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Le contestazioni nell'esame testimoniale

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Academic year: 2021

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1

SEZIONE I

LA TESTIMONIANZA COME PROVA

DICHIARATIVA

Capitolo Primo

LA DISCIPLINA GENERALE DELLA PROVA

ORALE

. .

1. Introduzione. Mezzi di prova e accertamento del fatto.

Nell’alveo del processo penale, la prova dichiarativa costituisce il tipico mezzo di prova1 per la ricostruzione e l’accertamento dei fatti: tanto da essere considerata la “spina dorsale”2

di ogni sistema probatorio.

Con l’espressione “mezzo di prova”, inoltre, si suole “indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova”3

, destinato a far parte del patrimonio conoscitivo delle parti dell’organo giudicante; pertanto, come il testimone che racconta i fatti che egli ha direttamente percepito, l’elemento probatorio – direttamente utilizzabile dal giudice in sede decisionale – si forma solo in seguito all’esperimento del mezzo di prova.

Il processo penale è così costituito – nei suoi tratti essenziali – da una serie di istituti funzionali alla ricerca, alla raccolta e alla valutazione delle risultanze e delle narrazioni relative al fatto da accertare, “che il giudice utilizzerà per ricostruire una realtà non più esistente. In mancanza

1 Il codice di rito penale prevede ben sette diversi mezzi di prova “tipici”, ovvero

dettagliatamente regolamentati dalla legge nelle loro caratteristiche e diverse modalità di assunzione. Essi sono: la testimonianza, l’esame delle parti, il confronto, la ricognizione, l’esperimento giudiziale, la perizia (affiancata dalla consulenza tecnica di parte)ed il documento.

2 SABATINI, Prova testimoniale (diritto processuale Penale e diritto processuale

militare), in Nss. D.I. XIV, Torino, 1965, p. 365.

3

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2 di una conoscenza diretta, l’unico mezzo per ricomporre il passato risiede, allora, nelle indicazioni che si possono ricavare da quelli che il codice di procedura penale definisce “mezzi di prova”: e tra essi, un posto di rilievo non può non avere la testimonianza”4, cioè il racconto di coloro che hanno assistito al verificarsi di un determinato evento rilevante per l’accertamento della verità.

In conclusione, come evidenziato da autorevole dottrina, “se la testimonianza è il mezzo di prova, la dichiarazione testimoniale costituisce l’elemento ottenuto dal testimone (fonte di prova) attraverso la testimonianza (mezzo di prova), che permette di giungere al risultato di prova che sarà confrontato con l’affermazione probatoria rappresentante l’oggetto di prova”5

. .

.

2. Prove rappresentative e prove indiziarie .

In via generale, all’interno del sistema probatorio, l’espressione “prova” la si trova tradizionalmente utilizzata, da una parte, come “prova storica” o “prova rappresentativa” e, dall’altra, come “prova critica” o “prova indiziaria”

Alla categoria della prova rappresentativa appartengono le prove che hanno la caratteristica di rappresentare direttamente il risultato probatorio e, dunque, si sostanziano in quel ragionamento con cui il giudice ricava da un fatto noto, per rappresentazione, l’esistenza di un fatto storico da provare: come espresso da autorevole dottrina6, infatti, nella prova de qua, “il fatto è espresso, descritto con i segni linguistici (parole o altri simboli), dove il rapporto tra le due facce del segno è di equivalenza”.

4

FADALTI, La testimonianza penale, Milano, 2008, p. 2.

5 CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali,

Milano, 2011, p. 61.

6

FERRUA, Imputato e difensore nel nuovo processo penale, in AA.VV. Studi sul

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3 Ad esempio, se si ha di fronte il testimone Tizio il quale riferisce che ha visto un certo soggetto Caio sparare e uccidere un uomo, il fatto noto è la dichiarazione di Tizio (che narra quanto ha visto), mentre il fatto storico – rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone – è quello ricavato direttamente dalla dichiarazione testimoniale resa sul punto; “naturalmente, il giudice deve valutare l’affidabilità della fonte e l’attendibilità della rappresentazione prima di decidere se e quale “risultato probatorio” se ne possa ricavare. È una valutazione razionale di credibilità e di attendibilità basata su regole logiche, scientifiche e di esperienza – e su regole giuridiche che indicano come il giudizio deve svolgersi in modo da essere razionale e controllabile successivamente”7

.

La prova critica, invece, individua una categoria probatoria in cui le prove sono costituite da quegli “elementi indiziari” dai quali il giudice – mediante un processo intellettuale basato su massime d’esperienza e leggi scientifiche – ricava l’esistenza di un fatto storico rilevante per il processo. Con il termine “indizio”, pertanto, a differenza della prova rappresentativa, ci si riferisce a quel ragionamento con cui l’organo giudicante, da un fatto noto e provato (la cd circostanza indiziante), ricava l’esistenza di un ulteriore fatto che deve essere provato (come, ad esempio, il fatto contestato all’imputato). Come anticipato, “il collegamento tra la circostanza indiziante e il fatto da provare è costituito da un’inferenza basata su di una massima d’esperienza o su di una legge scientifica. L’oggetto da provare può essere sia il fatto storico che è addebitato all’imputato (e che è denominato nella prassi “fatto principale”); sia un’altra circostanza indiziante, che viene denominata “fatto secondario” e dalla quale, con una ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale”8.

7 TONINI, CONTI, Il diritto delle prove penali, Milano, 2012. p. 48. 8

TONINI, CONTI, Il diritto delle prove penali, Milano, 2012. p. 49. Sulla definizione di “massime d’esperienza”, lo stesso autore (nota n. 12) riporta il risalente contributo di STEIN, Das private Wissen des Richters. Untersuchungen zum Beweisrecht Prozesse, 1893, p. 21, secondo il quale le massime d’esperienza sono “giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto da decidersi nel processo e dalle singole

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4 Già in prima analisi risulta chiara la differenza tra i due istituti probatori9, posto che, se il primo (la prova rappresentativa) consente di ricavare il fatto ignoto (da provare) da un fatto noto (la dichiarazione del testimone), il secondo (la prova indiziaria) permette di desumere, dal fatto provato (la circostanza indiziante), l’esistenza del fatto da provare utilizzando esclusivamente un ragionamento inferenziale (generalmente, nella prassi, le cd massime d’esperienza).

A titolo di esempio, si consideri – in un caso di omicidio – la dichiarazione del testimone Tizio che attesta di aver visto un uomo uscire di corsa da una abitazione a una determinata ora della notte; dai successivi riscontri della polizia, inoltre, risulta che l’orario del decesso della vittima corrisponde a quello affermato dal teste e che l’arma del delitto è un coltello. Una volta che Tizio ha identificato un certo soggetto Caio come colui che è uscito dall’abitazione, in sede d’interrogatorio, quest’ultimo si avvale della facoltà di non rispondere. A questo punto, sul versante della prova indiziaria, al giudice sarà concesso, secondo i casi, richiamarsi a:

a) Massime d’esperienza. Accertati i fatti di cui sopra, il giudice

potrà formulare regole d’esperienza ricavandole da casi simili al fatto provato. In base ad una prima massima – per cui risulta improbabile che un soggetto, uscendo dall’abitazione di un’amica appena ferita, non si precipiti a denunciare il fatto e a chiedere soccorso – Caio sarà ritenuto colpevole. Per contro, sulla scorta di una seconda massima di senso

circostanze, conquistati con l’esperienza ma autonomi nei confronti dei singoli casi, dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre ai quali devono valere per nuovo casi”.

9 FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale,

Torino, 1992, p. 78, il quale sottolinea come la prova rappresentativa-testimoniale si riveli morfologicamente molto più complessa di quella critico-indiziaria, come apparirebbe isolando “un frammento di argomentazione giuridica che assuma come fatto da provare il “vento” e come fatto probatorio ora una dichiarazione di prova (il teste che lo afferma), ora una prova critica (“l’agitarsi degli alberi”)”. Mentre la prova critica – si dice – implica un solo passaggio dal fatto-indizio al fatto-indicato (dagli alberi che si agitano al vento), la prova testimoniale si struttura secondo due passaggi logici: “l’uno, pressoché automatico, dalle parole dell’emittente al loro significato, nel senso che ne estrae il ricevente (l’informazione relativa al vento, dove sapere che qualcuno dice che c’è vento non equivale ancora a sapere che c’è vento); l’altro, dal senso ricevuto al suo referente, vale a dire, nella terminologia della verità come corrispondenza, dalla proposizione a ciò di cui essa è vera o falsa (nella specie la realtà del vento)”.

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5 opposto, l’omessa denuncia del fatto e l’omessa richiesta di soccorsi – sulla base che lo stesso soggetto, una volta scoperto il delitto, potrebbe essere stato talmente spaventato e sconvolto da essere indotto a non agire razionalmente – non permetterebbero al giudice di ritenere Caio autore del fatto in modo univoco; in tal caso, infatti, l’unica circostanza indiziante sarebbe quella secondo cui Caio è stato visto uscire dall’abitazione della vittima a una data ora).

b) Leggi scientifiche. Sempre in relazione all’esempio sub a), può

accadere che l’autorità giudiziari rinvenga, nella casa della vittima, l’arma del delitto con le impronte digitali del presunto assassino; se, dai riscontri tecnici, applicando la legge scientifica ad hoc, risulta identità tra le impronte rilevate sul coltello e quelle prelevate da Caio, da ciò si ricava l’ulteriore circostanza indiziante che Caio ha impugnato l’arma del delitto. “A sua volta, a questo fatto è applicabile una regola di esperienza che ci consente di affermare che, molto probabilmente, Caio ha ucciso [la vittima] con quel coltello (“fatto addebitato” all’imputato detto anche, “fatto principale”)”10 . . . .

Capitolo Secondo

TESTIMONIANZA E PROVA DICHIARATIVA

. .

1. La testimonianza quale prova dichiarativa per eccellenza.

Prova dichiarativa per antonomasia – perché capace di rievocare “mediante il discorso, l’immagine del fatto da provare”11

– è, senza dubbio, la testimonianza, che può essere sinteticamente definita, sia come “la narrazione che qualcuno fa della propria esperienza di fronte al giudice e

10

TONINI, CONTI, Il diritto delle prove penali, Milano, 2012. p. 50.

11

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6 alle parti”12

oppure, molto più semplicemente, come la narrazione dei fatti da parte di coloro che vi hanno assistito.

Da un punto di vista strutturale, la testimonianza integra, pertanto, una prova “strutturalmente complessa”, i cui profili maggiormente rilevanti sono due: un profilo oggettivo, costituito dalla narrazione-rappresentazione del fatto narrato; e un profilo soggettivo, determinato dal comportamento- atteggiamento del testimone, inteso come indice di credibilità e attendibilità della prova dichiarativa. Sotto il profilo oggettivo (narrazione del fatto da provare), la testimonianza “come rappresentazione del factum

probandum è una dichiarazione di verità circa percezioni sensorie ricevute

dal dichiarante fuori dal processo, attuale e relativa ad un fatto passato, caratterizzata dalla veridicità e dalla fedeltà; in quanto comportamento, implica un giudizio di sincerità, poiché chiama in causa i “fatti” che la qualificano e che ne attestano la spontaneità, l’univocità, l’ambiguità e la contraddittorietà”13

.

Occorre sottolineare, inoltre, come veridicità e sincerità – utilizzati rispettivamente in seno al primo e al secondo profilo de quibus – non si equivalgono affatto: si può, infatti, essere sinceri e non veritieri, poiché: “la sincerità ha un valore puramente soggettivo e si riferisce ad un’attitudine psicologica, alla tendenza a dire quello che si pensa, ed è accompagnata quasi sempre da quell’atteggiamento spontaneo che è la franchezza, che ha particolari note fisiognomiche, mentre la veridicità si riferisce ad una esatta rispondenza di questo stato suriettivo con la realtà obiettiva”14

. Considerazione rilevante, soprattutto se si pensa che spesso, come accade, si confonde il giudizio di sincerità con quello di falsità: il primo (giudizio di sincerità) consiste nell’individuazione della volontaria falsa dichiarazione da parte del testimone, il secondo (giudizio di falsità) consiste, invece, nel cogliere la capacità del testimone di ricordare e riferire i fatti con fedeltà e precisione.

12 PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Torino, 2002,

p. 1.

13

FADALTI, La testimonianza penale, Cit. p. 2.

14

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7 A questo punto, dunque, la dichiarazione testimoniale – che, insieme alla nozione di “testimone”, il legislatore non si è preoccupato di definire15 – può essere descritta “come la narrazione, resa nel corso del procedimento, di un’esperienza passata del dichiarante che può essere utilizzata dal giudice per controllare le differenti ricostruzioni fattuali proposte e scegliere quali di esse sia preferibile perché maggiormente confermata e non validamente confutata”16

. Nella definizione testé prospettata, il termine “esperienza”, al posto di “fatto”, non è stato utilizzato a caso poiché – sia per quanto si è detto sulla differenza tra giudizio di sincerità-falsità, sia per quanto verrà esposto in tema di psicologia testimoniale – “il testimone non si limita a esporre il nudo fatto, così come si è presentato nella realtà, ma riferisce come questo sia stato da lui percepito e interpretato. Nella testimonianza, tralasciando l’ipotesi in cui l’esperienza sia frutto di fantasia (…), i fatti percepiti si fondano con le valutazioni personali del dichiarante. Ne deriva che la dichiarazione testimoniale si presenta non come una neutrale descrizione del fatto, bensì come un giudizio (o meglio, un insieme di giudizi) sul fatto medesimo”17.

15 Al riguardo, CORSO, La qualità di testimonio nel processo penale, in Giust. Pen. 1973,

p. 580, osserva che “quello della prova testimoniale è un settore dove molto è lasciato alla solerzia definitoria dell’interprete, a cominciare dal concetto stesso di testimonianza”. In dottrina, inoltre, sono molti i tentativi di definire l’istituto della testimonianza: sul punto, si veda MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, Torino, 1032, p. 183, secondo cui “la testimonianza in senso proprio è la dichiarazione, positiva o negativa, di verità, resa davanti al magistrato penale, circa percezioni sensorie ricevute dal dichiarante fuori da processo attuale, relativa ad un fatto passato, e diretta allo scopo della prova, cioè all’accertamento della verità”; si veda anche SABATINI, Prova testimoniale (diritto

processuale penale e diritto processuale militare), Cit. p. 369, che definisce la

testimonianza come la “manifestazione orale di produzioni mnemoniche relative ad esperienze reali del soggetto con dichiarazioni rese al magistrato e da questi raccolte ai fini dell’accertamento della verità di un processo”.

16 CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit.

p. 61.

17 CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit.

p. 62. A tale riguardo, CARNELUTTI, La prova civile, Parte generale. Il concetto

giuridico della prova (1947), Milano, 1992, p. 155, secondo cui “la testimonianza (…) si

concreta in una manifestazione dell’idea, che il testimonio ha del fatto medesimo”; DE LUCA, Prova testimoniale e prova documentale in tema di falsità di atti, in Foro.it, 1955, p. 13, il quale rammenta che “l’oggetto della testimonianza è dato non tanto da un fatto, quanto da una esperienza del testimone: più esattamente il fatto, in quanto cade sotto i sensi del testimone, serve a procuragli un’esperienza che egli narra al giudice affinché questi se ne serva per la decisione”. sul concetto di testimonianza e giudizio del dichiarante, CARNELUTTI, Principi del processo penale, Cit. p. 163, il quale definisce la

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8 Merita una nota a parte la qualifica di “testimone”, anch’essa orfana di definizione da parte del legislatore. In tal senso, la nozione che di essa si ha nel linguaggio comune – ovvero “la persona che può far fede di un fatto per averne diretta “conoscenza”18

– può essere certamente adottata anche in abito giuridico. Occorre precisare, tuttavia, che in quest’ultimo contesto la parola testimone, non solo indica un soggetto “ritenuto” a conoscenza di determinati fatti, ma anche quel soggetto chiamato ad offrire il proprio “contributo conoscitivo” per l’accertamento giudiziale degli stessi; con la conseguenza che, in merito alla differenza tra situazione testimoniale di fatto e situazione giuridica processuale, “per ritenere realizzata la situazione di “testimonio”, non basta la mera eventualità che un soggetto risulti essere informato dei fatti per cui si procede, ma è, invece, necessario che un atto del procedimento contenga l’attribuzione non equivoca della veste di testimonio, ad una persona determinata”19

.

La qualità di testimone, inoltre, come rilevato da autorevole dottrina, non presuppone la necessaria sussistenza del disinteresse20 rispetto ai fatti o all’esito del processo; pertanto, “il disinteresse e la

testimonianza “un tessuto di giudizi passati; [ovviamente, il testimone] non è chiamato, come invece il consulente, a pronunciare giudizi sulle esperienze altrui; ma le esperienze proprie senza giudizi non le potrebbe narrare”; in toni critici, DE LUCA, Prova

testimoniale e prova documentale in tema di falsità di atti, Cit. p. 14, secondo cui “il

testimone il quale, anziché narrare o dopo aver narrato la propria esperienza sui fatti, emette un giudizio intorno ai medesimi perde per ciò stesso quell’abito di imparzialità che costituisce la nota caratteristica della sua figura. In secondo luogo il giudizio del testimone è inutile, giacché il giudice, se raramente è in grado di percepire ciò che il testimone ha percepito, può quasi sempre giudicare da sé o con l’assistenza del perito intorno ai fatti sui quali il teste ha manifestato il proprio apprezzamento suriettivo”.

18 DEVOTO, OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze 1995, p. 2025.

19 CORSO, La qualità di testimonio nel processo penale, in Giust. Pen. 1973, c. 584. 20

Significativa è la Relazione al progetto preliminare c.p.p., in Il nuovo codice di

procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, a cura di CONSO, GREVI,

NEPPI MODONA, Il progetto preliminare del 1988, Padova, 1990. P. 581 s.: “l’interesse di un soggetto in ordine all’oggetto del processo non deve essere, di per sé, motivo di esclusione della sua testimonianza, ma può solo costituire uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice si deve avvalere nell’apprezzare l’attendibilità della prova”. al contrario, per un’opinione volta a richiedere il disinteresse, si veda PISANI, La tutela

penale delle prove formate nel processo, Milano, 1959, p. 156, secondo cui il testimone

(9)

9 terzietà non sono requisiti indispensabili per assumere la qualità di testimone [e questi può] ben essere parziale”21.

A questo punto, una volta messi in luce i rischi derivanti dall’intrinseca e fisiologica inaffidabilità della prova testimoniale – sulla scorta del principio secondo cui un soggetto è inattendibile quanto meno è estraneo ed indifferente ai fatti narrati – nel sistema processuale non mancano tutta una serie di istituti volti a responsabilizzare il testimone di fronte all’esigenza di rispondere secondo verità (si veda, ad esempio, il giuramento che egli deve prestare ex art. 497 comma 2 c.p.p.). Si tratta, tuttavia, “di accorgimenti non sufficienti, in grado di svolgere solo una funzione “deterrente” nei confronti del potenziale mendace. [Pertanto] il solo strumento che consente di vagliare in tutte le sue componenti la testimonianza resta il contraddittorio, che si esprime nell’esame diretto e nel controesame del teste ad opera delle parti. Sussiste, pertanto, una sorta di “affinità elettiva” tra questo metodo conoscitivo e la prova testimoniale, nel senso che esso consente, in linea di principio, di estrarre il massimo contributo del teste con il più basso rischio di false dichiarazioni”22

. . . . . .

21 TONINI, La prova penale, app. agg. Padova, 2001, p. 29. Nonché KALB, La

“ricostruzione orale” del fatto tra “efficienza” ed “efficacia” del processo penale”,

Torino, 2005, p. 57. Pertanto, il legislatore non ritiene la terzietà un connotato immancabile del contributo testimoniale, nonostante non siano mancate voci contrarie come DOSI, La cd “testimonianza della parte” e l’obbligo di verità, in Riv.it., Dir. proc. pen. 1963, p. 430, secondo cui “la figura del testimone è sempre stata associata alla figura del “terzo” (rispetto alle parti) estraneo al processo”.

22

PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Cit. p. 5. Sempre a nota dell’autore “di centralità della testimonianza nel quadro dell’accertamento si potrebbe forse parlare con certezza solo nell’ambito degli ordinamenti common law, dove la prova “reale” è sempre, per così dire, “sponsorizzata” da un testimone, tanto che la cosa o il documento sono introdotti con la deposizione orale del custode, del possesso o del possessore o dell’autore. E’ il caso della cd chain of custody, dove, al fine di “legare” la produzione dibattimentale di un oggetto all’imputato – ad esempio, l’arma del delitto – si devono provare per mezzo di testimonianze i vari passaggi di mano”.

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1.1. Il ruolo fondamentale di ricerca della verità.

Nonostante che il progresso degli strumenti scientifici tenda, per sua natura, ad espandere progressivamente l’area di incidenza della cd “prova tecnica”, a discapito dell’incontrastato dominio di quella orale (si pensi ad, esempio, all’uso delle videoregistrazioni, della fotografia e in generale di tutte le prove lato sensu peritali), la prova dichiarativa continua a ricoprire un ruolo centrale, spesso decisivo, nell’abito degli strumenti gnoseologici finalizzati alla ricerca della verità23: “il processo riguarda un brano di vita vissuto, un frammento di vita sociale, un episodio dell’umana convivenza, ond’è naturale, inevitabile, che venga rappresentato mediante vive narrazioni di persone”24

. In conclusione, l’avvento delle prove tecnico-scientifiche di cui si è detto, “non intacca [minimamente] il significato epistemologico della prova testimoniale, che resta ineliminabile dal processo”25.

La prova dichiarativa risulta talmente essenziale per la vicenda processuale penale, da potersi affermare che l’imprescindibilità del suo ruolo è rimasta costante in entrambi i sistemi rituali che hanno caratterizzato la procedura penale dal 1930 ad oggi; questi, infatti, “non possono toccare la natura intima di codesta prova, la quale evidentemente nel suo contenuto rimane sempre la medesima”26

. Nondimeno, la prova dichiarativa (e, in particolare la testimonianza) “costituisce senz’altro la prova sulla cui disciplina maggiormente si riverberano le linee del sistema

23

BUZZELLI, Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una sbrigativa

ordinanza della Corte Costituzionale, in Giur. cost. 2002, p. 328, che rileva come “il teste

continua ad avere, nonostante tutto, la medesima posizione centrale riservatagli dai dottori del medioevo che prediligevano spesso il seguente ordine per indicare i protagonisti della scena giudiziaria: iudex, testis, accusator, defensor”.

24

FLORIAN, Delle prove penali, Milano, 1961, p. 331. Ed ancora PAULESU, Giudice e

parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Cit. p. 3, il quale afferma che “del resto,

la conoscenza per mezzo della comunicazione verbale si atteggia a strumento di base di tutta la nostra vita di relazione, dato che la maggior parte degli eventi noi li apprendiamo in quanto qualcuno ce li narra”. Infine, GIULIANI, Il concetto di prova, contributo alla

logica giuridica, Milano, 1961, p. 176, secondo cui “la struttura del mondo sociale,

storico è basata sulla testimonianza”.

25

PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Cit. p. 5.

26

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11 in cui è destinata a operare”27, poiché “è in questa attività che si esprimono

i diversi stili processuali”28.

Nel sistema inquisitorio, si dava per scontato che esisteva una verità e che gli organi deputati all’istruzione dovessero scoprirla, cristallizzando i risultati della ricerca in atti utilizzabili nel giudizio. Emblematico, era l’art. 299 del previgente codice di procedura penale che, nel definire i doveri del giudice istruttore, stabiliva che questi aveva “l’obbligo di compiere

prontamente tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione appaiono necessari per l’accertamento della verità”.

Questo tipo di processo, dunque, implica che ci sia sempre una verità e che – sul presupposto che debba essere scoperta – impone al giudice di ricercarla. Emblematico è il caso dell’assunzione della prova dichiarativa dove, in base al principio della libertà delle forme, l’interrogatorio del teste era condotto dall’organo inquirente in segreto e senza la presenza della difesa; ma non solo, poiché sul contr’altare della libertà dei metodi assuntivi, l’ordinamento prevedeva il principio della predeterminazione legale del valore da attribuire alle dichiarazioni testimoniali raccolte.

Da questi principi, dunque, è facile comprendere la concezione di “verità” perseguita nel sistema inquisitorio: essa, “essendo concepita come assoluta o sostanziale, e conseguentemente “unica”, non può essere di parte, e non ammette quindi la legittimità di punti di vista contrastanti”, ne tollera rigide regole procedurali o restrizioni nei mezzi gnoseologici utilizzabili.

Al contrario, il sistema accusatorio si caratterizza non per la “necessaria ricerca della verità assoluta”, ma per l’accertamento della

27 STRULA, Prova testimoniale, in D. disc. Pen. Torino, 1995, p. 406. 28

FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 2004, p. 628. Analogamente, PISAPIA, Relazione introduttiva, in La testimonianza nel processo

penale, Milano, 1974, p. 17, il quale osserva come “la disciplina di questo mezzo di prova

varii a seconda che essa si collochi in un processo di tipo accusatorio o di tipo inquisitorio”.

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12 verità giudiziale29, in un contesto processuale dove accusa e difesa dibattono – in una posizione di parità – davanti ad un giudice terzo ed imparziale, avente l’esclusiva funzione di decidere sulla base di risultanze portate alla sua conoscenza elusivamente dalle parti, con modalità tassativamente predeterminate.

Pertanto, nel sistema accusatorio, considerando che la verità non concerne i fatti in quanto tali (che possono soltanto “essere” o “non essere”), ma l’affermazione ad essa relativa30

, “anche l’enunciato ottenuto dalla deposizione testimoniale non costituisce lo strumento attraverso cui accertare il fatto nella sua datità; più modestamente, il suo ruolo sarà quello di confermare o negare l’assunto probatorio costituente l’oggetto di prova e, in ultimo, essere a disposizione del giudice per la verifica dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, contenuta nell’accusa. Dal testimone, dunque, non si esige un’impossibile Verità, una narrazione “totalmente conforme” a quanto successo; egli ha “solamente” l’obbligo di rendere un contenuto narrativo di quanto da lui percepito e conservato nella sua memoria, senza, per questo, assurgere a utopistica “bocca della Verità””31

. . .

2. Principio legalistico e obbligo di verità.

Con il codice di procedura del 1988, ripudiata la prassi secondo cui la verità poteva essere accertata anche con metodi lesivi della libertà fisica

29 Sul punto, UBERTIS, Fatto e valore del sistema probatorio penale, Milano, 1979, p.

129, il quel definisce la verità in quanto “giudiziale”: “sia perché conseguita nel giudizio, inteso come fase processuale o “luogo” in cui la dialettica si realizza, sia perché derivante dal giudizio, inteso tanto come attività di ricerca degli elementi su cui si fonda una deliberazione quanto come formazione di quest’ultima, sia perché manifestata tramite il giudizio, inteso come decisione e sua definitiva pronuncia giurisdizionale”.

30 Sul punto, UBERTIS, Sistema di procedura penale, Principi generali, Torino, 2007, p.

48, secondo il quale “un fatto “è” o “non è”; soltanto la sua enunciazione può essere “vera” o “falsa”. Caratteristica di un fatto che si sostiene accaduto nel passato può essere la sua esistenza, ma non la sua verità”.

31

CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit. p. 6.

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13 e morale del dichiarante, nasce una “civiltà delle prove penali”32 “che, da una parte, fissa un metodo di ricerca della verità e, dall’altra, argina l’opera ricostruttiva degli attori processuali, evitando che questa possa spazzare via altri interessi degni di tutela”. Il principio di legalità, secondo il quale è soltanto la legge a stabilire le regole per giungere alla conoscenza, viene esteso anche all’ambito delle prove penali; un principio che oggi, trova manifesta consacrazione costituzionale in quell’art. 111 comma 1 Cost. dedicato espressamente alla materia processuale.

Per quanto attiene più da vicino alla prova dichiarativa, com’è stato puntualmente sottolineato, anche quest’ultima, “come ogni altro prodotto di un’attività giuridicamente regolata (…), riesce efficace (e cioè processualmente rilevante), nella misura in cui è stato realizzato il modello legale”33: ciò significa che la testimonianza – al pari, si ribadisce, di ogni altra prova – deve essere assunta nei casi e con le modalità di volta in volta tassativamente disciplinate dal legislatore (ex artt. 190 ss. c.p.p.), lasciando al giudice il ruolo esclusivo in ordine alla sua valutazione.

Posto il principio, data la disciplina: pur nella vigenza del generale riconoscimento secondo cui “ogni persona ha la capacità di testimoniare” (ex art. 196 c.p.p.), infatti, il codice di procedura penale – nella cd disciplina statica della testimonianza – si preoccupa di individuare tutta una serie di situazioni in cui un soggetto “non può assumere la funzione di fonte di prova (ipotesi di incompatibilità), non può esserlo in relazione a ben determinati oggetti di prova (casi in cui il testimone è titolare di un segreto), oppure non può essere costretto a deporre (per non auto-incriminarsi o per non nuocere all’imputato prossimo congiunto). [Tanto che] una deposizione assunta in violazione del divieto di testimoniare o di del divieto in capo al giudice di costringere il dichiarante a deporre, sarà così inutilizzabile”34

.

32 NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, p. 100. 33 CORDERO, Il procedimento probatorio, Cit. p. 55.

34

CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit. p. 7.

(14)

14 Oltre all’an della prova testimoniale, il codice si preoccupa di prescriverne il quomodo, affidando l’intero esperimento della prova dichiarativa in seno al meccanismo dell’esame testimoniale incrociato, condotto dalle parti e garantito dall’organo giudicante. Pertanto, pure in sede dinamica, la dichiarazione orale viene tutelata da tutta una serie di regole sancite dall’art. 499 c.p.p.: divieto di domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte, al rispetto della persona e alla libertà di autodeterminazione. Tutto ciò, anche in considerazione del principio, perentoriamente affermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui la

“testimonianza (…) non deve mai tradursi, per il modo in cui è condotta, in violazioni della dignità e del rispetto dovuto alla persona del teste medesimo”35

.

Ulteriore questione di estrema delicatezza – per garantire la genuinità della prova dichiarativa – riguarda l’obbligo del testimone di rispondere secondo verità. Infatti, “a differenza del problema dell’adeguata capacità del testimone di percepire e narrare i fatti oggetto del giudizio, il quale viene alla ribalta solo qualora vi siano elementi tali da far sorgere dubbi al riguardo, la questione di garantire la sincerità del dichiarate connota ogni testimonianza e prescinde dalle capacità della persona chiamata a deporre”36.

Pertanto, accanto ai divieti de quibus posti dal legislatore a tutela della prova dichiarativa, merita di essere approfondita la peculiare disposizione contenuta nell’art. 497 comma 2 c.p.p., per il quale “prima

che l’esame abbia inizio, il presidente [del collegio o il giudice monocratico] avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità”; un dovere

– conviene sottolinearlo – destinato a mantenere i suoi effetti lungo l’arco dell’intero procedimento e che, seppur non risulti un elemento costitutivo della esame testimoniale, ne rappresenta la nota caratterizzante rispetto

35 C. COST. sent. 30 luglio 1997 n. 283, in Giur. cost. 1997, p. 2567. 36

CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit. p. 107.

(15)

15 all’audizione dibattimentale della parti (per le quali un siffatto obbligo non è previsto).

Prima che la deposizione abbia inizio, dunque, il presidente è tenuto ad avvertire il testimone che ha l’obbligo di dire la verità, informandolo – salvo che si tratti di persona infra-quattordicenne – sulle conseguenze penali previste dalla legge in ordine a dichiarazioni false e reticenti. Il presidente, altresì, invita il testimone a dare lettura della seguente formula37: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che

assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”. Una lettura,

quest’ultima, dalla quale il legislatore del 1988 ha tolto ogni connotazione religiosa, eliminando l’obbligo del giuramento e sottolineando, per tal via, come quella della veridicità sia “una richiesta fondamentalmente morale”38

e non anche spirituale.

La formula de qua, infatti, “comporta una responsabilizzazione morale e giuridica della persona sentita come testimone, la quale, da una parte, prende (o dovrebbe prendere) coscienza dell’importanza di svolgere l’ufficio rivestito e, dall’altra, non potrebbe dirsi inconsapevole della perseguibilità penale di un suo comportamento contrario a questo

37 Formula contenuta nello steso art. 497 comma 2 c.p.p.; Riporta FADALTI, La

testimonianza penale, Cit. p. 61, che “la formula laica coniata dal legislatore, sganciata da

ogni riferimento religioso-confessionale, ha cancellato il giuramento previsto dall’art. 142 del c.p.p. del 1930 dal novero degli strumenti di supporto alla testimonianza penale; essa costituisce un impegno pubblico e solenne che vincola giuridicamente e moralmente il testimone ad esporre i fatti di cui è a conoscenza in modo completo e fedele. Come ha precisato la Corte Costituzionale nel dichiarare l’illegittimità del’art. 251 comma 2 c.p.c., impiegando come “tertium comparationis” proprio l’art. 497, la soluzione prescelta dal legislatore rappresenta un’attuazione, fra quelle possibili, del “principio supremo di laicità” che, lungi dal significare un’indifferenza dello Stato verso i valori religiosi, costituisce una “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale” (C. COST. 5 maggio 1995, n. 149).

38 PASTORE, Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico. p. 214 s.

Contrariamente, sulla convinzione che il giuramento rappresenti una garanzia imprescindibile di verità, DOSI, La prova testimoniale. Struttura e funzione, Milano, 1974, p. 131, secondo cui il “giuramento (…) si rivela (…) come l’unica trincea posta a difesa della testimonianza e a sostegno della fides del testimone”; analogamente, MANGIAMELI, Il giuramento dei non credenti davanti alla Corte Costituzionale, in

Giur. cost. 1980, p. 546, per cui il venir meno del vincolo religioso significa “una rinuncia

aprioristica dell’ordinamento ad utilizzare il fattore religioso, sottovalutandosi il dato che in questo, generalmente, trova espressione uno dei maggiori valori morali dell’individuo, come tale particolarmente avvertito dalla coscienza sociale”.

(16)

16 impegno39. In ogni caso, sembra necessario sottolineare come la previsione di un simile impegno non può assicurare di per sé una deposizione veritiera, per due motivi specifici: da una parte, se è vero che l’obbligo di verità si rende efficace contro le deposizioni “false”, esso risulta impotente davanti alle più frequenti testimonianze “fallaci”; dall’altra, l’assunzione di una simile responsabilità comporta sia la piena consapevolezza morale del teste sia la mancanza di pressioni che possano, al contrario, rendergli preferibile la menzogna: altrimenti, “è facile che prevalga il desiderio di defilarsi. Cioè il desiderio di uscire (…) dalla vista del nemico, qui rappresentato dall’intera vicenda giudiziaria”40

.

In conclusione, occorre segnalare come spetti solo ed esclusivamente al presidente – magari su sollecitazione delle parti – reiterare al teste l’avvertimento di cui all’art. 497 comma 2 c.p.p.; lo stesso organo che, ex art. 499 comma 6, “interviene per assicurare la pertinenza

della domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni”.

. .

3. Prova dichiarativa e contraddittorio.

La prova dichiarativa si presenta strutturata in due elementi principali: il fatto narrato da una parte, e la qualità del testimone dall’altra; tanto da potersi affermare che il dato probatorio, come osservato da autorevole dottrina, “non è, semplicemente, il “contenuto della testimonianza”, ma la testimonianza stessa e il testimonio insieme”41

.

39 CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit.

p. 108.

40

BUZZELLI, Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una sbrigativa

ordinanza della Corte Costituzionale, Cit. p. 337 s., la quale, inoltre, osserva che “il teste

sente l’importanza della responsabilità morale se sussiste una “solida cultura del dovere sociale” di deporre; d’altro canto, su quello stesso testimone incombe il peso della responsabilità giuridica, a partire dal momento in cui la sanzione penale inizia ad avere efficacia di autentico deterrente in grado di influire sulla linea comportamentale di chi parla”.

41

MASSA, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1964, p. 271.

(17)

17 A questo punto, a tutela della credibilità e dell’affidabilità del dichiarante – fattori che condizionano inevitabilmente il giudizio d’attendibilità di quanto narrato – il legislatore, oltre ad aver predisposto l’obbligo penalmente sanzionato di verità, al fine di combattere il pericolo di deposizioni false o fallaci, ha, in secondo luogo, previsto la possibilità di ampliare l’ambito della testimonianza (oltre ai fatti correlati alla regiudicanda) alle circostanze in grado di consentire la valutazione di credibilità del testimone. Tuttavia, com’è stato giustamente sottolineato, “il problema dell’errore (genericamente inteso) non può essere affrontato solo a questa stregua; per favorire la genuinità delle dichiarazioni e soprattutto per scoprire quelle false, occorre agire direttamente sulle modalità di formazione della prova”42. E’ dato, difatti, riscontrare “uno stretto legame

logico-funzionale tra le caratteristiche morfologiche della testimonianza e la struttura del procedimento attraverso cui la medesima è introdotta e assunta nel processo”43; ed infatti, “al di là dell’individuazione dei soggetti

in grado di introdurre elementi di conoscenza da utilizzare ai fini della decisione, rilevano, in particolare, le modalità poste per l’assunzione dei contributi espositivi”44, con la conseguenza che “la quantità e la qualità di informazioni provenienti da una medesima fonte di prova personale possono subire variazioni anche decisive proprio in funzione del metodo di escussione”45

.

Se, pertanto, le modalità di assunzione del contributo testimoniale mantengono un ruolo essenziale al fine di garantire la massima genuinità della fonte dichiarativa, si può pacificamente sostenere che il “metodo di conoscenza”46

migliore per l’accertamento della verità è, indiscutibilmente, il metodo del contraddittorio, considerato il più efficace strumento per la

42 FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in ID, Studi sul processo

penale, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 79 s.

43 PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, p. 5. 44

KALP, La “ricostruzione orale” del fatto tra “efficienza” ed “efficacia” del processo

penale, Torino, 2005, p. 14.

45 AVANZINI, L’esame delle fonti di prova personali, in La conoscenza del fatto nel

processo penale, cit. p. 41.

46

(18)

18 formazione della prova penale in generale, e di quella dichiarativa in particolare.

Quello del contraddittorio, inoltre, non è un principio che il legislatore ha posto soltanto “a presidio del diritto individuale dell’accusato di confrontarsi con il suo accusatore, ma [è stato] prescelto, per il suo valore epistemologico, come migliore metodo di comprensione [dei fatti narrati, in quanto] il confronto dialettico fra le parti nell’assunzione della prova è ritenuto il più idoneo ed affidabile in ordine alla conoscenza che produce”47.

Come è stato appurato, infatti, “il dato cognitivo risulta non solo quantitativamente ma anche qualitativamente migliore se nel suo momento genetico viene garantito lo scontro dialettico, attraverso l’esame incrociato condotto dalle part. Sotto il primo profilo, affidare l’esame a tutti i soggetti interessati consente di sviluppare aspetti che altrimenti rimarrebbero celati. Dal punto di vista qualitativo, il contraddittorio e, in particolare, il controesame ad opera della parte avversaria, permettono di verificare concretamente – ed eventualmente smentire – il presupposto atteggiamento di fiducia verso la persona del testimone”48

. Il giudice – detto altrimenti – attribuisce un iniziale valore alla testimonianza, partendo da quella massima d’esperienza, debole e facilmente confutabile, secondo la quale il teste, non avendo propri interessi processuali, sia veritiero. Sta alle parti, allora, in sede di esame testimoniale, convincere il giudice dell’affidabilità, o meno, della fonte della prova dichiarativa che, come dimostrato da studi di psicologia giudiziaria, è facilmente influenzabile da molti e frequenti rischi di inquinamento.

L’esame incrociato e il contraddittorio nella formazione della prova che lo caratterizza, pertanto, implica “due parzialità che si fronteggiano sotto il controllo di un “terzo” impegnato a censurare gli effetti. Non è una ricetta infallibile, ma ha un doppio vantaggio: consente l’approfondimento

47 ZAVAGLIA, La prova dichiarativa nel giusto processo, cit. p. 15. 48

CASIRAGHI, La prova dichiarativa: testimonianza ed esame delle parti eventuali, Cit. p. 14 s.

(19)

19 critico per il quale spesso è necessario contrapporsi al testimone, contestare la sua versione dei fatti, e garantisce trasparenza ed equilibrio agli inevitabili influssi che si esercitano sulla persona esaminata. Mentre le parti possono eccepire ogni abuso nella formazione delle domande, il giudice valuta il dialogo, di cui è stato l’arbitro, con un distacco e con una lucidità che gli sarebbero precluse se lui stesso ne fosse il protagonista. Il tutto alla luce del giorno, lontano da quelle pratiche persuasorie, lusinghe o intimidazioni, che incombono sui colloqui segreti; dove, se alcuni riluttanti sono indotti a svelare ciò che sanno, altri finiscono per dire ciò che non sanno”49

.

49

FERRUA, Rischio contraddizione nel neo-contraddittorio, in Dir. giust. 2000, n. 1. p. 212.

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