella rappresentazione, ma di porle per la prima volta come tali e di renderle riconoscibili […]. L’analisi del linguaggio mostra […] che ogni espressione linguistica, lungi dall’essere una mera copia del mondo della sensazione e dell’intuizione che ci è dato, racchiude, invece, in sé un “carattere di significazione”. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche

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PARTE I – LA METONIMIA LOGICA

1.1. Introduzione

Uno dei fenomeni caratteristici di una lingua è quello della polisemia, ossia la capacità di una parola di possedere più di un significato. Secondo il punto di vista tradizionale tutti i sensi di una parola sono esplicitamente elencati nel lessico mentale di ogni parlante. Tale approccio viene, perciò, definito Sense Enumeration Lexicon (SEL). Tuttavia, la situazione è molto più complicata di quella appena descritta. Innanzitutto, i sensi di una parola molto spesso non hanno dei confini così netti e precisi, ma tendono a sovrapporsi l’uno all’altro, rendendo quindi difficile la caratterizzazione di ognuno di essi. È ben noto, poi, che una delle proprietà fondamentali del linguaggio sia costituita dalla creatività, ciò significa che è possibile creare sempre nuovi contesti in cui una parola può occorrere e assumere significati sempre diversi tra loro. I sensi di una parola, quindi, non sono affatto fissi e i contesti in cui essa può occorrere sono potenzialmente infiniti, per cui è impossibile prevederli tutti. Di qui l’idea di Pustejovsky di un Lessico Generativo (Pustejovsky, 1991, 1995, 1998), ossia un modello di linguaggio che sia abbastanza flessibile da catturare la natura generativa della creatività lessicale. Pustejovsky individua quattro livelli di rappresentazione: la struttura argomentale (specifica il numero e il tipo di argomenti di un elemento lessicale); la struttura evento (caratterizza il tipo di evento di un elemento, ma anche la struttura interna dell’evento stesso); la struttura di eredità lessicale (identifica come una struttura linguistica è collegata ad altre strutture e il suo contributo all’organizzazione globale del lessico); e la struttura qualia (rappresenta i diversi modi di spiegazione possibili di un elemento lessicale). Quest’ultima è costituita, in particolare, dai seguenti tipi di informazione: quale costitutivo, che rappresenta la relazione tra un oggetto e le sue parti (materiale, peso, componenti); quale formale, che rappresenta ciò che distingue l’oggetto dagli altri oggetti appartenenti alla stessa categoria (forma, dimensione, colore); quale telico, che rappresenta lo scopo e la funzione dell’oggetto; e infine, quale agentivo, che rappresenta i fattori che hanno contribuito alla nascita dell’oggetto (creatore, artefatto, tipo naturale). Questi quattro livelli di

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rappresentazione sono poi collegati tra loro da un insieme di strumenti generativi: type coercion (un’operazione semantica che converte un argomento nel tipo richiesto dal verbo, poiché altrimenti ci sarebbe un errore di tipo), selective binding (meccanismo che si applica per la risoluzione della polisemia aggettivale), co-composition (processo interpretativo che assume significati specifici per un particolare verbo a seconda dell’argomento a cui si riferisce. Esempio: tagliare la barba = accorciare vs. tagliare il pane = affettare, e così via). Livelli di rappresentazione e strumenti generativi forniscono l’interpretazione composizionale delle parole nel contesto. Su queste basi, Pustejovsky ha cercato quindi di fornire una spiegazione ad alcuni fenomeni di polisemia semantica. In particolare, si è focalizzato sui diversi significati che un aggettivo può assumere a seconda del nome che modifica (es. un violinista veloce, un treno veloce); sui diversi significati che un verbo può assumere a seconda dell’argomento a cui si riferisce (es. tagliare il pane, tagliare l’erba, tagliare i capelli); e, infine, sull’interpretazione di frasi del tipo: Luigi ha iniziato il libro. Nel presente lavoro ci si occuperà proprio di quest’ultimo fenomeno definito “metonimia logica”.

1.2. Definizione della metonimia logica

Generalmente col termine metonimia si fa riferimento a quei casi in cui un elemento lessicale è usato al posto di un altro, a cui è concettualmente connesso. Per esempio, nella frase Giovanni ha bevuto tutto il suo bicchiere, il contenitore sta al posto del contenuto. Come è possibile notare anche da questo semplice esempio, si tratta quindi di casi che ricorrono in modelli ben precisi (contenitore-contenuto; produttore-prodotto; posto-evento, ecc.). Lo stesso non si può dire si verifichi, invece, nel fenomeno definito metonimia logica. Si consideri ancora una volta la frase Luigi ha iniziato il libro. Qui iniziare è un verbo che richiede un argomento del tipo evento, ma libro rappresenta, invece, un oggetto fisico. Si ha perciò quello che viene definito un type clash, ossia un conflitto di tipo. Tuttavia qualsiasi parlante italiano normo-dotato sarebbe in grado di interpretare la frase come Luigi ha iniziato a leggere il libro, senza mostrare particolari

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difficoltà. Ma da dove viene l’evento LEGGERE? Secondo l’interpretazione fornita da Pustejovsky (1991, 1995, 1998) bisogna far riferimento alla struttura qualia del nome. In questo caso, libro, contiene nel suo quale telico l’informazione relativa all’evento LEGGERE (a cosa serve un libro? A leggerlo, per esempio). Libro, quindi, oltre a far riferimento all’oggetto fisico, può anche essere interpretato come informazione: esso rientra infatti in quelli che Pustejovsky definisce tipi complessi o dot types (i due sensi di questi nomi sono collegati l’uno all’altro in maniera specifica a livello di struttura profonda. Nel caso di libro tra i due sensi esiste una relazione di “contenimento”: l’oggetto fisico rappresenta il contenitore, mentre l’informazione il contenuto). La definizione di metonimia logica deriva, quindi, dal fatto che si ha un elemento lessicale che generalmente indica un oggetto fisico al posto di un evento (di qui il termine metonimia), mentre l’aggettivo logica fa riferimento al fatto che il fenomeno è innescato da vincoli di tipo semantico che il verbo pone ai suoi argomenti. Ciò è conosciuto in linguistica come type coercion.

1.3. Composizionalità e coercion

Il principio di composizionalità introdotto da Frege afferma che il significato di un’espressione è la somma del significato delle sue componenti. Adottare questo principio significa specificare i significati degli elementi base del linguaggio e formulare delle regole di combinazione che spieghino come questi elementi diano vita a forme di espressioni sempre più complesse. Ma come è già stato sottolineato nell’introduzione la polisemia è una caratteristica pervasiva del linguaggio, insieme poi all’ambiguità. È chiaro quindi che l’applicazione in senso stretto di tale principio copre un numero non molto vasto di esempi. Generalmente si distingue tra composizionalità forte (strong compositionality) e composizionalità debole (weak compositionality). Le teorie che adottano il primo approccio ritengono che i significati delle frasi siano pienamente determinati dai significati dei loro costituenti e dal modo sintattico in cui i costituenti si combinano tra loro. Le teorie che, invece, adottano l’idea di una composizionalità debole,

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propongono delle regole semantiche non corrispondenti a nessun processo sintattico. Jackendoff (1997) distingue tra composizionalità semplice (simple composition), che è la composizionalità vera e propria, quella del principio di Frege per intenderci; e composizionalità arricchita (enriched composition), di cui un esempio è proprio la metonimia logica. Secondo Pustejovski and Jezek (2008), meccanismi generativi della semantica, come la coercion, modulano i significati nel contesto e permettono alle parole di comportarsi in modi inaspettati rispetto alle loro proprietà selettive. Inoltre Pustejovski sottolinea che se la composizionalità arricchita viene considerata una proprietà del linguaggio, allora lo sono anche i fenomeni di coercion; e quindi alle operazioni composizionali di base vanno aggiunti, nella grammatica, anche i meccanismi che permettono di spiegare simili cambiamenti. La ricerca psicolinguistica sulla composizionalità ha investigato, in particolare, l’elaborazione di due tipi di coercion: complement coercion e aspectual coercion. Quest’ultima si verifica in frasi come la seguente: la ragazza ha saltato per tre ore/ the girl jumped for three hours (esempio tratto da Pylkkännen and McElree, 2006). Qui sia il verbo che l’avverbio predicano un evento; non c’è perciò un contrasto di tipo. Eppure, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, non si ha un’interpretazione iterativa; ma piuttosto si afferma che esiste un singolo evento, quello del saltare, che è durato per tre ore. Una simile lettura, però, non trova riscontro nella nostra conoscenza del mondo reale riguardo le abilità delle persone sul saltare. Tuttavia, tale fenomeno non sarà trattato in questo studio. L’attenzione sarà invece rivolta alla complement coercion. Innanzitutto è opportuno precisare che il termine coercion in italiano significa “forzatura”: un elemento della frase “forza” oppure “obbliga” un altro elemento a rispettare certe sue richieste. La complement coercion specifica che questa forzatura avviene a discapito del complemento. Secondo l’Head Typing Principle (Asher and Pustejovsky, 2006) è la testa sintattica che determina il tipo degli altri elementi. Nella metonimia logica, infatti, è il verbo che impone al complemento di possedere certe caratteristiche e non altre, obbligandolo quindi in certi casi ad essere ciò che apparentemente non è. Secondo McElree et al. (2001) l’operazione di coercion è obbligatoria data la natura sotto-specificata dei verbi che innescano un cambiamento di

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tipo. Questi verbi sono anche chiamati “verbi di coercion”, appunto. Tuttavia esiste un ampio e ancora aperto dibattito sulle modalità con cui operano tali verbi e su quali categorie semantiche (verbali) rientrino a far parte di una simile denominazione (di seguito saranno brevemente illustrati i punti di tale dibattito). Si può quindi riassumere, almeno per il momento, che il fenomeno di metonimia logica avviene perché determinati verbi innescano un meccanismo di coercion quando si ha un contrasto di tipo che implica il fallimento del principio di composizionalità. Come si risolve allora questo conflitto di tipo? Semplicemente trasformando il complemento nel tipo richiesto dal verbo.

1.4. Restrizioni della metonimia logica

La metonimia logica è stata definita un fenomeno frequente e produttivo. Tuttavia, l’evidenza linguistica mostra che, in realtà, esistono delle restrizioni interessanti. Si considerino, ad esempio, le frasi seguenti:

1) ? Luigi ha iniziato il dizionario

2) Luigi ha iniziato il compito (a scrivere? a leggere? a copiare? a dettare? ecc.) 3) Luigi ha iniziato il libro vs. L’autore ha iniziato il libro

Si può subito notare come il primo esempio mostri una frase la cui interpretazione è certamente possibile, ma allo stesso tempo considerata un po' forzata. Nel suo complesso, quindi, la frase è percepita da qualsiasi parlante nativo italiano come ben formata, ma un po' strana. Tuttavia, è opportuno sottolineare che dizionario appartiene alla stessa categoria di libro. La questione rilevante, perciò, non è tanto che la metonimia logica fallisca in certi casi e funzioni in altri; piuttosto che tale comportamento si attui tra elementi che condividono caratteristiche simili. In sintesi, ciò che ci si chiede è: cosa rende libro più idoneo ad occorrere in un contesto in cui si ha metonimia logica rispetto a dizionario? Un altro fatto interessante è mostrato dal secondo esempio, in cui è evidenziata la possibilità di completare l’interpretazione della frase con diversi tipi di

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eventi. Questo costituisce il punto di partenza per molteplici riflessioni: qual è l’evento che viene recuperato? quali fattori contribuiscono al recupero di un determinato evento rispetto ad altri possibili? dove sono contenuti tutti questi eventi? ecc. Una prima e parziale risposta viene proprio dal terzo e ultimo esempio, da cui si evince che un ruolo importante nell’interpretazione della metonimia logica è svolto dall’agente: se il soggetto della frase è l’autore è molto probabile che l’evento sottointeso sia scrivere. Ciò non toglie ovviamente che anche un autore possa, ad esempio, leggere un libro. Tali restrizioni furono innanzitutto notate da Godard e Jayez (1993), i quali misero subito in evidenza i limiti della teoria di Pustejovsky. Essi sottolinearono come la struttura qualia non fosse in grado né di fornire una spiegazione esaustiva dei ruoli telici che un dato nome può avere, né di predire il grado di variazione delle interpretazioni. Inoltre, se si assume che tutti gli artefatti siano associati a degli eventi attraverso la struttura qualia, la metonimia logica dovrebbe essere possibile con ogni artefatto e dovrebbe avere delle interpretazioni chiare. In realtà, come suggeriscono anche gli esempi sopra riportati, non è questo il caso. In particolare, i due autori notarono che la spiegazione telica è possibile solo con iniziare quando l’evento implicito fa riferimento al concetto di “consumo”, ossia al modo di utilizzo dell’oggetto in questione: nel caso di libro, il suo “consumo” o utilizzo include l’evento leggere (Godard e Jayez (1993); Copestake (2001)). La conclusione a cui giunsero Godard e Jayez fu semplicemente che non si può parlare di cambiamento del tipo dell’argomento, ma bisogna invece ipotizzare un arricchimento della semantica dei predicati che porta ad un’interpretazione di coercion. In risposta a quest’analisi, Pustejovsky e Bouillon (1995) svilupparono dei vincoli basati su proprietà aspettuali dell’evento. Come punto di partenza stabilirono la nozione linguistica di classe aspettuale, dividendo così gli eventi in processi, stati e transizioni. Per spiegare, poi, il comportamento alla base della proiezione semantica nella posizione dell’argomento, utilizzarono il concetto di headedness, già introdotto in Pustejovsky (1988). Un’analisi della struttura evento fondata su tale nozione implica una configurazione degli eventi sia in base alla precedenza temporale, che in base alla prominenza relativa. Ciò significa che all’interno di una matrice evento sono collocati tanti sotto-eventi e solo uno di questi

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assume più prominenza rispetto agli altri, diventando perciò il focus dell’interpretazione. La nozione di headedness è una proprietà appartenente a tutti i tipi di eventi, ma agisce in modo particolare per distinguere l’insieme di transizioni, specificando quale sotto-parte viene focalizzata dall’elemento lessicale in questione. Gli autori giunsero così ad affermare che solo i sintagmi nominali che sono associati ad eventi di transizione permettono la coercion. In Verspoor (1997) si trova, però, un’ampia critica nei confronti di entrambi questi approcci. In generale, viene qui mostrato come gli autori dei due studi presi in esame ignorino il ruolo della convenzionalità nell’interpretazione della metonimia logica. Secondo Verspoor, Godard e Jayez (1993) si sono concentrati soltanto sui vincoli del processo di coercion, senza tenere minimamente in conto che, in realtà, tale fenomeno richiede più di una semplice conversione del tipo dell’argomento nominale: è necessario, infatti, introdurre l’evento, ossia un elemento mancante carico di significato. Inoltre per ognuno dei vincoli da essi individuati mostra che esiste un insieme di esempi che lo viola. In risposta, invece, a Pustejovsky e Bouillon (1995), Verspoor mette in evidenza l’insufficienza e la vaghezza della loro ipotesi. Anche se riconosce che, in realtà, tale approccio sia in grado di escludere un gran numero di frasi metonimiche non ben formate, tuttavia sottolinea comunque l’esistenza di un altro insieme di frasi che resta fuori perché non può essere spiegato. Il punto, però, su cui fa maggiormente leva Verspoor riguarda il fatto che tale teoria lascia aperte diverse questioni. Innanzitutto, non chiarisce quale struttura evento sia specificata nel lessico; inoltre non spiega come essa sia costruita quando un verbo si combina con un argomento. Per tali ragioni, Verspoor cerca una via alternativa, che vada oltre la semplice individuazione dei vincoli, i quali laddove esistano, sono difficili da identificare e sono molto più complessi di una restrizione di tipo semantico o aspettuale. Conduce, perciò, un’analisi manuale dei verbi begin (iniziare) e finish (finire) nel British National Corpus (BNC), costituito da cento milioni di parole; e ottiene che il 95% delle metonimie logiche di questi verbi può essere risolto sulla base dell’informazione fornita dall’oggetto del verbo. I risultati mostrano inoltre che il range di metonimie logiche che occorre in un corpus è molto limitato, suggerendo quindi che questo fenomeno sia ampiamente

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influenzato dall’uso convenzionale. In particolare, viene evidenziata un’interpretazione telica che implica una classe molto limitata di oggetti fisici/sostanze, soprattutto nomi che denotano cibo, bevande e libri (Verspoor (1997); Copestake (2001)). Su queste basi, quindi, la conclusione a cui l’autrice giunge è che la metonimia logica occorra con i verbi aspettuali quando si hanno o eventi agentivi o eventi telici convenzionalizzati. A sostegno del ruolo esercitato dalla convenzionalità cita Lascarides e Copestake (1995), i quali si soffermano sulla stranezza di certe metonimie logiche che non sarebbero predette se il ruolo telico fosse derivato dalla reale conoscenza di un’entità, basata sulla nostra esperienza del mondo.

1.5. Fattori che influenzano la metonimia logica

Il paragrafo precedente si conclude con un accenno al ruolo della convenzionalità nella spiegazione della metonimia logica e ancora più su è stata fatta notare l’importanza dell’agente per il processo di interpretazione. Quali e quanti sono quindi i fattori che influenzano questo particolare fenomeno? In che modo agiscono? Quanto ognuno di essi può far luce sui meccanismi che ne sono alla base? Nel presente paragrafo e nei successivi si cercherà proprio di dare una risposta a queste domande, provando innanzitutto ad analizzare ogni fattore singolarmente.

1.5.1. La convenzionalità

Esistono prove a favore del fatto che la metonimia logica sia parzialmente convenzionalizzata. Nella parte iniziale dell’articolo di Lascarides (1995) è riportato il seguente esempio: ?John enjoyed the doorstop, tratto da Briscoe et al. (1990). In inglese il termine doorstop, oltre ad indicare il “fermaporta”, può anche essere utilizzato per riferirsi ad un libro noioso, generalmente considerato un classico e di ampie dimensioni (si pensi, solo per citarne uno, a Guerra e Pace, per esempio), il quale solitamente viene adibito a “fermalibri” invece che essere letto. Tuttavia, pur indicando un libro, la frase viene percepita da qualsiasi parlante inglese come anomala. Come ha mostrato Verspoor

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(1997), infatti, la metonimia logica sembra essere innescata da eventi convenzionalizzati. E certamente LEGGERE non è il primo evento telico che si assocerebbe al termine doorstop, data la definizione fornita qualche riga più su. Tale concetto viene ribadito anche in Lascarides and Copestake (1998), dove è riportato l’esempio seguente: ?Mary enjoyed the pebble (ingl. pebble = it. sassolino). In questa frase il complemento oggetto è costituito da un nome che non possiede un ruolo telico convenzionalizzato. Per questo motivo l’espressione, pur essendo ben formata da un punto di vista puramente grammaticale, non è percepita come tale dai parlanti inglesi. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di casi limite, i quali presi così singolarmente non dimostrano nulla. Tuttavia, ciò su cui si dovrebbe davvero riflettere è la conclusione a cui giunge la stessa Verspoor: l’interpretazione telica alla base della metonimia logica interessa classi limitate di nomi, in particolare: cibi, bevande e libri. Ora, anche se tale conclusione non è esaustiva (si sa, per esempio, che tra gli esempi più citati, compaiono nomi come sigaretta, film, quadro, ecc.), non si può negare il fatto che, se si chiedesse a qualsiasi parlante italiano di fare degli esempi di metonimia logica, molto probabilmente non riuscirebbe a non indicare frasi contenenti complementi oggetto quali: panino, torta, gelato, birra, acqua, libro, ecc. E la spiegazione è anche piuttosto semplice: la metonimia logica si applica indistintamente a nomi che indicano in particolar modo cibi e bevande. Un altro punto fondamentale riguarda poi l’evento telico in sé: nonostante la varietà delle azioni che possono essere associate ad un determinato oggetto, l’interpretazione metonimica sembra basarsi su eventi limitati. Molto frequenti sono, ad esempio: LEGGERE, MANGIARE, BERE, GUARDARE, sebbene con un libro, un panino, una birra o un film si possano eseguire molteplici attività differenti.

1.5.2. Il contesto extra-frasale

L’esempio più citato, a partire dal quale diversi studiosi hanno posto le basi per una spiegazione pragmatica del fenomeno della metonimia logica, è il seguente: the goat enjoyed the book. In italiano si potrebbe tradurre come alla capra è piaciuto il libro, ma qual è l’evento sottointeso? LEGGERE? MANGIARE? Come sottolineato in Lascarides

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(1995), se facessimo riferimento soltanto al lessico, allora potremmo dire, per esempio, che esistono delle restrizioni selettive sul verbo: leggere richiede un’agente che abbia la caratteristica di [+ umano]. Tuttavia, la frase non risulta agrammaticale; quindi tale spiegazione non è soddisfacente. Lascarides & Copestake (1998) vanno ancora oltre, affermando che assumere che il soggetto debba essere un umano è allo stesso tempo troppo generico, perché non riesce a spiegare l’anomalia di frasi come ?The illiterate man read the book (in it. l’uomo analfabeta legge il libro); ma anche troppo specifico, perché non ammette l’accettabilità di frasi come the goat put her spectacles on and started to read the book to her kids (in it. la capra ha messo gli occhiali e ha iniziato a leggere il libro ai suoi piccoli). Un’altra possibilità potrebbe essere quella di ipotizzare che l’informazione “le capre non leggono” sia contenuta nell’entrata lessicale del nome capra. Se la situazione fosse davvero questa, allora tutti i domini della conoscenza dovrebbero essere immagazzinati nel lessico, il quale a questo punto sarebbe costituito da una quantità di informazioni difficili da gestire. Ad ogni modo si violerebbe così il principio di economia che caratterizza il linguaggio. È evidente, quindi, che il lessico da solo non è in grado di giustificare casi come quello sopra riportato. Da qui l’idea di una spiegazione pragmatica. Lascarides (1995) parte dalla Persistent Default Unification (PDU), un modello di organizzazione lessicale che prevede la possibilità di rintracciare le parti di default contenute nella forma semantica e inviate alla componente pragmatica. Il collegamento tra lessico e pragmatica avviene attraverso due semplici assiomi: il primo assicura che le generalizzazioni lessicali si applichino normalmente nel contesto del discorso; il secondo, invece, afferma che l’informazione contestuale ha più rilevanza rispetto a quella di default contenuta nel lessico e quindi è quella che determina la corretta interpretazione della frase (Lascarides (1995), Lascarides & Copestake (1998)). Gli effetti del contesto sull’interpretazione della metonimia logica sono descritti in dettaglio nello studio di De Almeida (2004). In particolare, lo studioso si sofferma sul fatto che se è il contesto a determinare l’interpretazione, allora non esiste nessun effetto di coercion. Ciò significa che, in assenza di informazione contestuale, non dovrebbe essere registrata nessuna differenza tra frasi come typed the memo vs. read the memo vs.

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began the memo. È questo lo scopo del primo esperimento descritto nell’articolo, il quale si pone come una replicazione dello studio di McElree et al. (2001), se non fosse per una manipolazione dei materiali iniziali operata dallo stesso De Almeida. In McElree et al. (2001) i risultati avevano mostrato che i tempi di lettura previsti per costruzioni plausibili, ma non preferite (es. the author was reading the book in his house on the island)e per quelle di type-shifting (es. the author was starting the book in his house on the island) sono simili. All’altezza, però, del complemento oggetto e nella posizione immediatamente successiva è stato invece osservato che le costruzioni di type-shifting richiedono più tempo di elaborazione sia rispetto a quelle preferite (es. the author was writing the book in his house on the island) che a quelle plausibili, ma non preferite. Tuttavia, se il contesto ha l’effetto di restringere il range di ruoli telici, allora dovrebbero essere trovate delle differenze, in posizioni successive al verbo, tra il gruppo di frasi considerate di non preferenza dai parlanti e quello costituito da frasi in cui si manifesta un cambiamento di tipo. Inoltre l’interpretazione delle costruzioni di type-shifting dovrebbe essere appresa prima di quella delle costruzioni non preferite. I risultati del primo esperimento condotto da De Almeida non mostrano, a differenza di McElree et al. (2001), nessuna diversità di elaborazione tra i tre tipi di costruzioni nelle due posizioni critiche (immediatamente dopo il verbo e posizioni successive): vengono registrati, infatti, gli stessi tempi di lettura. Ciò ha portato De Almeida a supporre che i verbi metonimici non sono più complessi degli altri. Nel secondo esperimento, poi, alle stesse frasi utilizzate nel primo, De Almeida aggiunge dell’informazione contestuale e anche in questo caso non ottiene nessuna differenza di elaborazione tra costruzioni di type-shifting e costruzioni non preferite in posizioni successive al verbo. Su queste basi, De Almeida allora descrive tre possibili effetti del contesto: 1) cancellare le operazioni di type-shifting; 2) restringere il range di ruoli telici che possono essere selezionati, 3) rimuovere la sotto-specificazione dei verbi. In particolare sostiene, poi, che i suoi risultati darebbero prova della terza ipotesi. Non tarda, però, ad arrivare una controprova, fornita dallo studio di Pickering, McElree and Traxler (2005). Gli studiosi analizzano in dettaglio materiali ed esperimenti, cercando di comprendere la natura della diversità dei risultati

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osservati da De Almeida. Ciò che più non li convince è il primo esperimento, poiché produce risultati completamente diversi rispetto ai quattro riportati in McElree et al. (2001), che invece mostrano esiti simili tra loro. Le tecniche utilizzate sono state quelle di eye-tracking e self-paced reading, le due modalità di indagine più frequentemente usate per studiare la comprensione della frase. Gli elementi selezionati potrebbero aver influito in qualche misura, anche se sono stati controllati e associati per lunghezza e frequenza del verbo, per interpretazione preferita e plausibilità delle frasi nelle diverse condizioni. Giungono così alla conclusione che molto probabilmente siano proprio i risultati di De Almeida ad essere erronei e individuano le seguenti motivazioni: 1) numero limitato di elementi selezionati rispetto agli altri studi; 2) scelta degli elementi e/o procedura (De Almeida infatti ha modificato i dati di McElree, ma forse senza attuare un processo di norma o comunque non li ha normati per plausibilità); 3) oppure il problema sta proprio nella modifica stessa agli elementi effettuata da De Almeida (le sue modifiche potrebbero persino aver cambiato l’interpretazione preferita di alcuni elementi). Per poter fare luce su queste presupposizioni, gli studiosi conducono un nuovo esperimento attraverso eye-tracking, utilizzando sia gli stimoli di De Almeida che dei nuovi stimoli. Introducono poi una nuova condizione di controllo, in modo da valutare il livello di difficoltà associato all’elaborazione di espressioni come began the memo. Negli studi precedenti queste frasi erano state messe a confronto con versioni più semplici che presentavano l’esplicitazione del verbo. Qui invece la nuova condizione di controllo è costituita dal sintagma verbale completo e che fa riferimento all’interpretazione preferita.Es. prima: the secretary began the memo vs. the secretary typed the memo; ora: the secretary began the memo vs. the secretary began to type/typing the memo. I risultati così ottenuti mostrano gli stessi costi di elaborazione della coercion in entrambi i gruppi di stimoli. Su queste basi gli autori hanno perciò decretato l’erroneità di quanto riportato dagli esperimenti di De Almeida. Tuttavia, sono convinti che l’effetto del contesto sia comunque una questione importante da indagare.

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1.5.3. Il contesto intra-frasale

Lo studio di Lapata, Keller & Scheepers (2003) si è concentrato in particolar modo sul ruolo del soggetto nell’interpretazione di frasi con metonimia logica. Il punto da cui gli studiosi sono partiti è stato quello di interrogarsi sulla possibile esistenza di un’interpretazione di default, elicitata dal complemento. E sono andati anche oltre, chiedendosi se l’informazione contenuta all’interno della frase, e in particolare quella fornita dal soggetto, potesse in qualche modo indirizzarla. Per raggiungere tali obiettivi hanno utilizzato un compito di completamento delle frasi su parlanti di madrelingua tedesca (si vedrà in seguito come il tedesco abbia fornito degli spunti interessanti alla spiegazione del fenomeno in esame). Nello specifico, ai partecipanti veniva chiesto di esplicitare l’evento sottointeso. Le risposte fornite sono state poi etichettate come Telico, Agentivo ed Altro. Nell’85,6% dei casi il ruolo qualia coincideva. I risultati hanno mostrato che un soggetto telico favorisce un’interpretazione telica; mentre un soggetto agentivo, un’interpretazione agentiva. Nella condizione di soggetto neutrale, poi, è stata riscontrata una preferenza per l’interpretazione telica, che potrebbe così essere considerata di default in un contesto neutro. Questi dati comportamentali sono stati, poi, analizzati sulla base del modello elaborato da Lapata & Lascarides (2003). L’approccio qui descritto si fonda sulla nozione di inferenza di Bayes: in molti casi l’elaborazione cognitiva può essere vista come un’inferenza e quella di Bayes è un modo per formalizzare tale processo. Secondo il teorema di Bayes, la probabilità condizionale di un’ipotesi H, data una certa evidenza e, è proporzionale alla probabilità indipendente delle volte dell’ipotesi H di incontrare l’evidenza e, dato che H è vera (Lapata, Keller & Scheepers, 2003). In termini matematici tutto ciò si traduce nella formula seguente:

𝑃(𝐻|𝑒) = 𝑃(𝐻)𝑃(𝑒|𝐻) 𝑃(𝑒)

Il denominatore P(e), ossia la probabilità dell’evidenza, può essere trascurato, in quanto sempre costante. Un modello di questo tipo applicato all’elaborazione cognitiva assume che il processo calcoli la soluzione H ottimale data l’evidenza a disposizione.

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Generalmente questi modelli sono stati utilizzati per spiegare la disambiguazione sintattica; Lapata, Keller & Scheepers (2003) ne propongono un uso esteso all’elaborazione semantica e in particolare all’interpretazione dei verbi metonimici. In questo caso specifico, quindi, la finalità del modello è quella di fornire la probabilità dell’interpretazione i, dato il verbo v, il soggetto s, e l’oggetto o; ossia P(i|v,s,o). Sulla base del modello di Bayes, tale probabilità può essere scomposta nel modo seguente:

𝑃(𝑖|𝑣, 𝑠, 𝑜) = 𝑃(𝑖) 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜|𝑖) 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜)

Assumiamo ora che il modello calcoli l’interpretazione più probabile per una data espressione metonimica e che questa sia denotata dalla funzione arg max; a questo punto l’equazione potrà essere riscritta nella forma seguente:

arg 𝑚𝑎𝑥𝑖 𝑃(𝑖|𝑣, 𝑠, 𝑜) = arg 𝑚𝑎𝑥𝑖 𝑃(𝑖) 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜|𝑖) 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜)

Applicando poi la probabilità condizionale (P(A/B) = P(A,B)/P(B)) si ha che:

= arg 𝑚𝑎𝑥𝑖𝑃(𝑖)𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜, 𝑖)/𝑃(𝑖) 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜)

Infine, semplificando ed eliminando il denominatore che può essere trascurato, si ottiene:

= arg 𝑚𝑎𝑥𝑖 𝑃(𝑣, 𝑠, 𝑜, 𝑖)

Tale probabilità può essere riordinata in P(i,o,v,s) e scomposta in un insieme di probabilità condizionali, ossia nel prodotto di P(i) P(o|i) P(v|i,o) P(s|i,o,v). Ma P(i) non è altro che l’evento inserito dai partecipanti nell’esperimento di Lapata, Keller & Scheepers (2003); P(o|i) corrisponde, invece, all’interazione tra complemento oggetto ed evento esplicitato e P(v|i,o) a quella tra questi due elementi e il verbo metonimico. Manca P(s|i,o,v), la quale non risulta giustificata dai dati sperimentali. Tuttavia, se si assume che P(s|i,o,v) ≈ P(s|i,o), allora essa corrisponde all’interazione tra soggetto, complemento oggetto ed evento esplicitato, correlazione che ha mostrato una significatività notevole

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nell’esperimento di completamento delle frasi (Lapata, Kellers & Scheepers, 2003). I risultati dello studio di Lapata & Lascarides (2003) mostrano non solo che possiamo predire differenze di significato quando lo stesso verbo è associato a diversi nomi, ma possiamo anche derivare un insieme di significati per una singola combinazione verbo-nome. Possiamo inoltre predire differenze di significato per un dato nome associato a diversi verbi metonimici. Il modello qui elaborato è stato confrontato con le intuizioni dei parlanti ed è stato ritenuto affidabile. Tuttavia, si tratta di un modello limitato al suo scopo: è adatto a costruzioni metonimiche ben formate, ma non distingue “strane” metonimie da quelle accettabili e non distingue tra usi metonimici e non metonimici di un verbo. Infine, non prende in considerazione il contesto. Sono stati effettuati diversi tentativi di miglioramento del modello appena presentato, ma nessuno risulta senza problemi. È opportuno precisare, infatti, che l’analisi dei corpora in sé non si mostra particolarmente utile nell’assegnazione di frequenze a specifiche coppie verbo-complemento, in quanto i dati di co-occorrenza di questi due elementi lessicali saranno molto scarsi. Una soluzione viene fornita dai modelli che si basano su misure di somiglianza derivate dalla Latent Semantic Analysis (LSA, Landauer, Foltz and Latham, 1998). Queste offrono un’approssimazione della co-occorrenza, rappresentata dal coseno tra coppie di testo, che riflette il grado in cui i costituenti appaiono in contesti simili anche se in realtà non sono mai apparsi insieme. Pylkkanen and McElree (2006), sulla base del materiale utilizzato in Traxler et al. (2002), hanno stimato le situazioni di co-occorrenza tra sintagmi nominali che denotano eventi (the fight = la battaglia), sintagmi nominali che denotano entità (the puzzle), soggetto, verbo metonimico, verbo che seleziona un evento e verbo che seleziona un complemento di entità. L’analisi condotta suggerisce che le differenze osservate non possono essere attribuite a modelli di co-occorrenza, in quanto i risultati sono esattamente opposti a questo tipo di spiegazione: la condizione che ha mostrato il più alto costo, l’unica che richiedeva la complement coercion (the boy started the puzzle = il ragazzo ha iniziato il puzzle), ha avuto il più alto valore di coseno.

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1.5.4. Il tipo di verbo metonimico

Il gruppo dei cosiddetti verbi metonimici o verbi di coercion è molto eterogeneo. Al suo interno, infatti, si trovano verbi aspettuali, verbi psicologici e altri verbi non classificabili in un’unica categoria. Da un punto di vista puramente linguistico si può dire che i verbi aspettuali sono intrinsecamente temporali, richiedono un complemento oggetto che indichi un evento, e hanno generalmente un soggetto che rappresenta il partecipante agentivo (Katsika et al. (2012)). I verbi psicologici, invece, sono caratterizzati da un soggetto che ha il ruolo semantico di esperiente e da un complemento oggetto che rappresenta o il destinatario oppure la sostanza di un’emozione. Non esistono però vincoli alla realizzazione del complemento: questo, infatti, può essere un’entità, un evento o una situazione (Katsika et al. (2012)). Quindi, la differenza sostanziale tra queste due categorie di verbi è rappresentata dal fatto che la scelta di un complemento di tipo evento è un’informazione contenuta all’interno della struttura argomentale dei verbi aspettuali, ma non di quella dei verbi psicologici. Per questi ultimi, infatti, l’argomento che occupa la posizione dell’oggetto può essere un evento, ma può anche non esserlo. Non a caso, non tutti i verbi psicologici innescano un meccanismo di coercion. Ma cos’è quindi un verbo metonimico? Utt et al. (2013) hanno cercato di rispondere a questa domanda proponendo una misura in grado di prevedere quanto questi verbi si aspettino di essere seguiti da un complemento oggetto che indichi un evento piuttosto che un’entità (misura dell’eventhood). In questo modo è stato possibile distinguere i verbi in tre categorie: metonimici aspettuali, metonimici non aspettuali e non metonimici. Tuttavia la correlazione tra questa unità di misura e il fenomeno della metonimia logica anche se è molto forte, non è perfetta. Per esempio, è stato trovato che verbi come l’inglese prefer (in it. “preferire”), pur registrando un punteggio elevato per l’aspettativa di essere seguito da un evento, non predilige costruzioni metonimiche. Viceversa, verbi come l’inglese begin (in it. “iniziare”), pur essendo un verbo metonimico per eccellenza, presenta un punteggio più basso di prefer. È probabile, quindi, che entrino in gioco altri fattori (Utt et al. (2013)). Un altro studio particolarmente interessante, ossia quello di

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Piñango and Deo (2012), ha invece analizzato in maniera specifica i verbi aspettuali, proponendo una teoria che fa riferimento ad entità strutturate lungo alcune dimensioni. Gli studiosi affermano che questi particolari verbi selezionano elementi che possono essere concettualizzati come aventi una struttura totalmente ordinata lungo dimensioni quali quella temporale, spaziale, eventiva, ecc. I verbi aspettuali non si limitano quindi a richiedere un evento, ma piuttosto specificano una relazione tra un elemento/individuo/tipo strutturato e una sotto-parte di esso relativa a un asse sul quale si estende l’individuo stesso. Rappresentano quindi la semantica lessicale di questi verbi attraverso una funzione f che si applica a una denotazione x soggetto e a una denotazione y oggetto, tale che f(x) descriva una sotto-parte minima di f(y). Vediamo un esempio per comprendere meglio la situazione. Consideriamo la frase riportata nello studio in esame: this famous perch begins the Appalachian Tail. Qui il verbo aspettuale begin introduce una funzione che associa gli elementi alla loro estensione spaziale. Il complemento (the Appalachian Tail) è concettualizzato come un tipo strutturato spazialmente che si estende lungo un asse spaziale che consiste in sotto-parti ordinate. La frase quindi risulta vera se l’estensione spaziale di questo famous perch rappresenta la sotto-parte iniziale dell’estensione spaziale dell’Appalachian Tail. Secondo gli studiosi ogni entrata lessicale dei verbi aspettuali comprenderebbe queste funzioni specifiche. Tuttavia, essendo varie le dimensioni lungo cui un elemento può essere concettualizzato, e di conseguenza essendo parecchie le funzioni ad esso associate, l’interpretazione dei verbi aspettuali risulterà sotto-determinata e dipenderà dalla dimensione rilevante in quel dato contesto. Questa indeterminatezza si ha anche nel caso dei cosiddetti usi di coercion dei verbi aspettuali. Una frase come John began the book è ambigua, ma l’interpretazione saliente sarà quella eventiva (John began reading/writing/etc. the book), in cui gli elementi (John, the book) sono associati all’evento a cui essi partecipano. Tuttavia, la frase ha un’altra interpretazione costitutiva in cui gli individui sono associati a una struttura informativa, tale che alcuni pezzi dell’informazione corrispondente a “John” sono una sotto-parte iniziale dell’informazione corrispondente a “the book” (es. una storia su John è la prima storia del libro). Un ruolo importante è quindi svolto anche dal contesto che determina

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l’interpretazione intesa, anche se questa può essere più o meno saliente di un’altra. Questa analisi viene definita DIMENSION AMBIGUITY ANALYSIS, la quale viene poi ulteriormente perfezionata e rielaborata in uno studio successivo (Piñango and Deo, 2016). I due ricercatori assumono che ogni indagine, empiricamente adeguata, della semantica lessicale dei verbi aspettuali dovrebbe essere neutrale rispetto alle proprietà ontologiche dell’argomento con cui si combina. Viene qui ripreso il concetto introdotto da Gawron e altri di asse generalizzato, inteso come un insieme linearmente ordinato di entità in ogni dominio ontologico e utilizzato per definire la semantica dei predicati lessicali. Sulla base di questa osservazione, che viene inserita nel sistema mereologico sviluppato in Krifka (1998), Piñango e Deo (2016) costruiscono la loro analisi dei verbi aspettuali. La mereologia estensionale classica (classical extensional mereology, CEM) rappresenta il sistema più comunemente utilizzato nella semantica delle lingue naturali e si basa sulle nozioni di “parte” e “somma”. Krifka sviluppa, a partire dalla nozione di somma, delle strutture algebriche che facilitano la descrizione di strutture concettuali che sorreggono le relazioni incrementali tra i partecipanti nella predicazione. L’assunto è che tutti i domini ontologici (tempo, eventi, oggetti) sono caratterizzabili dalla stessa struttura algebrica. Le relazioni tra questi domini sono poi vincolate dalla semantica lessicale dei predicati verbali. Una sottoclasse, in particolare, di queste strutture sembra essere molto adatta a catturare il comportamento linguistico dei verbi aspettuali. L’analisi quindi condotta da Piñango e Deo afferma che le proprietà selettive dei verbi aspettuali dovrebbero essere caratterizzate in termini di individui strutturati, entità che possono essere interpretate come aventi una struttura in parti totalmente ordinate che è omomorfica a un asse lungo una qualche dimensione. È questo presupposto lessicale che determina come il verbo si componga con successo con il suo soggetto e il suo complemento.

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1.5.5. Il costo di elaborazione

McElree et al. (2001) rappresenta il primo studio che ha registrato dei tempi di lettura più lunghi per frasi con metonimia logica. Viene qui introdotta per la prima volta l’idea secondo cui la complement coercion richieda dei costi cognitivi maggiori a causa di operazioni di aggiustamento dell’incompatibilità semantica. Nello studio vengono confrontate frasi del tipo the journalist began the article before his coffee break (frasi con complement coercion) rispetto a condizioni di controllo come the journalist wrote the article before his coffee break. I risultati hanno mostrato, in particolar modo, tempi di lettura più lunghi per frasi con coercion all’altezza del complemento oggetto (the article) e nella posizione immediatamente successiva (before). Sulla scia di queste osservazioni sono state poi condotte molte altre ricerche che hanno confermato l’ipotesi di un costo di elaborazione maggiore associato al fenomeno della metonimia logica (ad es. Traxler et al. 2002; Traxler et al. 2005; Pickering et al. 2005; McElree et al. 2006; Pickering et al. 2006; Frisson and McElree, 2008; Katsika et al. 2012). In particolare, lo studio di Traxler et al. (2002) ha evidenziato un costo di coercion per complementi sia definiti che indefiniti, confrontando ad esempio the book vs. a book. Tali risultati suggeriscono che l’effetto non può essere attribuito a tipi particolari di sistemazioni pragmatiche che potrebbero essere richieste da un sintagma nominale definito. McElree et al. (2006), invece, confrontando, ad esempio, frasi del tipo the journalist began the meeting before his coffee break, dove il complemento oggetto indica un evento (the meeting), con frasi come quelle riportate in McElree et al. (2001), hanno potuto escludere che le differenze di elaborazione siano dovute ad alcune proprietà di verbi come “begin”, per esempio alla loro polivalenza sintattica o alla loro ambiguità semantica, essendo i tempi di lettura di questa nuova condizione qui introdotta più brevi rispetto alle tipologie di frasi già analizzate nello studio precedente. Altri importanti risultati sono mostrati nello studio di McElree, Frisson and Pickering (2006, Deferred Interpretations: Whay Starting Dickens Is Taxing but Reading Dickens Isn’t), in cui viene analizzata l’elaborazione di metonimie standard (the gentleman read Dickens) e metonimie logiche (the gentleman

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began Dickens) in rapporto a frasi di controllo con un’interpretazione convenzionale (the gentleman met Dickens). Gli studiosi hanno osservato che mentre le metonimie standard sono elaborate allo stesso modo delle espressioni convenzionali, le frasi con metonimia logica richiedono più tempo di elaborazione sia rispetto a quelle di controllo che a quelle con metonimia standard. Ciò significa che non tutte le interpretazioni che deviano dalla composizionalità standard seguono gli stessi processi e gli stessi tempi. Anche la misura poi dei potenziali evento-correlati, oltre alle già citate tecniche di eye-tracking e self-paced reading, porta alla medesima conclusione: la coercion presenta dei costi di elaborazione aggiuntivi. Lo studio di Baggio et al. (2010) si basa proprio sull’utilizzo di questa tecnica di indagine, che è in grado di fornire una prova più affidabile a favore o contro una dissociazione funzionale tra anomalie di elaborazione semantica e complement coercion. Gli esperimenti che indagano sulla composizionalità arricchita possono beneficiare del fatto di comparare le risposte evocate dalla complement coercion con un effetto standard N400. L’N400 è una misura dell’elaborazione semantica, e un termine importante di comparazione quando sono richiesti correlati cerebrali di aspetti diversi della composizione semantica. È stato mostrato che gli effetti dei potenziali evento-correlati differiscono da quelli di anomalia semantica almeno nel loro profilo temporale. Tuttavia, non si può concludere che la sostanziale negatività evocata dalla coercion e la N400 elicitata dall’anomalia siano effetti interamente differenti, in quanto il primo potrebbe anche essere visto come una sequenza di N400 evocata dal nome coerced e dalla parola che segue il nome. Sembra che la negatività osservata sia da attribuire a qualche stadio dell’operazione di coecion. Per esempio, l’effetto può essere spiegato dalla ripetizione lessicale dei verbi di coercion negli stimoli presentati.

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1.6. Ma perché la metonimia logica è costosa a livello cognitivo?

I risultati di studi sulla metonimia standard suggeriscono che la costruzione di un senso alternativo non è di per sé costosa (vedi ad esempio McElree, Frisson and Pickering, 2006). Tuttavia esiste un’ampia mole di ricerche psicolinguistiche che mostra uno sforzo cognitivo maggiore nell’elaborazione di frasi con metonimia logica. Una spiegazione è che esso rifletta semplicemente l’individuazione di un’incompatibilità di tipo semantico. Si tratta certamente di un’analisi poco esaustiva che lascia irrisolta la questione di come i parlanti riescano a recuperare con successo un’interpretazione adeguata per queste espressioni. Inoltre presenta un altro grave problema: non è completamente in linea con gli effetti osservati negli esperimenti di reading time. Sarebbe opportuno aspettarsi che questa incompatibilità sia evidenziata da un primo sguardo sul complemento; in realtà simili comportamenti non sono stati registrati in nessun caso. Una prova su tutte è poi fornita da studi basati sulla magnetoencefalografia (MEG), i quali mostrano che la complement coercion non modula la stessa attività cerebrale riscontrata in chiari casi di incompatibilità semantica tra il verbo e il suo complemento (Pylkkänen, Llinás and McElree, 2004; Pylkkänen, Llinás and McElree, 2006). Va da sé che la prima spiegazione ai costi cognitivi aggiuntivi per l’interpretazione della metonimia logica non può essere sostenuta. Un’altra ipotesi avanzata suggerisce che i tempi di elaborazione più lunghi siano dovuti al tempo necessario a recuperare o inferire l’attività implicita nell’interpretazione eventiva del complemento. Non si tratta infatti solo di un semplice cambiamento di tipo, ma bisogna costruire un senso di evento che non è disponibile nel discorso. Cosa accade quindi se l’interpretazione eventiva è già esplicitata nel contesto? Traxler et al. (2005) si sono posti proprio questa domanda e hanno così indagato gli effetti del contesto. Se è vero che la difficoltà di elaborazione è dovuta al recupero o all’inferenza di un evento appropriato, allora se questo compare già nel discorso, il costo dovrebbe essere eliminato. Per esempio, the carpenter began the table è frequentemente interpretata come the carpenter began to build the table. Traxler et al. (2005) hanno esaminato quindi se il costo di coercion fosse mantenuto anche in contesti come: the

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carpenter was building all morning. Before he began the table, […]. Tuttavia, tale manipolazione contestuale non eliminava il costo di coercion. Ciò significa che non è possibile attribuirlo neanche al tempo necessario per il recupero dell’evento implicito e di conseguenza alla selezione di un’attività da un insieme di azioni plausibili. Se espressioni come began the book sono difficili perché è possibile interpretarle in parecchi modi, allora un contesto vincolante dovrebbe ridurre l’ambiguità ed eliminare il costo. Ma così non è. Tuttavia, in altri esperimenti Traxler e colleghi hanno osservato l’eliminazione del costo quando il contesto forniva il senso completo dell’evento (esempio, the student started/read a book in his dorm room. Before he started it […]). Sembra quindi che sia possibile aggirare la difficoltà di elaborazione. Si fa strada allora l’idea secondo cui la coercion richieda costi cognitivi maggiori perché i parlanti devono sottostare ad operazioni composizionali più complesse per costruire una rappresentazione per il senso eventivo del complemento. Ma di quali operazioni stiamo parlando? Frisson and McElree (2008), come già descritto in Traxler et al. (2005), individuano i seguenti procedimenti che porterebbero i parlanti all’interpretazione di frasi come began the book: in una prima fase il soggetto viene bloccato dall’applicazione di ogni semplice operazione di composizione a causa di un’incompatibilità tra i requisiti del verbo e i sensi del complemento oggetto; prova allora a fare affidamento sull’informazione lessicale e discorsiva disponibile, così da poter inferire un evento plausibile per il sintagma nominale; una volta identificato, poi, lo incorpora nell’interpretazione semantica del sintagma verbale, riconfigurando infine la rappresentazione semantica del complemento da[β began [α the book]] in [β began [α reading the book]]. Gli autori dello studio affermano che l’evidenza a disposizione indica che sia proprio questo step finale a generare il costo osservato. Certamente non può derivare dalla prima fase e riflettere semplicemente l’individuazione di un’anomalia semantica. Come è già stato osservato grazie alla tecnica di magnetoencefalografia, la complement coercion non modula la stessa attività cerebrale registrata in presenza di disaccordo semantico tra un verbo e il suo complemento. Anche l’ipotesi di identificare come luogo dell’effetto lo step 2 è facilmente eliminabile dati i risultati scaturiti dallo

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studio di Traxler et al. (2005), che al contrario sostengono invece le operazioni elencate nello step 3. Tuttavia, l’evidenza contro questa alternativa non è così forte come si potrebbe pensare. È infatti possibile che un altro tipo di contesto possa indicizzare meglio l’attività e quindi eliminare il costo di elaborazione. Inoltre, Traxler e colleghi hanno verificato solo le complement coercion con un’interpretazione dominante e non hanno controllato il numero di interpretazioni alternative che potrebbero aver influenzato il costo di coercion. Per tale motivo, nell’esperimento riportato in Frisson and McElree (2008) si adotta un approccio diverso in modo da poter verificare quest’ipotesi alternativa: invece che cercare di ridurre l’ambiguità di espressioni coerced attraverso varie manipolazioni contestuali, si indaga qui se l’effetto stesso di coercion sia modulato dal grado di ambiguità dell’espressione coerced. Ma se i lettori devono intraprendere queste operazioni, allora le frasi con metonimia logica dovrebbero richiedere più tempo per essere interpretate rispetto alle espressioni di controllo. I modelli dei tempi di lettura sono in linea con tale affermazione, ma non in maniera inequivocabile. I compiti di reading time, infatti, forniscono le misure della relativa difficoltà di elaborazione, ma non identificano in maniera univoca la fonte di questa difficoltà. Tempi di lettura più lunghi possono indicare che i lettori prendono più tempo per computare un’interpretazione plausibile, ma potrebbero anche indicare che essi sono meno propensi ad elaborare accuratamente tutta l’informazione necessaria per un’interpretazione. Esperimenti con eye-tracking hanno mostrato che le espressioni con coercion generano più regressioni sul complemento e tempi di lettura più lunghi sul sintagma verbale rispetto alle espressioni di controllo. Sono state avanzate diverse ipotesi per la spiegazione di tale effetto, molte delle quali già rifiutate. Per esempio, il costo di coercion non può essere spiegato con l’assunto che i verbi eventivi sono più semanticamente complessi dei verbi usati nelle condizioni di controllo (the man began the book vs. the man read the book). Traxler et al. (2002) hanno trovato, infatti, che il costo è unicamente collegato alla coppia di un verbo eventivo e un complemento che denota un’entità. Nessun effetto comparabile è stato osservato quando invece un verbo che richiede un evento è associato ad un complemento che soddisfa tale requisito (es. started the fight). Bisogna inoltre

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escludere una correlazione tra costo e differenze di probabilità di vicinanza (Traxler et al. (2002)), accettabilità (Traxler et al. (2005)) e plausibilità (McElree et al. (2006)). Pylkkännen e McElree (2006) hanno poi mostrato che nemmeno le frequenze di co-occorrenza di costruzioni particolari verbo-complemento sono in grado di spiegare il costo di coercion. Hanno infatti osservato che le metonimie logiche con una più alta frequenza di co-occorrenza rispetto alle costruzioni di controllo generavano ancora un robusto effetto di coercion (vedi anche Frisson, Rayner and Pickering, (2005) per prove contro gli effetti della probabilità di co-occorrenza). Maggiori dettagli sul periodo di tempo necessario a giungere ad un’interpretazione metonimica appropriata sono forniti da uno studio basato sul visual-world paradigm (Scheepers, Keller and Lapata (2008)), in cui una scena visiva è presentata insieme ad una frase parlata con lo scopo di stabilire come il movimento degli occhi sia influenzato dalla variazione linguistica. La ricerca precedente che ha fatto uso di questo paradigma ha mostrato l’occorrenza di movimenti oculari anticipatori che indicherebbero i tipi di interpretazione che i partecipanti considerano input ambigui. In particolare, Scheepers, Keller e Lapata (2008) hanno preso in esame la natura probabilistica dell’anticipazione del nome-strumento, focalizzandosi sulla distribuzione degli sguardi nei confronti di entità diverse nel tempo, misurato dal momento in cui appariva il verbo fino all’elaborazione del nome-strumento. Attraverso queste distribuzioni temporali è possibile determinare il grado in cui interpretazioni diverse competono l’una con l’altra nelle costruzioni metonimiche, e anche se l’interpretazione della metonimia logica è davvero associata a un rallentamento nell’elaborazione. Gli studiosi distinguono quindi tra serial coercion, immediate coercion e parallel coercion. Ognuna predice diversi risultati per le comparazioni tra condizioni come the artist started the flowery picture using the depicted paint brushes/magnifying glass e altre come the artist painted the flowery […]. Secondo la serial coercion si segue un’unica interpretazione. Viene quindi considerata soltanto l’interpretazione dominante, mentre le altre sono ignorate, a meno che non ci siano informazioni tali da supportare un’interpretazione alternativa. La costruzione di un’interpretazione dominante, tuttavia, richiede un’operazione di type-shifting che implica un consumo di tempo più lungo

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rispetto a quello standard. Tale account quindi predice una differenza tra le due condizioni sopra illustrate. L’immediate coercion, invece, parte dall’assunto secondo cui nel momento in cui si realizza la frase vengono generate molteplici interpretazioni che competono l’una con l’altra. Non è necessario elaborare nessuna struttura semantica aggiuntiva per i verbi metonimici, in quanto tutte le interpretazioni rilevanti sono immediatamente disponibili. Di conseguenza l’immediate coercion non predice nessuna differenza tra le due condizioni in esame. Ciò che predice è però una differenza nella forza dell’interpretazione, misurata attraverso proporzioni tra gli sguardi nei confronti di oggetti che rappresentano degli strumenti nell’immagine presentata. Infine, l’account della parallel coercion combina caratteristiche di entrambi. Assume infatti l’elaborazione di una struttura semantica aggiuntiva che dovrebbe rallentare l’interpretazione di frasi con metonimia logica rispetto a quelle di controllo. Tuttavia, a differenza della serial coericon, afferma che mediante tale processo di composizione è computata non solo l’interpretazione dominante, ma tutte le interpretazioni alternative (caratteristica in comune con l’immediate coercion). Le interpretazioni sono quindi seguite in parallelo appunto e si predice perciò un effetto combinato di forza dell’interpretazione ed elaborazione rallentata nelle costruzioni metonimiche. Ciò esclude automaticamente l’immediate coercion. Tuttavia, i risultati non danno prova dell’attivazione simultanea di interpretazioni multiple, e perciò sono difficili da conciliare anche con la parallel coercion. Quindi la migliore spiegazione resta la serial coercion (interpretazione dominante -> type-shifting), ma sono certamente necessari ulteriori esperimenti per stabilire che non ci siano effetti di competizione nell’interpretazione di frasi metonimiche (sarebbe interessante inserire nell’immagine anche strumenti non rilevanti, preferiti e non). Ma esiste sempre un’interpretazione dominante? Frisson and McElree (2008) hanno analizzato frasi del tipo the student finished the essay e the director started the script. Mentre nella prima espressione l’evento sottointeso corrisponde molto probabilmente a SCRIVERE; nella seconda è un po' più difficile stabilirlo, in quanto le attività che potrebbe svolgere un direttore nei confronti di una sceneggiatura sono molteplici e tutte ugualmente probabili. I risultati del compito di

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completamento delle frasi, uno dei modi per misurare come le espressioni coerced sono interpretate, evidenziano proprio una situazione di questo tipo: il 92% delle risposte associate all’espressione the student finished … the essay corrisponde all’evento SCRIVERE, che rappresenta perciò l’interpretazione dominante; nessuna percentuale significativa di risposte è invece associata alla frase the director started … the script (SCRIVERE 35%, LEGGERE 26%, DIRIGERE 17%, e così via). Se il costo di coercion è dovuto all’ambiguità delle espressioni con metonimia logica, o per la difficoltà del processo di selezione o perché c’è troppa competizione quando ci sono più opzioni e nessuna interpretazione dominante, ci aspetteremmo che la grandezza dell’effetto sia più alta nei casi rappresentati dalla frase the director started the script, rispetto a the student finished the essay. In realtà non è stata osservata nessuna differenza tra le due condizioni a confronto. Si può perciò concludere che la misura della difficoltà di elaborazione non dipende dal numero di interpretazioni diverse che i parlanti possono assegnare a un’espressione, né dall’esistenza o meno di un’interpretazione dominante. Gli studiosi sostengono quindi che il costo di elaborazione registrato da espressioni con metonimia logica rifletta l’impiego di operazioni per costruire una rappresentazione semantica che può essere raffigurata come [finished/started [VERBING the essay/script]]. Questi risultati si accordano con quelli di Traxler et al. (2005), ma non con quelli di Martin and Cheng (2006) che hanno trovato un effetto di forza dell’associazione più frequente in un compito di generazione del verbo. Non è interamente chiaro perché i due task mostrino una differenza sostanziale per questo tipo di informazione sulla frequenza, tuttavia è possibile osservare alcune caratteristiche che contraddistinguono i due esperimenti. Innanzitutto bisogna precisare che il compito utilizzato da Martin and Cheng (2006) richiede la produzione libera di un verbo associato ad un nome senza nessun particolare contesto, per cui è possibile che i soggetti facciano riferimento alla frequenza nel formulare le loro risposte e che sia proprio questa informazione sulla frequenza ad avere un impatto sui processi specifici di selezione e produzione della forma verbale. Una nuova luce sulla questione viene posta dallo studio di Katsika et al. (2012), i cui risultati suggeriscono che i costi aggiuntivi siano associati soltanto ai verbi aspettuali e non a

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quelli psicologici. Questo non solo fa vacillare l’idea che esista un’operazione di type-shifting (vedremo in seguito che sarà messa in discussione anche da altri), ma porta gli studiosi a spiegare l’innesco della metonimia logica da parte dei verbi psicologici attraverso un processo inferenziale che invoca un’attività concettualmente associata con il target dell’emozione. Il significato eventivo quindi potrebbe avere due fonti: una composizionale, l’altra inferenziale. Cosa succede allora nei verbi aspettuali? Quando questi sono combinati con complementi che denotano entità devono ricorrere sia a processi composizionali che inferenziali, ma solo i primi presentano dei costi di elaborazione aggiuntivi. I verbi psicologici, invece, fanno ricorso solo a processi inferenziali e di conseguenza non presentano sforzi cognitivi maggiori. Piñango and Deo (2016) analizzano con maggior dettaglio i verbi aspettuali e giungono alla formulazione di una nuova teoria che sia in grado di spiegare il costo ad essi associato e osservato in tutta la letteratura psicolinguistica. La loro analisi parte dal presupposto che tutte le frasi che contengono questi particolari verbi manifestano un’ambiguità semantica che deriva dalla dipendenza dell’interpretazione sulla natura della funzione applicata alla denotazione del complemento. Le condizioni di verità di tutte le frasi con verbi aspettuali, incluso l’insieme con configurazione di coercion, possono essere determinate soltanto dopo che la funzione rilevante è stata scelta. Inoltre queste frasi possono ricevere interpretazioni multiple che sono reciprocamente incompatibili. Questo significa che l’interpretazione di una frase con configurazione di coercion implica due processi che sono potenziale fonte del costo ad essa associato: a) l’attivazione esaustiva di tutte le funzioni che sono lessicalmente codificate in questi verbi, e b) la determinazione della dimensione specifica dalla struttura concettuale del complemento che determina come l’asse deve essere fissato.Gli studiosi elencano poi almeno tre vantaggi che scaturirebbero da questo approccio:

1. Si fa qui uso di fonti di costo indipendentemente motivate, cosa che non è possibile invece se si adotta la nozione di type-shifting, la quale non presenta delle basi in nessuno studio sulla comprensione online. Di contro, il carico lessicale e

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