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Esercizio provvisorio dell'impresa nel fallimento

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Academic year: 2021

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PREFAZIONE

Oggetto del presente lavoro è l’esercizio provvisorio dell’impresa, particolare strumento di diritto fallimentare che permette, all’interno della procedura fallimentare, di continuare l’attività d’impresa del fallito affidando tutti i poteri inerenti alla funzione gestoria al curatore. Si cercherà di delineare un quadro il più completo possibile della disciplina in questione, non soffermandosi solo sugli aspetti procedimentali ma ponendo l’attenzione anche su quelli che sono problemi

interpretativi e applicativi che essa presenta. Si evidenzieranno le difficoltà circa l’applicazione pratica dello strumento in questione e contemporaneamente quelle che sono le sue potenzialità, soprattutto in riferimento alla possibilità di garantire una liquidazione riallocativa dell’azienda evitando la disgregazione materiale del complesso produttivo e la dispersione del suo valore economico, tenendo sempre presente che si tratta di un istituto che si inserisce nella procedura fallimentare che ha come scopo primario la tutela del ceto creditorio e la maggior soddisfazione possibile dei creditori concorsuali. Da ciò deriveranno determinati limiti e condizioni che non possono che essere considerati come necessarie cautele rispetto a uno strumento che presenta un così alto rischio per i creditori. La disciplina dell’istituto si presta anche a mettere in evidenza alcune peculiarità introdotte dalla riforma e che, in generale, caratterizzano tutta la procedura fallimentare, come il rinnovato

coordinamento tra le competenze e i poteri degli organi della procedura e la maggior apertura verso strumenti di conservazione dell’impresa. Non va dimenticato che la peculiarità dell’esercizio provvisorio non sta tanto nella sua disciplina, poiché si tratta sempre e comunque di gestione di un’impresa con le sue esigenze aziendali tipiche, ma nel fatto che tale disciplina deve coordinarsi con la struttura, i principi e le finalità proprie della procedura fallimentare.

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INDICE

Introduzione ... 4

Capitolo 1. Profili generali ... 9

1. Origini storiche ... 9

2. Esercizio provvisorio nella legge del 1942 ... 11

3. Continuazione dell’attività d’impresa alla luce della riforma della legge fallimentare ... 20

3.1. Interessi tutelati e natura dell’istituto ... 27

3.2. Presupposti della continuazione dell’impresa del fallito ... 35

Capitolo 2. Governance ... 39

1. Esercizio provvisorio anticipato ... 39

1.1. Istruttoria preconcorsuale e l’uso cautelare a tutela del del patrimonio del fallito ... 43

1.2. Bilancio prefallimentare impresa ... 55

2. Esercizio provvisorio disposto dal Tribunale ... 58

2.1. Concetto di danno grave ... 65

2.2. Limite in negativo: mancato pregiudizio per i creditori ... 72

3. Esercizio provvisorio disposto dal giudice delegato ... 77

3.1. Proposta del curatore e parere del comitato dei creditori ... 80

3.2. Potere autorizzatorio del giudice delegato ... 82

3.3. Esercizio provvisorio disposto nel contesto del programma di liquidazione ... 86

4. La gestione dell’attività endofallimentare. I flussi informativi ... 88

4.1. Poteri gestori del curatore ... 94

4.2. Cessazione esercizio provvisorio ... 100

5. Valutazione di opportunità come elemento comune a tutte le fasi di esercizio provvisorio ... 102

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Capitolo 3. Effetti ... 112

1. Contratti pendenti ... 112

1.1. Interessi tutelati ... 115

1.2. Ambito di applicabilità dell’art.104 comma 7... 122

1.3. Facoltà del curatore ... 131

1.4. In particolare : continuazione di specifici affari ... 145

2. Gestione del personale ... 149

3. Prededuzione per i crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio ... 154

Capitolo 4. Finanziamento 1. Premessa ... 157

2. Principali strumenti per il finanziamento ... 160

2.1. Blocco azioni esecutive ... 162

2.2. Prededuzioni ... 165

2.3. Autofinanziamento ... 167

2.4. Continuazione dei contratti pendenti di finanziamento e di garanzia ... 172

2.5. Nuovi contratti di finanziamento ... 176

Conclusioni ... 183

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INTRODUZIONE

L’esercizio provvisorio è un istituto che consiste nella continuazione dell’attività d’impresa nell’ambito della procedura fallimentare. Prima della riforma della legge fallimentare i contributi sull’argomento non sono stati molto numerosi e rari sono anche i casi di applicazione pratica di questo strumento, le ragioni di ciò sono di varia natura: giuridica, economica e culturale. In proposito si possono ricordare: la normale incapacità del curatore di occuparsi da solo della gestione di un’impresa di certe dimensioni, che per di più si trova in una situazione di crisi conclamata; il rischio comunque insito nell’esercizio di un’attività imprenditoriale e insieme il costo delle prededuzioni che si producono per effetto della continuazione di tale attività; la disponibilità in molti casi dell’affitto d’azienda come strumento

alternativo, di regola, meno rischioso; la rarità delle situazioni in cui, dopo che sono stati esperiti tentavi di salvataggio al di fuori del fallimento, può ancora convenire mantenere l’impresa in esercizio, in vista della sua più proficua liquidazione in blocco o di una sua cessione nell’ambito del concordato fallimentare; l’esistenza di un doppio binario procedurale, fallimento da un lato e amministrazioni

straordinarie dall’altro, che vale a sottrarre all’ambito di applicazione dell’istituto fallimentare proprio quelle imprese, rispetto alle quali la possibilità di continuare le attività è tipicamente più interessante; la difficoltà di reperire finanziamenti esterni; l’assenza di un mercato sviluppato delle imprese in crisi e dei creditori concorsuali; l’idea che il fallimento serva fondamentalmente a liberare risorse, che altrimenti resterebbero bloccate in iniziative imprenditoriali già bocciate dal mercato; una concezione tradizionale dello stesso fallimento più che altro come processo di esecuzione collettiva, rivolto alla liquidazione atomistica del patrimonio del fallito; e forse anche una certa difficoltà nel distinguere tra imprenditore e impresa. La recente riforma ha però introdotto delle modifiche, anche molto significative, alla disciplina dell’istituto; in primo luogo sono cambiate le condizioni giuridiche

generali nelle quali l’esercizio provvisorio si svolge. Si pensi alla maggiore attenzione che oggi è riservata agli strumenti e alle soluzioni conservative dell’impresa; alla maggiore flessibilità della procedura che può ora avvalersi di una più ampia gamma

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5 di opzioni; o alla ridefinizione degli equilibri tra gli organi, in particolare con

l’attribuzione di una maggiore autonomia al curatore, un più intenso

coinvolgimento del comitato dei creditori e un ridimensionamento del ruolo

dell’autorità giudiziaria. Le novità legislative, a loro volta, riflettono almeno in parte un mutamento di fondo nel modo di concepire il fallimento, visto non più soltanto come un processo di esecuzione collettiva, ma anche e soprattutto come uno strumento della disciplina sostanziale dell’impresa e del mercato. A fronte del mutato quadro legislativo e di questa mutata sensibilità, c’è da chiedersi allora quali siano oggi la funzione e l’ambito di applicazione dell’esercizio provvisorio e come la sua disciplina si applichi in concreto. La trattazione cercherà di risolvere questi quesiti. Nel primo capitolo si mettono in evidenza le modifiche evidenti che la riforma ha apportato all’istituto in esame, partendo dalla descrizione dell’esercizio provvisorio come previsto dalla legge fallimentare del 1942. Si cercano di far risaltare non solo le novità introdotte a livello di normativa di dettaglio dell’istituto ma si descrive in modo completo il mutato contesto non solo giuridico ma anche economico e culturale in cui esso si inserisce. L’attenzione maggiore viene rivolta al tema degli interessi tutelati e della natura dell’istituto, in particolare si evidenzia che tutta la disciplina dell’esercizio provvisorio corre sul bilanciamento tra necessità di tutelare l’interesse dei creditori ad ottenere il maggior soddisfacimento possibile dalla liquidazione del patrimonio del fallito e l’interesse a salvaguardare i complessi aziendali e il loro valore economico, evitando liquidazioni disgregative e favorendo invece la cessione in blocco dell’azienda o di rami di essa, considerando anche che tali modalità liquidative per aggregati possono portare comunque un vantaggio per gli stessi creditori anche maggiore rispetto a quello ottenuto da una liquidazione tradizionale. La trattazione prosegue affrontando il tema della governance, si delinea un quadro il più completo possibile delle diverse regole procedurali che non possono che essere viste come necessarie cautele per uno strumento ad alto rischio per i creditori. La disciplina in questione specifica le diverse condizioni che devono sussistere nelle diverse fasi in cui la continuazione dell’attività d’impresa può essere disposta. In particolare per quanto riguarda il tema degli interessi tutelati, la tesi

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6 principale è che, anche dopo la riforma, l’esercizio provvisorio debba ritenersi strumentale al maggior soddisfacimento delle pretese economiche dei creditori in concorso, rilevando gli altri interessi di fatto coinvolti (lavoratori, comunità locale, ecc.) solo in via eventuale e indiretta rispetto alla conservazione del complesso aziendale e solo se c’è compatibilità con l’interesse dei creditori. Solo nella prima fase, nell’ambito della dichiarazione di fallimento, la misura può essere disposta anche per dare un temporaneo conforto a interessi altri, nella neutralità

dell’interesse dei creditori. Questa tesi era peraltro già diffusa prima della riforma, con essa il legislatore sembra averla voluta semplicemente codificare, prevedendo come limite negativo per l’esercizio provvisorio l’assenza di pregiudizio per i

creditori. L’apertura verso la tutela di istanze sociali sembra però solamente teorica poiché la tesi prevalente considera possibile tutelare interessi altri rispetto a quelli dei creditori ma solo in via mediata dalla conservazione dei complessi aziendali e non in modo diretto. Oltre la questione degli interessi tutelati si mette in evidenza il coordinamento tra le diverse competenze e i diversi poteri degli organi della

procedura rispetto alle decisioni inerenti l’esercizio provvisorio; centrale è la posizione del curatore nelle cui mani si concentrano tutti i poteri inerenti alla funzione gestoria, risulta infatti cruciale per la sorte dell’esercizio provvisorio la scelta del curatore, infatti questo deve essere un soggetto con le adeguate

competenze e capacità richieste dalla gestione di un’impresa. La riforma comporta anche un maggior coinvolgimento del comitato dei creditori nella fase di

svolgimento dell’esercizio provvisorio, infatti si subordina la prosecuzione dell’attività d’impresa alla valutazione di opportunità del comitato stesso; il problema principale riguarda l’inefficienza del comitato, di regola dominato dai creditori forti che tutelano esclusivamente i loro interessi economici, che condiziona la riuscita dell’esercizio provvisorio. Gli ultimi due capitoli della trattazione

riguardano gli effetti che derivano dalla prosecuzione dell’attività e il finanziamento dell’impresa in esercizio provvisorio. Per quanto riguardano gli effetti, oltre un cenno alla disposizione quasi scontata che prevede la prededuzione dei crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio, l’attenzione si concentrata sul tema dei contratti

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7 pendenti, in generale la riuscita dell’esercizio provvisorio può dipendere in concreto dalla capacità della procedura di stipulare nuovi contratti e di instaurare nuove relazioni, i contratti stipulati ex novo sono assoggettati alla disciplina di diritto comune, mentre per quei contratti che sono pendenti nel momento in cui si apre la procedura fallimentare si prevede una regola specifica, di continuazione

automatica, nel caso in cui sia disposto l’esercizio provvisorio, questa deve essere considerata come una speciale disciplina di favore per la procedura con alcuni temperamenti equitativi per il terzo contraente. La disciplina in questione è piuttosto scarna quindi molte questioni devono essere individuate e risolte in via d’interpretazione prendendo come riferimento la disciplina generale che viene dettata per i rapporti pendenti nel fallimento. L’ultimo capitolo è dedicato al tema, fin’ora praticamente ignorato in dottrina, del finanziamento dell’impresa in

esercizio provvisorio; la mancanza di risorse finanziarie e la difficoltà di reperirle sul mercato rappresentano in modo realistico uno dei principali ostacoli all’impiego dell’esercizio provvisorio, ostacolo non tanto giuridico ma economico e per alcuni versi culturale. Esso dipende dalle concrete condizioni dell’impresa che si trovi in esercizio provvisorio, dalla capacità della procedura di creare incentivi e trovare garanzie per i terzi che potrebbero diventare finanziatori dell’esercizio, dalle condizioni economiche di sistema, nonché dalla cultura dei curatori e degli operatori finanziari. Si cerca così di proporre una prima classificazione ed analisi degli strumenti che possono risolvere il problema del reperimento delle risorse finanziarie, distinguendo principalmente, in modo opportuno, tra

autofinanziamento, cioè utilizzo di risorse interne della procedura e il ricorso a finanziamenti esterni, in concreto difficilmente realizzabile. E’ molto probabile che anche dopo la riforma l’esercizio provvisorio sia utilizzato in modo molto limitato, anche se non si può più considerare come in passato uno strumento eccezionale, soprattutto considerando la rinnovata attenzione che il legislatore da alla necessità di salvaguardare i complessi aziendali puntando a una loro riallocazione al termine della liquidazione. Sicuramente, anche se le novità sono state molte, il legislatore non può di fatto superare quelli che sono limiti per così dire naturali che lo

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8 strumento presenta, ciò non toglie che rispetto a determinate situazioni l’esercizio provvisorio possa presentare delle significative potenzialità.

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CAPITOLO 1.

PROFILI GENERALI

Sommario: 1. Origini storiche. - 2. Esercizio provvisorio nella legge del 1942. -

3. Continuazione dell'attività d'impresa alla luce della riforma della legge fallimentare. – 3.1 Interessi tutelati e natura dell'istituto. - 3.2 Presupposti della continuazione dell'impresa del fallito.

1. Origini storiche.

Lo stato di crisi economica e finanziaria comporta una rottura del circuito che l'esercizio dell'impresa crea e nel quale vive, è difficile ipotizzare la creazione di procedure concorsuali che possano evitare gli effetti negativi di tale evento, appare più ragionevole elaborare strumenti che possano ridurre i danni che da esso

derivano. Dobbiamo considerare che le situazioni di pregiudizio che si vanno a creare possono riguardare soggetti diversi che si trovano in posizioni antagoniste tra loro, quindi tutelare certe posizioni può aggravare gli effetti della crisi per altre. Storicamente tali vari interessi sono stati considerati in modo diverso sotto il profilo della rilevanza e ciò a portato a variazioni e a integrazioni delle procedure

concorsuali per perseguire obiettivi ritenuti degni di maggior tutela in quel determinato momento un cui è avvenuto l'intervento.

Il fallimento si è da sempre configurato come una procedura esecutiva e collettiva caratterizzato da una liquidazione atomistica dei beni aziendali e da gravi restrizioni della libertà personale dell'imprenditore insolvente. Tale struttura comportava che di regola il debitore non cercasse di limitare il danno ai creditori, dovendo

comunque subire le sanzioni previste. Agli inizi del 1900 il legislatore da una parte ha collegato le sanzioni a comportamenti dolosi o almeno colposi per incentivare comportamenti corretti del debitore, dall'altra ha introdotto, con lo strumento del concordato preventivo, la possibilità di evitare il fallimento anche in presenza di uno stato conclamato di crisi. In questo contesto trova spazio la possibilità per

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10 situazione debitoria con i creditori. Sotto il profilo della liquidazione dei beni essa non è apparsa in assoluto come il più conveniente strumento di intervento in caso di crisi perché non sempre è riuscita a conciliare da una parte l' esigenza di

soddisfazione dei creditori e dall'altra di riduzione del pregiudizio degli interessi generali (quali l' occupazione, la concorrenza, la fornitura di servizi o beni essenziali a una collettività). Tali esigenze hanno trovato tutela nella predisposizione di

strumenti che consentissero almeno temporaneamente la non disgregazione del complesso aziendale o comunque la continuazione dell'esercizio dell'impresa anche in pendenza delle procedure concorsuali. Il legislatore nell'ottica di evitare il

dissolvimento dei complessi produttivi ha introdotto strumenti giuridici più o meno adeguati al perseguimento di tali fini:la liquidazione coatta amministrativa (anni 30), l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (anni 80), in tutti i casi comunque si predisponeva la continuazione dell'attività d'impresa successivamente all'apertura della procedura concorsuale. In passato quando le procedure

concorsuali essenzialmente si esaurivano nel fallimento, che come abbiamo visto, si è sempre configurato come un procedimento di esecuzione collettiva dei creditori nei confronti del debitore insolvente lo strumento dell'esercizio provvisorio veniva visto come un fatto del tutto marginale. Tale strumento non era previsto nel Codice Napoleonico del 1807, ma fu utilizzato dalla prassi dominata dai creditori,

successivamente fu introdotto nella legislazione francese e marginalmente disciplinato nel Codice di Commercio italiano del 1865. Disciplina più compiuta dell’istituto la troviamo nel Codice di Commercio del 1882 dove si dispone

espressamente la possibilità di “continuare l'esercizio del commercio del fallito se non può essere interrotto senza danno dei creditori”(art. 750) inoltre nell'ambito della disciplina della liquidazione dell'attivo si stabilì che la vendita poteva essere sospesa “se i creditori deliberino che si continui in tutto o in parte ad amministrare il patrimonio commerciale del fallito”(art. 794).

La legge n. 995 del 1930 introdusse due correttivi molto importanti, da una parte stabilì che l' autorizzazione alla continuazione temporanea del commercio fosse concessa dal tribunale e non più dal giudice delegato con provvedimento non

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11 soggetto a reclamo, e dall'altra che la delibera dei creditori chirografari sulla

continuazione o ripresa dell'esercizio del commercio fosse assunta nell'immediatezza della chiusura dell'udienza di verifica dei crediti1.

La vera svolta si ha con la legge fallimentare del 1942 che contiene indici2 rivelatori di un ampliamento di prospettive che portano, sempre con notevole cautela, a utilizzare l'esercizio provvisorio in situazioni in cui sono coinvolti interessi più generali rispetto alla mera tutela dei creditori.

Questa evoluzione normativa è sempre stata sottovalutata dagli interpreti della legge fallimentare che hanno sempre reputato come centrale e preminente la posizione dei creditori e dei loro interessi, questa impostazione teorica ha portato come conseguenza pratica un uso marginale dell'esercizio provvisorio e a

identificarlo come un istituto destinato solo ad agevolare o a rendere più redditizia la liquidazione e più cospicuo il ricavato delle vendite dell'attivo fallimentare e quindi sempre diretto alla soddisfazione del ceto creditorio ridimensionando la sua vera e propria funzione di amministrazione.

2. Esercizio provvisorio nella legge del 1942.

Il legislatore con la legge del 1942 disciplina la fattispecie dell'esercizio provvisorio all'art. 90, inserendolo all'interno del Capo IV del Titolo II intitolato Della custodia e dell'amministrazione delle attività fallimentari, ha tenuto nettamente distinte due ipotesi: 1)la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa disposta al fine di evitare un danno grave e irreparabile(comma 1); 2)la continuazione o ripresa (in tutto o in parte) dell'esercizio dell'impresa tramite la quale ci si prefigge di ottenere un vantaggio in sede di liquidazione. Nel primo caso l'istituto assolve ad una

preminente funzione di conservazione dell'integrità dell'impresa e dei valori

1 Sandulli, Esercizio dell'impresa nelle procedure concorsuali e rapporti pendenti in Giurisprudenza

commerciale, 1995, 196.

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Limitazione del ruolo dei creditori nella procedura di autorizzazione dell'esercizio provvisorio rispetto al regime previgente.

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12 aziendali; nel secondo caso persegue finalità liquidative e si prevede che venga disposto dopo il decreto di esecutività dello stato passivo. Sul piano normativo le due ipotesi sono radicalmente diverse infatti il primo comma dell'art. 90 non contempla il parere del comitato dei creditori, non postula a fondamento della continuazione temporanea dell'attività d'impresa la previa formazione ed esecutività dello stato passivo, prevede che il Tribunale disponga il relativo provvedimento (decreto) normalmente di seguito alla dichiarazione di fallimento, quando dall'interruzione improvvisa può derivare un danno grave e irreparabile; il secondo comma invece prevede che dopo il decreto previsto dall'art. 97, il comitato dei creditori debba pronunciarsi sull'opportunità di continuare o di riprendere in tutto o in parte l'esercizio dell'impresa del fallito, indicandone le condizioni, il Tribunale quindi, con decreto, disporrà la continuazione o la ripresa solo se il comitato si è pronunciato favorevolmente.

Considerando il sistema della legge emerge la finalità conservativa o comunque non liquidativa della continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa di cui al comma 1 dell'art. 903.

Sotto un primo profilo temporale non ci sono dubbi sul fatto che l'esercizio provvisorio si collochi nella fase immediatamente successiva alla dichiarazione di fallimento, in ogni caso prima che sia esecutivo lo stato passivo e quindi prima che inizi la liquidazione vera e propria. L'istituto assolve al meglio alla sua funzione infatti quanto più è breve l'intervallo che intercorre tra la sospensione dell'attività d'impresa conseguente allo stato di insolvenza e la ripresa della stessa in sede fallimentare nelle forme appunto della continuazione temporanea. L'intento del legislatore di eliminare o comunque di ridurre gli effetti pregiudizievoli che possono appunto verificarsi in quell'ambito temporale che intercorre tra il momento della normale gestione dell'impresa da parte del suo titolare, prima del fallimento, e il momento successivo in cui si dispone la continuazione dell'attività d'impresa in costanza di fallimento affidandola al curatore (nell'ipotesi in cui sussistendone le

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Andolina, Liquidazione dell'attivo ed esercizio provvisorio dell'impresa nel fallimento in Il dir. fall., 1978, 1, 181.

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13 condizioni di legge si faccia luogo all'esercizio provvisorio), traspare non solo dal particolare assetto della norma dell'istituto in questione ma si manifesta anche nell'art. 86 nel quale si dispone che il giudice delegato può adottare una decisione nella quale esclude la sigillazione delle cose che servono all'esercizio dell'impresa. Si ravvisa così un collegamento strumentale tra la disciplina dell'apposizione dei sigilli e quella dell'esercizio provvisorio tendente a favorire e ad accelerare il passaggio dalla gestione prefallimentare dell'impresa alla continuazione temporanea di essa nelle forme e alle condizioni previste dall'art. 90 comma 1. Vediamo quindi che è la stessa legge fallimentare che esclude che la continuazione temporanea possa essere inserita nel novero dei mezzi tramite i quali si attua la liquidazione vera e propria del fallimento poiché l'art. 104 pospone tale attività al decreto di esecutività del passivo, quindi nella fase anteriore al decreto si può legittimamente dedurre che non ci sarà nessun tipo di contatto tra continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa e mezzi espropriativi poiché appunto lo stesso art.104 esclude che le vendite fallimentari abbiano ingresso in tale fase. Ma c'è di più, la enunciata antinomia tra esercizio provvisorio e espropriazione liquidativa si trova scolpita nell'art. 104 comma 1, il quale nel momento stesso in cui stabilisce che la vendita abbia luogo dopo il decreto previsto dall'art. 97 fa tuttavia salve le esigenze dell'esercizio provvisorio dell'impresa. Esso si pone in buona sostanza tanto al di fuori dell'espropriazione liquidativa da concretarne un limite esterno, in presenza del quale nessuna vendita potrà essere disposta se incide su beni strumentalmente legati alla gestione in corso dell'impresa. Di fronte al disposto art. 104, comma 1 quindi “è palese che il provvedimento introduttivo del nostro esercizio preclude temporaneamente certi atti di liquidazione; ne sottrae altri alla disciplina della liquidazione per sottoporli al regime degli atti d'impresa; influisce, in senso restrittivo, sui poteri dispositivi del giudice in ordine alla liquidazione della stessa”4 . Quindi si evidenzia proprio dal tenore letterale della norma il rapporto di alterità tra esercizio provvisorio e liquidazione dell’attivo anche nell'ambito della fase susseguente al decreto ex art. 97 funzionalmente destinata alla liquidazione.

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14 Di grande rilevanza è la tematica che riguarda la qualificazione della disciplina

giuridica cui soggiace il risultato economico della gestione dell'impresa: non è concettualmente incompatibile che al momento dell'esercizio dell'impresa,

preordinato alla produzione del profitto segua un momento diverso di acquisizione al fallimento del profitto medesimo, per le finalità proprie dell'esecuzione

concorsuale. Coloro che propendono per la natura liquidativa dell'esercizio

provvisorio naturalmente pongono l'accento sul secondo momento presupponendo che le somme realizzate dalla gestione provvisoria dell'impresa cadano direttamente sotto il vincolo del pignoramento generale, per essere destinate al soddisfacimento delle ragioni dei creditori ammessi al concorso. Un impostazione di questo tipo dà per scontato che la finalità dell'istituto in esame sia il soddisfacimento dei creditori concorsuali, in realtà “l' interesse dei creditori” non può essere qualificato come interesse interno dell'istituto perché ciò significherebbe che esso rilevi come presupposto oggettivo dell'esercizio provvisorio e ciò non corrisponde in primo luogo al tenore letterale dell'art. 90 comma 1. Tale interesse deve diversamente essere considerato come un elemento esterno al fenomeno in questione, si colloca al di fuori della struttura dell'esercizio provvisorio rileva solo come punto di

riferimento e d'imputazione dei vantaggi economici eventualmente derivanti dalla gestione dell'impresa, quindi l'esercizio provvisorio non viene disposto nell'interesse dei creditori ma essi hanno interesse a inserire tale profitto nel quadro della

liquidazione dell'attivo. Questo può avvenire se si prefigura un nesso di necessaria concatenazione tra il momento della produzione del profitto e il successivo

momento di attribuzione coattiva di esso ai creditori concorrenti, tale nesso si concretizza soltanto dopo che sia stato definitivamente formato e reso esecutivo lo stato passivo. È il decreto ex art. 97 insomma che consente di concatenare il

momento della liquidazione a quello della soddisfazione dei creditori, e di imprimere all'intero ricavato della monetizzazione una specifica ed univoca

destinazione, ossia la soddisfazione delle ragioni creditorie. Dal momento in cui si ha esecutività dello stato passivo può prendere avvio la espropriazione liquidativa vera e propria: attribuendosi, soltanto allora, al curatore il potere di promuovere le

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15 vendite fallimentari e ai creditori concorrenti il diritto di partecipare alla ripartizione dell'attivo fallimentare. Ritenere per contro che ancor prima che sia reso il decreto ex art. 97 tutte le somme comunque reperite durante la procedura siano destinate al soddisfacimento dei creditori svilisce la fase dell'amministrazione del patrimonio del fallito. Essa non tollera di essere finalizzata univocamente alla tutela del ceto creditorio poiché da una parte, nell'arco di tempo in cui si svolge tale attività di gestione non sono ancora individuate le ragioni di credito che potranno trovare soddisfazione nell'eventuale e successiva fase di liquidazione dell'attivo e, inoltre non sussiste ancora il titolo (decreto ex art. 97) in base al quale può svolgersi l'espropriazione del patrimonio del fallito e la distribuzione del ricavato tra i creditori; ma ancora più importante tale fase di amministrazione sembra congegnata per tutelare una molteplicità di interessi, che possono avere natura diversa e, che seppur non contemplati esplicitamente in alcuna norma, sembra comunque che una loro eventuale tutela possa trovare spazio in questa fase di gestione. Non a caso in tale fase è scarna la considerazione che la legge accorda ai creditori, in modo esemplare l'art. 90 comma 1 dove nessun riferimento viene fatto agli interessi di tali soggetti; sembra quindi che il sistema della legge abbia

finalizzato la fase preliminare di amministrazione anche alla conservazione e alla sopravvivenza dell'impresa nell'ottica di accordare tutela anche a interessi diversi da quelli dei creditori. Quindi, nella fase preliminare, la gestione del patrimonio del fallito, ed in particolare la continuazione temporanea dell'esercizio d'impresa eventualmente disposta, prescinde da una vincolante considerazione dell'interesse dei creditori, modellando piuttosto la propria funzione sul parametro oggettivo della conservazione del valore economico dell'impresa. Per queste ragioni è

assolutamente arbitrario affermare che la continuazione temporanea dell'impresa disposta ai sensi del comma 1 sia preordinata esclusivamente a tutela dell'interesse dei creditori e che il risultato economico eventualmente ottenuto da essa sia necessariamente destinato al soddisfacimento dei crediti ammessi. Inoltre, verso la stessa conclusione porta anche la normativa positiva che prevede che la procedura fallimentare non sia protesa univocamente verso la liquidazione di tipo

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16 espropriativo; il fallimento è organizzato in modo da poter ottenere, dopo il decreto ex art. 97, la soddisfazione dei creditori tramite strumenti diversi dalla liquidazione quali il concordato e l'esercizio provvisorio ex art. 90 comma 2. Infatti la fase amministrativa è congegnata in modo da non pregiudicare nessuno dei possibili sbocchi futuri del fallimento, sarebbe errato presupporre una concatenazione necessaria tra amministrazione e liquidazione, in particolare alla continuazione temporanea dell'impresa può non seguire la fase di liquidazione e in maniera ancora più netta si deve escludere che l'istituto in esame partecipi alla liquidazione vera e propria. Un ulteriore conferma che l'istituto in questione non tollera di essere finalizzato, al pari di un qualsiasi mezzo liquidativo, al soddisfacimento delle ragioni di credito ammesse al concorso, si trae dalla norma dell'art. 90 comma 1 dove si prevede come condizione oggettiva della continuazione temporanea dell'esercizio d'impresa la minaccia di un “danno grave e irreparabile”. Si può affermare

giustamente che già dal tenore letterale della norma si ravvisa una portata innovativa rispetto al passato considerato che il danno non viene espressamente riferito all'interesse esclusivamente proprio dei creditori. Com'è noto, l'art. 750 del Codice di commercio del 1882 prevedeva che il curatore potesse essere autorizzato dal giudice delegato a continuare l'esercizio del commercio del fallito se questo non potesse essere interrotto senza danno ai creditori; la successiva novella del 1930 - ispirata ad una aperta sfiducia verso l'istituto in esame - stabiliva che il tribunale (e non più il giudice delegato) potesse autorizzare l'esercizio provvisorio “solo quando dall'interruzione improvvisa possa derivare un danno grave e irreparabile ai

creditori”. È impensabile che il legislatore si sia discostato per caso dal testo della novella del 1930, inoltre già la dottrina precedente alla legge del 1942 aveva affermato che altri interessi, oltre quelli dei creditori, dovevano essere contemplati nella norma; con la legge del 1942 si va quindi a consacrare una impostazione dottrinale già elaborata precedentemente secondo la quale l'esercizio provvisorio avrebbe dovuto fungere da strumento di conservazione dell'impresa e di tutela dei molteplici interessi legati alla sopravvivenza dell'impresa stessa. Questi interessi si individuano in centri diversi sia interni che esterni all'impresa, cioè in soggetti che

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17 operano nell'impresa (imprenditore e suoi collaboratori) e in terzi che intrattengono rapporti d'affari con l'impresa e beneficiano di beni o servizi prodotti o scambiato dall'impresa. Non tutti questi soggetti sono presenti all'interno del fallimento poiché non tutti sono legittimati a parteciparvi ma questo non significa che gli interessi relativi a tali centri non possano trovare protezione nella procedura, verrà accordata tutela nella misura in cui tali interessi si saldano all'impresa e ne postulano la

sopravvivenza. Sotto questo profilo l'istituto dell'esercizio provvisorio aiuta ad evidenziare il momento del distacco dell'impresa dal debitore. La preoccupazione originaria del legislatore era quella di conservare il valore economico dell'impresa in vista della eventuale futura liquidazione, finalizzata al soddisfacimento delle ragioni creditorie tramite appunto l'esercizio provvisorio; l'impresa continuava a essere vista come una cosa, come entità patrimoniale di cui non si vuol pregiudicare il valore economico in vista della fase di liquidazione. La segnalata ambiguità del fallimento - l'essere organizzato in modo tale da poter perseguire alternativamente l'obiettivo della liquidazione o quello del concordato - porta a modificare lo stesso istituto dell'esercizio provvisorio non più finalizzato alla sola conservazione

“dell'impresa-cosa” ai fini della futura liquidazione ma volto ad assicurare la sopravvivenza dell'impresa autonomamente considerata. Cambia l'angolazione da cui l'impresa viene vista: non più un complesso di beni ma diventa un centro d'imputazione di interessi (non più corrispondenti al solo interesse del ceto

creditorio) legati all'effettivo esercizio dell'attività economica. Una volta accentuato nella realtà socio-economica il distacco tra impresa e imprenditore vengono in considerazione molti interessi meritevoli di tutela e di apprezzamento e si dilata, come conseguenza, l'ambito di applicazione e la funzione medesima della gestione provvisoria dell'impresa del fallito.

L'evoluzione cui è andato incontro l'istituto in esame sia in sede interpretativa sia sede legislativa, mostra che esso non tollera di essere indiscriminatamente

finalizzato al soddisfacimento delle ragioni creditorie, dal momento che l'interesse dei creditori risulta espunto dalle condizioni oggettive su cui si radica l'istituto in questione; l’interesse dei creditori è considerato dalla norma non quale oggetto da

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18 tutelare attraverso la continuazione temporanea dell'esercizio d'impresa ma come limite esterno all'applicabilità dell'istituto. Considerata infatti la fase preparatoria del fallimento come organizzata in modo tale da perseguire in alternativa o la definitiva liquidazione o la continuazione dell'impresa si è voluto evitare che un indiscriminato ricorso all'esercizio provvisorio potesse pregiudicare il risultato della futura ed eventuale liquidazione fallimentare. Così posto l'interesse dei creditori non gioca un ruolo positivo - quale condizione oggettiva dell'istituto medesimo - ma negativo: nel senso che l'esercizio provvisorio (nella fase antecedente al decreto previsto dall'art. 97 e ricorrendo le specifiche condizioni oggettive) possa essere disposto sempre che esso non contrasti con la potenziale prospettiva d'una liquidazione fruttuosa.

Possiamo quindi affermare che lo stesso carattere bivalente del fallimento se da una parte porta ad apprezzare, riconducendoli a fondamento dell'esercizio

provvisorio altri interessi diversi dai creditori strettamente legati alla ripresa in sede fallimentare dell'attività d'impresa, dall'altra finisce per essere in concreto ostacolo ad un ulteriore espansione dell'istituto. Si vuole evitare che un più largo

apprezzamento delle ragioni sottostanti all'esercizio provvisorio e un più ampio uso dell'istituto nella fase preliminare possa rivelarsi non vantaggioso per i creditori nel momento in cui - mancato l'obiettivo del concordato e avviata la liquidazione - l'interesse dei creditori assurge ad oggetto principale di tutela. Emergono cosi quelli che sono i limiti appunti enunciati entro i quali risulta costretto l'esercizio

provvisorio, in concreto tale configurazione dell'istituto nasce dal contrasto tra due esigenze: quella di salvare l'impresa di per sé meritevole di tutela, anche in

considerazione dei molteplici interessi che questa riassume e soddisfa, nonché della crescente utilità sociale che persegue e quella di evitare che l'esercizio provvisorio pregiudichi le possibilità di una vantaggiosa liquidazione per i creditori.

È di grande rilevanza, sempre nell'ottica di ricostruire la natura dell'esercizio provvisorio, considerare che esso sfugge a qualsiasi forma di condizionamento ad opera dei creditori o, comunque, di altri particolari centri d'interesse. Il relativo provvedimento è reso dal tribunale ex officio: al di fuori di qualsiasi iniziativa o impulso di parte. L'officiosità è un trasparente e coerente segno del fatto che gli

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19 interessi in gioco non si individuano, né si esauriscono, entro la sfera giuridica di soggetti particolari. La procedura, in sostanza, è qui officiosa non tanto perché a prevalente carattere pubblico ma piuttosto perché gli interesse da tutelare o non rientrano nella disponibilità dei soggetti partecipanti al fallimento o coinvolgono centri d'imputazione estranei al fallimento.

Nel momento in cui invece viene precisato e puntualizzato l'interesse da tutelare viene meno l’officiosità; ciò accade nella fattispecie descritta dall’art. 90, comma 2, dove si prevede per la disposizione della continuazione dell’attività d’impresa il parere vincolante del comitato dei creditori, attribuendo agli interessi dei creditori un ruolo centrale. Col passaggio alla fase della liquidazione, dopo il decreto previsto dall'art. 97, “il tribunale autorizza l'esercizio provvisorio solo se il comitato dei creditori si è pronunciato favorevolmente”, dopo che è stato reso esecutivo lo stato passivo acquista preminente risalto l'interesse dei creditori, al punto che tutto l'ulteriore corso della procedura è univocamente proteso verso il soddisfacimento delle ragioni creditorie. È da ritenere in particolare che, nella valutazione del legislatore, anche questa fattispecie di esercizio provvisorio non è un mezzo di liquidazione o comunque non lo è al pari delle vendite poiché, altrimenti non si spiegherebbe la contrazione che l'officiosità subisce nella specie, il giudice, infatti nel disporre l'esercizio provvisorio incontra un limite che è rappresentato dal parere negativo del comitato dei creditori, quale non si rinviene relativamente all'adozione dei restanti mezzi liquidativi. Non può l'interprete non dedurne che anche quando si presume che abbia un carattere liquidatorio, l'esercizio provvisorio è

normativamente disciplinato diversamente dai normali strumenti di liquidazione. Sicuramente in questa seconda fase riacquista prevalenza la volontà dei creditori prevedendo la vincolatività del parere negativo reso dall'organo rappresentativo dei loro interessi ma il legislatore non ha ritenuto di dover attribuire analoga efficacia al parere favorevole, rimettendo al tribunale la valutazione definitiva dell'opportunità dell'esercizio5. Una conferma di tale autonomia si ritrova nell'ultimo comma dell'art. 90, dove si ribadisce che “il tribunale provvede in ogni caso con decreto in camera di

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20 consiglio non soggetto a reclamo”.

Dall'analisi appena svolta possiamo concludere che con la legge fallimentare del 1942 si erano poste le basi per considerare l'istituto in un ottica nuova rispetto al passato, si parte dall'individuazione di interessi ulteriori rispetto a quelli dei creditori che possono essere posti a fondamento dell'esercizio provvisorio, riconoscendo loro una tutela poiché collegati alla sopravvivenza dell'impresa; si individua infatti

nell'esercizio provvisorio uno strumento giuridico idoneo a preservare l'impresa in sé considerata come meritevole di tutela nell'ottica di una sua sopravvivenza dopo il fallimento scissa quindi dalla persona dell'imprenditore e non più solo come un entità patrimoniale di cui conservarne il valore economico in vista della

liquidazione.

Nella pratica però l'istituto ha trovato scarsa applicazione per motivi di ordine pratico e giuridico: vi era da una parte la più che motivata reticenza dei curatori ad assumere un compito - la gestione dell'impresa - rispetto alla quale essi si trovavano impreparati; d'altro canto la stessa autorità giudiziaria guardava all'istituto con una giustificata diffidenza sia perché la prosecuzione dell'attività inevitabilmente implicava un aggravamento del dissesto, sia perché, richiedendo che fosse mantenuta l'integrità del complesso aziendale o quantomeno di singoli rami di questo, poteva dilatare i tempi della liquidazione dell'attivo che in questo sistema normativo si svolgeva mediante l'alienazione atomistica dei beni.

3. Continuazione dell'attività d'impresa alla luce della riforma della legge fallimentare.

Attualmente l'esercizio provvisorio è regolamentato dall'art. 104 l. fall.,

significativamente posto come norma di apertura delle Disposizioni generali del Capo VI, intitolato Dell'esercizio provvisorio e della liquidazione dell'attivo, che ne contempla due diverse fattispecie: secondo quanto prevede il comma 1, esso può essere disposto ex officio dal tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento, se dall'interruzione dell'attività può derivarne un danno grave, a condizione che la

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21 prosecuzione dell'impresa non risulti pregiudizievole per gli interessi dei creditori; successivamente, ai sensi del comma 2 della disposizione richiamata, il giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, può autorizzare la prosecuzione dell'impresa con decreto motivato. Il nuovo art. 104 è stato introdotto con d.lgs n.5 del 2006 in vigore dal 16/7/2006, una prima novità della riforma è data dalla scelta di disciplinare in uno stesso capo la liquidazione dell'attivo e l'esercizio provvisorio, in precedenza, come abbiamo già evidenziato, era riportato all'interno del capo dedicato alla custodia e

all'amministrazione delle attività fallimentari (art. 90). Relativamente all'esercizio provvisorio, il d.lgs n.5/06 prevede che l'autorizzazione non sia più compito

esclusivo del tribunale in composizione collegiale, più precisamente contempla che il tribunale possa autorizzare l'esercizio provvisorio solo con la sentenza dichiarativa di fallimento, mentre nel corso della procedura siffatto potere viene attribuito al giudice delegato, sia pure in seguito a una proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, in tal caso il provvedimento assume la forma del decreto motivato. Altra modifica concerne i presupposti per l'esercizio

provvisorio dell'azienda o di suoi rami specifici, che non è più il danno grave e irreparabile che può derivare dall'interruzione ma solo il danno grave, inoltre si specifica comunque che il Tribunale nella sua decisione dovrà comunque tener conto degli interessi dei creditori escludendo la disposizione dell'esercizio

provvisorio se da esso ne può derivare un pregiudizio per essi. Inoltre nell'art. 104 si riflette anche la rivisitazione dei rapporti tra giudice delegato, curatore e comitato dei creditori; un ruolo centrale viene assegnato al curatore, che deve proporre la continuazione dell'esercizio provvisorio, convocare il comitato dei creditori per informarlo sull'andamento della gestione, depositare un rendiconto dell'attività, informare il giudice delegato e il comitato di circostanze sopravvenute che possono influire sulla prosecuzione dell’attività, potendo altresì sospendere o sciogliere i contratti pendenti, riscontriamo quindi una caratterizzazione in termini più marcatamente manageriali della figura del curatore richiedendosi infatti tra i requisiti necessari per la sua nomina proprio il possesso di esperienza di gestione

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22 d'impresa e ciò attrae l'attività del curatore fallimentare nel campo della

responsabilità professionale e, dunque comporta l'applicazione del relativo modello tipico di diligenza informato allo standard del buon professionista piuttosto che a quello del buon padre di famiglia6. Il comitato dei creditori da parte sua svolge una funzione decisiva perché il suo parere favorevole è condizione non solo per

l'autorizzazione dell'esercizio provvisorio, ma anche per la sua continuazione. La riforma è incentrata sulla valorizzazione del ruolo dei creditori in ordine alla gestione della crisi e dell'insolvenza dell'impresa, il tutto a discapito del potere di gestione e di amministrazione della procedura degli organi giudiziali. Va precisato che, comunque, per quanto riguarda l'autorità giudiziaria, il giudice delegato esercita una funzione di controllo e non di mero esecutore7; ed infatti se è vero che il parere del comitato dei creditori è condizione perché il giudice delegato autorizzi l'esercizio provvisorio, è anche vero che il giudice delegato non è vincolato a quel parere nel senso che può negare l'autorizzazione qualora ritenga la continuazione dell'attività d'impresa negativa per l'interesse dei creditori. Una funzione di controllo che il giudice delegato svolge anche nel corso dell'esercizio provvisorio, dovendo disporne la cessazione quando il comitato dei creditori non ravvisa l'opportunità della continuazione. A chiusura del sistema il legislatore attribuisce al tribunale il potere di disporre la cessazione dell'esercizio provvisorio in qualsiasi momento, laddove ne ravvisi l'opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo, sentiti il curatore e il comitato dei creditori. La norma si presenta generica e comunque non sembra subordinare l'intervento del tribunale all'iniziativa e/o al parere del comitato o dei creditori; il tribunale potrà essere sollecitato da chiunque vi abbia interesse, anche da creditori non facenti parte del comitato, allorché denuncino una continuazione pregiudizievole per i loro interessi.

Al di là delle pur notevoli variazioni che la riforma della legge fallimentare ha apportato all'istituto, risulta profondamente mutato il contesto normativo in cui esso si inserisce, dal quale emerge che la precedente diffidenza avverso la

prosecuzione endofallimentare dell'impresa è stata sostituita da un parziale favor

6Meoli, La continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa, in Il fallimento, 2005, 1045. 7Trisorio, Liuzzi, L'esercizio provvisorio e la liquidazione dell'attivo, in Foroit, 2006, 5, 197.

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23 del legislatore che appare del tutto coerente con l'opzione di fondo perseguita con la riforma di privilegiare anche nel fallimento, ogniqualvolta ve ne sia la possibilità, il ricorso a modalità satisfattive delle pretese creditorie che preservino l'integrità dell'intero complesso aziendale o di singoli rami di esso, vuoi attraverso la gestione diretta del curatore, vuoi attraverso l'affitto d'azienda, vuoi ancora tramite le cosiddette operazioni straordinarie contemplate nell'art. 105 comma 5 e 8. Non a caso il vigente art. 105 comma 1, indica come modalità prioritaria per la liquidazione dell'attivo la vendita dell'intera azienda o di specifici rami di essa e ammette il ricorso all'alienazione frazionata dei beni in via residuale, esclusivamente nel caso in cui tale modalità risulti idonea al conseguimento di un maggiore soddisfacimento dei creditori. La riforma fa propria una consapevolezza che si è progressivamente sviluppata negli anni, ossia che all'impresa in sé, scissa dalla persona

dell'imprenditore, va riconosciuto un valore oggettivo e che spesso la riallocazione sul mercato dell'azienda integra e se possibile funzionante, può offrire ai creditori concorsuali maggiore soddisfazione rispetto a una vendita parcellizzata dei beni. In questa novellata prospettiva l'esercizio provvisorio perde ogni carattere di

eccezionalità e si connota invece come lo strumento naturale che l'ordinamento pone a disposizione della procedura al fine di mantenere l'azienda vitale ed efficiente trasportandola verso le modalità di liquidazione auspicate dalla legge. Ovviamente ciò può avvenire soltanto se l'impresa risulta in qualche misura ancora operante nel momento in cui viene avviato l'esercizio provvisorio, poiché la ratio dell'istituto è quella di evitare la dissoluzione di un potenziale economico complesso (costituito da organizzazione, rapporti giuridici, avviamento,ecc.) in funzione del miglior soddisfacimento degli interessi dei creditori concorsuali. È intuibile che, qualora questo potenziale si sia disgregato, anche soltanto per il mero trascorrere del tempo, la funzione del fallimento, nonostante le nuove prospettive aperte dalla riforma, non può che essere quella di realizzare al meglio il patrimonio del debitore, tenuto conto dello stato in cui si trova. Si tratta quindi di gestire nella maniera migliore ciò che ancora esiste o residua dell'impresa, ma si deve senz'altro escludere che la procedura possa farsi essa stessa imprenditrice, iniziando quello che in fatto e

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24 in diritto deve essere considerata una nuova attività, anche se abbia lo stesso

oggetto dell'impresa fallita e venga esercitata utilizzando la medesima

organizzazione. Nello specifico per comprendere come si è arrivati a delineare questa nuova fisionomia dell'esercizio provvisorio dobbiamo analizzare il rinnovato contesto giuridico ed economico in cui si è inserito l'intervento riformatore per individuare quelle che sono gli obiettivi a cui deve essere funzionale l'istituto in esame. La delega (legge n. 80/2005) conferita al governo per la riforma organica della legge fallimentare, tratta della continuazione dell'attività dell'impresa fallita in due punti. Una prima volta al punto n.8 per stabilire che la disciplina dell'esercizio provvisorio deve essere modificata “ampliando i poteri del curatore e del comitato dei creditori”, ed introducendo l'obbligo di informativa periodica del primo

direttamente nei confronti del secondo; una seconda al punto 12.1 per prevedere che il programma di liquidazione - che il curatore deve sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori e del giudice delegato entro 60 giorni dalla redazione dell'inventario - specifichi “se è opportuno disporre l'esercizio provvisorio

dell'impresa o di singoli rami d'azienda, anche tramite l'affitto a terzi”. La riforma, con riferimento all'esercizio provvisorio, si dimostra congruente con l'orientamento di fondo che il legislatore ha impresso alla legge concorsuale e che individua gli strumenti per migliorare l'efficienza della procedura fallimentare, per un verso, nella valorizzazione del ruolo dei creditori nella gestione della crisi dell'impresa con il conseguente ridimensionamento del peso dell'autorità giudiziaria nella procedura e, per l'altro, nella predisposizione di una serie di misure di salvaguardia del valore produttivo dell'azienda, al fine di consentire, ove possibile, il riavvio del suo esercizio ovvero la sua circolazione, e comunque di conservare le potenzialità di liquidazione e di realizzo di quei cespiti produttivi che la sospensione dell'attività d'impresa fa deperire, così frustrando le aspettative di soddisfazione dei creditori, soprattutto chirografari. In effetti, il tramonto dell'epoca degli interventi pubblicistici a sostegno delle imprese e dei settori economici in crisi aveva già da tempo indicato la strada, seguita peraltro dai principali sistemi giuridici occidentali, del

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25 imprese. Le esperienze nostrane avevano poi evidenziato l'inadeguatezza della procedura fallimentare rispetto all'esigenza di agevolare il risanamento dell'impresa, il ricambio manageriale, il superamento della crisi o dell'insolvenza, o, in ultima analisi, la sollecita liberazione nell'ambito della liquidazione delle risorse finanziarie impegnate nell'impresa irrecuperabile, e la loro più proficua utilizzazione. Era evidente che, prima della riforma, le finalità della conservazione dell'impresa o del suo risanamento, per la tutela di interessi che vanno oltre quelli del debitore e dei creditori, trovavano poco spazio per essere attuate nell'ambito della procedura fallimentare. Non solo non era prevista una fase di regolamento giudiziario

dell'insolvenza, che consentisse appunto di valutare adeguatamente la possibilità di salvare l'impresa e di predisporre i mezzi a tal fine necessari, ma lo stesso istituto dell'esercizio provvisorio era utilizzato in modo inadeguato per perseguire tale scopo. Mutata progressivamente la realtà economica e giuridica si è superata l'opinione tradizionale che vede il fine del fallimento nel risanamento dell'economia pubblica, mediante l'eliminazione delle imprese inferme, se è vero che un economia moderna deve far posto anche al bisogno economico di permanenza dell'impresa, la riforma fa propria questa nuova impostazione, ponendo in primo piano la necessità di tutelare gli organismi produttivi garantendo la loro conservazione anche al termine della procedura concorsuale. Il dibattito che ha preceduto la riforma, condividendo comunque tali premesse e cercando di attuare gli obbiettivi prefissati, ha avuto ad oggetto principalmente il ruolo da assegnare al giudice. Due sono i modelli per cosi dire antagonisti che si sono contesi il campo; uno più vicino

all'esperienza francese che disegna una procedura di crisi in cui l'imprenditore, per un periodo limitato e sotto il controllo del giudice, cerca di trattare con i creditori una soluzione per uscire dalla crisi; e l'altro d'ispirazione più liberista e più vicino all'esperienza nord-americana, che affida all'autonomia privata, con una drastica riduzione del ruolo giudiziario, le predette funzioni. A quest'ultimo modello è, in qualche misura, ispirata la riforma del legislatore italiano del 2005, essa si sostanzia nella previsione di una serie di accordi a contenuto atipico, dal concordato ai piani stragiudiziali che, attuabili al riparo delle revocatorie, dovrebbero permettere ai

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26 creditori di disegnare e di concordare con il debitore soluzioni efficienti. L'esenzione da revoca dei pagamenti effettuati per l'acquisto di beni e servizi compiuti

nell'esercizio dell'impresa (art. 67/3 lett. a l. fall.), dovrebbe poi, nelle intenzioni del legislatore, garantire il vitale afflusso di fattori di produzione durante la crisi, al fine di evitare che, con il blocco produttivo, l'azienda perda il suo valore,

compromettendo le possibilità di risanamento o di proficua liquidazione e

danneggiando in definitiva proprio il ceto creditorio. Già nella fase antecedente al fallimento, ed anche al di fuori di procedure formalizzate e dirette da organi terzi, il mantenimento dell'esercizio dell'attività d'impresa è considerato più che un

obbiettivo da perseguire, uno strumento, che ha lo scopo di conservare il valore aziendale al fine di garantire sia l'attuabilità di accordi (giudiziali e stragiudiziali) di risanamento, sia la possibilità di utile liquidazione dell'azienda attraverso la tutela del suo valore di realizzo. Dopo l'apertura del fallimento - nell'ambito di una procedura pur sempre liquidatoria - la continuazione dell'impresa svolge non dissimili funzioni conservative che peraltro si coniugano con la previsione di procedure più snelle di vendita dell'azienda o di rami di essa, e con un

potenziamento dello strumento del concordato. Sicché l'esercizio provvisorio, da congegno eccezionale e derogatorio nell'ambito del vecchio modello di liquidazione atomistica, assume nel nuovo sistema i caratteri di ordinaria misura, funzionale ad attuare le predette finalità, nell'ambito di un rinnovato concetto di concorso dei creditori. L'esercizio provvisorio non è però privo di importanti controindicazioni, se prima del fallimento la protrazione dell'attività d'impresa si accompagna al pericolo dell'aggravamento dell'insolvenza, dopo la declaratoria fallimentare i rischi sono in parte differenti e sono determinati principalmente dall'inerenza alla massa delle obbligazioni sorte per l'esercizio e alla conseguente collocazione in prededuzione delle pretese dei rispettivi creditori. Come è stato efficacemente evidenziato l'impresa continuata dagli organi della procedura concorsuale non costituisce un progetto finanziato con capitali di rischio o di credito accordati sulla scorta della positiva valutazione datane dai finanziatori. L'esercizio provvisorio si configura come un’attività economica la quale utilizza investimenti e finanziamenti che con

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27 l'apertura del concorso, restano imprigionati in un'impresa che non si pone quale suo obbiettivo immediato la loro restituzione ed ancor meno la loro remunerazione. Il rischio dunque è insito non solo nell'aleatorietà del risultato di gestione ma anche nella durata della stessa, nella evenienza che le ragioni che giustificano il suo avvio o la sua protrazione siano identificate in esigenze di tutela di interessi meritevoli e tuttavia contrastanti con le dinamiche che regolano la soddisfazione dei crediti, e che possano quindi determinare un’ingiustificata allocazione del costo sociale dell'insolvenza sull'intero ceto creditorio ovvero su una parte di esso, facendo configurare in questo ultimo caso, anche un contrasto tra le schiere di creditori, laddove essi abbiano interessi divergenti riguardo l'attivazione della misura

gestionale. Si profila l'ulteriore rischio che, ove l'esercizio sia promosso dallo stesso imprenditore fallito si finisca per depotenziare l'utilità e l'efficacia delle procedure e degli accordi preventivi per il trattamento della crisi dell'impresa, nella misura in cui si prospetti all'imprenditore la possibilità di restarvi alla guida e conseguentemente lo si disincentivi dal denunciare la crisi e dal predisporre piano di risanamento. La riforma della legge fallimentare punta sull'esercizio provvisorio in funzione della salvaguardia del valore aziendale e allo scopo di stimolarne l'attivazione indica la strada del rafforzamento del ruolo svolto dal curatore e dal comitato dei creditori e della costituzione di un legame tra l'esercizio stesso e il piano di liquidazione. Ciò ovviamente amplifica i rischi e le controindicazioni sopra individuate. Il contrappeso a tali evenienze sta, oltre che nel controllo giudiziario, nella precisazione della funzione dell'istituto, al fine di evitare i suoi usi alternativi.

3.1 Interessi tutelati e natura dell'istituto.

Per quanto riguarda l'individuazione della natura dell'esercizio provvisorio, non pare inutile ricordare che gli orientamenti assunti in dottrina oscillano tra una teoria liquidatoria, alla cui stregua la continuazione dell'attività costituirebbe uno

strumento utilizzabile per la miglior vendita di prodotti e semilavorati da ultimare, ed una teoria che potremmo definire come conservativa, secondo cui, invece

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28 l'esercizio sarebbe funzionale al mantenimento del valore produttivo ed economico dell'impresa8. Il dibattito che ha ad oggetto la natura dell'esercizio provvisorio è stato alimentato per un verso dalla evidente poliformità, sotto il profilo funzionale dell'istituto in questione, e, per l'altro, da una non del tutto giustificata

contrapposizione tra interessi dei creditori ed interesse alla conservazione dell'impresa. Sotto il primo aspetto infatti si può evidenziare che l'esercizio

provvisorio assume caratteri diversi a seconda della situazione concreta in cui viene disposto. Esso può nell'immediatezza della sentenza di fallimento riguardante un impresa attiva giustificarsi, ad esempio, in quanto consente di lasciare aperte tutte le strade di liquidazione dell'attivo o di realizzazione delle pretese dei creditori, dalla vendita in blocco dell'azienda o di rami di essa, agli accordi giudiziali e stragiudiziali con il debitore o con i terzi; strade la cui praticabilità potrebbe essere ostacolata se si bloccasse l'attività produttiva. Nel corso della procedura, invece può perseguire finalità di conservazione o di diretto realizzo per il tramite, ad esempio, della ultimazione e della vendita di prodotti semilavorati. Sotto il secondo aspetto che si concretizza nella non necessaria contrapposizione tra interessi dei creditori e interesse alla salvaguardia dell'impresa, basta segnalare che la conservazione del valore produttivo dell'impresa può assecondare l'immediato interesse di alcuni soltanto dei creditori o addirittura di soggetti estranei a tale schiera; ma essa in definitiva può contribuire alla migliore soddisfazione di tutti, nella misura in cui consenta un miglior realizzo dei beni aziendali e il mantenimento in vita del

complesso produttivo. In tale ottica gli interessi dei creditori costituiscono un limite insuperabile: essi non possono in alcun caso essere compromessi dall'esercizio provvisorio, per non snaturare la procedura fallimentare.

Questa è l'impostazione per così dire tradizionale del problema relativo alla

qualificazione funzionale dell'esercizio provvisorio, dobbiamo ora considerare come il tema si è sviluppato in seguito alla riforma. Il rapporto tra prosecuzione

8L'impostazione tradizionale che assegna all'istituto una funzione amministrativa è sviluppata in modo

ampio da Rivolta, L'esercizio dell'impresa nel fallimento, Milano,1969. Sotto il profilo funzionale, sottolinea la non contrapposizione tra interesse dei creditori e interesse alla conservazione del compendio aziendale: Cavalaglio, L'esercizio provvisorio dell'impresa nel fallimento (Profili funzionali), in Giur. Comm., 1986, I, 235.

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29 dell'attività economica e fallimento è concepito nella riforma della legge

fallimentare in continuità logica ed ideologica rispetto alla disciplina

dell'Amministrazione straordinaria. Infatti, il legislatore della novella già nella legge delega, ove è previsto che il curatore predisponga un programma di liquidazione specificando se è opportuno disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa o di singoli rami d'azienda anche tramite l'affitto a terzi, presenta appunto una forte continuità con la disciplina dell'Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, riformata proprio nel 1999, con l'idea di agganciarla successivamente alla riforma delle altre procedure concorsuali. In questo senso va letta in particolare la previsione di una liquidazione programmata mediante una gestione intermedia dell'impresa, diretta od affidata a terzi, propedeutica ad una alienazione dei valori aziendali nell'interesse principale dei creditori e quindi più proficua in termini di massimizzazione dell'attivo. La legge fallimentare, abbandonata definitivamente la illusoria prospettiva del risanamento dell'impresa del fallito, segue la via della liquidazione riallocativa9 sul modello dell'amministrazione straordinaria ed in particolare dell'opzione che, in questi anni di applicazione, ha riscosso il maggior successo, ovvero la cessione a terzi dei complessi aziendali o di rami, individuati dal commissario straordinario, sulla base di un programma di prosecuzione dell'impresa insolvente della durata di un anno, che garantisca per quanto possibile la

salvaguardia dei livelli occupazionali.

Nella riformata procedura fallimentare tale programma di prosecuzione viene attuato con gli strumenti dell'esercizio provvisorio e dell'affitto endoconcorsuale, ma senza la previsione di strumenti che permettano l'emersione tempestiva della crisi e che consentano la propedeutica radiografia dell'impresa al fine di adottare le scelte più idonee. Il precedente disegno di legge delega c.d. Trevisanato enunciava invece come principi direttivi: “l'obbiettivo della valorizzazione degli organismi produttivi e dei patrimoni assicurando il miglior soddisfacimento possibile dei creditori, sulla base dell'emersione tempestiva della crisi e l'attivazione delle

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Fimmanò, Commento sub art.104 in Il nuovo diritto fallimentare diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007, 1576.

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30 iniziative volte a porvi rimedio (art.2, lett. a-b)”. Una proficua liquidazione

riallocativa, specie se realizzata utilizzando l'esercizio provvisorio, richiede una istruttoria preconcorsuale tempestiva ed invasiva, a prescindere dall'iniziativa e dalla collaborazione del debitore, in grado di consentire il reale monitoraggio del tipo di impresa, del tipo di crisi e conseguentemente di articolare in modo flessibile le ipotesi di soluzione e scegliere, laddove opportuno, gli strumenti funzionali alla conservazione e alla valorizzazione degli assets produttivi funzionanti, per una più proficua vendita. In astratto sembrerebbe quindi idoneo configurare un sistema in cui gli organi fallimentari, dopo aver valutato le caratteristiche dell'impresa sul piano dimensionale, strutturale, dell'astratta redditività e del mercato di riferimento, dovrebbero essere in grado di individuare la soluzione più efficace per conservare il valore produttivo dell'azienda già prima della dichiarazione di fallimento. Infatti proprio a seguito della dichiarazione di insolvenza, quando l'impresa viene sottratta all'imprenditore, che si determina il maggior danno economico e sociale del

fallimento specie per la mancanza di rapidità dell'azione; nella novella sembrano mancare proprio adeguati strumenti di osservazione che la nuova disciplina dell'esercizio provvisorio rende ancora più opportuni. Vedremo in modo più approfondito nel seguito della trattazione che a questo specifico fine tuttavia soccorre l'uso alternativo della istruttoria fallimentare cui il tribunale può dar luogo a norma del novellato art. 15 l. fall. nella direzione di un uso cautelare a tutela del patrimonio dell'impresa.

Ritornando alla questione della natura dell’esercizio provvisorio, il legislatore della riforma segue la via della liquidazione riallocativa dei valori aziendali mediante l'esercizio provvisorio o l'affitto a terzi, purché funzionali alla massimizzazione dell'attivo nell'interesse dei creditori. Il delicato equilibrio tra esigenze di

salvaguardia degli organismi produttivi e di tutela dei creditori esige che, nella fase di crisi conclamata, l'azienda possa essere utilizzata per l'esercizio dell'attività economica purché ciò non comporti un pregiudizio ai creditori. L'interesse di creditori rimane la finalità prioritaria se non addirittura unica, questo rileva anche dal fatto che il fine della mera prosecuzione dell'attività economica in funzione del

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31 mantenimento dei livelli occupazionali non è contemplata nel fallimento, a

differenza di quanto accade per l'amministrazione straordinaria. L'unica norma che prende in considerazione tale profilo è l'art. 104 bis, in tema di affitto, ma solo come elemento comparativo al fine della scelta dell'affittuario, in quanto il contratto ha funzioni solo conservative e non di liquidazione in senso proprio ed il relativo canone ha funzioni diverse rispetto al prezzo di vendita, nel contesto fallimentare, quindi non vi è alcuna incoerenza sistematica nel fatto che il riferimento alla

conservazione dei livelli occupazionali scompaia del tutto dalle norme sulla vendita. Il problema centrale rimane quello di equilibrare gli svantaggi che accompagnano gli interessi individuali (o di categoria ) in funzione dei vantaggi che ne possono

derivare per il sistema nel suo complesso. Si tratta di un criterio di composizione di interessi contrastanti cui spesso si è fatto ricorso nel diritto commerciale (specie in quello societario e cartolare) ove il sacrificio di un interesse individuale può

giustificarsi in vista di un beneficio per l'intera categoria di appartenenza del soggetto il cui interesse individuale viene sacrificato. Spesso i creditori del fallito sono imprenditori anch'essi, quindi il sacrificio che sopportano sul piano della loro tutela individuale può essere compensato dal beneficio che nel complesso la disciplina adottata comporta per l'intero sistema economico in cui essi, con le proprie imprese, operano. Questa dovrebbe essere la nuova prospettiva del

fallimento che andrebbe a delinearsi come una procedura potenzialmente in grado di salvaguardare il valore oggettivo dell'impresa in cui convivono l'interesse dei creditori e quello di altri soggetti. Per evitare la dispersione dei valori aziendali, la legge fallimentare ante riforma contemplava espressamente soltanto l'istituto dell'esercizio provvisorio dell'impresa del fallito, la giurisprudenza però, da tempo, aveva introdotto nella prassi un ulteriore strumento alternativo, che appunto neanche veniva contemplato nella disciplina previgente, ovvero l'affitto

endoconcorsuale, eventualmente preceduto, od affiancati per un determinato ramo, dall'esercizio provvisorio. E in effetti, l'opinione prevalente, conveniva che, benché anche la stipulazione di un contratto di affitto di azienda costituiva un oggettivo ostacolo alla vendita frazionata dei beni prevista nel vecchio sistema, a favore di

(32)

32 esso militava l'indiscutibile vantaggio di pervenire al risultato di mantenere vitale l'impresa senza il rischio che la prosecuzione dell'attività d'impresa potesse gravare sul fallimento, il quale anzi nel caso di stipulazione del contratto di affitto

beneficiava del relativo canone. Si è spesso dubitato della efficacia e della efficienza degli istituti di gestione endofallimentare, non configurandosi come modalità di realizzazione dell'attivo e ritardando la finalità ultima della procedura che è quella di soddisfare le pretese dei creditori il più rapidamente possibile. La concezione del fallimento come mera procedura esecutiva tendente a soddisfare rapidamente le ragioni creditorie trova fondamento “nella reazione culturale alla teoria istituzionale dell'impresa, che con l'ideologia corporativa si era tentato di affermare nella

codificazione del1942, piuttosto che in una serena valutazione del dato

normativo”.10 Bisogna specificare che la celerità non è perseguita in sé dalla legge, ma proprio in funzione della tutela dei creditori, non sempre però la mera rapidità della liquidazione dell'attivo realizza la miglior tutela dei loro interessi. Una

procedura di liquidazione impostata in funzione della sola rapidità potrebbe portare gli organi del fallimento ad alienare in modo frazionato i singoli beni del complesso aziendale con un ricavo inferiore rispetto a quello che si potrebbe ottenere invece dalla vendita unitaria dell'azienda, oppure da una vendita troppo frettolosa potrebbe ricavarsi un prezzo basso, perché, ad esempio, in quel momento, per ragioni di mercato o di informazione, la platea dei soggetti potenziali acquirenti è ridotta. L'esercizio provvisorio è uno strumento che non necessariamente va a pregiudicare gli interessi dei creditori, poiché permette di conservare l'apparato produttivo vitale facilitando una liquidazione per aggregati più redditizia per tali soggetti. Anche se in seguito alla riforma, la continuazione dell'attività d'impresa viene inserito nel Capo unitario con la liquidazione dell'attivo, possiamo comunque affermare che si tratta pur sempre di un istituto che riguarda la fase di

amministrazione dei beni del fallito, risolvendo quelli che sono problemi di organizzazione e di custodia del patrimonio del fallito che emergono in seguito

10

Sandulli, Esercizio dell'impresa nelle procedure concorsuale e rapporti pendenti in Giurisprudenza commerciale, 1995, I, 199.

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