• Non ci sono risultati.

Woody Allen e Kierkegaard

Nel documento Kierkegaard e il cinema (pagine 129-153)

6. Woody Allen

6.2. Woody Allen e Kierkegaard

Per prendere in esame le influenze kierkegaardiane in un autore cinematografico come Woody Allen non ho considerato necessario analizzare singolarmente ogni film, ma ho deciso di parlare soprattutto del suo modo di fare cinema, mettendo in risalto lo stile e in particolare lo spiccato umorismo che respiriamo in ogni sua pellicola, e tentando di evidenziare i tratti salienti delle sue innumerevoli opere. Allen infatti si distacca dagli altri autori che ho preso in considerazione nei capitoli precedenti per vari motivi. Innanzitutto gli altri registi hanno in comune con Kierkegaard la terra di origine e la religione, essendo tutti scandinavi e influenzati dal luteranesimo, le cui tracce sono ben visibili nei loro lungometraggi. Allen invece è statunitense, di origini ebraiche, abita a New York, città che ama e che spesso omaggia nelle sue pellicole. Inoltre i film precedenti raccontano quasi esclusivamente vicende drammatiche, in cui c'è poco spazio per gli aspetti comici della vita, cosa che invece caratterizza la maggior parte dei lavori di Allen.

I debiti del regista con Kierkegaard sono riscontrabili direttamente grazie alle citazioni dello stesso Allen, che nel suo primo libro Saperla

lunga121parla del filosofo danese:

Lo sviluppo della mia filosofia ebbe origine nel seguente modo: mia moglie, invitandomi ad

assaggiare il suo primo soufflé, ne fece accidentalmente cadere una cucchiaiata sul mio piede provocandomi la rottura di alcune falangi. Furono chiamati i medici, eseguiti gli esami e le radiografie, mi fu ordinato di restare a letto per un mese. Durante questa convalescenza mi dedicai alla lettura delle opere dei più profondi pensatori dell'Occidente - una fila di libri che avevo accatastato giusto per fronteggiare un'eventualità di quel genere. In totale dispregio dell'ordine cronologico, attaccai Kierkegaard e Sartre e poi passai lestamente a Spinoza, Hume, Kafka e Camus. Non mi annoiai affatto come avevo temuto, piuttosto trovai affascinante il modo in cui queste grandi menti attaccavano risolutamente la morale, l'arte, l'etica, la vita e la morte. Ricordo la mia reazione ad una osservazione luminosa di Kierkegaard: "Questo rapporto che si correla alla sua propria intrinsecità (vale a dire a se stesso) deve essersi formato in sé, oppure essere stato costituito da un altro." Tale concetto mi fece venire le lacrime agli occhi. (Io sono il tipo che si trova in difficoltà se deve scrivere due frasi sensate sul tema "Un giorno allo Zoo".) Veramente quel passo mi risultava del tutto incomprensibile: e se Kierkegaard avesse voluto semplicemente divertirsi?122

Il nome di Kierkegaard ritorna anche in alcuni suoi film, come nel Il

dittatore dello stato libero di Bananas, in cui Allen per fare colpo su di una

giovane donna si finge impegnato intellettuale, o in Manhattan, dove Kierkegaard è citato con Bergman in quella "accademia dei sopravvalutati" creata dal personaggio di Mary Wilke, interpretato da Diane Keaton.

Troviamo poi nuovamente citato il filosofo danese in Saperla lunga, nel racconto Mister Big, in cui un investigatore viene pagato da una donna per trovare Dio. La breve storia con cui Allen apre il suo libro ci immerge immediatamente in un'atmosfera surreale, dove non mancano citazioni sulle

filosofie antiche e moderne, e in cui il regista tratta con il suo stile paradossale e umoristico uno dei temi più profondi del pensiero universale: l'esistenza di Dio ed il suo silenzio. L'aria che si respira è quella di un classico film noir alla Humphrey Bogart, con lo stereotipato detective dal carattere rude e con un debole per le belle donne, che finisce per accettare un caso difficile che si risolverà solo dopo numerosi colpi di scena. Allen ironizza sia sulla religione ebraica che su quella cristiana, mandando il detective Lupowitz a cercare informazioni prima dal rabbino Wiseman e in seguito addirittura dal Papa. Il nome di Kierkegaard salta fuori durante una discussione tra il detective e la donna che gli ha commissionato l'incarico di cercare Dio:

" Claire, e se Kierkegaard avesse ragione?" " Che cosa vuoi dire?"

" Non si può mai realmente sapere, ma soltanto avere fede."

" Questo è assurdo."

" Non essere così razionale."123

Nonostante questi rimandi, alcuni studiosi non credono che il pensiero di Kierkegaard abbia influenzato il regista newyorkese o comunque lo accusano di una lettura superficiale, come scrive Umberto Eco nella introduzione di Saperla lunga:

Allen cita terrorizzato Kant, Kierkegaard, Leibniz, dal modo in cui li usa come elementi comici si capisce che li ha letti, ma non ha sopportato lo choc.124

123 Op. cit., p. 8. 124 Op. cit., p. IX.

A mio avviso invece credo che Allen abbia fatto i conti con la filosofia kierkegaardiana, comprendendola e utilizzandola nelle sue pellicole, soprattutto per quanto riguarda la categoria dell'umorismo, trattata da Kierkegaard in molte sue opere e soprattutto nella Postilla conclusiva non

scientifica alle «Briciole di filosofia»125 . Inoltre Allen ha sempre dichiarato

la sua ammirazione per Bergman, considerandolo il più grande genio cinematografico di tutti i tempi, e non è possibile, come si è visto, separare la produzione bergmaniana dall'influenza del pensatore danese, che quindi, forse anche indirettamente, deve aver influenzato lo stesso Allen.

Per Kierkegaard l'umorismo è in stretta relazione con l'io, con il soggetto che prende coscienza della contraddizione insita nel vivere umano e nella discrepanza e dualità che è fondamento dell'io di ogni individuo. Infatti, al contrario del pensiero hegeliano, che trova una conciliazione pacifica nella sintesi dialettica, dove gli opposti si armonizzano tra loro, in Kierkegaard non c'è questa armonia, e l'unica sintesi che può esistere è quella paradossale. L'idea di Dio nell'uomo provoca sofferenza:

La presenza dell'infinito nel finito, insomma, per Kierkegaard non lo riscatta, non lo giustifica, non lo fonda. Anzi, la scoperta in sé, nella propria esistenza temporale, dell'eterno coincide con la più acuta percezione dell'incongruità del rapporto.126

Questa contraddizione per il pensatore danese è sia tragica che comica:

Oggetto del comico è dunque la sproporzione, la contraddizione fra il finito e l'infinito, fra l'eterno e il divenire. L'effetto comico, proprio come il tragico,

125 Søren Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia» in Søren Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1995.

126 Isabella Adinolfi, Søren Kierkegaard e Woody Allen: l'umorismo come comunicazione indiretta

della «contraddizione priva di dolore» in Leggere oggi Kierkegaard, a cura di Isabella Adinolfi, Città Nuova, Roma 2000, p. 152.

scaturisce insomma da un contrasto, da una discrepanza, da una contraddizione, dalla percezione di qualcosa di incongruo, e l'arte comica, proprio come quella tragica, consiste nello svelare il dissidio, nel far risaltare il contrasto, nel mettere in scena la contraddizione. Ma mentre il tragico rappresenta la contraddizione sofferente e perciò suscita il pianto, il comico rappresenta invece una contraddizione priva di dolore e perciò suscita il sorriso e il riso.127

L'umorista si trova tra la sfera etica e quella religiosa, come l'ironia è situata tra quella estetica e quella etica, e proprio questa sua posizione fa si che lui comprenda che la sofferenza fa parte dell'esistenza umana in modo essenziale e non come qualcosa che capita accidentalmente:

L'umorista esistente, essendo l'approssimazione più vicina alla sfera religiosa, ha anche un'idea essenziale della sofferenza in cui si trova in quanto, lungi dal concepire l'esistere come una cosa e la felicità e l'infelicità come qualcosa che accade all'esistente, esiste in modo che la sofferenza sta in rapporto all'esistere. È a questo punto che l'umorista fa una svolta fallace e revoca la sofferenza in forma di scherzo. Egli concepisce il significato della sofferenza in rapporto all'esistere, ma non concepisce il significato della sofferenza: capisce ch' essa appartiene all'esistere, ma del suo significato non capisce nient'altro se non ch'essa appartiene all'esistere. Il primo momento costituisce il dolore dell'umorista, il secondo è lo scherzo: di qui si spiega perché quando parla l'umorista viene insieme da ridere e da piangere. Egli tocca nel dolore il segreto dell'esistenza, ma dopo se ne ritorna a casa sua.128

127 Op. cit., p. 153.

128 Søren Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia, cit., pp. 588- 589.

Quindi l'umorista, sebbene abbia compreso la misera condizione umana, e la vera essenza della sofferenza, togliendo la differenza tra felici ed infelici, non cerca una soluzione, ma butta tutto sul ridere. In questo è evidente la profonda diversità con l'uomo religioso, che al contrario compie il salto nella fede, che per Kierkegaard è l'unica soluzione possibile.

In questa teoria è possibile leggere l'umorismo di Woody Allen, e vedere in lui l'umorista descritto da Kierkegaard nelle pagine della Postilla:

L'umorista capisce il lato profondo dei problemi, ma nello stesso momento pensa che non vale la pena di mettersi a risolverli. In questa revoca consiste lo scherzo.129

Nei film di Allen le battute umoristiche si susseguono una dietro l'altra, e spesso hanno come tema portante domande metafisiche, mentre lo stile registico è caratterizzato spesso dall'interruzione di un ragionamento elevato con situazioni di tutti i giorni, che smorzano e revocano nello scherzo il tono solenne:

Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico durante i weekends.130

Allen, da vero umorista, non arriva mai a conciliarsi con il paradosso dell'esistenza, essendo lui ateo, non riesce a compiere quel salto nella fede che porterebbe alla salvezza. Nelle sue pellicole le uniche esperienze che rendono la vita più sopportabile sono l'arte o l'amore, come per esempio in

Hannah e le sue sorelle, in cui Mickey, ex marito di Hannah, interpretato

dallo stesso Allen, uomo ipocondriaco che soffre di vertigini e perdita dell'udito fino a convincersi di avere un tumore al cervello e di essere in

129 Op. cit., p. 589.

procinto di morire, disperato per la sua sorte ritrova per un istante la felicità quando ulteriori analisi escludono il tumore, ma subito ha come una rivelazione funesta, cioè che la morte è solo rimandata, e che comunque nulla può cambiare il suo destino di essere umano, che è quello di dover prima o poi abbandonare la vita. Mickey ammette di averlo sempre saputo, ma che era riuscito a tenerlo lontano dalla sua mente, come una cosa troppo orribile da poter pensare. Per porre rimedio a questa idea fissa che gli sta rovinando l'esistenza, l'uomo cerca rifugio nella filosofia ma senza successo arrivando alla conclusione che:

Milioni di libri scritti su ogni concepibile argomento da queste grandi menti e alla fine nessuno di loro sa niente più di me sui grandi misteri della vita.131

Stesso risultato negativo lo ha quando cerca la soluzione nella religione, prima cattolica e poi orientale. Ormai arreso decide di uccidersi e si spara, ma sbaglia il colpo e sotto shock inizia a camminare per ore fino ad arrivare ad un cinema. La visione del film, una vecchia pellicola dei fratelli Marx, riesce a calmarlo e lentamente trova dentro di sé un qualcosa che se, non lo riconcilia con il mondo, comunque glielo rende sopportabile:

Come puoi anche solo pensare di ucciderti. Insomma, non è stupido? Voglio dire: guarda tutta quella gente sullo schermo; senti, sono proprio buffi. E se anche fosse vero il peggio? E se Dio non ci fosse e tu campassi una volta e amen? Beh, non vuoi partecipare all'esperienza? Che diamine mica è tutta una noia! E pensavo tra me: Gesù, dovrei smettere di avvelenarmi la vita, cercando risposte che non avrò mai, e godermela finché dura. E sai, dopo, chissà, forse c'è qualcuno, nessuno lo sa veramente. Lo so, lo so, "forse" è un filo troppo sottile per appendervi tutta la

tua vita, ma di meglio non abbiamo. Piano piano mi rilassai e cominciai a divertirmi davvero.132

Nello stesso modo, anche l'amore permette all'uomo di trovare una momentanea conciliazione con l'esistenza, rendendogli la vita più accettabile. Il finale di Hannah e le sue sorelle sembra volerci dire proprio questo, Mickey innamorato della sorella di Hannah è un uomo nuovo, lei gli dice di aspettare un figlio e i due si baciano felici. Ma se in questo caso Allen ha voluto concludere la storia in maniera rassicurante, in altre pellicole il regista ci presenta l'aspetto più effimero e contraddittorio dell'amore, come in Crimini e misfatti, dove Levy, un filosofo che ha sempre affermato la forza di questo sentimento e inneggiato alla vita nonostante le terribili esperienze vissute nella seconda guerra mondiale, si suicida. Con il suo gesto denuncia la paradossalità dell'amore e soprattutto la differenza tra un sistema filosofico, anche se ben articolato, e il vivere quotidiano, in cui la pura e fredda ragione deve fare i conti con altri elementi destabilizzanti, come gli affetti, le emozioni e i sentimenti, che non possono essere semplicemente contenuti in parametri razionali.

Tra i temi più ricorrenti nelle opere di Allen possiamo elencare la religione e la ricerca di Dio, inseriti in un contesto moderno e spesso laico, in cui l'uomo contemporaneo, ormai liberato da quelle convinzioni ferme e forse troppo rigide delle generazioni precedenti, e guidato da un pensiero scientifico e razionale, in cui l'ateismo sembra l'unica via percorribile, si trova ugualmente a fare i conti con il divino. Allen ci propone uomini e donne emancipati, spesso benestanti e di successo, che sembrano sicuri delle proprie scelte e liberi di condurre la propria vita come meglio credono. Ma proprio questa libertà mostra l'altro lato della medaglia, cioè la fatica e la frustrazione di assumersi la responsabilità anche dei propri

fallimenti, in un mondo freddo in cui non tutti sono destinati al successo e alla realizzazione personale.

Questa sofferenza, tipica dei nostri giorni, porta i protagonisti delle storie di Allen a fare i conti con l'idea di Dio, dimostrando che nonostante tutto, il Suo fantasma continua ad albergare in loro, e che malgrado un'apparente indipendenza, non sono riusciti ancora ad accettarne la scomparsa. Il dolore che nasce da questa libertà è riconducibile al concetto di angoscia kierkegaardiano, in cui la possibilità della libertà, che spaventa Adamo, consapevole delle conseguenze delle sue azioni, è la stessa che vivono gli individui descritti da Allen e gli spettatori dei suoi film.

Nello stesso modo vediamo un'altra categoria trattata da Kierkagaard, quella della disperazione.

Tra tutte le sue pellicole, forse la più rappresentativa di queste concezioni, è

Crimini e misfatti, e soprattutto la figura di Judah Rosenthal. Judah è un

oculista affermato, filantropo, affettuoso padre e fedele marito agli occhi della società. Dietro a questa immagine, tuttavia, si nasconde un'altra verità: Judah infatti tradisce la moglie e si è appropriato indebitamente di fondi destinati ad opere benefiche. Fin dall'inizio del film, durante una serata in suo onore, sotto gli sguardi adoranti dei suoi familiari, Judah si descrive come un uomo di scienza, anche se educato fin da bambino in maniera religiosa, e, nonostante sia ateo, sente che qualcosa di quella educazione è rimasta dentro di lui. Inoltre racconta di come suo padre fosse solito ammonirlo, ricordandogli che ovunque noi siamo, gli occhi di Dio sono sempre su di noi. Nel susseguirsi degli eventi Judah si trova a dover compiere una scelta, messo alle strette dal ricatto della sua amante, che lo minaccia di raccontare a tutti della loro relazione e dei soldi di cui lui si è appropriato.

La decisione che Judah deve prendere riguarda il suo comportamento futuro: se cioè possa e debba permettere alla donna di parlare e sperare con fede che sua moglie lo perdoni, come gli consiglia un suo paziente, il

rabbino Ben, oppure ucciderla, seguendo il consiglio di Jack, il suo fratello privo di scrupoli. Il dramma interiore di Judah e l'angoscia che ne scaturisce derivano proprio dal rapporto che l'uomo ha con gli occhi di Dio di cui parlava suo padre. Infatti il bivio in cui si trova lo conduce da un lato a credere in un mondo in cui non esiste un ordine e una morale stabilita, e nel quale semplicemente il fine giustifica i mezzi, ma dall'altro ad un mondo in cui si verrà puniti per le proprie azioni. Infatti, se uccidesse l'amante, la sua vita tornerebbe alla normalità e tutto sarebbe risolto. Per compiere un simile gesto, però, bisogna essere liberi dalla convinzione che gli occhi di Dio ci osservino nelle nostre azioni, altrimenti il peso per una punizione futura ed il senso di colpa per avere peccato non ci permetterebbero di continuare a vivere.

Siamo di fronte a due visioni della vita diverse, a due esempi di moralità che non possono coesistere. Judah inizialmente rifiuta la proposta di Jack, dicendo che non potrebbe sopportare l'idea di uccidere una persona come un insetto, ma in seguito la prende in considerazione e la accetta. La presa di posizione avviene in una scena del film,in cui Judah ha un dialogo interiore con Ben, che rappresenta il suo retaggio e la sua coscienza religiosa, e proprio in questo scambio di battute vediamo la differenza tra la fede di Ben, che non può pensare ad un mondo senza Dio, ed il pragmatismo di Judah, il quale arriva ad affermare che Dio è un lusso che non può permettersi.

La scelta viene quindi presa, Judah è disposto a porre fine alla vita di un'altra persona pur di poter mantenere il proprio stato nella società. Ma se osserviamo sotto un ottica kierkegaardiana la vita di Judah, non possiamo non riconoscere in lui tutte le caratteristiche dell'uomo disperato, specialmente quello che Kierkegaard rappresenta come colui che si dispera sulle cose terrene per poi passare a disperarsi dell'eterno o di se stesso, fino alla fase finale della ostinazione. Judah infatti inizia ad essere consapevole della sua disperazione quando rischia di perdere il suo matrimonio ed il

rispetto della società, cioè lui dispera per qualcosa di terreno, la disperazione è causata da un elemento esterno che va a turbare la sua vita. Per uscire da questo stato di disperazione basterebbe che le cose tornassero come prima, e la sua esistenza riprenderebbe a essere serena. Per Kierkegaard questa è la disperazione per le cose terrestri, in cui il disperato non ha raggiunto ancora la conoscenza del proprio io, e dell'eterno che ha in sé. Lui vuole comicamente non essere se stesso, e non si rende conto che la vera disperazione è la perdita dell'eterno.

Judah però rappresenta anche un tipo di disperazione più elevata, cioè quella che si prova quando l'individuo inizia a essere consapevole del proprio io eterno e passa dal disperare della debolezza in generale a disperare per la propria debolezza, che consiste nel dare così tanta importanza alle cose terrene. Judah infatti si vergogna delle sue azioni e soprattutto ha paura di una punizione eterna e del giudizio di Dio, quando è costretto a decidere se compiere l'omicidio. In seguito Judah arriverà alla forma più alta di disperazione trattata da Kierkegaard, cioè l'ostinazione, che sfocia nel demoniaco. In questa forma, che è quella del voler essere disperatamente se stesso, c'è un accrescimento di consapevolezza del proprio io infinito che porta l'uomo a staccare ogni rapporto con una potenza che lo ha posto o dall'idea che una tale potenza possa esistere. Il medico rinuncia a Dio e piuttosto che umiliarsi di fronte a Lui, per cui tutto è possibile e chiedere aiuto, preferisce sopportare la sofferenza per continuare ad essere se stesso.

Oltre alla storia di Judah, nel film si sviluppa parallelamente la vicenda di Cliff, interpretato dallo stesso Allen. Cliff è un regista impegnato, che realizza documentari su tematiche importanti che purtroppo non riscuotono

Nel documento Kierkegaard e il cinema (pagine 129-153)

Documenti correlati