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La lesione coronarica calcifica: dalla genesi al trattamento

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Academic year: 2021

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312ModFTPW00

Master Universitario di II livello Trattamento percutaneo della malattia coronarica

2016/2017

La lesione coronarica calcifica:

dalla genesi al trattamento

Autore

Dott. Francesco Cassano

Tutor Scientifico

Prof. Claudio Passino

Tutor Aziendale –

Casa di Cura “Anthea” GVM

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INDICE

Sommario analitico………..pag 2

Introduzione………..pag 3

Capitolo 1……….pag 4

Capitolo 2……….pag 9

Capitolo 3………pag 11

Capitolo 4………pag 14

Capitolo 5………pag 22

Capitolo 6………pag 24

Bibliografia……….pag 25

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SOMMARIO ANALITICO

La cardiopatia ischemica è un problema importante ed in costante crescita1. In questo contesto, la malattia coronarica calcifica, legata soprattutto all’età avanzata, al diabete e all’insufficienza renale, è associata a procedure interventistiche complesse, elevato rischio di complicanze ed aumentata mortalità2,3,4,5. Diverse metanalisi hanno confermato l’impatto delle lesioni calcifiche severe sull’outcome dei pazienti, gravate in particolar modo da un più basso tasso di rivascolarizzazione completa e da aumento della mortalità al follow-up a 3 anni6. Uno dei principali fattori determinanti il peggioramento dell’outcome di tali pazienti sembra essere l’underexpansion dello stent7, che a sua volta è fortemente influenzata da spessore, lunghezza e distribuzione circonferenziale delle calcificazioni8.

Un tempo creduta una fase passiva, degenerativa e quiescente della patologia coronarica, la calcificazione coronarica è invece un processo attivo, associato con l’aterosclerosi e stimolato da pathways infiammatori9. La diagnostica non invasiva delle calcificazioni coronariche è basata essenzialmente sulla TC coronarica10; invece quella invasiva si affida alla coronarografia, con l’approfondimento fornito dall’imaging endovascolare.

Per quanto riguarda il trattamento, è fondamentale al fine del miglioramento dell’outcome di tali pazienti, una adeguata preparazione della lesione prima di procedere all’impianto dello stent. A tal scopo step essenziale risulta essere l’imaging endovascolare (i.e. IVUS ed OCT), che consente di comprendere le caratteristiche fondamentali delle calcificazioni, presupposto chiave per procederne al trattamento; quest’ultimo può avvantaggiarsi nei moderni Laboratori di Emodinamica di diverse tecniche e devices per il trattamento dedicato (cateteri a palloncino cutting/scoring, aterectomia, litoplastica ecc).

Ognuna di queste tecniche ha delle peculiarità che ne consentono l’utilizzo in setting clinico-anatomici differenti, tailorizzando e “personalizzando” la strategia interventistica per il trattamento delle lesioni calcifiche.

Parole chiave: lesioni calcifiche, pathways infiammatori, stent underexpansion, complicanze, mortalità,

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INTRODUZIONE

Le calcificazioni coronariche sono state considerate come marker specifico di aterosclerosi sin dagli anni 4011. L’estensione delle calcificazioni riflette l’effetto costante sulle coronarie di tutti i fattori di rischio attualmente noti per CAD. Esiste infatti una stretta correlazione tra invecchiamento della popolazione, diabete, insufficienza renale, dislipidemia e lo sviluppo e la progressione delle calcificazioni coronariche12.

Un tempo creduta una fase passiva, degenerativa e quiescente della patologia coronarica, la calcificazione coronarica è invece un processo attivo, associato con l’aterosclerosi e stimolato da pathways infiammatori. Un importante burden calcifico è connesso con PCI complesse, maggio rischio per complicanze ed incremento della mortalità al follow-up a 3 anni. Uno dei principali fattori determinanti il peggioramento dell’outcome di tali pazienti sembra essere l’underexpansion dello stent, che a sua volta è fortemente influenzata da spessore, lunghezza e distribuzione circonferenziale delle calcificazioni.

Valutare l’estensione del burden calcifico è quindi fondamentale: è possibile studiarlo mediante metodiche non invasive (coro TAC e CAC score) ed invasive, queste ultime rappresentate fondamentalmente dall’angiografia coronarica con l’ausilio dato dall’IVUS e dall’OCT.

Fondamentale quindi risulta essere, al fine del miglioramento dell’outcome di tali pazienti, una adeguata preparazione della lesione prima di procedere all’impianto dello stent. A tal scopo l’imaging endovascolare (i.e. IVUS ed OCT) consente di comprendere le caratteristiche fondamentali delle calcificazioni, presupposto chiave per procederne al trattamento; quest’ultimo può avvantaggiarsi nei moderni Laboratori di Emodinamica di diverse tecniche e devices che andremo in seguito ad illustrare dettagliatamente.

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CAPITOLO 1

TIPOLOGIA E PATOLOGIA DELLA CALCIFICAZIONE NELL’ATEROSCLEROSI

La calcificazione vascolare può essere distinta in due tipi in base alla localizzazione, intimale o media. Calcificazioni della media riguardano soprattutto le arterie degli arti inferiori, con conseguente perdita di elasticità, di sistematico riscontro nella PAD; si associano a IRC, ipercalcemia, iperfosfatemia, anomalie delle paratiroidi e durata della dialisi. Di converso le calcificazioni dell’intima rappresentano la tipologia dominante delle calcificazioni coronariche.

Le calcificazioni iniziali avvengono in vescicole di matrice con un diametro dai 100 ai 700 nm, e possono essere osservate solo al microscopio elettronico13. La forma più precoce di CAC è la microcalcificazione riscontrata in lesioni con ispessimento intimale patologico con dimensioni variabili tra 0.5 e 15 micron14,15,16. All’interno del pool lipidico, microcalcificazioni precoci sono visibili al microscopio ottico ed originano verosimilmente dall’apoptosi delle SMC15,16,17: queste determinano lo sviluppo di microcalcificazioni più fini. Ruolo importante nella microcalcificazione oltre a quello dell’apoptosi delle SMC è giocato dalle vescicole di matrice derivate dai macrofagi18, che determinano lo sviluppo di microcalcificazioni più ampie e grossolane, che si organizzano come depositi calcifici all’interno delle aree più profonde del core necrotico in prossimità della lamina elastica interna.

Le microcalcificazioni coalescono in masse più ampie nel tempo per formare ammassi e frammenti calcifici. La progressione procede dal margine esterno del core necrotico verso la matrice di collageno circostante: a questo stadio, il core centrale può o meno essere già diventato calcifico. Andando avanti la calcificazione conduce a placche calcifiche con “fogli” o “lastre” (>1 quadrante) coinvolgenti SCM e matrice collageno indipendentemente dal core necrotico. Le placche calcifiche possono fratturarsi determinando la formazione di noduli calcifici, i quali possono estendersi nel lume o nella media e possono essere associati a deposizione di fibrina. Tali noduli possono determinare discontinuità nel rivestimento endoteliale e della sottostante matrice collageno, e quindi trombosi luminale acuta. Il nodulo calcifico è il meccanismo alla base di SCA tra il 2 e il 7% delle trombosi coronariche19 e tra il 4 e il 14% delle trombosi carotidee20 negli studi su frammenti autoptici.

L’ossificazione21 con formazione di trabecole con spazi midollari è raramente osservata in CAD calcifica: in tali casi si tratta di segmenti fortemente calcifici della parete arteriosa, il che suggerisce che solo in caso di una severa calcificazione arteriosa possa riscontrarsi l’osteogenesi.

I processi di calcificazione arteriosa condividono alcune caratteristiche con la formazione dell’osso scheletrico, tra cui la differenziazione di condrociti e osteoblasti, la mineralizzazione e la deposizione/riassorbimento di matrice ossea. Proteine osteocorrelate quali la proteina morfogenetica (BMP)-1 e BMP-4, sialoproteina ossea, osteocalcina, osteonectina, osteopontina e osteoprotegerina sono state identificate nelle arterie calcifiche22,23. Nelle placche coronariche precoci, osteoprotegerina, osteoponteina e la proteina di matrice G1a sono state riscontrate nei siti di microcalcificazione: tuttavia, sebbene l’espressione di proteine osteocorrelate esista sin da primi momenti della formazione della placca, i meccanismi precisi della calcificazione/osteogenesi nell’aterosclerosi sono ignoti.

Esistono stimoli differenti coinvolti nell’inizio e progressione della calcificazione che possono variare a seconda dello stadio della placca e del milieu circostante. Verosimilmente, la morte delle SMC rappresenta il punto di partenza per la microcalcificazione precoce24, seguita quindi da infiltrato di macrofagi nel pool lipidico, a cui fa seguito morte cellulare e calcificazione. La morte cellulare determina rilascio di frammenti

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ricchi in fosfolipidi che fungono per la nucleazione dell’apatite, un processo che inizia all’interno dei pool lipidici e progredisce con infiammazione e ulteriore morte cellulare, determinando così lo sviluppo del core necrotico. Fattori ambientali quali l’elevata percentuale di calcio o fosforo promuovono ulteriore nucleazione di apatite e cristallizzazione25 . La perdita di inibitori della mineralizzazione promuove la calcificazione della media in modelli animali, mentre meccanismi osteogenetici coinvolgenti proteine formanti l’osso quali l’osteopontina, collagene tipo I, osteoprotegerina e cosi via sembrano anch’essi giocare un ruolo. Ad ogni modo, l’attuale formazione dell’osso all’interno della parete vascolare è osservata di rado nelle arterie coronarie umane26,27.

In conclusione, i patterns di calcificazione variano moltissimo in relazione alla sede. Le arterie periferiche tendono ad sviluppare maggiormente deposizione di collagene e calcificazione, mostrando una calcificazione della media tipo Monckenberg in aggiunta alla sclerosi dell’intima. Viceversa, alcuni letti arteriosi quali ad esempio le arterie toraciche interne sono resistenti sia all’aterosclerosi che alla calcificazione28.

PROGRESSIONE NATURALE DELLA CALCIFICAZIONE IN BASE ALLA TIPOLOGIA DI PLACCA

La calcificazione progredisce in base al tipo di placca di pari grado col restringimento luminale24. La calcifcazione è spesso assente o minima nelle lesioni precoci quali ispessimento intimale adattativo o patologico. Tipologia di placca e complessità aumentano assieme al grado di restringimento luminale, così come aumentano il grado di restringimento luminale e la prevalenza e l’area di calcificazione. Il pattern e l’estensione della calcificazione comunque non correlano linearmente con le dimensioni del core necrotico e tendono a differire per tipologia di placca: ad esempio, in fibroateroma e TCFA l’area del core necrotico aumenta progressivamente ma la calcificazione può o meno aumentare in proporzione. Comunque nelle fissurazioni guarite e nelle placche fibrocalcifiche, l’area calcifica aumenta in proporzione al core necrotico, mentre il vaso si restringe. Non di rado si osserva un minor grado di calcificazione in tipologie instabili di placca (TCFA/erosioni).

RELAZIONE TRA ETA’, SESSO E CALCIFICAZIONE

E’ risaputo come il sesso influenzi lo sviluppo dell’aterosclerosi e che nelle donne la malattia ritardi dai 10 ai 15 anni per via degli effetti protettivi degli estrogeni nell’età premenopausale29. In un sottostudio del Women’s Health Initiative, 1064 donne tra 50 e 59 anni randomizzat a terapia estrogenica e placebo hanno mostrato un CAC score mediano significativamente inferiore nel gruppo estrogeno (83.1) paragonato al placebo (123.1, p=0.02). Lo studio CADRE (Coeur Artères DREpanocytose) ha valutato l’estensione del CAC in 108 cuori umani espiantati da vittime di arresto cardiaco improvviso (70 uomini, età media 50+/-12 anni, 38 donne, età media 50+/-12 anni) utilizzando una scala radiografica semiquantitativa (grado 0= nessuna calcificazione, 1= calcificazioni <40 micron, 2= calcificazioni >40 micron coinvolgenti 1 solo quadrante, 3= calcificazioni >40 micron coinvolgenti 2 quadranti, 4= calcificazioni >40 micron coinvolgenti 3 quadranti, 5= calcificazioni >40 micron in tutti e quattro i quadranti)30. Alla stratificazione per età l’estensione delle calcificazioni era nettamente superiore nei maschi rispetto alle femmine fino alla 6 decade ma poi i risultati tornavano equivalenti nella 7 decade24. Inoltre, il grado di calcificazione era 3 volte superiore nelle donne postmenopausa rispetto a quelle in età premenopausale31.

RAZZA E CALCIFICAZIONI

Nello studio MESA (Multi-Ethnic Study of Aterosclerosis)32 6814 persone bianche, afroamericane, ispaniche e cinesi dai 45 agli 84 anni senza storia clinica di patologia cardiovascolare sono state valutate per calcificazioni vascolari. La prevalenza di calcificazioni coronariche (Agatson score >0) in questi 4

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raggruppamenti etnici, nel sesso maschile, era rispettivamente del 70.4, 52.1, 56.5 e 59.2% (p<0.001), mentre nel sesso femminile era rispettivamente del 44.6, 36.5, 34.9 e 41.9% (p<0.001). Dopo adeguamento per età, educazione, lipidemia, BMI, abitudine tabagica, diabete, ipertensione, trattamento per ipercolesterolemia, sesso e centro di valutazione, a paragone con gli individui bianchi, il rischio relativo per calcificazioni coronariche nelle donne era di 0.78 (intervallo di confidenza 0.95% [CI]: 0.74 – 0.82) per le afroamericane, 0.85 (95% CI: 0.0.79 – 0.91) per le ispaniche, e 0.92 (95% CI: 0.85 – 0.99) per le cinesi. Dopo tali adeguamenti, il CAC in coloro con Agatston score >0 era maggiore tra i bianchi, seguiti dai cinesi (77% rispetto ai bianchi, 95% CI: 62% - 96%), Ispanici (74% dei bianchi, 95% CI: 61% - 90%) e quindi dagli afroamericani (69% rispetto ai bianchi, 95% CI: 59% - 80%).

Similmente, l’estensione della CAC nei cuori espiantati in CADRE era maggiore nei Caucasici rispetto agli Afroamericani per ogni decade di età33,34: si è pensato a diverse spiegazioni per questo, tra cui la densità minerale ossea e il turnover osseo. La perdita ossea è stata associata alla calcificazione aortica addominale35. Gli afroamericani hanno una maggior densità minerale ossea rispetto ai bianchi (p<0.001 per total body, p=0.0001 per L2-L4 e p=0.0005 per il collo del femore)33, suggerendo come probabilmente il turnover osseo degli arti inferiori possa essere causa della calficazione delle arterie degli arti inferiori. Comparando 17 Aframericane con 41 donne bianche con basso CAC score, si è riscontrata una diversa espressione di 409 geni. In aggiunta, 316 geni erano espressi in maniera differente tra gruppi con score alto (>100) e basso (<10). Tuttavia, il preciso impatto genetico della razza di appartenenza sullo sviluppo delle calcificazioni resta incerto.

DIABETE E CALCIFICAZIONI

CAC tende ad essere più alto nei pazienti diabetici, il che correla con il plaque buren totale e rappresenta un fattore di rischio indipendente per outcome sfavorevoli36,37. L’insufficienza renale cronica può essere una comorbidità del diabete, ed anch’essa è un fattore di rischio per CAC38. Il ruolo dell’emoglobina glicosilata sulla progressione di CAC è stato valutato in 2076 pazienti mediante TC in bianco al tempo zero e dopo 5 anni di follow-up39, mentre l’incremento del CAC è stato valutato come di qualunque grado (>10 unità di Agatston di differenza tra le due valutazioni) o avanzato (>100 unità di Agatston di differenza tra le due valutazioni). Una maggiore emoglobina glicosilata è associata con progressione di CAC di qualunque grado (RR = 1.51; 95% CI: 1.16 – 1.96) e progressione di CAC avanzata (RR = 2.42; 95% CI: 1.47 – 3.99).

L’osservazione di cuori espiantati da pazienti morti improvvisamente diabetici e non diabetici matchati per età, razza e sesso ha prodotto interessanti risultati40. Il plaque burden totale e quello distale erano significativamente superiori nei soggetti con DM II rispetto ai non diabetici, il che può essere parzialmente spiegato dal fatto che i numeri delle rotture di placca guarita erano maggiori nei soggetti con DM II (2.6 vs 1.9, p = 0.04)41. L’area calcifica media era maggiore in pazienti con DM II (12.1%) rispetto a soggetti non diabetici (9.4%; p=0.05). La percentuale media di area di placca composta da core necrotico era anche maggiore nei soggetti DM II (11.6%) rispetto ai non diabetici (9.4%; p=0.0004). L’area di placca infiltrata da macrofagi e cellule T era significativamente maggiore in soggetti diabetici rispetto a non diabetici (p=0.03), così come l’espressione di antigene leucocitario umano tipo DR (HLA-DR, p<0.0001), che indica il coinvolgimento di una infiammazione cronica maggiore nei soggetti diabetici. L’espressione dei recettori per prodotti terminali di avanzata glicazione era anche significativamente maggiore in soggetti diabetici (p=0.004) ed era associata alla presenza di SCM e macrofagi.

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ASSOCIAZIONE TRA TERAPIA FARMACOLOGICA E CALCIFICAZIONI CORONARICHE

Le statine ad alta intensita sono associate a riduzione del plaque volume, come riscontrato da studi con immagini IVUS seriate42-44. Terapia statinica ad alte dosi (atorvastatina 80 mg/rosuvastatina 40 mg) è stata associata con regressione della percentuale di volume di ateroma (-0.6%), mentre la terapia con statine a bassa intensità (atorvastatina<40 mg, rosuvastatina<20 mg, simvastatina<40 mg, pravastatina<80 mg, lovastatina<20 mg, fluvastatina<40 mg) o nessuna terapia statinica sono state associate con progressione della percentuale di volume di ateroma (rispettivamente +0.8% e +1.0%, p<0.001)45. Interessante è notare come la calcificazione progredisca a prescindere in tutti i gruppi, ed in altri studi46-48 addirittura la statina è stata valutata come fattore di rischio per la progressione della calcificazione. D’altra parte, anche alcuni studi TC hanno mostrato risultati contrastanti a riguardo dell’effetto della terapia statinica sul burden di calcio coronarico49-51. Verosimilmente il meccanismo che connette la terapia statinica alla progressione delle calcificazioni coronariche è legato alla calcificazione del core necrotico, che tenderebbe a stabilizzare tali placche e ridurre gli eventi coronarici: di conseguenza, il CAC score calcolato alla TC può non essere preciso dal punto di vista prognostico una volta che sia stata intrapresa una terapia placca-modificante, come appunto quella statinica.

Il warfarin blocca la sintesi e l’attività della proteina di matrice G1a (MGP): questa è una proteina vitamina K dipendente, sintetizzata dalle cellule muscolari lisce vascolari ed è una delle inibitrici chiave del metabolismo del calcio nelle arterie coronarie52. La calcificazione indotta dal warfarin, tradizionalmente riscontrata nella media, è stata invece osservata nell’intima di modelli murinici: questo studio riporta come una somministrazione per breve tempo di warfarin potrebbe indurre calcificazione dell’intima e rimodellamento arterioso esterno senza effetto significativo sul plaque burden. Ciò suggerisce che il warfarin possa avere effetti calcifici oltre la tonaca media53. Studi IVUS seriati sulle coronarie a con follow up a 2 anni hanno dimostrato come la calcificazione coronarica progressiva sia associata indipendentemente ad uso concomitante di warfarin in una analisi post hoc di 8 studi randomizzati prospettici su CAD54.

CALCIFICAZIONE E STABILITA’ DI PLACCA

CAC è strettamente associato ad outcome sfavorevoli in tutte le popolazioni valutate ed è miglior marker di eventi futuri rispetto a tutti i fattori di rischio e equazioni di rischio attuali. Non è tuttavia chiaro comunque se ciò è correlato alla placca calcifica in quanto tale come fonte degli eventi oppure se le placche calcifiche predicono soltanto la presenza di CAD in maniera più accurata. Probabilmente la questione clinica più importante riguardo CAC è se la sua presenza predica o meno instabilità di placca. Studi su cadavere hanno limitazioni intrinseche per rispondere a questa domanda, ma una combinazione di imaging coronarico e studi su cadavere hanno fornito delle risposte preliminari. Sembra anzitutto come CAC non possa essere considerata come una variabile tutto-o-nulla: il tipo, la sede, l’estensione, il volume e la densità delle calcificazionoi hanno effetti differenti sul rischio clinico e sull’outcome55. E’ questo che crea controversia riguardo al fatto se sia la presenza o la progressione del CAC (in quest’ultimo caso rendendosi necessarie misurazioni seriate) l’elemento chiave per predire rischio e outcome56,57.

In generale, le calcificazioni “spot” sembrano predire instabilità di placca, laddove calcificazioni diffuse e importanti si correlano con il plaque burden totale. Studi IVUS hanno riportato che la calcificazione spot era associata a maggior progressione di volume di placca rispetto a placche non calcifiche, laddove placche intensamente calcifiche di rado subivano cambiamenti nel volume di placca58,59. L’angioTC ha inoltre dimostrato come la calcificazione spot fosse più frequentemente osservata in pazienti con ACS60. Nel registro Coronary Artery Sudden Death Registry è stata osservata una calcificazione istologica massima nelle placche fibrocalcifiche, seguita da rotture di placche guarite, TCFA e in minima parte nelle placche con erosione30: le

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placche fibrocalcifiche risultavano molto più calcificate con maggiore stenosi luminale. Tali dati suggeriscono come il burden di calcio sia maggiore nelle placche stabili rispetto a quelle instabili e mostra una correlazione inversa con l’area necrotica del core.

Concentrandoci sul TCFA, è noto come nonostante non siano visibili in immagini in vivo, le microcalcificazioni sono presenti nel cap sottile15,16,61,62: proprio tali microcalcificazioni potrebbero essere i responsabili della rottura del cap15,16, agendo come “concentratori” dello stress tissutale locale62.

CORONARY CALCIUM PARADOX

In uno studio su 260 pazienti, Puchner et al63 hanno messo in evidenza come esista una sostanziale differenza tra burden coronarico calcifico totale e segmentale. Partendo dall’assunto che il burden totale sia associato con un aumentato rischio cardiovascolare, quello segmentale invece possa rappresentare placche stabili, sono state indagate le differenze tra CAC totale con SCA e CAC locale con lesione culprit in pazienti con sospetta SCA. Sono state effettuate TC e coronarografia per valutare la presenza di stenosi significativa e placche ad alto rischio (rimodellamento positivo, bassa attenuazione TC, segno napkin-ring, calcio spot) in 37 pazienti con sindrome coronarica acuta e 223 controlli, con annessa misurazione di Agatston score totale e segmentale e valutazione della lesione culprit nei soggetti con SCA.

E’ stato quindi visto come i pazienti con SCA rispetto a quelli senza SCA avessero maggiore totale CAC score, maggiore prevalenza di stenosi significativa e di placche ad alto rischio. Nei pazienti con SCA la lesione culprit aveva simile CAC score segmentale rispetto a quella non-culprit, ma maggiore prevalenza di stenosi significativa e placche ad alto rischio. Una stenosi significativa ed una placca ad alto rischio ma non il CAC score segmentale erano associate alla lesione culprit della SCA. Se ne deduceva come il CAC burden totale fosse associato alla SCA, ma il CAC burden segmentale non era associato alla lesione culprit: quindi, il CAC burden totale è un marker di rischio di SCA e si può ipotizzare come estensivo CAC burden locale possa essere un marker di stabilità di placca.

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CAPITOLO 2

DIAGNOSTICA NON INVASIVA DELLE CALCIFICAZIONI CORONARICHE Una serie di biomarker sono stati identificati come spie della calcificazione coronarica.

La fetuina-A, una proteina plasmatica di origine epatica, presenta molta affinità per l’osso minerale64 . Questa proteina ha la capacità di prevenire la precipitazione di fosfato di calcio basico da soluzioni supersature, fatto suggestivo della sua potenti proprietà di inibizione sistemica della calcificazione tissutale65-68. Mentre dati su animali hanno mostrato che deficit di fetuina-A nel topo determina lo sviluppo di estensive calcificazioni nel miocardio, rene, lingua e pelle69,70 mentre nel setting clinico pazienti emodializzati con bassi livelli sierici di fetuina-A sono associati ad incremento della mortalità71.

La proteina di matrice G1a (MGP), vitamina K-dipendente, gioca un ruolo nella prenvenzione della calcificazione tissutale e mineralizzazione della parete vascolare inibendo l’interazione della proteina morfogenetica ossea BMP/BMPR2 legando direttamente il BMP272,73. Nei modelli animali, topi MGP-null sviluppano estensive e letali calcificazioni della media74. Uno studio basato su immagini TC ha dimostrato come la severità del CAC incrementasse contestualmente alla diminuizione dei livelli serici di MGP in 115 soggetti con sospetta CAD75.

La fosfatasi alcalina (ALP), enzima che catalizza l’idrolisi del pirofosfato organico76, un inibitore della calcificazione vascolare77 è prevalentemente espressa nel fegato, rene ed osso76. E’ espressa ad alti livelli nelle SMC della media allorquando questa presenti delle calcificazioni. Anche fattori stimolanti la calcificazione dell’aterosclerosi vascolare (es LDL ossidate) sono connessi con una incrementata attività di AlP in VSMC in coltura78.

Tuttavia tali proteine, nonostante il riscontro di un ruolo giocato nella calcificazione, non rappresentano attualmente marker dosabili per identificare lo sviluppo precoce di calcificazioni coronariche.

Più promettente sembra essere la Grande Endotelina-I (bigET-I, precursore della Endotelina-I) che in uno studio su 428 pazienti valutati con TC ha dimostrato di essere correlata positivamente con CACS (p<0.001) e che la prevalenza di CACS>400 era significativamente maggiore nei soggetti del terzile con maggiore riscontro di bigET-I rispetto a quelli del terzile a riscontro minore: all’analisi multivariata, la bigET-I si è dimostrata predittore indipendente di CACS>400 ad un cut off di 0.38 pmol/L (sensibilità 59%, specificità 68%)79. Similmente un altro studio cinese ha mostrato come le concentrazioni seriche del CA-125 risultino essere indipendentemente correlate al CACS in una popolazione di 348 pazienti consecutivi con dolore toracico ma senza coronaropatia nota. Sono ovviamente necessari ulteriori studi e validazioni prima di poterli utilizzare come marker clinici dosabili per la ricerca di calcificazioni80 .

La TC è attualmente lo strumento diagnostico non invasivo più importante per identificare le CAC. E’ una TC torace senza contrasto, con acquisizione tra 3 e 5 secondi in apnea. Per quanto riguarda la ricerca di CAC, questa è quantificata lungo l’intero albero coronarico epicardico. Il calcio coronarico è definito come una lesione oltre una soglia di 130 unità Hounsfield, con un’area maggiore o uguale a 3 pixel adiacenti (almeno 1 mm2). Il calcium score originale sviluppato da Agatston et al.81 è determinato dal prodotto dall’area di placca calcifica e la massima densità di lesione calcifica (da 1 a 4 sulla base delle unità di Hounsfield). Uno score di 0 indica l’assenza di placche calcifiche, da 1 a 10 la presenza di minima placca calcifica, da 11 a 100 la presenza di lieve placca calcifica, da 101 a 400 la presenza di un quantitativo moderata placca calcifica ed infine oltre i 400 la presenza di severa placca calcifica.

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Gli score del calcio, soprattutto lo score di Agatston, sono stati utilizzati per predire il rischio relativo futuro di eventi cardiovascolari sia in pazientei asintomatici che sintomatici82. L’Agatston è uno score dato della somma di tutte le lesioni calcifiche che considera l’area calcifica totale e la massima densità di calcificazione (>130 unità Hounsfield [HU]). Sebbene altri score siano stati validati ed utilizzati, l’Agatston rappresenta il gold standard per via della sua semplicità. Il nesso tra CAC ed eventi cardiovascolari è di carattere graduale e può essere utilizzato per la stratificazione el rischio per futuri eventi coronarici. Un basso CAC score è anche associato con una ridotta mortalità e globale e cancro-specifica. Di conseguenza le linee guida mondiali raccomandano la valutazione CAC per migliorare la stratificazione del rischio clinico in pazienti asintomatici accuratamente selezionati, specialmente coloro con un Framingham Risck Score intermedio (tra 5 e 20%)83 . E’ stato dimostrato come la presenza di CAC minima (es CAC score tra 1 e 10) incrementi il rischio di una patologia coronarica (CHD) di circa 3 volte rispetto a una CAC assente. L’hazard ratio per mortalità da ogni causa era 1.9938. Inoltre la progressione del CAC aggiunge ulteriore valore predittivo e correla strettamente con la progressione del rischio cardiovascolare84. La discontinuità tra calcio come marker di placca fibrocalcifica stabile e il rischio globale cardiovascolare può essere spiegata dal fatto che più alti CAC score correlano con il burden di placca globale. Pazienti con CAC score molto alti hanno estensivo plaque burden coronarico con elevata probabilità di esperire ischemia stress-indotta.

La TC multidetettore ha destato interesse nell’analisi non invasiva delle placche vulnerabili85. Le caratteristiche delle placche coronariche vulnerabili sono state definite come rimodellamento vascolare positivo, bassa densità di placca (<30 HU), segno del napkin-ring (caratteristica qualitativa della placca che identifica un'area centrale di bassa attenuazione apparentemente in contatto con il lume con una rima circumferenziale esterna della placca non calcifica ad alta densità) e calcificazioni spot44,85. Sebbene la presenza di microcalcificazioni correli fortemente con instabilità di placca, l’attuale risoluzione della TC è insufficiente per riscontrarne la presenza.

La micro-TC ad alta risoluzione è stata in grado di osservare il core necrotico calcifico della placca e distinguere le calcificazioni nodulari da quelle a foglio (cosa non possibile con la semplice radiografia): clinicamente, qualora la qualità delle immagini potesse migliorare ulteriormente, la nostra comprensione dei processi dell’aterosclerosi sarebbe enormemente migliorata, e di conseguenza anche la stratificazione dei pazienti ad alto rischio nella pratica clinica quotidiana.

Nella pratica clinica quotidiana la coro TC è indicata in linee guida ESC 2013 per la diagnosi di cardiopatia ischemica stabile come alternativa a tecniche di stress imaging per escludere SCAD in pazienti all’interno del range inferiore di PTP intermedio per SCAD in cui è possibile prospettare una buona qualità delle immagini (IIaC); inoltre può essere considerata in pazienti all’interno del range inferiore di PTP intermedio per SCAD dopo un ECG da sforzo/imaging da sforzo non conclusivi o in pazienti con controindicazioni a stress imaging per evitare angiografia coronarica qualora ci si possa prospettare una buona qualità delle immagini (IIaC). In pazienti asintomatici adulti con diabete ed età ≥40 anni la misurazione del calcio coronarico può essere considerata per la valutazione del rischio cardiovascolare (IIbB)86. Diversamente, le linee guida NICE indicano la coro TC come test di prima linea nella diagnosi di cardiopatia ischemica in pazienti con dolore toracico di nuova insorgenza di sospetta origine coronarica87.

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CAPITOLO 3

DIAGNOSTICA INVASIVA DELLE CALCIFICAZIONI CORONARICHE – LA CORONAROGRAFIA

L’angiografia coronarica è tradizionalmente utilizzata per diagnosticare e quantificare il grado delle stenosi nella coronaropatia ostruttiva. La calcificazione visualizzata all’angiografia è classificata in 3 gruppi: nessuno/lieve, moderata e severa. La calcificazione moderata viene definità come una radioopacità notata solo durante il ciclo cardiaco prima dell’iniezione del mezzo di contrasto, laddove la calcificazione severa è definita come una radioopacità visibile anche a prescindere dal ciclo cardiaco e prima dell’iniezione del mezzo di contrasto, di solito coinvolgente entrambi i lati del lume arterioso88. La sensibilità della CAG è bassa-moderata (40%), mentre la specificità è alta (82%)89.

Tuttavia mentre CAG resta il gold standard clinico per la valutazione della malattia aterosclerotica nell’albero coronarico, essa presenta dei limiti nel quantificare e valutare il calcio coronarico. CAG fornisce sicuramente una silhouette bidimensionale del lume vasale ma non mostra la parete coronarica, ed è utile notare come il calcio diventa visibile solo quando è superficiale ed in grande quantità. Tuttavia, con la progressione della patologia la lesione calcifica tende a progredire in profondità all’interno della parete del vaso89. Anche per questo motivo è fondamentale approfondire la diagnosi mediante imaging endovascolare.

CALCIFICAZIONI CORONARICHE ED IMAGING ENDOVASCOLARE

L’IVUS è uno strumento di diagnostica che richiede l’inserimento di un catetere contenente un trasduttore di ultrasuoni ad alta frequenza all’interno del lume coronarico, consentendo lo sviluppo di immagini di sezioni trasverse. In tal modo l’IVUS consente uno studio molto più estesp della distribuzione e della natura del plaque burden rispetto a quello consentito dalla CAG, e identifica il calcio come aree intensamente iperecogene all’interno del lume vasale, che danno origine ad un cono d’ombra. IVUS mostra avere grande sensibilità (90%) e specificità (100%) nello studio del calcio coronarico90. L’IVUS è anche in grado di riscontrare le microcalcificazioni e le calcificazioni nodulari, ed è in grado di valutare l’estensione radiale (arco) e lungitudinale (lunghezza) , ma non lo spessore (profondità) della calcificazione57,58,91.

E’ stato tradizionalmente ipotizzato che le placche calcifiche fossero pù stabili di quelle non calcifiche; tuttavia, più di recente l’IVUS è stato utilizzato per valutare i piccoli accumuli di calcio (“spot”) che sono caratteristica di placche vulnerabili58. Ad ogni modo, l’IVUS non riesce a identificare lo spessore del calcio, e tale misurazione è effettuata in maniera semiquantitativa mediante la valutazione del cono d’ombra92. La Virtual histology® utilizza avanzati segnali di radiofrequenza per ricostruire una mappa tissutale a colori della composizione della placca, in grado di distinguere tra fibroso, fibroadiposo, core necrotico e materiale calcifico denso93, riportati in percentuale di burden totale di placca. Tale studio comprende anche una analisi fenotipica, basata sulla correlazione con analisi istologiche ex-vivo, in grado di spaziare dall’ispessimento patologico intimale al TCFA derivato dall’IVUS: quest’ultimo (IDTCFA) è definito come una lesione contenente core necrotico >10% in tre immagini consecutive94. Per quanto riguarda lo studio della calcificazione, l’alone attorno alla calcificazione può sovrastimare il core necrotico e ciò dovrebbe imporre cautela nell’interpretare le immagini95.

L’OCT (Tomografia a Coerenza Ottica) è una modalità di imaging endovascolare che usa la riflessione retrodiffusa della luce prossima all’infrarosso, con una lunghezza d’onda di circa 1,300 nm per generare immagini topografiche assiali. La risoluzione assiale (circa 10 micron) e laterale (circa 20 micron) consentono la capacità di visualizzare vari componenti dell’ateroma al di sotto della superficie intima endoteliale, come per esempio il contenuto lipidico, il cap fibroso e le microcalcificazioni96. Noduli calcifici sono stati identificati

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con una sensibilità del 96% e una specificità del 97%97. L’aspetto del nodulo calcifico è molto differente dalla calcificazione a “foglio” e mostra eterogeneità di segnale con forte attenuazione presumibilmente dovuta a fibrina interposta tra noduli91,98. Quando il nodulo protrude la superficie del lume appare irregolare91. OCT è inoltre in grado di identificare lo spessore dei depositi di calcio superficiale in maniera superiore all’IVUS99. Ottime capacità di visualizzazione sono riscontrabili all’OCT per quanto riguarda i “fogli” di calcificazione91,98. Tuttavia all’aumentare della risoluzione dell’immagine è possibile sacrificandone il potere di penetrazione attraverso sangue e tessuti, cosi come le stesse strutture arteriose più profonde non sono ben visualizzabili. Ciò limita la capacità dell’OCT di visualizzare lesioni ostiali, valutare vasi di grosso calibro e misurare l’stensione del volume di placca all’interndo della parete vascolare. OCT inoltre non è in grado di misurare lo spessore del calcio: lo scarso potere di penetrazione tissutale limita la valutazione delle lesioni calcifiche a una gradazione semi-quantitativa.

Ricapitolando, l’imaging nel trattamento delle lesioni calcifiche risulta essere fondamentale, per svariati motivi. Il calcio è presente nelle coronarie fino al 90% dei pazienti a partire dai 70 anni , ed è spesso non diagnosticato all’angiografia: ad esempio, nello stesso paziente, il calcio viene riscontrato nel 38% all’angiografia e nel 73% all’IVUS. Globalmente l’imaging intravascolare migliora la sensibilità nella diagnostica delle lesioni calcifiche dal 90 al 100%88. Svantaggi riconosciuti delle tecniche di imaging sono rappresentati dal costo e dal tempo aggiuntivo necessario per eseguire l’imaging.

Diverse metanalisi hanno confermato l’impatto delle lesioni calcifiche severe sull’outcome dei pazienti, gravate in particolar modo da un più basso tasso di rivascolarizzazione completa e da aumento della mortalità al follow-up a 3 anni. Uno dei principali fattori determinanti il peggioramento dell’outcome di tali pazienti sembra essere l’underexpansion dello stent, che a sua volta è fortemente influenzata da spessore, lunghezza e distribuzione circonferenziale delle calcificazioni.

Fujino et al100 hanno elaborato uno score basato sull’OCT (CVI score, OCT-based Calcium Volume Index) allo scopo di predire la probabilità di sottoespansione dello stent nel setting di una lesione calcifica. Variabili fondamentali sono per l’appunto l’angolo massimo del calcio (≤90°= 0 punti, tra 90° e 180° = 1 punto, >180° = 2 punti), lo spessore massimo (≤0.5 mm = 0 punti, >0.5 mm = 1 punto) e la lunghezza massima della lesione calcifica (≤5 mm = 0 punti, >5 mm = 1 punto), con uno punteggio definitivo totale compreso tra 0 e 4 punti.

Fondamentalmente, il razionale nel trattamento della lesione calcifica può essere schematizzato in un approccio che coinvolge sia l’angiografia che l’eventuale utilizzo di imaging endovascolare, come segue: il tutto parte dalla valutazione angiografica; il riscontro di una lieve calcificazione orienterà verso un trattamento “tradizionale” tramite cateteri a palloncino (non complianti, cutting, scoring); il riscontro invece di una calcificazione moderata è un punto di partenza per approfondire la diagnostica mediante imaging endovascolare: nel caso si rivelasse lieve si procede come già accennato, nel caso la diagnostica riscontrasse stigmate di severa calcificazione (es. arco>270°), è preferibile procedere mediante aterectomia, rotazionale o orbitale. Ovviamente il riscontro angiografico di una severa calcificazione ci orienterà come prima battuta verso una strategia basata sull’aterectomia, seguita dall’impianto di stent e quindi dalla valutazione post-PCI mediante IVUS/OCT per accertarsi della completa espansione dello stent e che l’intera lunghezza del segmento trattato con aterectomia sia coperto dallo stent101. A tali device possiamo aggiungere l’ELCA (per lesioni moderatamente calcifiche), il catetere a palloncino non compliante ad elevatissime pressioni ed il sistema di litoplastica SHOCKWAVE®.

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CAPITOLO 4

DEVICES DEDICATI AL TRATTAMENTO DELLE LESIONI CALCIFICHE

L’angioplastica effettuata con cateteri a palloncino tradizionali (complianti/noncomplianti) determina lo svilupparsi di forze dirette secondo orientamenti casuali attraverso la parete del vaso. In questo modo, diverse resistenza alla forza radiale all’interno della stessa lesione possono esitare nello sviluppo di svariati archi di dissezione. Inoltre, esistono almeno due condizioni in cui può risultare impossibile dilatare le lesioni calcifiche: anzitutto, quando incontrano le condizioni di cui sopra in merito ad ampiezza dell’arco, profondità e lunghezza; e in seconda istanza quando la parete vasale opposta all’arco calcifico risulti essere molto compliante, determinando così un’espansione asimmetrica del catetere a palloncino, completamente inefficace nella frattura della calcificazione. E’ stata proprio questo problema a determinare lo sviluppo dei catetere a palloncino modificati.

CATETERI A PALLONCINO DEDICATI

Flextome™ Cutting Balloon™ Dilation Device (Boston Scientific, Marlborough, MA, USA)è un catetere a palloncino con lunghezze variabili tra 6, 10 e 15 mm dotato di 3 (per i calibri di palloncino tra 2 e 3.25 mm) e 4 (per i calibri di palloncino tra 3.5 e 4.0 mm) microlame. Tali microlame sono montate longitudinalmente su un catetere a palloncino non compliante, alte circa 0.25 mm e circa 5 volte più affilate di un bisturi chirurgico. Durante la dilatazione le microlame determinano la creazione di 3-4 incisioni nel tessuto fibrocalcifico, consentendo una espansione ulteriore rispetto ai tradizional cateteri a palloncino e determinando un effetto “ancora” all’interno dell’intima, in maniera tale da evitare lo scivolamento del catetere a palloncino stesso (frequente in ISR). Setting “ideali” per il cutting balloon sono:

 lesioni denovo con placche fibrocalcifiche resistenti al tradizionale catetere a palloncino noncompliante (effetto confermato anche da uno studio IVUS102);

 ISR;

 lesioni aorto-ostiali ed in generale nelle placche fibrocalcifiche, ove CBA determina un maggior luminal gain del POBA103, a causa delle fissurazioni create negli strati muscolari e nelle fibre elastiche ostiali, tra l’altro prone a recoil acuto a seguito di angioplastica convenzionale;

 piccoli vasi, particolarmente proni a dissezioni acute e restenosi dopo POBA: lo studio CAPAS104 ha dimostrato come nei piccoli basi, CBA era associato con un tasso più basso di restenosi binaria rispetto a POBA.

Ad ogni modo lo studio “Cutting Balloon Global Randomized Trial” è stato il più grande studio randomizzato (n. 1238) a mettere a confronto CBA e POBA nella prevenzione della restenosi nelle lesioni de novo105. Mentre il successo procedurale acuto era simile tra i due gruppi, la frequenza di perforazione era maggiore con CBA (0.8% vs 0.%= p=0.03) e l’endpoint primario (restenosi binaria a sei mesi) non differiva tra le due metodiche (31% CBA vs 30% POBA, p=0.75).

A fronte di tali risultati, del più elevato tasso di perforazioni e alle difficoltà con il delivery del device (crossing profile: 0.041”-0.046”) si sono sviluppati devices alternativi di aterectomia mediante catetere a palloncino, quali ad esempio gli scoring balloon. AngioSculpt® (Spectranetics, Colorado Springs, CO, USA) è un catetere a palloncino di nylon, circondato da tre fili di nitinolo esterni a spirale. Con un crossing profile di 0.036” (nel device più piccolo) che lo rende più facilmente deliverabile del cutting balloon, è disponibile in calibri dal 2.0 al 3.5 e in lunghezze comprese tra 10, 15 e 20 mm. Lo studio di fattibilità106 ha confrontato Angiosculpt+impianto di BMS per lesioni de novo e Angiosculpt da solo per restenosi di BMS: si è riscontrato

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successo procedurale del 100% , 2 dissezioni tipo A nel gruppo Angiosculpt, nessuna perforazione e un tasso di TLR del 10% a 6 mesi. Il registro all-comer ALSTER107 ha valutato efficacia e sicurezza della preparazione della lesione calcifica con Angiosculpt nel setting del tronco comune non protetto combinato con tecnica provisional T-stenting: gli endpoint erano rappresentati dal luminal gain acuto e MACCE a 12 mesi. Il luminal gain è stato di 1.63±0.12 mm nel gruppo Angiosculpt (n=34) e 1.35±0.12 mm nel gruppo non-Angiosculpt (n=8, p=0.26). L’uso di Angiosculpt è stato considerato sicuro, e i dati IVUS hanno dimostrato maggior guadagno di area luminale (3.14±0.33 mm2 nel gruppo Angiosculpt, rispetto a 2.33±0.88 mm2 nel gruppo convenzionale). TLR/TVR globale è stata del 6.6%. MACCE a 12 mesi 12.5% (4/32) per Angiosculpt, 15.4% (2/13) per il gruppo controllo storico. I risultati suggeriscono che 1) la preparazione della lesione in UPLM con Angiosculpt è fattibile; 2) la preparazione della lesione con Angiosculpt come dilatazione “primaria” è sicura (seppur in questa piccola serie). Grenadier et al hanno trattato 521 pazienti (75 con lesioni calcifiche), riscontrando un successo procedurale del 98% e MACE a 30 giorni del 3%, che a una mediana di 34 mesi diventava del 7% (TLR 6%). In uno studio osservazionale108 299 pazienti sono stati sottoposti ad impianto di DES IVUS-guidato, con riscontro di miglior espansione dello stent con l’utilizzo di Angiosculpt, rispetto a direct stenting e POBA con cateteri a palloncino semi-complianti.

Non esistono al momento studi randomizzati di comparazione tra cutting e scoring balloons. All’atto pratico, il cutting è più di frequente utilizzato nelle ISR, laddove lo scoring tende ad essere utilizzato nelle lesioni de novo, ma entrambi soffrono degli stessi problemi: la dissezione e l’alto profilo del device, che ne rende spesso indaginoso il posizionamento in corrispondenza della lesione.

ATERECTOMIA

Una strategia per il debulking delle lesioni calcifiche come parte di tecniche di bail-out per trattare stenosi non dilatabili si è evoluta verso un approccio basato sulla preparazione della lesione grazie alla modificazione della placca. L’aterectomia come primo approccio è associata a diminuzione dei tempi procedurali e di fluoroscopia, volume di contrasto e numero di cateteri a palloncino utilizzati nella predilatazione rispetto a quando utilizzata come tecnica di bail-out109. La preparazione della lesione tramite aterectomia altera la morfologia della placca fratturando la lesione calcifica e modificandone la complianza per massimizzare il luminal gain e l’espansione dello stent. E’ attualmente distinta in rotazionale ed orbitale.

ATERECTOMIA ROTAZIONALE

PTRA (Percutaneous transluminal rotational atherectomy) è stata introdotta nel 1988 da David Auth allo scopo di ottenere il debulking meccanico della placca aterosclerotica. Lo studio first-in-human di Fourier ne ha validato efficacia e sicurezza110. L’attuale tecnica di PTRA è rappresentativa di un cambio di paradigma dall’iniziale aggressiva strategia di debulking ad una modificazione della placca finalizzata ad un ottimale impianto dello stent111. Tale tecnica prevede un accesso 6 Fr radiale/femorale (precedentemente 8 Fr femorale), con un catetere guida posizionato quanto più assialmente possibile per assicurare il successo dell’ablazione, wiring con guida workhorse da sostituire via microcatetere/catetere a palloncino OTW con la rotawire e un approccio con fresa singola da 1.5 mm per affrontare le diverse caratteristiche della lesione ottenendo una buona modificazione della placca (rapporto raccomandato fresa-arteria = 0.6) o comunque partendo da frese di piccolo calibro per “sondare” la lesione, scegliendo poi eventualmente frese di calibro gradualmente maggiore. La velocità di ablazione raccomandata è compresa tra 135 e 180 mila giri al minuto, ponendo molta attenzione alla velocità di decelerazione che non deve superare i 5 mila giri al minuto per evitare complicanze (es intrappolamento della guida). Una velocità di ablazione inferiore a 135 mila giri al minuto può essere associata a intrappolamento della guida, mentre una velocità superiore ai 180 mila giri al minuto può determinare attivazione piastrinica e complicanze trombotiche112,113.

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Il razionale sta nella capacità di PTRA di ablare meccanicamente le placche fibrocalcifiche anelastiche, risparmiando il tessuto elastico che si allontana dalla fresa, con un tasso di dissezioni più basso rispetto all’angioplastica con catetere a palloncino.

Il sistema Rotablator® (Boston Scientific) è composto da Hardware (console, bombola con aria compressa-azoto medicale ≥25 litri a 200 atm, un riduttore a due stadi con due manometri di cui il secondo tarato tra 6.5-7 atm e flusso minimo 140 litri/min, pedale) e Materiale sterile monouso (advancer, catetere con fresa, guida dedicata, torquer). L’avanzatore presenta una manopola di controllo della fresa nella parte superiore e, lateralmente, una porta laterale per l’infusione salina, un cavo di connessione per il tachimetro a fibre ottiche ed un tubo flessibile con il connettore per il gas compresso. Muovendo la manopola avanti ed indietro è possibile avanzare e ritrarre la fresa dalla sua posizione di partenza. La connessione al cilindro di gas aria-azoto consente alla turbina all’interno dell’avanzatore di ruotare il catetere Rotalink™ e quindi la fresa in punta. L’infusione salina consente di ridurre il calore, la frizione e lo spasmo. Il pedale attiva la fresa mentre il pulsante sistemato vicino consente lo shift dalla modalità rotablator a Dynaglide™, durante la quale la fresa ruota ad una velocità fissa compresa tra 60 e 90 mila giri al minuto per facilitare lo scambio della fresa. Quest’ultima, placcata di nichel, ha una forma ellittica ed è rivestita da 2-3000 cristalli di diamante microscopici (da 20 a 30 mm) ed è connessa al catetere Rotalink™ lungo 135 cm placcato nichel, ricoperto da una guaina di Teflon che consente alla soluzione salina di raffreddare e lubrificare i componenti rotanti mentre evita eventuali danni da albero di trasmissione all’arteria. Il Rotablator è un device over-the-wire, con il filo guida che penetra dall’estremità prossimale della fresa e fuoriesce dall’estremità distale dell’avanzatore e non è compatibile con i normali fili guida da 0.014”, essendo dotato perciò di due fili guida dedicati (rotawire) da 0.009” e 325 cm di lunghezza, in versione floppy (anima in acciao inossidabile, rastremazione lunga-13 cm-, flessibile per una navigazione facilitata e punta corta –short spring tip 2.2 cm- radiopaca preformabile, offre scarso supporto) ed extra support (punta più flessibile e lunga –spring tip 2.8 cm-, rastremazione ridotta a 5 cm, offre maggior supporto). ). Il sistema RotablatorTM è stato disegnato per polverizzare la placca in micro particelle delle dimensioni di 5 micron che, passando attraverso il microcircolo coronarico, vengono rimosse dal sistema reticolo-endoteliale senza interferire con la circolazione coronarica. I principi del funzionamento del Rotablator: 1) movimento ortogonale della fresa con annullamento della frizione longitudinale a >60.000 rpm con facilità di scorrimento su vasi malati e tortuosi; 2) taglio differenziale, ossia la capacità di tagliare un materiale in modalità selettiva basandosi sulla sua composizione. Il tessuto elastico vascolare sano ha proprietà appunto elastiche che lo rendono capace di flettere evitando l’avanzamento dei cristalli di diamante che ricoprono la fresa. Viceversa, il tessuto anelastico viene rimosso selettivamente dal sistema RotablatorTM in ogni sua composizione (calcio, tessuto fibrotico, tessuto lipidico). RotablatorTM consente il debulking e la modificazione della placca potendo trattare lesioni calcifiche (calcificazioni lunghe e diffuse), non dilatabili, impossibili da crossare con catetere a palloncino. E’ consigliato iniziare sempre con una fresa di piccolo calibro ed aumentarlo gradualmente e testare la placca con «picchiettii» prima di impegnarsi nella lesione, con «fresate» di durata max 5’’ . E’ sempre utile prestare attenzione al numero di giri (evitando una riduzione del numero di giri maggiore di 5000) ed evitare passaggi con la fresa maggiori di 20 secondi, con l’accortezza di tenere la fresa lontana dalla parte radiopaca della guida (rischio di frattura).

Esistono inoltre una serie di trattamenti aggiuntivi eventualmente consigliati durante la procedura:  Infusione di eparina attraverso la sacca di lavaggio del ROTA (5000 UI / 1000 cc)

 Eparina ev. 100 UI/kg

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 Ridurre iniezioni mdc (inutili e dannose ->slow flow)  Non fresare se PA < 100 mmHg (slow-flow)

 Non usare inibitori Gp IIB/IIIA (perforazione)

 IABP in caso di no-reflow con instabilità emodinamica  PM temporaneo per ROTA specie su Cdx ostiale e TC

Quali sono le possibili complicanze dell’aterectomia rotazionale?

 Slow-flow, dovuto a “docce” di tessuto polverizzato che occludono il microcircolo. La causa principale è rappresentata da erronea tecnica di ablazione (alte velocità della fresa) e da erronea scelta del calibro della fresa. Lo slow-flow può essere prevenuto utilizzando frese più piccole, a velocità più contenute e per “corse” di ablazione più brevi. Un aiuto può ovviamente venire dalla somministrazione di vasodilatatori quali verapamil, nitroprussiato, adenosina eventualmente iniettati superselettivamente via OTW o microcatetere; nel caso accada, è essenziale mantenere una adeguata pressione di perfusione (nel caso anche via IABP) e l’idratazione del paziente;

 Dissezione coronarica: è un problema che può essere evitato con una attenta selezione della lesione da trattare (evitare casi con eccessive tortuosità) ed una volta che sia comparsa è necessario evitare di procedere ad ulteriori “fresate” e trattare la dissezione come per qualunque altra PCI. Nel caso ci fosse stata una subottimale preparazione della lesione e la dissezione non fosse flusso-limitante, è consigliabile fermare la procedura e riprenderla 3-4 settimane dopo, in modo da consentire la guarigione della dissezione;

 Intrappolamento della guida: seria complicanza che può richiedere l’intervento chirurgico114. Si può evitare effettuando la procedura secondo il miglior modo possibile (movimento di “picchiettatura”, breve durata delle fresate, segmenti ablati corti per ogni fresata, sizing ridotto delle frese, evitare casi con importanti tortuosità). E’ importante notare come la forma fusiforme della fresa da 1.25 mm potrebbe causare un salto improvviso in avanti della suddetta fresa al momento dell’attivazione, se tutta l’energia immagazzinata non viene prima dispersa tramite brevi movimenti in avanti e indietro prima della stessa attivazione. Le frese da 1.5-2.0 mm, più ogivali, hanno meno rischio di intrappolarsi, sebbene sia comunque fondamentale eseguire le fresate come consigliato dagli specialist. Nel momento in cui accade tale complicanza, è consigliabile effettuare un controllato movimento di push&pull della fresa stessa, posizionare una seconda guida (meglio se attraverso un secondo catetere guida) ed eventualmente gonfiare un catetere a palloncino in prossimità della fresa intrappolata cercando così di liberarla; inoltre una prudente deep intubation del catetere, eventualmente mediante sistema mother-and-child potrebbe aiutare in un più efficace movimento di push&pull della fresa stessa;

 Perforazione coronarica: per evitare la perforazione da guida dedicata, bisogna posizionarne la punta nel tratto distale del vaso principale, evitando che vada a posizionarsi in piccoli vasi collaterali e porre costantemente attenzione alla posizione definitiva, specie durante lo scambio di frese. Nel caso accada una perforazione, dev’essere gestita come in qualunque altra PCI. Invece le perforazioni da fresa sono più rare, e dovute principalmente a scarsa tecnica di fresa (oversizing della fresa, “spinta” della fresa piuttosto che picchiettamento) o scarsa tecnica del vaso da trattare (tortuoso, piccolo calibro). Il trattamento può prevedere l’uso di stent ricoperti e la pericardiocentesi in bail-out; nel

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caso in cui la perforazione non sia affrontabile con PCI è consigliabile tenere gonfiato un palloncino nel vaso per continuare l’emostasi finchè non sia possibile effettuare CABG in urgenza.

Altre specifiche indicazioni per il rotablator sono rappresentate dalle lesioni ostiali, lesioni di TC non protetto, CTO e stent ablation.

ATERECTOMIA ORBITALE

Il sistema di aterectomia orbitale Diamondback 360° (OAS, Cardiovascular Systems Inc, St. Paul, MD, USA) è un device percutaneo che facilita il delivery dello stent in pazienti con CAD e lesioni de novo calcifiche. E’ stato validato dai trialORBIT I (Safety and feasibility of orbital atherectomy for the treatment of calcified coronary lesions), ORBIT II (Evaluate the Safety and Efficacy of OAS in Treating Severely Calcified Coronary Lesions), e da un registro multicentrico nel mondo reale (Lee et al); altri studi in corso: ECLIPSE (Evaluation of Treatment Strategies for Severe CaLcIfic Coronary Arteries: Orbital Atherectomy vs. Conventional Angioplasty Technique Prior to Implantation of Drug-Eluting StEnts). Il sistema utilizza una corona di 1.25 mm di calibro rivestita di diamanti montata eccentricamente su un filo guida ViperWire™ (compatibile 6 Fr) con una console elettrica a controllo manuale per dirigere i movimenti della corona. Un liquido lubrificante (ViperSlide®, Cardiovascular System Inc.) lava il sistema riducendone la frizione, mentre la corona abla il calcio a basse o alte velocità (80-120 mila giri al minuto, rispettivamente). La corona abla il calcio noncompliante mediante la forza centrifuga separandolo dal tessuto sano che resta intatto. Muovendo la manopola di avanzamento lentamente, si aumenta il raggio dell’orbita e si creano fratture nel calcio115. Rispetto all’aterectomia rotazionale, l’orbitale presenta una fresa di una sola dimensione che può ridurre la probabilità di intrappolamento della corona. La produzione di frammenti di microparticolato (< 2 mm) con il flusso ematico continuo mantenuto durante l’ablazione aiuta a ridurre il danno termico, il blocco cardiaco transitorio e il noreflow115. Al controllo OCT, OA determina una modificazione tissutale più profonda rispetto a PTRA116: questo può determinare un miglioramento dell’apposizione degli struts dello stent e una più completa espansione dello stent, sebbene ciò non sia confermato da studi multicentrici su larga scala di confronto tra le due metodiche.

ATERECTOMIA CON LASER AD ECCIMERI

Il laser ad eccimeri per aterectomia coronarica (ELCA) è stato usato per trattare stenosi coronariche resistenti, ed ha avuto numerose modifiche per ridurre le complicanze procedurali e l’elevato tasso di restenosi117 e potrebbe essere una opzione nel trattamento delle lesioni coronariche complesse con moderata calcificazione prima dell’impianto di DES118. Il device si compone di un connettore prossimale al generatore di energia, di un catetere RX (da 0.9 mm per il coronarico e da 1.4 mm per il periferico) e dalla punta distale dello stesso catetere, ove avviene l’emissione di energia. Il laser a eccimeri è una forma di luce ultravioletta a 308 nm di lunghezza d’onda, un laser “freddo” che non brucia o taglia bensi vaporizza i tessuti fratturando i legami molecolari. I meccanismi d’azione sono essenzialmente tre: 1) fotochimico, con rottura dei legami molecolari; 2) fototermico, mediante produzione di calore; 3) fotomeccanico, attraverso la creazione di energia cinetica. L’impulso colpisce il tessuto per una durata di 135 nanosecondi, con una penetrazione di 50 micron, determinando la frattura di miliardi di legami molecolari (effetto fotochimico). Una volta assorbito, l’impulso determina la vibrazione dei legami molecolari e tale vibrazione causa il surriscaldamento dell’acqua intracellulare: quest’ultima si vaporizza e determina rottura di ulteriori legami molecolari e rottura cellulare (effetto fototermico). L’espansione e il successivo collasso delle bolle di vapore determina la rottura del tessuto e smaltisce i prodotti di degradazione (acqua, gas, piccole particelle) che si

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formano davanti alla punta del catetere laser (effetto fotomeccanico). L’intera durata del processo per impulso dura 400 milionesimi di secondo, circa 4000 volte la durata dell’attuale emissione di energia laser. E’ consigliabile che le dimensioni del catetere Laser non eccedano i 2/3 del diametro del vaso di riferimento, che sia assicurata un lavaggio continuo con soluzione fisiologica per rimuovere il contrasto dalla sede di fotoablazione e che quest’ultima soprattutto avvenga lentamente (0.2-0.5 mm/sec), ritraendo il catetere tra le diverse emissioni laser somministrando nitrati se necessario. Le possibili complicanze sono rappresentate da dissezione, perforazione e chiusura acuta del vaso.

In uno studio su 100 pazienti ELCA è stato testato su 95 lesioni calcifiche e/o resistenti alla dilatazione con catetere a palloncino; gli endpoint erano anzitutto il crossing della lesione col catetere laser (95% successo), quindi il successo procedurale (<50% di stenosi residua, ottenuta nel 95% dei casi) e il successo clinico (<50% di stenosi residua con assenza di MACE alla dimissione, ottenuto nel 95% dei casi)119. Una tecnica particolare

effettuabile con la tecnologia laser per il trattamento delle lesioni non dilatabili (specie severe restenosi intrastent o stent underespansi) è definita come “laser grenade”, e prevede il riempimento della

coronaria con mezzo di contrasto al fine di massimizzare l’effetto fotoacustico120.Concludendo, è un

device che può essere considerato nelle PCI complesse, specie in quelle con lesioni refrattarie alla dilatazione con palloncino (tra cui le ISR severe). Altre indicazioni proposte sono rappresentate da disostruzione meccanica di CTO, trattamento di SVG degenerati, lesioni lunghe e trattamento dello STEMI.

CATETERE A PALLONCINO NON-COMPLIANTE AD ELEVATISSIME PRESSIONI

Il catetere a palloncino non compliante ad elevatissime pressioni OPN NC® (SIS Medical AG, Wintherthur, Switzerland)121,122 è un catetere a palloncino a scambio rapido per PTCA compatibile con fili guida coronarici 0.014”. Il tratto distintivo del palloncino è una tecnologia a 2 strati che consente l’uso di elevatissime pressioni ed assicura uniforme espansione ad ampi range pressori. Il catetere a palloncino è altamente non compliante con una pressione nominale di 10 atm e una RBP di 25 atm. Ogni pallone è testato a 45 atm. Il calibro del palloncino va da 1.5 fino a 4.0 mm, con ½ mm di intervallo, mentre le lunghezze variano tra 10, 15 e 20 mm. Il nome commerciale OPN è un acronimo da op(e)n. Durante le procedure, la PCI è stata effettuata mediante accesso femorale/radiale, 6/7 Fr, ed è stato utilizzato nel momento in cui non fosse possibile dilatare la lesione o ci fosse una sottoespansione dello stent con stenosi residua>40%. Il device è stato valutato in uno studio retrospettivo in una serie di 91 lesioni123 ottenendo alla fine un successo angiografico su 84 lesioni (92.3%). Le restanti lesioni sono state trattate con aterectomia rotazionale, eccetto 2 casi in cui non è stata tentata per eccessiva tortuosità/ridotto calibro dei vasi. MLD e acute luminal gain erano significativamente maggiori e la %DS era significativamente minore dopo OPN rispetto al tradizionale NC (p<0.001). Non c’è stata alcuna perforazione coronarica, nessun MACE acuto/a 30 giorni. Limiti riscontrati del catetere a palloncino OPN sono rappresentati essenzialmente dal suo alto profilo e dalla sua rigidità dovuta alla tecnologia a doppio strato, che nella stragrande maggioranza dei casi ha impedito qualunque tentativo di ricrossare una volta gonfiato: il pallone non si refolda appropriatamente e una volta gonfiato è difficile riutilizzarlo (es. per pre e post dilatazione).

SISTEMA SHOCKWAVE MEDICAL PER LITOPLASTICA®

Questo device utilizza la pressione delle onde sonore per frammentare il calcio all’interno della parete vasale. Il sistema si compone di un catetere a palloncino per litoplastica con integrati emettitori di litotrissia interni, un generatore esterno e un cavo di connessione. Il catetere a palloncino è compatibile con catetere guida 6 Fr, filo guida 0.014”, ha una lunghezza di 138 cm e presenta 2 emettitori di litotrissia, con un massimo di 80 impulsi emessi (8 treni di 10 impulsi massimo). Le dimensioni del palloncino variano in calibro da 2.5, 2.75,

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3.0, 3.25, 3.5, 3.75 e 4.0 mm, con una lunghezza fissa di 12 mm. Il catetere a palloncino è gonfiato a una pressione costante ultra-bassa di 4 atm, prima di attivare gli emettitori per assicurare completa apposizione alla parete vasale. Tali emettitori sono la fonte delle onde di pressione sonore emesse ad 1 impulso al secondo per 1 microsecondo con forma “sferica”, creando un effetto campo e quindi dirigendosi verso il calcio circonferenzialmente e in profondità nella parete vasale, trasmettendo circa 50 atm di pressione istantanea nel sito del calcio, ma passando attraverso il tessuto soffice: in questo modo determinano fratture nel calcio, aumentando la compliance vascolare; è importante notare come il calcio frammentato rimanga all’interno della parete vasale. Una volta aumentata la compliance, il pallone può essere quindi dilatato a una bassa pressione di 6 atm, minimizzando il trauma vasale ed eventuali complicanze. La procedura in quanto tale è semplice: una volta identificata la lesione si seleziona la dimensione del catetere a palloncino (1:1 con l’arteria) e quindi si gonfia il palloncino per 10 secondi a 4 atmosfere, durante i quali sono emessi 10 impulsi: l’intera procedura è ripetibile con lo stesso catetere a palloncino fino alla emissione di 80 impulsi (tale limite di 80 impulsi ha una motivazione di sicurezza al fine di evitare un troppo elevati della temperatura e quinndi danni al vaso); una volta emessi gli impulsi, il palloncino è gonfiato a 6 atm. Lo studio multicentrico, prospettico, a singolo braccio DISRUPT CAD124 ha valutato la sicurezza e l’efficacia del sistema di litoplastica su 60 soggetti, avendo come endpoint di sicurezza primario i MACE a 30 giorni (morte cardiaca, infarto miocardico, target vessel revascularization) e come endpoint di efficacia primario il successo clinico inteso come stenosi residua <50% post-PCI senza evidenza di MACE intraospedalieri. L’arruolamento è stato completato a settembre 2016 e il follow up è stato a 30 giorni e 6 mesi. Criteri di inclusione erano angina stabile, angina instabile ed ischemia miocardica silente, con riscontro angiografico di moderata/severa calcificazione, lesione coronarica de novo, RVD 2.5-4.0 mm, stenosi≥50% e lunghezza della lesione≤32 mm. Lo studio ha raggiunto gli entrambi gli endpoint di efficacia e sicurezza, con riscontro di elevata efficacia del catetere per litoplastica nel trattamento delle lesioni altamente calcifiche per il delivery di stent (100% di impianto di stent, alto tasso di acute luminal gain e bassi tassi di restenosi residua); non ci sono state complicanze intraprocedurali maggiori (perforazione, embolizzazione, slow flow/no reflow), e si è riscontrato un basso tasso di MACE a 6 mesi (8.5%). Il sotto-studio OCT125 aveva come obiettivo la determinazione degli effetti meccanici della litoplastica su lesioni coronariche fortemente calcifiche e il successivo impianto di stent mediante OCT. L’OCT è la tecnologia con la maggior risoluzione rispetto a qualunque altra modalità di imaging coronarico8 seppure sia l’IVUS che l’OCT possiedano maggiore sensibilità e specificità nella quantificazione del CAC rispetto alla fluoroscopia126, l’OCT può misurare spessore, area e volume del calcio e caratterizzare le fratture indotte dall’intervento. Le fratture nel calcio sono associate con una migliore espansione dello stent, ridotta restenosi e minore TLR127,128. Sono stati arruolati 31 soggetti e le immagini erano ottenute a 3 predefiniti punti temporali (prelitoplastica, postlitoplastica, termine della procedura). L’indagine OCT ha riscontrato come le fratture si formino sia nell’intima che nella media e la modificazione del calcio è stata paragonata tra lesioni di eguale severità: è stata ottenuta una espansione media dello stent in tutte le lesioni, a prescindere dalla severità della lesione (p=0.21), si è osservato un trend verso una maggiore incidenza di fratture nel terzile a maggiore calcificazione (p=0.057) e la frequenza delle fratture per lesione era maggiore in quelle maggiormente calcifiche (p=0.009). In definitiva la litoplastica migliora la compliance della lesione, anche nel punto di massima calcificazione, determinando la frattura del calcio senza la necessità di gonfiaggio di palloncini non-complianti ad alte pressioni. La litoplastica induce una modificazione circonferenziale del calcio, determinando multiple fratture nella singola cross-sezione e gli effetti sono maggiormente pronunciati all’aumentare della severità della calcificazione. Il tutto esita in una migliore apposizione ed espansione dello stent, ottenendo una simile espansione dello stent sia nelle lesioni complesse e calcifiche che in quelle semplici e non-calcifiche. E’ attualmente in corso di svolgimento lo studio DISRUPT CAD II, prospettico multicentrico a singolo braccio (iniziato a Maggio 2018, termine previsto Maggio

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2019) che si propone di arruolare 120 pazienti trattandoli con SHOCKWAVE® e valutarne i MACE postprocedura e a 30 giorni.

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