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Kierkegaard e il cinema

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Filosofia

TESI DI LAUREA

“KIERKEGAARD E IL CINEMA”

RELATORE

Prof. Alberto Leopoldo SIANI

CORRELATORE

Prof. Alessandro FAMBRINI

CANDIDATO

Andrea Duilio FILIPPI

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Kierkegaard e il cinema

Introduzione

L'idea di mettere in relazione il pensiero di Søren Aabye Kierkegaard con l'arte cinematografica, nasce innanzitutto dalla volontà di unire due discipline che da sempre sono il fulcro dei miei interessi: la filosofia ed il cinema. L'obbiettivo che mi sono proposto di raggiungere è quello di dimostrare come alcuni registi, specialmente provenienti dalle regioni scandinave, ma non solo, siano stati influenzati nelle loro opere, dal pensiero filosofico di Kierkegaard, traducendo in immagini categorie specifiche del pensatore danese, e di dimostrare in questo modo come il cinema possa essere uno strumento per fare filosofia, uscendo dal classico mezzo del trattato e della forma scritta tradizionale.

Per fare ciò ho intenzione di presentare brevemente la vita e la filosofia di Kierkegaard nei capitoli iniziali, allo scopo di evidenziare quelle tematiche da lui trattate che hanno avuto delle ricadute importanti nell’opera degli artisti cinematografici che prenderò in considerazione. Oltre a motivi e temi, analizzerò l'ambiente in cui ha lavorato, per verificare i rispecchiamenti, gli adattamenti e le deformazioni di tale ambiente nello specifico filmico e nel contesto culturale dei vari registi e nelle loro opere. Il primo regista a cui farò riferimento sarà Carl Theodor Dreyer, artista danese di altissimo spessore, considerato tra i primi maestri della cinematografia mondiale, da lui attraversata fin dagli albori del cinema muto e di cui è stato protagonista fino agli anni Sessanta (Gertrud, la sua ultima opera, risale al 1964). Dopo aver descritto sinteticamente la sua vita e l’ambiente in cui si è formato, passerò in rassegna i film più rappresentativi della sua produzione, e in particolare quelli che presentano

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indubbie tracce kierkegaardiana: La passione di Giovanna d’Arco, Dies

Irae, Ordet e Gertrud.

Il secondo regista preso in esame sarà un altro autore scandinavo: lo svedese Ingmar Bergman, autore prolifico di numerose pellicole in cui la problematica religioso-esistenziale è sviluppata con profonda passione e coinvolgimento. In film come Il settimo sigillo, Il posto delle fragole e soprattutto nella “trilogia religiosa” composta da Come in uno specchio,

Luci d’inverno e Silenzio, affiorano motivi profondi di riflessione sull’uomo

e sulla sua relazione con una “divinità assente”, o comunque silente, dietro la quale ho ritenuto di poter individuare l’ombra del pensatore danese, che è pregnante e pervasiva in buona parte della produzione di Bergman.

Con un certo salto temporale, ma restando in ambito scandinavo, passerò ad analizzare l’opera di due autori danesi contemporanei. Dapprima Lars Von Trier, con due tra le prime pellicole della sua produzione: Le onde del

destino e Dancer in the dark, in cui il pensiero di Kierkegaard torna alla

ribalta, in forme nuove e investito di nuove istanze. E quindi Gabriel Axel, un autore poco prolifico e discontinuo, ma che con il suo Pranzo di Babette, tratto dall’omonimo racconto della connazionale Karen Blixen, ha saputo innervare l’esperienza kierkegaardiana su una storia umoristica e commovente, di grande impatto anche su un pubblico internazionale e popolare, tanto che l’opera fu insignita del premio Oscar per il miglior film straniero nel 1988.

Chiuderò infine la mia rassegna uscendo dai confini scandinavi, per andare a esaminare la presenza di Kierkegaard in un regista che si trova apparentemente a distanza siderale da lui: quel Woody Allen che invece, a ben vedere, dimostra di aver recepito il dettato kierkegaardiano con insolita coerenza e con un’originalità che non va a detrimento della profondità. Del resto, Allen dichiara apertamente di aver letto Kierkegaard e di averne ricavato degli spunti significativi, che nella sua cinematografia si traducono spesso in storie paradossali e boutade fulminanti: ecco che quindi il filosofo

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danese si rivela una presenza costante nella sua carriera più che cinquantennale, fino alle sue ultime prove d’autore come The Irrational

Man, che ha come protagonista un seduttore riluttante. Un professore di

filosofia.

1. Søren Kierkegaard

1.1 La vita

Per comprendere meglio le opere, gli scritti ed il pensiero di un autore non è possibile prescindere dal suo vissuto, dalla sua formazione e dalle esperienze che hanno segnato la sua esistenza. Anche in Kierkegaard è possibile rintracciare delle vicende personali che hanno svolto un ruolo fondamentale nello svilupparsi della sua filosofia. Le figure più rappresentative della sua vita, che hanno di conseguenza condizionato il suo lavoro sono: la figura del padre, la sua fidanzata Regine Olsen e l’anziano vescovo, primate della chiesa danese, Jacob Peter Mynster. Kierkegaard spenderà fiumi di inchiostro nel descrivere il proprio rapporto con queste figure fondamentali specialmente nelle pagine del suo diario, permettendo agli studiosi di addentrarsi in quel mondo privato altrimenti nascosto e di aggiungere un’ulteriore chiave di lettura alle opere pubblicate, sia pseudonime che no1.

1 Kierkegaard teorizzò ripetutamente l’uso degli svariati pseudonimi di cui si serviva, fino al punto della dissociazione: “ Formalmente e per amore di regolarità io riconosco qui […] ch’io sono, come si dice, l’autore di [segue l’elenco delle opere pseudonime, da Enten-Eller (1843) alla stessa Postilla (1846), n.d.A.]. La mia pseudonimia o polionimia non ha una ragione casuale nella mia

persona […] ma una ragione essenziale nella stessa produzione […]. Il mio rapporto all’opera è

ancora più esteriore di quello di un poeta che crea dei personaggi, eppure è lui stesso l’autore nella prefazione. Io sono infatti impersonalmente o personalmente in terza persona un suggeritore che ha prodotto poeticamente degli autori, le cui Prefazioni sono ancora una loro produzione, come lo sono anche i loro nomi. […] Il mio desiderio e la mia preghiera perciò è che, se a qualcuno venisse in mente di citare qualche passo di questi libri, abbia la cortesia di citare con il nome della pseudonimo rispettivo, non col mio […] perché io non sono l’autore che in senso improprio, mentre sono, in modo del tutto proprio e diretto, l’autore per esempio dei Discorsi edificanti e di

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Søren Aabye Kierkegaard nacque a Copenhagen il 5 maggio 1813, il più giovane dei sette figli di Michael Pedersen Kierkegaard (1756-1838), ricco commerciante di umili origini jutlandesi, che a undici anni si era trasferito nella capitale danese, dove aveva fatto fortuna. Si era ritirato dal commercio a quarant’anni di età per dedicarsi all’impegno religioso e spirituale nella comunità di cui faceva parte e di cui Mynster era il referente principale. Rimasto vedovo della prima moglie dopo due anni di un matrimonio senza figli, aveva sposato la governante, Ane Lund, dalla quale aveva poi avuto sette figli. Su di essi – e in particolare su Søren, ultimogenito, nato quando il padre era già avanti negli anni (“il vegliardo”, lo chiamava nel suo Diario2) – gravò una specie di sinistra profezia che

Michael emise su se stesso, quando cominciò a perseguire fantasie religiose: ovvero che, in seguito ai peccati commessi nella prima giovinezza, quando si trovava a vivere una vita di miserie e stenti, e in particolare per aver imprecato contro il nome di Dio, la sua stirpe sarebbe stata colpita da una maledizione e i suoi figli non avrebbero superato il trentaquattresimo anno di età. Cinque su sette, in effetti, morirono prima di raggiungere quella soglia anagrafica: ma i due “ sopravvissuti” – uno dei quali fu proprio Søren – smentirono la maledizione. Anche se di essa si ripercossero su Søren degli echi profondi, percettibili in numerose pagine del Diario, come questa:

Fu allora che accadde il gran terremoto. Il terribile sconquasso che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione infallibile di tutti i

ogni parola in essi contenuta”: Søren Kierkegaard, Una prima e ultima spiegazione, in Postilla

conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni,

Firenze 1972, pp. 608-610.

2 “ Mio padre era un vegliardo, io l’ho sempre conosciuto così”: Søren Kierkegaard, Diario, ed. ridotta, a cura di Cornelio Fabro, Rizzoli, Milano 200711, p. 97.

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fenomeni. Fu allora ch’io ebbi il sospetto che l’avanzata età di mio padre non fosse una benedizione divina ma piuttosto una maledizione e che gli eminenti doni di intelligenza della nostra famiglia ci fossero dati solo perché si estirpassero l’un l’altro. Allora io sentii il silenzio della morte crescermi intorno: mio padre mi apparve come un condannato a sopravvivere a tutti noi, come una croce funerea piantata sulla tomba di tutte le sue speranze. Qualche colpa doveva gravare sulla famiglia intera, un castigo di Dio vi pendeva sopra: essa doveva scomparire, rasa al suolo dalla divina onnipotenza, cancellata come un tentativo fallito.3

Michael faceva parte della setta dei pietisti, una rigida comunità religiosa, con una visione assai severa sul senso del peccato e sulla sofferenza. Educato in modo estremamente severo e coinvolto fin da piccolo in discussioni teologiche, il giovane Søren sente fin dall’infanzia di essere diverso dagli altri, incline alla malinconia e incapace di vivere una vita simile al resto dei suoi coetanei. Søren nel suo Diario, opera cardine alla quale sono affidati i più riposti pensieri e le riflessioni più segrete, riferisce spesso anche di quello che lui chiama il suo “pungolo nella carne”, che il filosofo non spiega mai esplicitamente, ma che lo perseguiterà per l’intera esistenza. Così Kierkegaard lo definisce nelle pagine del suo Diario in un frammento intitolato Su me stesso:

Una volta la mia situazione era questa. Ciò che mi gravava sulle spalle era quel tormento ch’io posso

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chiamare il mio pungolo nella carne; tristezza, affanno dell’anima quanto a mio padre: affanno nel cuore alla ragazza amata e a tutto ciò che vi si riferiva. Così pensavo che in confronto degli uomini in generale, potevo dire di aver addosso un fardello piuttosto pesante.4

E’ proprio anche la presenza di questo tormento, di questo “fardello”, a spingerlo alla scrittura, al conforto implacabile con se stesso, e a convincerlo di essere destinato a compiere qualcosa di eccezionale sul piano letterario.

A diciassette anni Kierkegaard si iscrive alla facoltà di Teologia dell’Università di Copenaghen, spinto soprattutto dal desiderio del padre che voleva diventasse pastore. Gli anni universitari ci presentano un Kierkegaard poco impegnato negli studi e molto più attivo nella vita mondana (in questo senso il suo Diario del seduttore non è altro che una proiezione di tendenze interiori), anche se dalle pagine del diario si evince che il suo interesse per le feste e la società era solamente una facciata che celava una forte crisi interiore, il turbamento di un’anima in cui albergavano un forte senso di insoddisfazione e di vuoto. Soprattutto domina in Kierkegaard un’insopprimibile impressione di estraneità rispetto al consenso civile, di profonda, invincibile alienità nei confronti degli altri, ovvero esattamente l’opposto di ciò che la vita mondana coltiva e presuppone:

La mia vita è immensamente tesa: mi sento così estraneo, così troppo diverso da ciò che occupa gli

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uomini in generale! Nei modi più vari, giorno per giorno, a ogni contatto, io m’accorgo della mia eterogeneità. Sempre circondato da curiosità, sempre visto come un estraneo, ora oggetto d’invidia, ora di sghignazzamenti, ora d’ammirazione, ora di bestiale stupore: si fa di tutto per impedirmi, se fosse possibile, di essere me stesso.5

Nel 1838 muore il padre Michael e Søren per onorare la sua memoria si pone come obbiettivo di concludere gli studi e di presentarsi all’esame finale di teologia, che supererà nel 1840.

Ancora più decisivo nella vita di Kierkegaard sarà il suo rapporto con Regine Olsen, conosciuta durante gli anni dell’università. Il fidanzamento avviene nel 1840, lo stesso anno del conseguimento del titolo di laurea, e dopo un breve periodo in cui la relazione sembra procedere felicemente, Søren si pente del passo compiuto e incomincia a nutrire dei dubbi sulla relazione con Regine, di cui parla nel suo Diario:

Il mio unico desiderio era di rimanere con lei; ma appena m’accorsi che ciò avrebbe preso una cattiva piega – momento che, ahimé, venne anche troppo presto – presi la risoluzione di farle credere che non l’amavo; ed eccomi ora odiato da tutti per la mia infedeltà, questa causa apparente della sua disgrazia, mentre io le resto fedele come sempre.6

5 Op. cit., p. 75. 6 Op. cit., p. 108.

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Nonostante lui l’amasse profondamente, temeva che la sua diversità, il suo carattere malinconico e la sua depressione avrebbero reso infelice la sua amata, così decise di fare un passo indietro e di rompere il fidanzamento. Per non far ricadere la colpa su di lei Kierkegaard finse la parte del giovane scapolo donnaiolo, ma nonostante l’impressione negativa suscitata dalla sua condotta, Regine, profondamente innamorata e forse consapevole di quanto di artificiale si celasse nell’atteggiamento di Søren, sarebbe stata disposta a continuare la relazione. Nel 1841 allora il filosofo decise di compiere un passo decisivo e diretto e di rompere la loro unione, inviandole una lettera insieme all’anello di fidanzamento.

In seguito, nel 1847 Regina sposerà Frederik Schlegel, ma Søren continuerà ad amarla per tutta la vita e la sua figura aleggerà sempre nei suoi pensieri e influenzerà la sua filosofia e le sue opere. Infinite nel diario sono le annotazioni che la riguardano, e la sua presenza-ombra guida l’ispirazione di Kierkegaard nella composizione di quella serie di opere che va sotto il nome di “Ciclo di Regine” (Aut-aut, Timore e tremore, La ripresa, Stadi sul

cammino della vita).

Dopo la rottura con Regine iniziò per Kierkegaard una frenetica produzione di opere letterarie, che verranno pubblicate una di seguito all’altra, e per le quali il filosofo danese utilizzerà il proprio nome o userà pseudonimi più o meno scoperti.

Altri due eventi importanti nella vita di Kierkegaard furono la polemica contro la stampa, specialmente diretta verso la rivista satirica “Il Corsaro” (“Corsaren”) e la critica della Chiesa Luterana danese di Stato. La diatriba con “Il Corsaro” nacque in seguito a una polemica avviata da una recensione negativa a Aut-aut e In vino veritas da parte di Peder Ludvig Møller, editore della rivista, sulle pagine di un’altra pubblicazione, “Gæa”, alla quale Kierkegaard rispose con il rifiuto di collaborare appunto al

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“Corsaro”, rivista «paragonabile a un rotocalco scandalistico-culturale, […] molto seguito dal pubblico proprio per la sua spregiudicatezza»7 e diretta

dall’acuto, lungimirante intellettuale Meir Goldschmidt. Fu Møller, e non Goldschmidt, a orchestrare la campagna di stampa contro Kierkegaard, che reagì con un atteggiamento a metà tra il vittimismo e la sfida, sfidando anche il giornale a includerlo tra le vittime da ridicolizzare. La rivista iniziò così un attacco tramite vignette in cui venivano evidenziati i difetti fisici di Kierkegaard, che si sentì umiliato tanto da trovare difficoltà persino a uscire di casa e presentarsi in pubblico, sentendosi deriso dai passanti. La vicenda “Corsaro” influì molto oltre che nella vita personale del filosofo anche nei suoi scritti: argomenti come il dolore, la solitudine e la mancanza di comprensione da parte dei suoi contemporanei iniziano a moltiplicarsi da allora sia nelle pagine del Diario che nelle sue opere.

L’altro evento importante nella vita di Søren, specialmente negli ultimi anni, è la critica contro la Chiesa di Stato danese. Per Kierkegaard era inaccettabile venire considerati cristiani solo perché si era cittadini danesi, l’essere cristiano solo per diritto di nascita senza un vero coinvolgimento interiore era secondo lui un semplice attributo esteriore e non aveva niente a che fare con la vera fede. Kierkegaard riteneva che fosse doveroso lottare per ricostruire l’organizzazione del “Cristianesimo ufficiale”, quella che lui chiamava la “Cristianità”, per ritornare agli insegnamenti originari del Vangelo. La sua critica si indirizzò soprattutto nei confronti della figura del vescovo Mynster (1775-1854), un personaggio complesso di pastore e teologo che, dopo una formazione nel segno dell’entusiasmo per l’illuminismo e la filosofia kantiana, era approdato su posizioni antirazionalistiche e severamente conservatrici. Nel suo ruolo di vescovo per la regione del Sjælland (“Selandia”), di cui Copenaghen fa parte, a

7 Remo Cantoni, Introduzione a Søren Kierkegaard, Diario di un seduttore, trad. di Attilio Veraldi, Rizzoli, Milano 1980 [3.], p. 10.

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partire dal 1834, Mynster esercitò un notevole influsso sulla vita religiosa danese e in particolare su quella di Kierkegaard, che in lui tendeva a vedere il lato più mondano, in cui l’ambizione di potere e la volontà carrieristica all’interno delle strutture ecclesiastiche tendevano a offuscare la dedizione religiosa, spingendolo a condurre una vita agiata, materialistica e poco spirituale, piuttosto che a perseguire gli autentici valori cristiani, mostrando in una persona incarnata quella stessa ipocrisia che il filosofo attribuiva anche alla Chiesa di Stato.

La frustrazione per la polemica, insieme all’amarezza per l’assenza di Regine Olsen, ormai persa per sempre, portarono Kierkegaard, il cui sistema nervoso era ormai già provato da anni di tormento interiore, a uno stato di malattia cronico del corpo e dello spirito, da cui non riuscì più a riprendersi e che lo condusse ad una morte prematura, a soli quarantadue anni, l’11 Novembre 1855.

1.2. Il pensiero filosofico di Kierkegaard ed il cinema

Søren Aabye Kierkegaard è stato uno scrittore molto prolifico, che ha portato a termine, nella sua pur non lunghissima vita, un numero considerevole di opere, trattati e saggi di vario genere. Per avere un quadro sufficientemente completo del suo pensiero è opportuno utilizzare come strumento ermeneutico di lettura dell’intera sua produzione un breve scritto in cui lo stesso Kierkegaard riassume il lavoro di tutta una vita, specificando la strategia da lui adottata nella stesura dei suoi testi.

Lo scritto di cui parlo è Sulla mia attività di scrittore, che vide le stampe nel 1851, ed è proprio in queste poche pagine che il filosofo spiega in che

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vero cristianesimo, e di essere stato sempre uno scrittore religioso, anche negli scritti pseudonimi:

La mia produzione, considerata nel suo complesso, è religiosa dall’inizio alla fine, cosa che chiunque sappia vedere, se vuole vedere, deve anche vedere.8

La sua tecnica è stata quella di utilizzare una “comunicazione indiretta” negli scritti pseudonimi, per liberare il falso cristiano dalla convinzione di vivere il vero cristianesimo, e una “comunicazione diretta” negli scritti in cui l’autore appare con il proprio nome e parla del cristianesimo senza finzioni e senza diaframmi.

Kierkegaard infatti ha sempre ammesso di non essere un cristiano perfetto, e di parlare senza “autorità”, essendo lui una sorta di poeta, ma allo stesso tempo di sapere come deve essere il vero cristiano:

Non ho mai condotto la mia battaglia dicendo: io sono il vero cristiano, gli altri non sono cristiani, o addirittura ipocriti, o simili. No, io ho combattuto in questi termini: io so che cos'è il cristianesimo; io stesso riconosco la mia imperfezione come cristiano - ma io so che cos'è il cristianesimo9

Egli si oppose con decisione al pensiero hegeliano, che dominava la cultura dell’epoca, proponendo un modo nuovo di fare filosofia, con la quale si dava più risalto all’esistenza, all’interiorità della fede vista sotto l’ottica del singolo e non della massa, e costruendo una critica al sistema e al pensiero speculativo. Perno su cui ruota tutta la filosofia kierkegaardiana è la categoria del Singolo, tanto che il filosofo danese annota sulle pagine del suo diario:

8 Søren Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore, a cura di Andrea Scaramuccia, Edizioni ETS, Pisa 2006, p. 37.

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Eppure se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che « Quel Singolo » - anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito.10

Partendo proprio dal concetto di “Singolo”, Kierkegaard attacca duramente il Sistema hegeliano, in cui l'individuo è privato della sua libertà, e le sue libere scelte personali rientrano nel piano necessario della vita dell'Assoluto, inteso come il mondo o la storia universale. Il Singolo invece per Kierkegaard non fa parte del mondo della necessità, ma di quello della libertà. Infatti, per il filosofo danese, l'uomo è un essere dialettico in cui convivono diversi elementi, ed il suo compito è porre la sintesi tra essi per raggiungere l'unità. Quindi "singolo" bisogna diventare, e lo si diventa solamente tramite una scelta, cioè scegliendo liberamente se stessi ma fondando se stessi sull'Assoluto, in questo caso inteso come Dio:

Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente, nella potenza che l'ha posto.11

Ne La malattia mortale, Kierkegaard tratta la disperazione che nasce quando l'uomo non attua questa sintesi, descrivendo in maniera particolareggiata tutte le sue forme. Dopo aver stabilito che ogni disperazione è causata da non voler essere se stessi, analizza i vari casi in cui prevale uno degli elementi di cui è formato il singolo, come finito e infinito, o possibilità e necessità, per poi passare al punto di vista della

10 Søren Kierkegaard, Diario, cit., p. 243.

11 S. Kierkegaard, La malattia mortale, trad. di Meta Corssen, intr. di Remo Cantoni, Newton, Roma 1995, p. 21.

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determinazione della coscienza. Infatti più si è consapevoli più la disperazione è forte, passando dall'ignoranza alla vera e propria ostinazione. L'unica salvezza per guarire da questo stato è la fede, ovvero l’atteggiamento di chi cerca se stesso riconoscendo la propria dipendenza da Dio, senza illudersi sulla propria autonomia da Lui e sulla propria autosufficienza. Attraverso la fede viene capovolta l’instabilità che provoca ogni disperazione:

Che la volontà di Dio è il possibile fa sì che io possa pregare; se essa fosse soltanto il necessario, l’uomo sarebbe essenzialmente muto come l’animale.12

Oltre alla disperazione, Kierkegaard indaga un'altra categoria, quella dell'angoscia, strettamente connessa a quella del peccato. Il testo che tratta esplicitamente questi temi è Il concetto dell'angoscia13, pubblicato nel

1844, in cui il filosofo, partendo dall'analisi del racconto biblico di Adamo ed Eva e del peccato originale giunge a dare una descrizione dell'angoscia. In realtà l'angoscia fa parte della natura umana, ed è già presente nello stato di innocenza in cui si trova Adamo. Tramite il divieto divino, Adamo è angosciato perché passa dall'angoscia del nulla, alla possibilità di potere: ovvero, nel suo caso specifico, di poter disobbedire alla volontà di Dio. Nello stesso tempo però è anche attratto dalla possibilità di poterlo fare. L' unica soluzione anche in questo caso è la fede, che non estirpa l'angoscia dall' uomo, che, educandosi in essa, cioè comprendendo che la possibilità è sempre più spaventosa delle realtà particolari, utilizza l'angoscia mediante la fede per distruggere le finitezze e le loro illusioni.

Tramite il suo modo di scrivere, con l’utilizzo degli pseudonimi, Kierkegaard incarna degli ideali astratti in figure che prendono vita e

12 Op. cit., p. 37.

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compiono delle scelte che descrivono diverse forme di esistenza. Don Giovanni rappresenta la vita estetica ed il carattere demoniaco di chi è sempre alla sfrenata ricerca di nuove prede, ma è destinato a cadere nella disperazione; il marito al contrario è il paradigma della scelta etica, cioè l’uomo che si prende la responsabilità delle proprie decisioni e si impegna ad essere fedele alle proprie scelte, vive una vita che rispetta le norme condivise dalla società ed ha un posto preciso in essa. Ciò nonostante anche l’uomo etico è destinato all’angoscia e al senso di colpa insito nella propria finitezza e nella consapevolezza di essere un peccatore davanti a Dio. Kierkegaard infine analizza la sfera religiosa, in cui l’uomo si rende conto della propria limitatezza, ma crede che per Dio tutto sia possibile, anche perdonare i nostri peccati e redimerci.

Le opere kierkegaardiane sono di carattere saggistico, eppure si presentano ricche di personaggi, con trame ben articolate che sembrano delle sceneggiature pronte ad essere trasformate in veri e propri film, come la vicenda di Abramo in Timore e tremore o il Diario di un seduttore.

Ma l’aspetto che forse avvicina di più un filosofo come Kierkegaard all’arte cinematografica è l’interesse verso il pathos ed il coinvolgimento emozionale che deve esserci in qualsiasi ricerca di verità. Quello che differenzia Kierkegaard ed il suo modo di fare filosofia da quelli che lo hanno preceduto, e soprattutto Hegel, è di sottolineare il lato esperienziale dell’indagine filosofica che non può rimanere un freddo studio oggettivo incapace di toccare anche le corde della nostra emotività. Per questo ritengo giusta l’analisi che fa Julio Cabrera nel suo saggio Da Aristotele a

Spielberg14, in cui cita Kierkegaard tra i nuovi filosofi patici, insieme a

Schopenhauer, Nietzsche, Freud e Heidegger. Questi pensatori hanno la particolarità, sempre secondo Cabrera, di non usare solamente la semplice

14 Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg, trad. di Marco Di Sario, Bruno Mondadori, Milano 2000.

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ragione come strumento di conoscenza, ma di utilizzare quella che lui chiama “ragion logopatica”15, ovvero una forma di razionalità in cui svolge

un ruolo fondamentale anche l’emozione. Kierkegaard analizzando categorie come la disperazione, l’angoscia, il singolo, la scelta e la possibilità, ha indagato proprio quegli aspetti dell’essere umano in cui prevalgono le sensazioni e non la pura ratio. Infatti, interessante, nel libro di Cabrera, è la teoria che il cinema possa essere una forma di indagine sul mondo e uno studio filosofico, con pari dignità di un’opera letteraria. Anzi, il cinema, riuscendo maggiormente a calare un individuo dentro una vicenda e stimolando più sensi, rispetto alla classica forma scritta, potrebbe addirittura essere una forma superiore di ricerca.

2. Carl Theodor Dreyer

2.1. La vita di Dreyer

Carl Theodor Dreyer nasce a Copenaghen il 3 febbraio del 1889, concepito da una relazione illegittima tra la madre, una svedese di nome Josephine Nilsson, e il padrone della fattoria in cui lei lavorava, Jens Christian Torp. Mai riconosciuto dal padre, il piccolo Carl trascorre due anni in orfanotrofio quando viene adottato nel 1891 dalla famiglia Dreyer, rigidi luterani e proprietari di una modesta tipografia a Copenaghen. Nella sua nuova famiglia non trova mai né amore né affetto, sentendosi sempre come un estraneo in debito per l’ospitalità offertagli. A diciassette anni, dopo avere terminato gli studi medi e aver frequentato corsi d’arte e di storia dell’arte,

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lascia per sempre i Dreyer intraprendendo i più svariati lavori, tra cui anche quello di giornalista che gli permette di avvicinarsi al mondo del cinema, leggendo soggetti e scrivendo sceneggiature per una compagnia cinematografica. Il debutto dietro la macchina da presa avviene nel 1918 con il suo primo film, Præsidenten (“Il presidente”, 1918-20), commissionatogli dalla Nordisk Film, ma il suo primo successo di pubblico arriverà grazie al film Du skal ære din hustrud (“Il padrone di casa” o “L’angelo del focolare”) del 1925. Il successo in patria attirò l’attenzione sul giovane regista anche all’estero, e in Francia la Société Générale des Films gli affidò la realizzazione di un film su Giovanna d’Arco che uscì nelle sale nel 1928. L’opera si intitolò La passion de Jeanne d’Arc (“La passione di Giovanna d’Arco”) e fu tratta dal romanzo Vie de Jeane d’Arc di Joseph Delteil (1925) e dagli atti del processo, su una sceneggiatura di Delteil e dello stesso Dreyer. Il suo primo film sonoro sarà Vampyr (“Vampiro”) del 1932, basato sulla novella Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu. Entrambi i film riscuoteranno un limitato successo di pubblico nonostante le buone recensioni della critica.

Nel 1943, dopo un decennio in cui riprende il lavoro di giornalista, Dreyer in piena occupazione nazista ritorna dietro la macchina da presa girando

Vredens dag (“Dies Irae”), ambientato nella Danimarca del 1623 fra

processi di inquisizione e condanne al rogo per stregoneria. Il film affronta la tematica della religione intesa come intolleranza e superstizione, ma anche del rapporto tra fede e ragione.

Successivamente il regista gira alcuni documentari, tra cui De nåede färgen (“Raggiunsero il traghetto”, 1948), un cortometraggio commissionato a Dreyer dal governo danese come pubblicità progresso sugli incidenti stradali, per poi realizzare nel 1954 quello che è considerato la sua opera più rappresentativa, Ordet (“La parola”) tratto dal dramma omonimo di Kaj Munk, che gli valse il Leone d’oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1955. Il film tratta ancora del rapporto tra

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fede e ragione, fra la “fede dei semplici” e il bigottismo della religione istituzionale.

A distanza di ulteriori dieci anni, nei quali tenta invano di realizzare un film sulla vita di Gesù, nel 1964 dirige il suo ultimo lavoro, Gertrud, improntato sulla figura della protagonista, in cerca dell’amore incondizionato e convinta delle proprie scelte anche se queste porteranno ad un epilogo fallimentare.

Dreyer muore a Copenhagen il 20 Marzo 1968.

2.2. Dreyer e Kierkegaard

2.2.1 La passione di Giovanna d’Arco

Considerato dalla critica come uno degli ultimi capolavori del cinema muto,

La passion de Jeanne d’Arc (“La passione di Giovanna d’Arco”), uscì nelle

sale nel 1928. Il film racconta, in una sola giornata (30 maggio 1431), il processo della giovane Giovanna d’Arco, accusata di eresia e messa al rogo. Dreyer in questa pellicola utilizza soprattutto dei primi e primissimi piani, che permettono allo spettatore di sentire tutta la sofferenza provata da Giovanna e la violenza dei suoi accusatori. Tramite i volti degli attori, non truccati per decisione dello stesso regista, il pubblico riesce ad immedesimarsi nella protagonista, che da sola e sorretta soltanto dall’aiuto della sua fede, riesce a controbattere alle domande incalzanti dei giudici, decisi fin dall’inizio di condannarla tramite ogni mezzo. Lo stesso Dreyer giustifica questa scelta stilistica in varie interviste o scritti riguardanti il film:

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Con sguardi dolorosi e con ansiosa attenzione il pubblico seguì attraverso i primi piani la lotta ineguale fra Giovanna e i giudici; e questo era precisamente lo scopo che i primi piani avevano: di portare il pubblico al punto di provare nella sua carne le sofferenze patite da Giovanna.16

Al di sopra degli altri attori spicca la bravissima Renée Falconetti, che ricopre il ruolo della protagonista, accettando per contratto di subire il taglio dei capelli e un vero salasso: quest’ultimo però alla fine le fu evitato grazie all’impiego di una controfigura.

L’attrice si immedesimò talmente nella parte che finite le riprese fu colta da una crisi nervosa che la segnò per il resto dei suoi giorni. Dreyer per la realizzazione della pellicola si basò direttamente sugli atti del processo, in cui è possibile ritrovare e apprezzare le diaboliche domande degli accusatori e le brillanti e spiazzanti risposte di Giovanna. Il film si sviluppa su tre assi principali: il processo, la stanza delle torture e la messa al rogo finale. Nelle prima fase Giovanna è davanti ai giudici che fondano le loro accuse soprattutto sul fatto che lei si dichiara figlia di Dio e pertanto si pone sullo stesso piano di Gesù Cristo. Per i giudici quella pretesa è evidentemente da considerare come una bestemmia. Le domande che le rivolgono sono serrate e cercano di far cadere in fallo la giovane, che invece, con gli occhi spalancati, come in preda a visioni interiori, risponde sempre senza mai compromettere la sua posizione:

GIUDICE: Dunque pensi che Dio odi gli inglesi?

16 C. Th. Dreyer, L’uso dei primi piani, in Cinque Film, tr. it. di M. Harder Giacobbe e M. Rinaldi, Einaudi, Torino 1967, p. 429.

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Giovanna non capisce subito la domanda e il giudice istruttore deve ripeterla. (Rapido sguardo di Beaupère già trionfante). Poi Giovanna dà una delle sue risposte ispirate, prudenti:

GIOVANNA: Dell’amore o dell’odio che Dio nutre per gli inglesi io non ne so nulla…17

Il suo comportamento fa irritare ancora di più gli alti prelati, guidati dall’arcivescovo Pierre Cauchon de Beauvais, e tra cui spiccano Jean d’Estivet, pubblico accusatore, l’astuto prete Nicolas Loyseleur e come rappresentante della più alta autorità civile il conte di Warwick. Questi uomini sono i campioni della cultura del secolo, i più alti esponenti dell’università, i più saggi e dotti uomini dell’epoca, riuniti per giudicare una povera contadinella analfabeta. Giovanna, nonostante la disparità di forze, riesce comunque a tenere testa a tutti i tranelli insiti in ogni domanda che le viene posta. I giudici sono lo specchio di quella Cristianità che Kierkegaard accusa ripetutamente come nemica del vero cristianesimo, ormai così lontana dall’autentico messaggio di Cristo da non riconoscere la pura fede neanche di fronte all’evidenza più schiacciante.

Durante un drammatico passaggio del dialogo vediamo chiaramente come la ragione umana sia considerata dai rappresentanti della Chiesa la sola facoltà che abbia diritto di giudizio, e a questo proposito è illuminante la risposta di Giovanna all’incalzare delle domande dei suoi carnefici:

GIUDICE: Guarda tutti questi uomini benigni e compassionevoli…

E con un gesto indica Cauchon circondato dai suoi aiutanti. Non un viso che testimoni simpatia per l’accusata. Il giudice continua:

GIUDICE: … Non credi che questi dottori sapienti siano più saggi di te…

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Giovanna mezzo assente nello spirito fa un cenno con la testa. Il giudice si rallegra di questa buona idea e sta per cominciare a rimproverarla quando Giovanna l’interrompe:

GIOVANNA: … ma Dio è ancora più saggio!18

Giovanna rappresenta la vera credente, pronta a sopportare il martirio e a dare la vita pur di seguire e non rinnegare la volontà di Dio; la sua missione di liberare la Francia dagli invasori inglesi le è stata annunciata da san Michele in persona, che ha nominato la ragazza come inviata di Dio per salvare il popolo francese. In lei ritroviamo tutte le caratteristiche del “singolo” kierkegaardiano, a partire dalla sua diversità rispetto alla “folla” e al senso comune, qui rappresentati dai giudici. Un’altra particolarità del singolo è la scelta che si compie in piena libertà di accettare la chiamata di Dio, di credere in Lui e compiere il salto nella fede. Questo salto inoltre cancella ogni regola morale, superando l’etica normalmente accettata in una società, come è possibile riscontrare nell’esempio di Abramo, che per seguire il comandamento di Dio è disposto a sacrificare suo figlio Isacco.19

Anche Giovanna accetta la sua missione senza ripensamenti o dubbi, ed è pronta ad andare contro le istituzioni ecclesiastiche sapendo di avere accanto a sé Dio:

GIUDICE: […] la Chiesa ti abbandonerà e resterai sola…

[…]

GIOVANNA: …sola… […]

GIOVANNA: Sola … con Dio!20

18 Op. cit., p. 44.

19 In Timore e tremore, edizione a cura di Cornelio Fabro, Piemme, Casale Monferrato 1995. Kierkegaard usa l’esempio di Abramo e Isacco per indicare la superiorità della fede rispetto all’etica e alla ragione umana.

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Non riuscendo ad avere la meglio sulla giovane contadinella, gli inquisitori cercano di farla abiurare, inducendola a credere che presto l’esercito francese marcerà su Rouen e invitandola subdolamente ad avere fiducia nel prete (l’inganno è perpetrato da Loyseleur che consegna a Giovanna una lettera fasulla di re Carlo VII che dovrebbe indurla all’abiura). Giovanna, rincuorata, chiede a Loyseleur di confessarla, ma i peccati della ragazza non sono abbastanza gravi per essere usati contro di lei nel processo. L’interrogatorio continua, ma, non riuscendo ad ottenere la confessione, i giudici portano l’accusata nella stanza delle torture.

Specialmente in queste sequenze l’uso ritmato dei primi piani, che passano dal viso di Giovanna a quello dei suoi accusatori agli strumenti di tortura, trasmettono allo spettatore un forte senso di angoscia e paura. Stremata, la giovane sviene ed è trasportata nella sua cella, mentre i giudici riflettono su quale strategia portare avanti per stroncare la tenace resistenza di Giovanna. A causa delle cattive condizioni di salute di Giovanna e per paura che la giovane muoia di morte naturale, e si assicuri così la gloria del martirio, gli inquisitori decidono di non portare avanti la tortura. La giovane ha la febbre e viene sottoposta ad un salasso che le permette di continuare l’interrogatorio. I giudici si fingono comprensivi verso di lei, offrendole se la desidera l’Estrema Unzione, ma a patto che firmi l’abiura. Non accontentando i suoi torturatori, Giovanna viene condannata ad essere arsa viva e portata nel cimitero dove avverrà l’esecuzione.

I cimiteri all’epoca erano spesso luoghi dove le autorità ecclesiastiche tenevano cerimonie solenni o atti di abiura, e facevano assistere la folla ai procedimenti contro gli eretici, per indurla alla sottomissione. Giovanna viene condotta di fronte al tribunale dove le sottopongono l’atto di abiura come ultima salvezza. La donna è ormai molto debole sia nel fisico che nella mente. La folla la incita a firmare, i prelati la minacciano di una morte che avverrà al di fuori della grazia di Dio, padre Loyseleur le ricorda che, se

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vivrà, potrà ancora combattere per la Francia; Giovanna sente di essere in procinto di una morte orribile e dolorosa, non trova più dentro di sé la forza per opporsi alla volontà degli altri e stremata firma l’abiura. A questo punto la giovane ha salva la vita e viene riportata in cella dove dovrà passare il resto dei suoi giorni per i crimini commessi. Giunta nuovamente nella prigione, Giovanna si pente di quello che ha fatto, e si rende conto di essersi allontanata da Dio solo per avere in salvo la propria vita. La donna chiama il suo carceriere dicendogli che vuole ritrattare e che la sua confessione era stata dettata solo dalla paura per il rogo. I giudici, in seguito al ripensamento di Giovanna, rinnovano la sua condanna a morte e la lasciano nella sua cella con il giovane frate Ladvenu, perché la prepari per l’esecuzione. Una volta soli, il prelato le chiede, vista l’imminente morte, come fa a considerarsi ancora l’inviata di Dio, e lei, sicura nella sua incrollabile fede, risponde con fermezza ad ogni sua domanda:

LADVENU: Bambina, come puoi continuare a credere che sei l’inviata di Dio?

Giovanna ha un sorriso di superiorità e risponde: GIOVANNA: Le sue vie non sono le nostre vie! Dopo un momento aggiunge:

GIOVANNA: Sí, sono una bambina!

Ladvenu, toccato da una fede cosí tenace, dice poco dopo:

LADVENU: E la grande vittoria?

Giovanna lo guarda come se si domandasse come può fare una domanda cosí sciocca, e risponde:

GIOVANNA: … il mio martirio! …

Ladvenu annuisce; la guarda come se fosse una santa discesa sulla terra. Bisogna tuttavia che faccia un’altra domanda:

LADVENU: … E la tua liberazione?

Giovanna risponde con un espressione d’estasi negli occhi:

GIOVANNA: … la morte!21

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Queste parole rappresentano la consapevolezza del vero cristiano che sa che la volontà di Dio non è comprensibile dalla ragione umana, e che le prove e le sofferenze a cui è sottoposto fanno parte di un disegno che l’uomo non capisce fino in fondo. Nonostante questo il credente accetta quello che Dio vuole da lui, vivendo sulla propria pelle il peso del martirio.

Anche in questa pellicola le assonanze con il pensiero di Kierkegaard sono molteplici, a partire dal tema del sacrificio.

Giovanna rappresenta la vera credente, colei che ha già compiuto il passaggio dallo stadio etico a quello religioso, e in questo senso è paragonabile ad Abramo di Timore e tremore. Il suo processo ricorda molto da vicino la passione di Cristo, con la quale presenta molti elementi di somiglianza, come i carcerieri che la tormentano e si prendono gioco di lei, così come i centurioni tormentarono e derisero Gesù. Le donne che piangono sotto la pira e danno da bere alla condannata, inoltre, fanno pensare a Maria, Maria di Clèofa e Maria Maddalena sotto la croce del redentore.

La differenza con Abramo, rispetto alla nostra protagonista, è riscontrabile quando Giovanna firma l’atto di abiura per salvare la propria vita. Al contrario di Abramo, che non dubita mai di Dio e compie il suo viaggio fino al monte Moria disposto a sacrificare suo figlio Isacco, Giovanna, evidenziando una debolezza insita nell’essere umano, per un attimo pensa di scampare al suo destino, firmando l’abiura ed evitando così la morte sul rogo. È solo un attimo, poi Giovanna riprende il suo cammino di fede: ma questa paura della morte che la porta a vacillare, è anche un altro aspetto che accomuna la giovane eroina a Cristo, quando anche Lui in croce, per un attimo si chiede perché suo padre lo abbia abbandonato:

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« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »22.

2.2.2 Dies Irae

Dies Irae è un film del 1943 che prende spunto dal dramma teatrale Anne Pedersdotter (1906) del norvegese Hans Wiers-Jenssen in cui vengono

trattati i temi della fede cieca e della persecuzione religiosa nel periodo dell’Inquisizione nella Danimarca del XVII secolo. Non è un caso che Dreyer abbia scelto tale soggetto in questo periodo storico, in cui la Germania invade la Danimarca. Infatti, la persecuzione antisemita del nazismo è rappresentata sulla pellicola dalle figure religiose che giudicano coloro che escono dai binari stabiliti dal senso comune e dalla società; queste persone, soprattutto donne, non vengono comprese dalle istituzioni e vengono perciò condannate al rogo come streghe. E’ la sorte che capita a Marte Herlofs nelle prime scene del film, accusata di stregoneria solo perché conoscitrice della cultura erboristica, retaggio di tradizioni antiche e non legate ai valori della Cristianità. Marte è costretta a fuggire dalla propria casa inseguita da una folla inferocita che la vuole catturare per giustiziarla sul rogo come strega. La donna cerca rifugio nell’abitazione del pastore Absalon invocando l’aiuto di Anne, la giovane moglie di lui, in nome della memoria di sua madre, anch’essa accusata di stregoneria, ma graziata tramite l’influente aiuto del pastore. Anne la fa nascondere nel granaio ma la donna viene ugualmente catturata e imprigionata.

Durante la prigionia Marte prega Absalon di graziarla, ma egli è sordo alle sue richieste e firma l’atto di accusa condannandola a morire bruciata. La figura di Marte è paragonabile al concetto di “Singolo” che Kierkegaard tratta in alcuni scritti pseudonimi come Timore e tremore o nel suo Diario:

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«Tutto s’aggira invece attorno al Singolo. Questa categoria è il punto col quale e attraverso il quale Dio può venire in contatto con l’umanità. Togli questo punto, e Dio è detronizzato.»23.

Un “Singolo”, quello descritto da Kierkegaard, che non vuole assolutamente annullarsi nella massa, ma cerca in tutti i modi di realizzare se stesso e di scoprire il proprio io distinguendosi dalla ragione comune. Questa diversità rispetto alla maggior parte degli uomini conduce il “Singolo” ad una vita solitaria e spesso lo rende vittima della violenza della gente comune. La folla inferocita, che cattura la strega e vuole bruciarla, ricorda la categoria di “Folla” tanto disprezzata da Kierkegaard, il quale la considera come un male che ammorba il mondo: «Iscrizione per un sepolcro: la stampa è la sciagura degli Stati, la “Folla” il male del mondo!»24. Kierkegaard basa la sua critica sulla “Folla” sia su una

riflessione filosofica ben argomentata, sia sulla propria esperienza personale. Infatti fu proprio la “Folla”, il “Pubblico” a perseguitare il filosofo durante la questione “Corsaro”, fino a costringerlo a non uscire più di casa per paura di essere deriso.

Ma sia Marte che il suo accusatore, il prete Laurentius, sono in realtà accecati dai propri ruoli di strega e inquisitore: l’una costretta a dichiararsi colpevole e convinta a tal punto da lanciare una maledizione contro il proprio carnefice; l’altro sicuro della propria missione di salvare il mondo dalla stregoneria.

La Chiesa, rappresentata qui dallo stesso Laurentius e dal suo superiore Absalon, ha abbandonato la strada del messaggio cristiano originale per imboccare quella di una religiosità accusatoria e superstiziosa. L’atteggiamento crudele e repressivo dell’Inquisizione diviene inoltre un

23 Søren Kierkegaard, Diario, cit., p. 248. 24 Ibidem.

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mezzo per acquisire sempre più potere da parte delle istituzioni ecclesiastiche, che si pongono come detentrici della verità assoluta, dove le condanne al rogo hanno la funzione di mostrare ai fedeli che non vengono tollerati modi di vivere alternativi ai canoni prestabiliti. La lotta contro l’eresia è dunque l’emblema di come la Chiesa consideri sempre di più il Cristianesimo come una dottrina che i fedeli devono assorbire passivamente, un dogma collettivo, senza il coinvolgimento individuale e l’interiorità soggettiva. Dreyer intende così criticare la Cristianità dell’epoca, riprendendo il pensiero di Kierkegaard, che si opponeva a quella dei suoi tempi sottolineando che è necessario un rapporto privato e personale con Dio:

La disgrazia della Cristianità è di aver ridotto il Cristianesimo a una pura dottrina. Nei tempi antichi, quando si capiva che il Cristianesimo era un esistere, un’imitazione, anche il tirocinio era essenzialmente di natura disciplinare: pratiche di obbedienza, esercizi di abnegazione, di mortificazione, di ascesi, ecc.

Quando il Cristianesimo fu ridotto unicamente a dottrina, la prova per diventare maestro furono allora gli esami eruditi: l’esistenza è completamente assente.25

La protagonista della vicenda, oltre alla “strega” Marte e dopo la morte di lei, è la giovane Anne, data in sposa ad Absalon, anziano pastore luterano. I due vivono la routine del matrimonio senza passione fino all’arrivo di Martin, figlio di lui, che ritorna a casa dopo alcuni anni trascorsi in città e da cui Anne si sente subito attratta. Absalon, dopo la morte di Marte Herlofs, è sempre più angosciato per le sue colpe, tanto da destare la preoccupazione dell’anziana madre Merete, che gli chiede cosa lo turba tanto. Egli le confida di avere peccato contro Dio, ma non vuole rivelarle in

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cosa consiste esattamente la sua colpa, perché, come dice nel dialogo del film: «Questa è una battaglia che devo combattere da solo.»26. La donna

capisce ugualmente che le sofferenze del figlio sono da attribuire ad Anne, e lo mette in guardia dicendogli che gli occhi della sua giovane moglie ardono di una strana luce, proprio come quelli della madre strega, e che presto sarà costretto a scegliere tra lei e Dio.

Dopo avere congedato Merete, Absalon parla con Anne di sua madre, rivelandole che a suo tempo la donna aveva confessato di praticare le arti magiche e di gestire il potere di chiamare a sé i morti e i vivi, o di poter uccidere qualcuno solamente desiderandolo. La moglie rinfaccia all’anziano marito di averla sposata senza chiederle se lei lo amasse e lo abbraccia piena di trasporto, supplicandolo di renderla felice. Anne vuole rivolgere verso il pastore la passione che Martin ha svegliato in lei, quasi come un ultimo tentativo per salvare il proprio matrimonio. Ma Absalon la rifiuta, dicendole che in quel momento la sua priorità è pregare Dio e abbandona la stanza baciandola come una figlia, senza vedere nei suoi occhi il fuoco della passione. Anne allora ricorre al potere ereditato dalla madre e richiama a sé Martin che entra nella stanza, asciuga le lacrime della donna in pianto e, attratto dal suo sguardo sensuale, la stringe a sé baciandola ardentemente.

Inizia così una relazione tra lei e Martin che porta i due giovani a vivere un idillio che rappresenta una luce fuori dal cupo grigiore e dalla severa austerità che si respira durante il film. La stessa Anne è più viva giorno dopo giorno e sembra assaporare quella felicità e quella gioia che non aveva provato fino ad allora, tanto che il marito si sorprende di sentirla ridere: «È la prima volta che sento Anna ridere a questo modo. […] Come si è

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trasformata. Anche la sua voce è cambiata.»27. L’anziano pastore sente su di

sé il peso degli anni e si rende conto di essere lontano dalla vitalità dei due giovani: «Quando li vedo insieme, loro due, per la prima volta mi rendo conto di quanto io sono vecchio e di quanto lei è giovane.»28.

Col passare dei giorni Absalon diviene sempre più un peso per Anne, le cui attenzioni sono ormai rivolte totalmente a Martin, il quale si ritrova a metà strada tra il ruolo del figlio amorevole e rispettoso e quello dell’amante che tradisce la fiducia del padre.

I personaggi maschili vivono una dualità che rispecchia la natura umana, divisa tra il bene e il male, tra quello che vogliono per la loro felicità e quello che impone la società. Ognuno è vittima delle proprie scelte, tormentato dai dubbi interiori e dalle angosce causate dalla propria condotta. Absalon sente il peso del peccato per avere salvato la madre di Anne dal rogo solo per poter avere sua figlia come sposa e di avere costretto la povera ragazza a sposarlo senza chiederle neanche se lo amava. Il suo egoismo ha imprigionato la giovane in un matrimonio senza amore, che non le ha concesso neanche la gioia di un figlio:

Sì, è vero, ti sei preso la mia giovinezza… e la mia allegria… […] Io bruciavo dal desiderio di qualcuno da amare… […] Ho sognato un bambino da tenere fra le braccia. E neppure questo mi hai dato.29

Martin ama Anne, ma adora anche suo padre e si logora nel senso di colpa di una relazione immorale e peccaminosa. La differenza sostanziale tra i due si evince durante una gita in barca, mentre parlano del loro futuro. Da una parte c’è Anne, convinta della purezza dei propri sentimenti e fiduciosa

27Op. cit., p. 178. 28 Ibidem.

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di vivere per sempre felice con lui, dall’altra c’è Martin, dubbioso e angosciato, che sente di dover chiudere in qualche modo la storia d’amore con lei, proponendole di lasciarlo partire, o vedendo anche nella morte una possibilità per riparare ai loro peccati. Ad ogni dubbio di Martin Anne controbatte sicura:

MARTIN: Verrà un giorno…

ANNA: (lo interrompe) Non pensarci. Tante cose possono accadere.

MARTIN: (afflitto) Mio padre mi sta sempre davanti agli occhi.

ANNA: (si china e lo guarda negli occhi) Io non vedo che te.30

Il senso di colpa ed il peccato sono temi fondamentali per Dreyer, in cui ritroviamo tradotte sia le esperienze della vita del regista che l’influenza che hanno avuto su di lui l’ambiente luterano in cui il regista è cresciuto e la filosofia di Kierkegaard. Per l’intero arco della sua esistenza Dreyer ha riflettuto su questi argomenti, inserendoli come temi portanti nei suoi film, tutti finalizzati a scoprire il senso profondo che si cela nella vita di ogni uomo e tesi a rappresentare la ricerca inesausta di Dio in ogni sfaccettatura dell’esistenza umana. In Dies Irae possiamo trovare anche quel rapporto dualistico tra una verità oggettiva, accettata e condivisa come giusta dalla comunità, e una soggettività vissuta in maniera sofferente. Nel film Dio è assente, il male domina la scena in ogni suo aspetto e, come nella vita, non esistono personaggi assolutamente positivi, tutti i protagonisti sono ambigui, in ognuno di loro c’è un istintivo alternarsi di buone e cattive intenzioni.

Anne è l’unica sicura della propria scelta e l’impeto d’amore che sente per Martin è vissuto come il coronamento di un sogno tanto atteso e desiderato.

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Anche lei però non è innocente, sceglie di amare Martin e vuole questo amore più di ogni altra cosa, e ciò la spinge verso una condizione di euforia in cui viene meno il senso del limite e del peccato. Anne mette se stessa e la propria felicità al centro del suo mondo, fino a desiderare la morte di Absalon. Dreyer lascia lo spettatore nel dubbio che sia Anne che sia Marte siano veramente delle streghe, infatti entrambe desiderano la morte di due uomini e questi muoiono.

Absalon intanto viene chiamato ad assistere l’amico Laurentius sul letto di morte e gli dice che presto lo raggiungerà:

ABSALON: (stringe le mani del moribondo. Parla con calore consolandolo) Non passerà molto tempo prima che io vi segua.

LAURENTIUS: (sorride debolmente) Mi volete consolare?

ABSALON: (scuote il capo) No, sento spesso la morte che mi tira per il mantello. Ma io le vado incontro con coraggio e speranza. (Pausa). « Con la morte comincerà la vita », come sta scritto…31

Le parole del’anziano pastore rappresentano la visione cristiana della morte, come passaggio dalla vita terrena a quella celeste. Dreyer, riprendendo il pensiero di Kierkegaard, sottolinea che l’unica malattia mortale32 è quella

che nasce dalla mancanza di fede, quando l’uomo, cioè il singolo, non si mette in rapporto con colui che lo ha posto, Dio. Questa condizione fa sì che l’essere umano cada nella disperazione, e che ogni singolo individuo, anche se non consapevole, è disperato.

Nel frattempo a casa la vecchia madre, ormai insospettita dal comportamento dei due giovani, li sorveglia preoccupata. Laurentius muore

31 Op. cit., p. 186.

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e Absalon a piedi ritorna verso casa accompagnato dal sacrestano sotto una tempesta; l’immagine rappresenta la condizione dell’uomo nella vita terrena, che viaggia con le proprie misere forze contro gli affanni e i tormenti, in balia della sorte e del pericolo sempre in agguato:

Un ponte sul fiume.

Absalon e il sacrestano, sulla via del ritorno, lottano contro la tempesta che infuria.

Paglia che vola da un pagliaio.

Absalon si ferma in mezzo al ponte e guarda il cielo. Il sacrestano lo guarda sorpreso.

ABSALON: Guarda il cielo, le nuvole… sono come una strana scrittura…

Primo piano del sacrestano.

IL SACRESTANO: (ingenuamente) E’ il dito del Signore che scrive.

ABSALON: (annuisce) Ma chi sa decifrarla? Proseguono il cammino, lottando contro il vento.33

In queste scene si sente tutta la sofferenza dell’individuo che non afferra il divino con la ragione e che non riesce a comprendere il piano di Dio nella sua interezza. Questo porta l’uomo ad angosciarsi di fronte alle svariate possibilità e alle molteplici scelte che è libero di compiere.

Kierkegaard nei suoi scritti distingue nettamente l’angoscia dalla disperazione, considerando la prima come il rapporto che l’individuo ha con il mondo e la seconda il rapporto dell’io con sé stesso.

A casa Anne parla con Martin e si immagina come sarebbe una vita con lui, se Absalon morisse lasciandoli liberi di vivere il loro amore. Il suo desiderio è magicamente percepito dall’anziano marito che nella strada verso casa è colto da un malore:

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Absalon e il sacrestano sulla via del ritorno. Ora sono vicini all’ingresso di un campo. Il vento soffia forte e le nuvole corrono per il cielo. Absalon si ferma come spaventato da qualcosa nel buio. Il sacrestano lo guarda preoccupato.

IL SACRESTANO: (con compassione) State male, maestro Absalon?

ABSALON: No, no. Mi ha solo colto una strana angoscia. Era come se la morte mi sfiorasse il braccio. IL SACRESTANO: (spaventato) La morte?34

Giunto a casa il pastore è accolto dai due giovani che sono rimasti ad attendere il suo ritorno. L’anziano è visibilmente stanco e turbato e racconta loro della morte di Laurentius:

ABSALON: (tra sé) Vengo da un uomo che ha fatto una morte santa…

[…]

ABSALON: Ma in genere… se ripenso ai molti sospiri di moribondi che ho raccolto, non vedo che peccato e peccato e peccato…

[…]

ABSALON: … spesso la gioia di un momento, un peccato segreto… (Sospira profondamente)… Ma, Gesù Signore, che vita vivono gli uomini!35

Absalon è un’anima in preda ad angoscianti dubbi, e rivela al figlio e alla moglie, che mentre stava rientrando verso casa ha sentito chiaramente la morte venirgli incontro. Aver visto morire un uomo in grazia di Dio e il presentimento di essere giunto alla fine della propria vita, portano Absalon a ripensare con maggiore sofferenza ai propri peccati e alla condizione dell’uomo in generale, costantemente in procinto di effettuare scelte sbagliate e peccare.

34 Op. cit., p. 195. 35 Op. cit., pp. 196-197.

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Dopo aver salutato Martin, Anne e Absalon restano soli e l’anziano marito chiede direttamente alla moglie se ha mai desiderato la sua morte. Anne quindi, spinta da un odio maturato durante tutti gli anni che è stata costretta a vivere con lui, dà sfogo alla sua rabbia, confessando allo sbigottito marito di avere desiderato la sua morte ogni giorno del loro matrimonio, ma di desiderarla particolarmente adesso che ha finalmente conosciuto il vero amore grazie a Martin. L’uomo, sconvolto, si allontana dalla moglie e, impaurito e barcollante, chiama più volte suo figlio prima di arrendersi privo di vita.

In seguito alla morte del padre i dubbi e le paure che affliggono il giovane Martin si fanno sempre più forti, spingendolo ad avere timore della stessa Anne e ad accusarla di essere stata lei a desiderare la sua morte. La giovane dopo aver giurato all’amato, davanti alla bara di Absalon di essere innocente, gli chiede se è disposto a starle vicino anche di fronte ad una eventuale denuncia della nonna Merete e lui le promette che nulla potrà dividerli.

Al funerale la madre di Absalon accusa Anne di avere ucciso il figlio con l’aiuto del demonio e di essere una strega, che ha condizionato il nipote. Martin allora viene meno alla promessa di fedeltà fatta alla giovane donna e si allontana da lei. Anne, ormai arresa per aver perso l’unico motivo per vivere, ammette di essere una strega e va incontro al suo destino con le lacrime agli occhi, che ormai nessuno più asciuga.

2.2.3 Ordet – La parola

Il film è tratto dal dramma religioso Ordet (1925) di Kaj Munk, uno dei più importanti scrittori danesi del suo tempo. Nato nel 1898 a Maribo, Kaj Harald Leininger Petersen, rimase orfano all’età di quattro anni e venne adottato dai coniugi Munk, una famiglia di agricoltori pietisti. Influenzato dalla fede dei suoi genitori adottivi iniziò a studiare teologia all’università

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di Copenaghen dove si laureò nel 1924, per poi diventare pastore di Vedersø nello Jutland. Dopo un periodo di vicinanza alle ideologie naziste e fasciste, ne divenne un accanito oppositore, criticando la persecuzione degli ebrei anche nelle sue opere. Durante l’occupazione nazista, nonostante il pericolo, Munk continuò a far sentire la sua voce di opposizione girando la Danimarca con i propri sermoni, fino a quando fu arrestato dalla Gestapo e ucciso il 4 gennaio del 1944.

La trama di Ordet, semplice e lineare, narra le vicende della benestante famiglia Borgen, composta dal patriarca Morten, i figli Mikkel, Johannes, Anders, la nuora Inger, moglie di Mikkel, e le loro due figlie.

Il tema religioso ed il rapporto che ognuno dei personaggi ha con la propria fede pervade da subito la scena e diviene il Leitmotiv di tutto il film. Nelle immagini iniziali ci viene presentato il secondogenito Johannes che, fuggendo di notte dalla fattoria, inseguito dal padre e dai fratelli, si ferma sulla cima di una duna e rivolto ad una folla immaginaria la ammonisce severamente di mancanza di fede: «Guai a voi, ipocriti, tu… e tu… e tu, guai a voi che non credete in me, il Cristo redivivo venuto a voi …»36.

Johannes si crede il Cristo, la sua fede è quella di un esaltato, la sua ricerca di Dio e gli studi di teologia lo hanno portato sul baratro della pazzia. È fondamentale notare che l’origine della sua pazzia è fatta risalire agli studi di teologia da lui intrapresi e specialmente la colpa sembra ricadere proprio su Søren Aabye Kierkegaard:

MIKKEL: Ha parlato con Johannes? Non l’ha infastidita, spero?

IL PRETE: No… no, ma è nato così… così… un poco…

MIKKEL Non ne parliamo tanto volentieri qui a casa, ma con lei… no, è diventato così.

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IL PRETE Amore?

MIKKEL No, no, è stato Søren Kierkegaard. IL PRETE Davvero? Come è accaduto?

MIKKEL Sì. Lui, Johannes, studiava teologia…37

Ma Johannes rappresenta anche il vero credente, colui che non si accontenta della religione di Stato e di un credo ormai tiepido, come il padre Borgen, il pastore o il medico, ormai convinti che i miracoli non accadano più. Giuseppe Modica nel capitolo dedicato ad Ordet del suo libro Una verità

per me così descrive la condizione di Johannes:

Il fatto è che se tutti lo considerano malato e ne provano commiserazione, il motivo va ricercato nell'essere quella fede fuori del mondo, imbarazzante in quanto estrema, anzi paradossale, dal momento che Johannes crede d'essere Cristo.38

Proprio nella sua figura è possibile scorgere la critica kierkegaardiana verso un cristianesimo istituzionalizzato che ha perso il senso profondo ed il significato del vivere una vita da vero credente.

Per Kierkegaard la religione è una “comunicazione di esistenza”, una strada da percorrere e non qualcosa di raggiunto e ormai conquistato per sempre. Imitare Cristo, il paradosso vivente, è il compito più arduo che ogni credente deve perseguire.

Da qui nasce lo scontro con la Chiesa Luterana di Danimarca, che rappresenta per Kierkegaard la Cristianità stabilita, e ha come portavoce i pastori della Chiesa di Stato, da lui considerati come dei semplici funzionari stipendiati dalla casa reale. A questa Cristianità Kierkegaard contrappone il reale Cristianesimo, quello che si rifà alla parola del Cristo riportata nel

37 Op.cit., pp. 238-239.

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Nuovo Testamento. In particolare la sua accusa prende di mira il vescovo di Copenaghen, Mynster. La sua opinione su Mynster – vecchio amico di suo padre – diventerà con il passare del tempo sempre meno amorevole, e Kierkegaard rimprovererà l’anziano vescovo di condurre uno stile di vita troppo mondano e materialistico, in contrasto con gli autentici valori cristiani. L’apice dello scontro si tocca dopo la morte di Mynster, in seguito ad un sermone funebre scritto da Hans Lassen Martensen, il successore di Mynster alla guida pastorale di Copenaghen, in cui il vescovo veniva lodato come un vero “testimone della Chiesa di Cristo”. Kierkegaard con quelle parole designava il vero credente, il Cavaliere della Fede e non riteneva opportuno utilizzarle per un uomo come Mynster. Per questo reagì con una serie di articoli polemici nelle pagine della sua rivista “Il Momento”, denunciando la falsità dell’elogio di Martensen. Famoso fu l’articolo uscito sul Faedrelandet intitolato: “Era il vescovo Mynster un

‘testimone della verità’, uno dei veri ‘testimoni della verità’?” in cui

Kierkegaard scrive:

Ci si presenta il vescovo Mynster come un testimone della verità, come uno dei ‘veri testimoni della verità’; l’oratore afferma categoricamente. E ricreando davanti a noi l’immagine del vescovo scomparso, ricordandoci la sua vita, la sua attività religiosa e la sua morte ci invita a ‘imitare la fede dei modelli autentici: i testimoni della verità’; la sua fede, dunque, l’hanno dimostrata – e qui cita esplicitamente Mynster – ‘non solo con i discorsi e con affermazioni, ma di fatto’; Martensen include il vescovo Mynster nella ‘sacra stirpe dei testimoni della verità che fin dall’epoca degli apostoli ha continuato attraverso i secoli, fino ai nostri giorni’…

Devo alzarmi contro queste affermazioni… non è necessario essere molto perspicace da rendersi conto – confrontando il Nuovo Testamento con ciò che predicava Mynster – che ciò che predicava sul Cristianesimo tendeva deliberatamente a soavizzare, oscurare o far tacere ciò che il Cristianesimo

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