• Non ci sono risultati.

L'attività estera dell'Arma dei Carabinieri

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'attività estera dell'Arma dei Carabinieri"

Copied!
159
0
0

Testo completo

(1)

Università degli studi Ca’ Foscari di

Venezia

Corso di Laurea Magistrale in:

Relazioni Internazionali Comparate

ordinamento ex D.M. 270/2004

Tesi di laurea magistrale

L’attività estera dell’Arma dei Carabinieri

Relatore

Ch. Prof. Fabrizio Marrella

Laureanda

Giulia Mineo

Matricola 847015

Anno Accademico

2017-2018

(2)

2

SOMMARIO

INTRODUZIONE GENERALE ... 5

1. LE MISSIONI DI PEACEKEEPING ... 7

1.1 Il concetto generale di missione di peacekeeping di ieri e di oggi ... 7

1.2 Origine ed evoluzione delle missioni di peacekeeping ... 12

1.3 La figura del peacekeeper ... 18

1.4 Oltre il peacekeeping ... 20

2. LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI E LE RISPETTIVE MISSIONI DI PACE A CUI PRENDE PARTE L’ITALIA ... 22

2.1 L’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE ... 22

2.1.1 La Carta dell’ONU ... 22

2.1.2 La regolamentazione internazionale delle missioni di peacekeeping ... 26

2.1.2.1 Il Capo VI ... 26

2.1.2.2 Il Capo VII ... 28

2.1.2.3 Il Capo VIII ... 36

2.1.3 Le missioni di peacekeeping dell’ONU ... 40

2.1.4 Le operazioni di pace in corso ... 45

2.1.5 I caschi blu ... 50

2.2 LA NATO E LE MISSIONI DI PACE ALL’ESTERO ... 54

2.2.1 La NATO come organizzazione internazionale ... 54

2.2.2 Il Patto Atlantico ... 56

2.2.3 Le missioni non articolo 5 ... 66

2.2.4 Le missioni di pace della NATO a cui prende parte l’Italia ... 70

2.3 L’UNIONE EUROPEA E LE MISSIONI DI PEACEKEEPING ... 75

(3)

3

2.3.2 Le missioni di pace sotto l’egida dell’Unione Europea ... 86

3. LE FORZE ARMATE ITALIANE ... 91

3.1 Nascita e sviluppo delle forze armate repubblicane ... 92

3.1.1 La nascita dell’Aeronautica Militare ... 92

3.1.2 La nascita dell’Arma dei Carabinieri ... 95

3.1.3 La nascita dell’Esercito Italiano ... 96

3.1.4 La nascita della Marina Militare ... 97

3.1.5 Lo sviluppo delle Forze Armate italiane ... 98

3.2 Il quadro normativo nazionale dell’uso della forza armata ... 100

3.3 L’impiego delle Forze Armate entro ed oltre i confini nazionali... 108

3.4 4 novembre: giornata dell’unità nazionale delle Forze Armate ... 112

4. L’ARMA DEI CARABINIERI ALL’ESTERO ... 114

4.1 La storia generale dell’Arma dei Carabinieri ... 114

4.2 I ruoli dell’Arma all’estero ... 118

4.3 Le missioni di pace dell’Arma e la loro evoluzione: dalle origini ad oggi ... 122

4.4 EUROPOL ed INTERPOL: affinità e differenze... 134

4.5 EUROGENDFOR ... 137

4.6 L’attività di sicurezza delle rappresentanze diplomatiche e consolari ... 141

4.7 L’attività di tutela del patrimonio artistico e culturale ... 144

4.8 L’attività di intelligence ... 149

4.8.1 L’organizzazione dell’intelligence nazionale ... 149

4.8.2 La cybersecurity ... 152

5. CONCLUSIONI ... 154

6. RINGRAZIAMENTI ... 156

7. BIBLIOGRAFIA ... 158

(4)

4

«L'Italia intera è grata ai Carabinieri per

il

loro

spirito

di

abnegazione

e

attaccamento al dovere, garanzia di tutela

per il cittadino. L'Italia è grata anche per

la meritoria azione svolta in campo

internazionale sempre contraddistinta da

umanità e fermezza nel rispetto delle

civiltà e delle tradizioni»

(5)

5

INTRODUZIONE GENERALE

Questo lavoro, a conclusione dell’intero percorso universitario, intendendo in questa sede la laurea magistrale, ha come obiettivo, nella prima parte, l’analisi del concetto di missione peacekeeping e la sua evoluzione del tempo sulla base del mutamento della sua percezione a livello mondiale, l’approfondimento dell’attività dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), della NATO e dell’Unione Europea per il mantenimento e la salvaguardia della pace nel mondo nella seconda per giungere, infine, al vero fulcro dell’elaborato, l’attività estera dell’Arma dei carabinieri. Particolare attenzione, in questo ambito, verrà prestata alle missioni di

peacekeeping svolte e ancora in fase di svolgimento, volendo concludere questa parte

ricordando la memoria dei carabinieri caduti nell’operazione «Antica Babilonia» nel novembre del 2003. Solo sul finire dell’elaborato l’attenzione verrà posta sull’EUROPOL e sull’INTERPOL, sull’EUROGENFOR, sull’attività, unicamente svolta dall’Arma dei Carabinieri, di sicurezza delle sedi diplomatiche e consolari, sull’attività di tutela del patrimonio culturale ed artistico ed infine sull’attività di

intelligence.

Nell’istante in cui mi sono ritrovata con la testa tra le mani pensando a questo elaborato finale, più volte ho riflettuto sulla sua finalità e sull’argomento da trattare. La tesi di laurea, che si tratti della laurea di primo livello o della laurea magistrale, rappresenta un traguardo fondamentale e al contempo un trampolino di lancio per il candidato. È senza dubbio un traguardo poiché con la stesura dell’elaborato e la successiva discussione il laureando sigilla definitivamente la propria carriera universitaria. Tuttavia, essa costituisce anche un trampolino di lancio dal quale scrutare il mondo del lavoro prima di tuffarcisi a capofitto. Anche nel mio caso questo elaborato rappresenta sia un traguardo, che con fatica e sacrifici sto per tagliare, sia un importante trampolino di lancio.

Non è stato affatto semplice riuscire ad individuare un tema che potesse mettere in relazione quanto studiato in questi anni, soprattutto negli ultimi due, con la mia passione nonché futuro progetto di vita: l’Arma dei Carabinieri. L’Arma dei Carabinieri, di fatto, oltre ad essere uno dei maggiori corpi del nostro stato e, di conseguenza un importante ancora per il popolo italiano tutto, rappresenta anche un

(6)

6

punto di riferimento per l’estero se si guarda, appunto, all’impegno e alla professionalità con cui gli uomini dell’Arma prendono parte a missioni e operazioni di pace, all’impegno costante e impeccabile per la protezione delle rappresentanze diplomatiche e delle autorità diplomatiche italiane all’estero e, non da ultimo, alle innumerevoli collaborazioni ed attività volte a proteggere connazionali fuori e dentro i confini italiani.

La decisone di incentrare questa dissertazione, importante tassello che va a comporre definitivamente il mio mosaico universitario, sull’Arma dei Carabinieri e sul loro operato oltreconfine non vuole che essere un sincero omaggio a questo corpo al quale spero di potermi unire non appena raggiunto questo obiettivo.

(7)

7

CAPITOLO 1: LE MISSIONI DI PEACEKEEPING

1.1 IL CONCETTO DI MISSIONE DI PEACEKEEPING

DI IERI E DI OGGI

Come sempre più spesso accade, molti termini divenuti di uso quotidiano, in realtà, derivano dall’inglese o hanno evidenti legami con il mondo anglofono. Ciò lo si può notare guardando le pubblicità alle quali ogni giorno si è esposti, caratterizzate da

slogan in lingua inglese. Lo stesso vale per termini appartenenti a linguaggi più tecnici

e specifici e, di conseguenza, più distanti da quello che è il parlare consueto del popolo. A questo proposito, verrà esaminato il termine «peacekeeping». Esso altro non è che la fusione di due parole inglesi, il sostantivo «peace», ovvero pace, ed il gerundio del verbo «keep», in questo frangente traducibile come mantenere o mantenimento. Dunque, se non si volesse ricorrere alla lingua inglese ma utilizzare termini nostrani, questo tipo di missioni ed operazioni potrebbero essere tradotte come aventi il fine del mantenimento della pace, trasformando il gerundio inglese «keeping» in un sostantivo. Nonostante queste piccole sfumature tipiche di ogni lingua e di ogni cultura, alla base c’è un comun denominatore: la radice delle parole. Molto spesso di fatto l’essere umano non indaga sull’origine e sul significato insito dei termini che quotidianamente utilizza, ma si limita ad impiegarli, possibilmente anche in maniera erronea. Si prendano in considerazione le tre parole in questione: mantenere, mantenimento e pace.

Il verbo mantenere deriva dalla locuzione latina manu tenere, letteralmente «tenere con la mano».Esso, quindi, normalmente viene utilizzato per far intendere il tenere un qualcosa, in questo caso la pace, in modo che duri a lungo, rimanga in essere e manifesto. Di conseguenza, spesso è sinonimo di conservare; cionondimeno bisogna sottolineare che il verbo mantenere pone maggiormente l’accento sull’intenzione, sull’opera, e sui mezzi impiegati a tal fine.

(8)

8

Il sostantivo italiano «mantenimento», in questo caso più appropriato per la traduzione dell’inglese «keeping», deriva dal verbo mantenere e, di fatto, ne conserva la medesima radice. Lo si può pensare come l’atto e la cura del mantenere. Esso si riferisce direttamente al conservare e al far durare una determinata situazione, in questo frangente la pace.

La parola «pace», infine, deriva dal latino pax, che, a sua volta, si fa derivare dalle radici indoeuropee pak- e pag- che nel primo significato indicano: fissare, pattuire; mentre nel secondo: legare, unire, saldare. Questo termine designa la condizione opposta allo stato di guerra, con riferimento alle nazioni, che, regolando i propri rapporti reciproci secondo accordi comuni e senza alcun atto di forza, possono impegnarsi ed adoperarsi completamente per il normale e totale sviluppo della propria vita economica, sociale, culturale. Con la parola pace si intende, dunque, la condizione di tranquillità e stabilità dei rapporti sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, sia all’esterno, con altri popoli, altri stati, altri gruppi.

Per concludere, come direbbero gli inglesi «last but not least», vale a dire «ultimo, ma non per importanza», vedasi l’origine ed il significato insito della parola «missione». Questo termine, molto utilizzato nella lingua italiana quotidiana, deriva dal latino

missio inteso come invio, spedizione. Bisogna, tuttavia, fare una precisazione di

importanza rilevante. Il sostantivo missione molto spesso viene associato all’ambito religioso volendointendere l'invio di persone cui viene affidato il compito di infondere una dottrina religiosa e, in un secondo momento, anche l'attuazione pratica di questa propaganda. Tuttavia, una missione può non essere strettamente religiosa, ma semplicemente morale. Di fatto, in generale, si può considerare missione tutto ciò che preveda il raggiungimento di un determinato obiettivo cui si annetta però un particolare valore, se non sacro, almeno morale. Infine, in senso vicino a quello etimologico, il termine è usato talvolta nel linguaggio diplomatico, soprattutto per indicare l'invio di persone che non sono veri e propri rappresentanti di un governo, piuttosto incaricati di funzioni speciali e temporanee. Pertanto, mettendo insieme il significato di ognuna di queste parole si può giungere al senso vero e proprio della missione di peacekeeping o di mantenimento della pace, ossia l’intervento di forze militari e non, di una o più nazioni, dietro mandato e sotto la direzione di organismi per lo più internazionali, il cui scopo è in primo luogoil mantenimento o ripristino

(9)

9

della pace, dell’ordine e della legalità in aree geografiche sconvolte da condizioni di belligeranza e in secondo luogo, ma soprattutto a partire dagli ultimi decenni, la protezione dei civili.

Le missioni di peacekeeping possono essere considerate, dunque, come missioni di sicurezza, di incitamento alla pace, volte a debellare, con impegno e professionalità, il caos ed il disordine politico-sociale in un determinato territorio. Le missioni per il mantenimento della pace non possono essere affrontate solo da soldati, ma innanzitutto da uomini. A riguardo, una frase ben esemplificatrice di cosa si intende oggi per missione per il mantenimento della pace è la seguente «Peacekeeping is not

for soldier’s job, but only a soldier can do it» sottolineando come questo tipo di

missioni siano contemporaneamente legate al lavoro sul campo dei soldati ma anche ad un vastissimo spettro di competenze ed attività meramente umane. Proprio in questa dicotomia l’Italia con la sua forza armata più giovane, l’Arma dei Carabinieri, è un vero modello nello scacchiere internazionale. Di fatto, sempre di più si sente parlare, e di conseguenza viene sempre di più adottato in tutto il mondo, del modello di riferimento configurato dall’Italia, il cosiddetto Italian way. Tale formula prevede la capacità di saper interagire con la popolazione, di comprendere che il mandato assegnato non rappresenta la conquista territoriale o la sottomissione di quel dato popolo, ma la sua protezione, con l’esigenza, laddove fosse necessario, di attuare misure coercitive ed operative di combattimento, talvolta non poco impegnative, e quindi ricorrere a quello che usualmente viene definito «uso della forza». Infatti, secondo quanto riportato dal sito ufficiale dell’ONU, oggigiorno le missioni di

peacekeeping fungono da strumenti di sicurezza e di supporto politico a quei paesi che

intendano passare da una situazione difficoltosa e caratterizzata da conflitti ad una condizione più stabile e di pace.

La concezione delle missioni di peacekeeping, tuttavia, nel tempo non è stata sempre la medesima. Pur essendo consapevoli che si è di fronte a missioni il cui fine è la preservazione e la salvaguardia della pace internazionale, che pertanto dovrebbero evitare il ricorso all’uso della forza, tali missioni restano operazioni di carattere militare e pertanto non si possono prescindere scontri fisici e quindi perdite umane. Questo, ad esempio, è quanto avvenuto in Kindu, nell’ex Congo belga, negli anni ’80 quando tredici aviatori italiani, facenti parti del delle forze di pace dell’ONU, vennero trucidati dai guerriglieri della fazione di Antoine Gizenga. In passato, quindi, le

(10)

10

missioni per il mantenimento della pace erano viste come non necessarie poiché profondamente rischiose per la vita dei militari. Un tempo si preferiva non guardare oltre i confini, ma ci si limitava ad impiegare i militari sul territorio nazionale per gestire e proteggere il proprio territorio e la propria popolazione, convinti che questo potesse essere sufficiente per la pace e stabilità dell’intero globo. Oggi, invece, non si tende a concepirle solo ed esclusivamente come altamente pericolose per i militari e i civili inviati sul campo, ma si cerca di guardare maggiormente allo scopo finale, al bene fruttato da tali operazioni. Inoltre, nelle missioni di peacekeeping contemporanee i contingenti inviati, spesso, non sono più chiamati ad un mero coinvolgimento diretto nelle varie attività operative per il controllo del territorio ed il contrasto dell’insorgenza, ma si occupano innanzitutto e direttamente del training, advising e

assisting, vale a dire dell’addestramento, della guida e del supporto alle forze locali.

Solo in un secondo momento e indirettamente, infatti, si prestano per il mantenimento della pace in senso stretto e realizzano compiti e funzioni di peacebuilding e

peacemaking. Oggi, quindi, queste operazioni assumono un valore morale ben più

forte di quello iniziale ed è per questo che nel panorama globale i singoli stati e, ancor di più, le maggiori organizzazioni internazionali stanno sempre di più ponendo l’accento sul proseguimento e sul finanziamento di tali missioni, non solo per l’eccezionale importanza a livello di pace locale, ma soprattutto, e di conseguenza, per la straordinaria rilevanza che, talune volte anche indirettamente, assumono per la stabilità dei fragili equilibri della pace e stabilità mondiali. Ristabilire la pace in una determinata zona del mondo, dunque, è sinonimo di maggiore pace e stabilità a livello globale, in un mondo sempre più complesso e dagli equilibri sempre più instabili. A testimonianza di quanto finora esplicitato si rivela essere la lista completa delle missioni di peacekeeping dell’ONU dal 1948 al 2017. Nell’immediato secondo dopoguerra, quando vennero create le Nazioni Unite, fino al 1988, anno della vigilia della caduta del muro di Berlino che avrebbe sancito la fine della storica Guerra Fredda tra Usa e URSS, sono state solamente 15 le missioni avviate, alcune delle quali ancora in atto al 2017. Quelle, invece, avviatesotto l’egida delle Nazioni Unite dal 1989 in poi, durante le drammatiche guerre nell’ex Jugoslavia, sono state ben 56, alcune delle quali al 2017 ancora in atto.

È possibile concludere dicendo che, con il passare del tempo e con il mutare della situazione socio-politico-economica a livello internazionale, le idee si sono evolute e

(11)

11

si evolveranno ancora. Se, quindi, in passato poteva prevalere maggiormente l’egoismo e il bigottismo dettato dall’epoca post-guerre, oggigiorno queste missioni rappresentano una vera e propria priorità non solo a livello internazionale, come per l’ONU, ma anche a livello regionale, vedasi il caso dell’Unione Europea. A testimonianza di ciòl’ONU, la NATO e l’Unione Europea, come altre organizzazioni internazionali, hanno dedicato parti di trattati al tema del mantenimento della pace e sicurezza mondiale, alle missioni di pace nonché agli appositi corpi speciali atti a tale scopo, ed un esempio di quanto appena affermato sono i caschi blu dell’ONU.

(12)

12

1.2 ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLE MISSIONI DI

PEACEKEEPING

Dopo aver fatto una breve panoramica in merito alla concezione delle missioni di

peacekeeping di ieri e di oggi, è doveroso provare a guardare indietro per capire

quando effettivamente ha avuto inizio il fenomeno delle suddette missioni ed operazioni.

Inizialmente, quelle che oggi vengono definite missioni di peacekeeping, nacquero come missioni degli osservatori. Si trattava, essenzialmente, di missioni caratterizzate dall’invio di osservatori militari disarmati chiamati a controllare e verificare il rispetto degli impegni assunti dalle parti di un conflitto internazionale, di regola avente rilievo regionale, a seguito della dichiarazione di cessate il fuoco. Oltre a tale funzione, agli osservatori veniva usualmente associata anche quella relativa al controllo dei confini internazionalmente riconosciuti delle parti in conflitto. Questo genere di missione poggiava principalmente su tre principi cardine:

1. il consenso delle parti; 2. l’imparzialità;

3. il non utilizzo della forza se non per legittima difesa o per la difesa dello stesso mandato.

Si è soliti concepire la nascita delle operazioni per il mantenimento della pace avviate dall’Organizzazione delle Nazioni Unite da un lato con la missioneUNTSO, acronimo derivato dall’inglese United Nations Truce Supervision Organization, ovvero Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione dell’Armistizio, e dall’altro con la missione di peacekeeping denominata UNMOGIP, acronimo derivato anch’esso dall’inglese United Nation Milatary Observer Group in India and Pakistan, ossia Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan. In entrambi i casi si tratta di missioni di mera di supervisione, come indicato, nel primo caso, dal sostantivo inglese «supervision» e di osservazione, come evidenziato, nel secondo caso, dal sostantivo «obeserver». La caratteristica comune ad entrambe queste missioni è, infatti, il mero verificare e monitorare la condizione di tregua tra le parti belligeranti e l’astensione dall’utilizzo della forza. Non a caso in ambo le

(13)

13

missioni gli osservatori militari inviati erano disarmati. Per le missioni di mantenimento della pace con l’eventuale ricorso all’uso della forza si dovrà attendere la missione UNEF I nel 1956.

La prima delle due missioni precedentemente citata è la missione UNTSO, dall’inglese United Nations Truce Supervision Organization, ovvero Organizzazione delle Nazioni Unite per la supervisione dell’armistizio. Avviata per mezzo di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la numero 50 del 29 maggio 1948, e concretamente avviata prima della UNMOGIP dal momento che il primo gruppo di osservatori arrivò nella regione nel giugno del 1948, essa diede ufficialmente il via libera all’avvio della missione degli osservatori con l’obiettivo di vigilare sulla tregua e sul cessate il fuoco in Palestina, per altro fonte di non pochi dibattiti e dispute internazionali ancora oggi. Gli obiettivi principali della UNTSO consistevano nel monitorare l’effettiva osservanza dei trattati di pace stipulati fra Israele e gli stati confinanti, più nello specifico Egitto, Giordania e Siria, nel 1949, da un lato, e nel supervisionare il reale adempimento del cessate il fuoco proclamato dopo la fine del conflitto arabo-israeliano del 1967, dall’altro. L'UNTSO vigilava, in particolare, sulle alture del Golan e sul canale di Suez. Questa missione è stata poi sospesa nel luglio 2008. Tra le raccomandazioni evidenti nella risoluzione spicca l’impegno da parte delle nazioni ad:

«astenersi dell’importare od esportare in Palestina, Egitto, Iraq, Libano, Arabia Saudita, Siria, Transgiordania e Yemen materiale da combattimento durante il cessate il fuoco»1. Viene anche ben specificato come il mediatore od osservatore, che dir si voglia, dell’ONU sia incaricato di:

«fare, settimanalmente, un rapporto per il Consiglio di Sicurezza durante la tregua»2. È evidente come queste fossero, all’epoca, mansioni neutrali e pacifiche, volte alla mera protezione e al benessere dei popoli in questione. Non a caso i verbi impiegati, come: calls upon e invites, sono tutti verbi che auspicano al mantenimento della tregua, ma che di fatto non prevedono il ricorso a particolari manovre e mosse per mantenere realmente, o addirittura imporre, il cessate il fuoco.

1 «Risoluzione numero 50 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 29 maggio 1948», The Palestine Question, per la

richiesta del cessate il fuoco e delle azioni militari in generale in Palestina ovvero l’avvio della missione UNTSO,

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/50(1948).

(14)

14

L’altra missione con la quale si è soliti far coincidere l’inizio delle operazioni per il mantenimento della pace è la missione UNMOGIP, acronimo derivato dall’inglese

United Nation Milatary Observer Group in India and Pakistan, ossia Gruppo di

Osservatori Militari dell’ONU in India e Pakistan. Fu la risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 47 del 21 aprile 1948, a prevedere l’avvio, a partire dal 1 gennaio 1949, di tale missione di osservazione per il monitoraggio dell’effettiva tregua tra le parti belligeranti, prestando particolare attenzioni a due delle aree ancora oggi oggetto di controversie tra le medesime nazioni, vale a dire il Kashmir e il Jammu. Dal 1972, tuttavia, l’obiettivo della missione venne trasformato nel controllo e nella verifica del reale rispetto della linea di confine decisa da parte di entrambi gli stati.

Cionondimeno, è con l’avvio della missione UNEF I, avviata nel novembre del 1956, che le missioni di pace delle Nazioni Unite non si limitarono semplicemente al sorvegliare la situazione di tregua. Per la prima volta, dunque, oltre che osservare ci si impegnava a mantenere e a far rispettare il cessate il fuoco. L’UNEF I rappresenta, allora, la prima forza dell’ONU, stricto sensu intesa.

La missione UNEF I, dall’inglese United Nations Emergency Force, ossia Forza di Emergenza delle Nazioni Unite, venne fortemente voluta dall’Assemblea Generale dell’ONU che la avviò, per mezzo della risoluzione 1001 (ES-I), nel 1956 con lo scopo di porre fine alla crisi di Suez, crisi caratterizzata dall’occupazione militare del canale di Suez da parte di Francia, Regno Unito ed Israele, a cui si oppose l'Egitto. Tale missione sostanzialmente si prefiggeva di penetrare nel territorio egiziano, con il consenso del governo egiziano, allo scopo di sostenere il mantenimento della pace durante e dopo il ritiro delle forze non egiziane e di assicurare la conformità agli altri termini stabiliti nella risoluzione. Inoltre, essa si prefiggeva di coprire un'area che si estendesse approssimativamente dal Canale di Suez alle linee di demarcazione dell'armistizio stabilite nell'accordo di armistizio tra Egitto e Israele. La missione si concluse nel maggio-giugno del 1967 quando l’Egitto ordinò lo sgombero dal proprio territorio delle forze della missione UNEF I. È necessario sottolineare che a questa prima missione UNEF ne seguì una seconda che, per l’appunto, venne chiamata UNEF II. Questa, voluta dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1973, ed avviata per mezzo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 340 del 23 ottobre 1973, si preoccupò per lo più della verifica della tregua tra le forze militari egiziane e quelle israeliane in seguito alla fine della Guerra del Kippur, nota anche come Guerra d’Ottobre o Guerra arabo-israeliana del 1973. Già in questa risoluzione è possibile

(15)

15

notare come i verbi impiegati assumano un tono differente, più impegnativo e forte, si prendano in considerazione verbi come requests, demands e decides, sottolineando come il mero sorvegliare, relativamente ad una situazione di tregua, sia stato soppiantato dalla volontà di mantenere concretamente tale situazione, imponendo misure e forze eccezionali. Non a caso al c.3. della medesima risoluzione si legge che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU:

«decide di stabilire immediatamente, sotto la propria autorità, una Forza d’Emergenza

delle Nazioni Unite composta da personale proveniente dagli stati membri delle Nazioni Unite, eccetto dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, e richiede al Segretario Generale di fare un rapporto entro 24 ore in merito alle misure prese per questo fine»3.

Un’altra importante missione di peacekeeping dell’ONUfu l’operazione ONUC, dal francese Opération des Nations Unies au Congo, ovvero Operazione delle Nazioni Unite in Congo, avviata per mezzo della risoluzione del Consiglio di sicurezza numero 143 del 14 luglio 1960 e terminata nel 1964. La ragione alla base dell’avvio di questa operazione internazionale fu la crisi in Congo manifestatasi in seguito all’indipendenza dal Belgio. Si legge che il Consiglio di Sicurezza «decide di autorizzare il Segretario Generale a prendere le dovute misure, in concomitanza con il governo della Repubblica del Congo, per fornire al governo tale assistenza militare necessaria fin tanto che, attraverso gli sforzi del governo congolese con l’assistenza tecnica delle Nazioni Unite, le forze di sicurezza nazionale siano in grado, secondo il governo, di adempiere totalmente ai propri doveri»4. Inoltre, nello stesso documento, si legge che il Consiglio di Sicurezza «invita il governo belga a ritirare le proprie truppe dal territorio della Repubblica del Congo»5. È evidente il sempre maggiore coinvolgimento, talvolta anche fisico, degli uomini sotto l’egida delle Nazioni Unite e non più il mero osservare e monitorare.

Con il passare del tempo ed il mutare dello scenario politico-economico mondiale, anche la natura ed il genere di conflitti ha subito delle modifiche. Se inizialmente le

3 «Risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 340 del 23 ottobre 1973», UN Emergency Force for Middle East, per

l’invio di una forza d’emergenza in Medio Oriente per la verifica della tregua e del cessate il fuoco, imposto qualche giorno prima con la risoluzione numero 338 del 22 ottobre 1973, tra palestinesi e israeliani in seguito alla fine delle Guerra del Kippur, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/340(1973).

4 «Risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 143 del 14 luglio 1960», The Congo Question, per il ritiro delle forze belghe ed assistenza al governo locale per la creazione di una situazione ordinata nonché per la garanzia della fase di transizione da colonia a stato indipendente, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/143(1960).

(16)

16

missioni per il mantenimento della pace erano rivolte ai conflitti inter statali, cioè fra diversi stati, come evinto dagli esempi precedentemente riportati, a partire dalla fine degli anni ’80 e con l’arrivo degli anni ’90 le operazioni di peacekeeping sono state orientate su conflitti intra-statali, vale a dire conflitti interni ad un solo stato, e su situazioni di guerra civile. Di fatto, con la fine della Guerra Fredda tra gli USA e l’ex URSS si è avuto un rapido crescendo delle missioni di peacekeeping. Dal 1988 al 1994 sono state ben 20 le operazioni per il mantenimento della pace avviate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, registrando unsostanziale aumento nella quantità di personale impiegato per tali missioni, da 11.000 a 75.000. Per quel che concerne il passato non troppo lontano, una delle più recenti missioni dell’ONU qualificabile come missione per il mantenimento della pace è stata l’operazione UNPROFOR, dall’inglese United Nations Protection Force, ossia Forza di Protezione delle Nazioni Unite, istituita per mezzo della risoluzione del Consiglio di sicurezza numero 743 del 21 febbraio 1992. Ideata per un contesto socio-politico altamente instabile e problematico, quale quello dell’ormai ex Jugoslavia, l’obiettivo finale era quello di creare le condizioni di pace e sicurezza fondamentali per raggiungere una soluzione complessiva e definitiva della crisi jugoslava. Proprio all’inizio del documento si legge:

«Il consiglio di sicurezza è allarmato dal fatto che la situazione in Jugoslavia continua a rappresentare una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale così come determinato dalla risoluzione 713»6. Pertanto viene richiesta la collaborazione non soltanto del Segretario Generale e del personale dell’ONU coinvolto, ma anche, e forse soprattutto, la cooperazione da parte degli attori jugoslavi per il mantenimento della tregua e dell’ordine. Proseguendo nella lettura dello stesso documento è possibile notare che:

«[…] il Consiglio di Sicurezza decide, all’interno del medesimo contesto, che l’embargo imposto dal paragrafo 6 della risoluzione numero 713 del 1991 non debba essere applicato alle armi e agli equipaggiamenti militari destinati al solo uso da parte della Forza»7. Avendo esaminato le risoluzioni riferite alle primissime missioni di

peacekeeping e mettendole a confronto con quelle più recenti, è difficile non notare

6 «Risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 743 del 21 febbraio 1992», Socialist Federal Republic of Yugoslavia, per

il raggiungimento di condizioni di pace e sicurezza atte a permettere una conclusione definitiva della crisi jugoslava,

http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/743(1992).

(17)

17

come le operazioni per il mantenimento della pace più vicine al presente abbiano acquisito un carattere sempre più forte e siano riuscite ad imporre misure sempre più stringenti e rilevanti al fine di mantenere, e non solo verificare, l’effettivo adempimento del cessate il fuoco. Con il passare degli anni si può notare un coinvolgimento degli operatori di pace sempre maggiore per mezzo anche del ricorso a strumenti più coercitivi, efficaci ed efficienti.

Per concludere è possibile asserire che la UNPROFOR ha una valenza particolare rispetto alle missioni precedentemente citate poiché rappresenta la prima missione di

peacekeeping in Croazia e successivamente in Bosnia ed Erzegovina al tempo delle

famose guerre jugoslave.

Quel che è certo è che, per quel che concerne l’ONU, a partire dal 1948, anno dell’operazione UNTSO, sono state avviate, e nella maggior parte dei casi concluse, 71 missioni per il mantenimento della pace, 56 delle quali svolte a partire dal 1989. Oggigiorno, invece, le missioni per il mantenimento della pace si trovano di fronte ad enormi sfide che minano la loro stessa realizzazione nonché la riuscita finale. Tuttavia, ciò non toglie che le missioni di peacekeeping rimangono un perno centrale su cui fanno affidamento molte aree del mondo per poter aver garantite condizioni di pace e sicurezza, condizioni che, inevitabilmente, hanno ripercussioni anche a livello mondiale.

(18)

18

1.3. LA FIGURA DEL PEACEKEEPER

Al concetto astratto di missione di peacekeeping viene abitualmente associata l’immagine concreta di chi permette realmente il suo avvio, svolgimento e conclusione, ovvero il peacekeeper.

Con il termine «peacekeeper» ci si riferisce all’individuo inviato in tutte quelle zone del mondo, nessun continente escluso, infelicemente caratterizzate da guerre civili e scontri con le popolazioni circostanti. Tuttavia, è bene sottolineare che gli uomini inviati per verificare e mantenere una situazione di tregua e stabilità non necessariamente sono militari. A tal proposito va evidenziato come in queste zone «incandescenti» è sempre più viva l’esigenza di affiancare alle forze militari e alle forze appositamente create, vedasi i caschi blu dell’ONU, personale civile in grado di affrontare e gestire operazioni per il mantenimento della pace o interventi umanitari. Essere un peacekeeper significa essere in grado di conservare la capacità di combattimento ed integrarla con strumenti psicologici e linguistici idonei all’assolvimento della pace e della sicurezza internazionale.

Per mezzo dell’ONU è possibile, infatti, candidarsi come peacekeeper. Le missioni sono normalmente di breve durata, non superiori ai 12 mesi. Agli aspiranti

peacekeeper è richiesto il diploma di laurea. Questi inoltre devono aver maturato 4 o

5 anni di esperienza professionale sul campo. Fondamentale per poter divenire

peacekeeper è la conoscenza dell’inglese e/o del francese, ma sarebbe ancora meglio

se si conoscesse anche lo spagnolo, il portoghese, l’arabo od il russo, tutte le più importati lingue del mondo. Viste le zone poco ospitali, le difficili condizioni di vita ed in generale il clima al quale ci si deve abituare, è essenziale per tutti gli aspiranti

peacekeeper avere la capacità di resistenza e di sopportazione delle dure condizioni

fisiche e dei lunghi orari di lavoro.

Dal momento che chi assume il ruolo di peacekeeper ha un’importante missione sulle proprie spalle, l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha deciso di istituire una giornata mondiale da dedicare a tutti questi valorosi uomini che si offrono e si impegnano per il bene comune. Di fatto, il 29 maggio è la giornata internazionale del peacekeeper. Questa giornata è stata fortemente voluta essenzialmente per due ragioni: in primis per tenere vivo il ricordo ed onorare tutti i peacekeeper dell’ONU che hanno perso la

(19)

19

propria vita per la pace e la sicurezza mondiale; in secondo luogo per ringraziare e celebrare tutti i peacekeeper, uomini e donne, che ancora oggi decidono di spendersi per il bene comune partecipando con professionalità, dedizione e coraggio alle operazioni dell’ONU per il mantenimento della pace. Di fatto, dalle prime missioni di peacekeeping del 1948 fino alle più recenti operazioni, più di 3.400 valorosi e coraggiosi uomini hanno sacrificato la propria vita affinché ci potesse essere pace, sicurezza e stabilità in questo mondo.

A questa giornata internazionale dedicata ai peacekeeper si vuole ricollegare la giornata internazionale della pace che ogni anno viene celebrata il 21 settembre. Istituita il 30 novembre 1981 per mezzo della risoluzione numero 36 del 1967 dell’Assemblea Generale, il suo scopo è il forte invito al cessate il fuoco e alla non violenza.

(20)

20

1.4 OLTRE IL PEACEKEEPING

Il peacekeeping non è l’unico strumento di cui dispongono le più importanti organizzazioni internazionali in merito alla questione della pace e della sicurezza internazionale.

Come si è già evinto, il peacekeeping esiste sin dalla fondazione delle Nazioni Unite e nel tempo si è adattato alle sempre crescenti questioni poste dalla società internazionale. A questo, tuttavia, possono essere ricondotti altri 3 strumenti anch’essi strettamente connessi ai concetti di pace e sicurezza, ovvero:

1. il peacemaking; 2. il peacebuilding; 3. il peace-enforcing.

Caratteristica comune è la presenza della parola «peace», pace, per sottolineare il ruolo ultimo di tali tipi di missioni.

Il peacemaking, derivante come gli altri dall’inglese, è composto dalle parole «peace», ovvero pace, e «making», ossia fare, e pertanto può considerarsi come quello strumento risolutivo utilizzato per sedare i conflitti ricorrendo alla creazione di parità di rapporti di potere tra le parti in modo da conseguire una pace in grado di prevenire futuri conflitti. In breve può essere considerato il mezzo attraverso cui raggiungere la pacificazione. Una particolarità del concetto di peacemaking è quella di essere utilizzato in riferimento ai grandi conflitti tra fazioni, in cui nessun membro della comunità è in grado di evitare il proprio coinvolgimento, e in cui nessuna fazione può pretendere di essere completamente priva di responsabilità, ad esempio in una situazione di post-genocidio, o di estrema di oppressione, come l'apartheid.

Il peacebuilding letteralmente si riferisce alla costruzione concretadella pace, che si evince dal verbo inglese «building» ovvero costruire, e quindi rappresenta una idea ben più ragionata, ponderata nonché moderna del peacekeeping. Al peacebuilding è stata anche dedicata, sul finire del 2005, una commissione chiamata per l’appunto

PeaceBulding Commission. Essa, approvata da una risoluzione congiunta

dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e presentandosi come un organo intergovernamentale, si compone degli organi principali delle

(21)

21

Nazioni Unite, dei principali paesi contribuenti a livello sia economico che militare ed anche di stati ormai fuori da conflitti assunti come modelli da imitare. A questo organo sono per lo più affidate funzioni consultive e pertanto tra i suoi obiettivi principali vi sono: la promozione di strategie integrate per la ricostruzione post-conflitto; l’aiuto e l’assicurazione di fondi necessari sia per le attività di riabilitazione sia per quelle di medio e lungo periodo; il contributo per riuscire a mantenere alto il livello di attenzione internazionale sui paesi che emergono da un conflitto; il miglioramento della coordinazione e della collaborazione tra tutti gli attori importanti sia all’interno che all’esterno delle Nazioni Unite ed infine lo sviluppo delle cosiddette best

practices.

Il peace-enforcing, infine, che letteralmente può essere tradotto come imposizione della pace, altro non è che quello strumento per poter garantire, attraverso la costrizione, la pace in una determinata regione o zona del mondo. Su una scala composta da peacekeeping, peacemaking, peacebuilding e peace-enforcing, quest’ultimo potrebbe essere collocato esattamente a metà tra il mantenimento della pace, quindi peacekeeping, e la pacificazione, ovvero peacemaking. Di fatto, esso si differenzia dal peacekeeping per l’eventuale ricorso all’uso della forza che talvolta può essere impiegato per portare le controparti belligeranti ad un concordato di pace, uso che non è contemplato nelle missioni di peacekeeping.

(22)

22

CAPITOLO 2:

LE ORGANIZZAZIONI

INTERNAZIONALI E LE RISPETTIVE MISSIONI

DI PACE A CUI PRENDE PARTE L’ITALIA

2.1. L’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

2.1.1. LA CARTA DELL’ONU

L’ONU, ovvero Organizzazione delle Nazioni Unite o molto spesso Nazioni Unite, nella lingua italiana, o UN, vale a dire United Nations, nella versione inglese, è una delle più importanti ed influenti organizzazioni internazionali a livello mondiale creata il 24 ottobre 1945, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Sorta per evitare che le generazioni future potessero conoscere gli orrori della guerra e per riaffermare l’importanza dei diritti fondamentali dell’uomo e della sua dignità in quanto essere vivente, essa si compone di ben sei diversi organi quali: l’Assemblea Generale, il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio Economico e Sociale, il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria, la Corte Internazionale di Giustizia ed il Segretariato, e, ad oggi, è supportata da 193 stati membri.

Lo statuto dell’ONU, firmato il 26 giugno 1945, entrò effettivamente in vigore il 24 ottobre dello stesso anno, in seguito alla ratifica dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. Tuttavia, per l’Italia che aderì all’ONU solamente a partire dal 1955, tale statuto venne reso esecutivo per mezzo della L. del 17 agosto 1957 numero 848. Composto di soli 3 articoli, l’art. 1 afferma che viene conferita piena ed intera esecuzione a tale statuto a decorrere dal 14 dicembre 1955, data, per l’appunto, di ammissione del Belpaese alle Nazioni Unite.

(23)

23

Tale Carta si compone di un preambolo e di 19 capitoli, ognuno dei quali costituito da molteplici articoli. In totale tali articoli sono 111.

Di seguito la lista completa dei capitoli e dei rispettivi ambiti:  Capitolo I: Fini e Principi (arts. 1-2);

 Capitolo II: Membri dell’organizzazione (arts. 3-6);  Capitolo III: Organi (arts. 7-8);

 Capitolo IV: L’Assemblea Generale (arts. 9-22);  Capitolo V: Consiglio di Sicurezza (arts. 23-32);

 Capitolo VI: Soluzione pacifica delle controversie (arts. 33-38);

 Capitolo VII: Azione rispetto alle minacce di pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione (arts. 39-51);

 Capitolo VIII: Accordi regionali (arts. 52-54);

 Capitolo IX: Cooperazione internazionale economica e sociale (arts. 55-60);  Capitolo X: Consiglio Economico e Sociale (arts. 61-72);

 Capitolo XI: Dichiarazione concernente i territori non autonomi (arts. 73-74);  Capitolo XII: Regime internazionale di amministrazione fiduciaria (arts. 75-85);  Capitolo XIII: Consiglio di Amministrazione Fiduciaria (arts. 86-91);

 Capitolo XIV: Corte Internazionale di Giustizia (arts. 92-96);  Capitolo XV: Segretariato (arts. 97-101);

 Capitolo XVI: Disposizioni varie (arts. 102-105);

 Capitolo XVII: Disposizioni transitorie di sicurezza (arts. 106-107);  Capitolo XVIII: Emendamenti (arts. 108-109);

 Capitolo XIX: Ratifica e firma (arts. 110-111).

È nel preambolo, breve introduzione all’intero testo, che emergono in forma embrionale la volontà e l’auspicio dell’organizzazione e dei suoi membri. Esso, di fatto, recita:

(24)

24

a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà,

e per tali fini

a praticare la tolleranza ed a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli,

abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini.

In conseguenza, i nostri rispettivi Governi, per mezzo dei loro rappresentanti riuniti nella città di San Francisco e muniti di pieni poteri riconosciuti in buona e debita forma, hanno concordato il presente Statuto delle Nazioni Unite ed istituiscono con ciò un’organizzazione internazionale che sarà denominata le Nazioni Unite»8.

Tuttavia, questo suona molto come un mero auspicio ed augurio di ciò che possa avvenire in futuro grazie all’operato dell’organizzazione e dei suoi membri. Di fatto, gli obiettivi concreti vengono definitivamente enunciati nel capitolo I, intitolato «Fini e Principi». All’art. 1 viene sancito che ci si prefigge di:

«1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace;

8 «Carta delle Nazioni Unite», statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite adottato il 26 giugno 1945 a San Francisco, entrato in vigore il 24 ottobre del medesimo anno in seguito alla ratifica obbligatoria di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza e ratificato dall'Italia per mezzo della L.. 848/1957,

(25)

25

2. Sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni basate sul rispetto dei principi dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, ricorrendo ad altre misure atte per rafforzare la pace universale;

3. Conseguire la cooperazione internazionale al fine di poter risolvere problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale od umanitario e di poter promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione;

4. Costituire il centro per il coordinamento delle attività delle nazioni per il conseguimento di tali scopi comuni»9.

Dal momento che questa dissertazione, almeno nella prima parte, si focalizza sulle missioni di pace e sulla loro regolamentazione a livello internazionale, i capitoli di interesse e di fondamentale importanza relativi alla sfera della pace e della sicurezza internazionale sono:

1. Il capitolo VI, avente come titolo «Risoluzione pacifica delle controversie»; 2. Il capo VII la cui intitolazione è «Azione rispetto alle minacce alla pace, alle

violazioni della pace ed agli atti di aggressione»; 3. Il capitolo VIII inerente agli «Accordi regionali».

Ad ogni modo, è necessario rammentare che l’esistenza di tale strumento internazionale non prescinde il fatto che ogni nazione possieda ed utilizzi un determinato regolamento interno e «domestico» per la regolamentazione della pace e della sicurezza internazionale, come affermato dall’articolo 51, ultimo articolo contenuto nel capo VII.

(26)

26

2.1.2. LA REGOLAMENTAZIONE INTERNAZIONALE

DELLE MISSIONI DI PEACEKEEPING

2.1.2.1. IL CAPO VI

Il capitolo VI è stato intitolato «Soluzione pacifica delle controversie» e pertanto è ricollegabile al tema della pace e della sicurezza internazionale, anche se, in merito alle missioni di peacekeeping, ha una rilevanza minore rispetto al celebre capo VII e al capitolo VIII. Il capitolo sulla risoluzione pacifica delle controversie si compone di 7 articoli, dal numero 33 al numero 38.

Già l’art. 33, c.1, recita:

«Le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta»10. Queste poche righe evidenziano l’attenzione che l’organizzazione rivolge alla pace e alla sicurezza mondiale. Perché queste vengano preservate, e quindi mantenute, è fondamentale l’impegno attivo delle parti belligeranti, ricorrendo a mezzi e strumenti, esclusivamente pacifici ed inoffensivi, appositamente menzionati dalla stessa Carta, per porre fine ad una possibile controversia che possa minare la stabilità mondiale. Secondo quanto riportato al c.2, è il Consiglio di Sicurezza che si preoccupa di invitare le parti belligeranti a risolvere l’ipotetica controversia ricorrendo ai mezzi pacifici.

Come si evince, poi, dall’art. 34 spetta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU indagare su qualsivoglia situazione di instabilità e attrito internazionale che potrebbe essere una minaccia per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

(27)

27

Proseguendo nella lettura del capitolo, all’art. 35, al c.1, si riporta che qualsiasi stato membro può portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale qualsiasi situazione ritenuta pericolosa per la pace e sicurezza internazionale. Tuttavia, al c.2 del medesimo articolo, viene precisato anche che:

«Uno stato che non sia Membro delle Nazioni Unite può sottoporre all’attenzione del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea Generale qualsiasi controversia di cui esso sia parte, se accetti preventivamente, ai fini di tale controversia, gli obblighi di regolamento pacifico previsti dal presente Statuto»11. Il fine di quanto sopra riportato

è quello di sottolineare come le questioni della pace e della sicurezza internazionale siano già e debbano continuare ad essere una prerogativa non soltanto degli stati membri delle Nazioni Unite, ma di qualsivoglia nazione. Pertanto emerge chiaramente come tutti gli stati del mondo, membri e non dell’ONU, qualora si trovassero in una situazione che potrebbe portare ad un indebolimento della stabilità internazionale, siano esortati a presentare tali questioni al cospetto dell’ONU e dei suoi rispettivi organi.

Come si desume dai vari articoli, quindi, sta al Consiglio di Sicurezza in primis e all’Assemblea generale in un secondo momento la gestione concreta delle indagini, delle decisioni e delle strategie da attuare per mantenere la pace e la sicurezza a livello mondiale.

(28)

28

2.1.2.2. IL CAPO VII

Il capo VII della Carta delle Nazioni Unite, intitolato «Azione rispetto alle minacce di pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione», può considerarsi uno dei capitoli di massima importanza della Carta delle Nazioni Unite nonché uno dei capi con maggiore ed eccezionale fama nel mondo del diritto internazionale.

Composto dagli articoli che vanno dal numero 39 al numero 51, questo capo rappresenta il più importante dei capitoli dello statuto dell’ONU relativamente alla regolamentazione per il mantenimento, a livello internazionale, della pace e della sicurezza.

Come ben chiaramente afferma l’articolo 39:

«Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale»12. Tale consiglio è costituito da quindici membri, cinque dei quali permanenti e i restanti dieci non-permanenti. I membri permanenti sono le grandi potenze vincitrici della II guerra mondiale, ovvero Federazione Russa, Francia, Regno Unito, Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti d’America, alle quali viene riconosciuto e conferito il diritto di veto. In merito all’art. 39 è necessario fare un distinguo tra raccomandazioni e decisioni: mentre le raccomandazioni non hanno natura giuridicamente vincolante e possono quindi essere accolte come anche respinte dai membri, le decisioni hanno natura giuridicamente vincolante e quindi non possono che essere implementate da tutti i membri.

Prima di procedere con le raccomandazioni, il Consiglio di Sicurezza, così come sancito dall’art. 40, può invitare le parti in causa ad osservare tutte quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie, misure che tuttavia non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. In caso di mancata ottemperanza a queste misure, il Consiglio di Sicurezza ne terrà chiaramente conto per lo svolgersi del processo.

Proseguendo con la lettura del capo VII della Carta dell’ONU, l’art. 41 recita:

(29)

29

«Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche»13. L’obiettivo del ripristino della pace e della sicurezza internazionale deve, pertanto, essere perseguito, per lo meno in prima istanza, in maniera del tutto pacifica, privo dell’utilizzo della forza e della violenza. Inoltre, è possibile imporre, forzatamente, allo stato che cagiona instabilità o che minaccia la pace e la sicurezza internazionale una particolare forma di coercizione, nella maggioranza dei casi di tipo economica, comunemente chiamata embargo. Uno dei casi più celebri ed eclatanti di embargo deciso ed imposto dall’ONU fu quello del 2000 nei confronti della Sierra Leone, in Africa Occidentale, in merito al trasporto ed alla successiva vendita dei diamanti. Con una votazione di 14-0, con la sola astensione del Mali, il Consiglio di Sicurezza riuscì a persuadere gli altri stati ad applicare e protrarre tale embargo per 18 mesi. I diamanti, definiti «insanguinati» poiché estratti in zone di guerra, venivano venduti clandestinamente per finanziare e sostenere le attività dei signori della guerra per l’acquisto di armi. Trattandosi di decisioni adottate dal Consiglio di Sicurezza, esse sono direttamente imponibili e vincolanti per tutti i membri dell’organizzazione secondo quanto riportato all’art. 2, c.7 della medesima carta. Di fatto esso sancisce che:

«Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del Capitolo VII»14. Viene sancito, quindi, che non può

esserci una vera e propria ingerenza da parte delle Nazioni Unite negli affari del singolo stato, ingerenza che andrebbe a minare il concetto stesso di sovranità. Tuttavia, l’ingerenza dell’ONU è doverosa, e giustificata dall’art. 2, c.7, qualora si sia in presenza di minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. Inoltre, il c.6 del medesimo articolo decreta che:

13 V. supra, alla nota 8. 14 V. supra, alla nota 8.

(30)

30

«L’Organizzazione deve fare in modo che Stati che non sono Membri delle Nazioni Unite agiscano in conformità a questi princìpi, per quanto possa essere necessario per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale»15. Pertanto le decisioni del Consiglio di Sicurezza, in riferimento alla pace e alla sicurezza internazionale, sono direttamente vincolanti ed imponibili tanto agli stati membri quanto ai non membri dell’ONU. A tal proposito si inserisce bene l’esempio dell’Iraq alla fine del XX secolo. Di fatto, in conformità al Capo VII, il Consiglio di Sicurezza nel 1990 decise, dapprima, di imporre misure di embargo e di boicottaggio, come il blocco aereo e navale, contro l’Iraq in quanto stato aggressore nella celebre Guerra del Golfo. Successivamente, tuttavia, e soprattutto per la prima volta nella storia dell’ONU, il Consiglio decise di ricorrere a quei poteri conferitigli dall’art. 42 del capitolo VII, ovvero le sanzioni militari. Come, per l’appunto, ben esplicitato dall’art. 2 par. 6, anche in questo caso le suddette sanzioni, essendo caratterizzate da portata universale

erga omnes, vennero imposte a stati membri e non membri dell’organizzazione, uno

fra tutti la Svizzera, divenuta ufficialmente stato membro dell’ONU solamente nel 2002.

L’art. 42, di fatto, dà libero arbitrio al Consiglio di Sicurezza di adottare misure altre rispetto a quelle previste dall’art. 41, misure come dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni ricorrendo alle forze aeree, navali o terrestri dei membri delle Nazioni Unite.

Di straordinaria importanza si rivela il c.1 dell’art. 43 che afferma:

«Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale»16. L’Italia, di fatto,

come ciascun membro, mette a disposizione le proprie Forze Armate, quindi l’Aeronautica, l’Arma dei Carabinieri, l’Esercito e la Marina Militare al fine di perseguire il concreto e reale mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’ammontare di uomini, lo specifico tipo di forze armate, il grado di partecipazione e la dislocazione generale, secondo i c.2 e c.3 del medesimo articolo,

15 V. supra, alla nota 8. 16 V. supra, alla nota 8.

(31)

31

vengono stabiliti da specifici accordi, accordi ad hoc, tra il Consiglio di Sicurezza ed il singolo stato o tra il Consiglio di Sicurezza ed i gruppi di membri.

Inoltre, stando a quanto previsto dal c.1 dell’art. 47:

«È costituito un Comitato di Stato Maggiore per consigliare e coadiuvare il Consiglio di Sicurezza in tutte le questioni riguardanti le esigenze militari del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’impiego ed il comando delle forze poste a sua disposizione, la disciplina degli armamenti e l’eventuale disarmo»17. A tale organo di supplemento, alle dipendenze del Consiglio

di Sicurezza, spettano la responsabilità del comando di tutte le forze armate a disposizione del Consiglio di Sicurezza. In realtà il Comitato di Stato Maggiore non è mai entrato in funzione. Piuttosto è sempre di più emerso, soprattutto in seguito alla fine della guerra tra Iran e Iraq tra il 1980 e il 1988, come le decisioni in merito alla tutela e al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale fossero, e tuttora siano, frutto della concertazione e dell’intesa tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Anche l’art. 49, nella sua essenzialità, si rivela essere importante stabilendo che: «I Membri delle Nazioni Unite si associano per prestarsi mutua assistenza nell’eseguire le misure deliberate dal Consiglio di Sicurezza»18. Con una sfumatura

diversa, tuttavia il concetto di «mutua assistenza» qui citato fa tornare alla mente il principio cardine della NATO, ovverosia la legittima difesa collettiva che, per l’appunto, si basa sul principio della muta assistenza.

Per concludere, l’art. 51 afferma che:

«Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale»19. Pertanto, a ciascuno

17 V. supra, alla nota 8. 18 V. supra, alla nota 8. 19 V. supra, alla nota 8.

(32)

32

stato, se minacciate la pace e la sicurezza nazionale con l’ipotetico rischio di ripercussioni sulla pace e sulla sicurezza internazionale, viene riconosciuto il diritto di proteggere il proprio territorio e la propria popolazione scegliendo da sé quale manovra meglio si addice per fronteggiare la situazione di caos, avendo tuttavia l’obbligo di informare immediatamente il Consiglio di Sicurezza. Ciononostante, il potere relativo alla tutela e al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale conferito al Consiglio di Sicurezza dal Capo VII della Carta non viene meno, ma al contrario gli lascia un ampio margine decisionale per intraprendere le misure considerate più adeguate ed idonee a seconda dello specifico caso. Si può dedurre, dunque, che nonostante l’esistenza della Carta delle Nazioni Unite e della sua regolamentazione in merito alla salvaguardia e all’eventuale ripristino della pace e della sicurezza internazionale, il diritto di ciascuno stato di ricorrere al proprio potere sovrano entro i propri confini, in caso di minaccia alla pace e alla sicurezza interna, non viene meno, almeno fin tanto che il Consiglio, una volta informato delle misure adottate dallo stato in questione, non decida come agire a livello internazionale. Importante, infine, relativamente alla questione della pace e della sicurezza internazionale, si rivela essere l’art. 106 contenuto nel capitolo XVII ed intitolato «Disposizioni transitorie e di sicurezza». Esso recita:

«In attesa che entrino in vigore accordi speciali, previsti dall’articolo 43, tali, secondo il parere del Consiglio di Sicurezza, da rendere ad esso possibile di iniziare l’esercizio delle proprie funzioni a norma dell’articolo 42, gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il 30 Ottobre 1943, e la Francia, giusta le disposizioni del paragrafo 5 di quella Dichiarazione, si consulteranno tra loro e, quando lo richiedano le circostanze, con altri Membri delle Nazioni Unite in vista di quell’azione comune necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale»20. Tuttavia, né gli accordi ad hoc tra il Consiglio di Sicurezza ed i

singoli stati o i gruppi di membri sono mai stati stipulati né l’articolo 106 ha mai trovato applicazione.

In questa sede è doverosa una precisazione in merito alla superiorità dello statuto delle Nazioni Unite rispetto ad altri trattati internazionali. Qualsiasi studente di relazioni internazionali, di fatto, è ben consapevole della superiorità del diritto internazionale sul diritto interno. Ciononostante, la questione della gerarchia tra le diverse fonti del

(33)

33

diritto internazionale tutt’oggi si rivela essere abbastanza controversa e spinosa. Cionondimeno, è possibile concordare sul fatto che esistono poche norme internazionali «superiori» che si impongono inevitabilmente a tutti e alle quali non è in alcun modo possibile contravvenire. In questo caso si è nell’ambito della cosiddetta «supra-legalità» internazionale. Al suo interno, oltre allo ius cogens, vale a dire le norme imperative, vi si trova anche il mantenimento della pace. Di fatto, la superiorità della Carta dell’ONU, rispetto ad altri trattati e accordi internazionali, viene stabilita, e, mediate la ratifica, riconosciuta ed accettata da tutti i membri della medesima organizzazione dall’art. 103 contenuto nel capo XVI ed intitolato «Disposizioni varie». Tale articolo recita:

«In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto»21. È chiaro, dunque, che gli accordi precedentemente stipulati rimangono in vigore tra le parti contraenti, ma non possono in alcun modo essere opponibili ai paesi terzi e alle Nazioni Unite. A conferma di quanto affermato dall’art. 103 vi è una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che, nel 1984, dovette pronunciarsi in merito al famoso caso delle attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua concludendo la sentenza riconoscendo che gli accordi regionali, bilaterali e addirittura multilaterali stipulati tra le parti in causa il cui oggetto fosse la risoluzione delle controversie o la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia fossero in qualsiasi caso subordinati all’art. 103 dello statuto dell’ONU. Inoltre, la superiorità dello statuto dell’ONU viene formalmente e chiaramente riconosciuta da molti trattati e convenzioni internazionali, ad esempio dal Patto Atlantico del 1949, dalla Carta dell’Organizzazione degli Stati dell’America Centrale del 1951 ed in fine, dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969.

Emerge chiaramente dal Capo VII della Carta dell’ONU che l’obiettivo di tale organizzazione e di tutti i suoi membri è quello di evitare che le popolazioni globali, e soprattutto le generazioni future, possano rivivere una nuova guerra mondiale e tutte le terribili atrocità ad essa collegate. Per poter dunque preservare e mantenere pace, sicurezza e stabilità a livello internazionale, le Nazioni Unite, attraverso la diretta azione decisionale dei suoi organi principali, soprattutto del Consiglio di Sicurezza,

(34)

34

possono ricorrere a diversi mezzi, dalle semplici raccomandazioni all’utilizzo della forza autorizzato dallo stesso consiglio. Se da un lato le raccomandazioni non hanno natura giuridicamente vincolante e quindi possono essere accolte come rigettate dai membri, le decisioni, che per essere adottate prevedono una votazione favorevole di almeno 9-6 dei quindici membri del Consiglio di Sicurezza, hanno natura giuridicamente vincolante e quindi non possono che essere rispettate ed implementate da tutti i membri.

Come emerso dagli articoli precedentemente analizzati, è evidente che il ricorso a misure che non implichino l’utilizzo della forza è preferito a quelle che invece necessitano di esso. Tuttavia, ogni caso è a sé e pertanto non è da escludere che il Consiglio di Sicurezza talune volte decida di ricorrere in prima istanza a misure coercitive senza passare prima per le mere raccomandazioni.

Per quel che concerne nello specifico le operazioni per il mantenimento della pace, secondo una parte della dottrina si possono collocare in una zona grigia, a metà tra il capitolo VIdello statuto, quello inerente alla soluzione pacifica delle controversie, e il capitolo VII. Tali missioni si distinguono dalle azioni coercitive poiché vi è il consenso dello stato territoriale. Se tale consenso venisse a mancare allora non si sarebbe più nell’ambito delle missioni di peacekeeping.

Normalmente le operazioni per il mantenimento della pace vengono avviate in caso di:

I. Conflitto internazionale e intestatale;

II. Conflitto interno, il cosiddetto conflitto intra-statale.

Nella prima fattispecie tali missioni, assumendo la sembianza di una forza d’interposizione, hanno l’obiettivo di tenere a debita distanza i contendenti. Nel secondo caso, invece, l’obiettivo dell’operazione può essere la completa ed effettiva applicazione della legge e dell’ordine, può, in seconda istanza, consistere nella garanzia della distribuzione degli aiuti umanitari o infine può servire da barriera tra il governo legittimo e le fazioni avversarie.

Altra caratteristica di non trascurabile importanza di codeste operazioni è il limitato uso della forza, della violenza ed in generale delle armi. L’utilizzo della forza viene contemplato solo ed esclusivamente in caso di attacco diretto agli operatori e quindi per legittima difesa.

Riferimenti

Documenti correlati

Secondo la Cassazione, fornendo la prova documentale che i soldi sono il frutto di regali di matrimonio, l’Agenzia delle Entrate non può fare nulla?. Questo perché, come detto,

esecuzione ad unordinanza di custodia cautelare emessa dalla Procura della Repubblica aretusea a carico di 12 soggetti (10 in carcere e 2 divieti di dimora nella provincia di

Alberto Osenda, presidente della BCC di Casalgrasso e Sant’Albano Stura, mostra ottimismo perché, nonostante i divieti per l’emergenza sanitaria abbiano impedito di approvare

Altre cariche presso Enti pubblici o privati e relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti. (art.

Nonostante dall'inizio dell'anno l'uso della Cassa integrazione in Italia sia diminuito dell'80%, esso continua a rimanere molto alto in comparti come l'auto e il tessile (settore

L’evasione contributiva diventa reato quando l’omissione o la falsità delle registrazioni o delle denunce obbligatorie supera l’importo mensile di 2.582,28 euro e la

Marco DI MAIO (IV), intervenendo da remoto, ringrazia il rappresentante del Go- verno per l’ampia illustrazione delle mi- sure in campo edilizio che si sono succe-

Devi sapere che quando si violano i doveri nei confronti della prole oppure si arreca loro un grave pregiudizio, come ad esempio disinteressarsi degli adempimenti