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Sull'etimologia di "aggeggiare"

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Academic year: 2021

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L’Italia Dialettale

Direzione Scientifica

Franco Fanciullo, Università di Pisa

Comitato Scientifico

Michele Loporcaro, Università di Zurigo Martin Maiden, Università di Oxford Giovanna Marotta, Università di Pisa

Wolfgang Schweickard, Università di Saarbrücken Alfredo Stussi, Università di Pisa

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VOLUME LXXX

(Serie Terza, XVI)

2019 EDIZIONI ETS

PISA

FONDATA DA CLEMENTE MERLO

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RISERVATO OGNI DIRITTO DI PROPRIETÀ E DI TRADUZIONE

Registrazione Tribunale di Pisa 1/1961 in data 31 Gennaio 1961 Direttore responsabile: Alessandra Borghini

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L’ITALIA DIALETTALE

SOMMARIO DEL VOLUME LXXX (Serie Terza, XVI)

Premessa

Ricordi

Maria Iliescu, Moments inoubliables de mon contact avec le grand italianiste et linguiste qui fut Max Pfister

Giorgio Marrapodi, “O bene… dunque…”. Max Pfister onomasta e “onomaturgo”

Dialettologia

Luca Bellone, Giovani, linguaggio giovanile, dialetto in provincia di Cuneo: nuove riflessioni sociolinguistiche e lessicali a mar-gine di una recente inchiesta sul campo

Anna Cornagliotti, “Sant Antòni patanù”: gli agionimi in piemontese

Alessandro De Angelis, Articolo espletivo e marcatura differenziale dell’Oggetto nel dialetto reggino di San Luca

Patrizia Del Puente, Tra colonie galloitaliche e spunti lessicali lucani

Angelo Variano, Intorno al dialetto di Campobasso (più di cent’anni dopo)

Etimologie

Fabio Aprea, Le forme coetimologiche di singhiozzo nell’Italia cen-tromeridionale

Marcello Aprile, Giudeo-it. sciattare, it. sciatto. Scoperte etimologi-che nella redazione del LEI

Pag. 9 » 13 » 15 » 17 » 25 » 27 » 45 » 59 » 77 » 89 » 107 » 109 » 123

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6 L’ITALIA DIALETTALE, LXXX

Daniele Baglioni, Un esercizio etimologico mediterraneo: malt.

gremxul(a) ‘lucertola’

† Remo Bracchi, In margine al LEI

Pasquale Caratù, Reti, corde e… amanti. Lessico marinaresco pugliese

Franco Crevatin, Supplementi istriani al REW

Franco Fanciullo, Vicende lessicali nel LEI e intorno al LEI

Massimo Fanfani, Sull’etimologia di aggeggiare

Wolfgang Haubrichs, Un termine longobardo nella toponimia dell’Italia settentrionale: germ. *stôda-gardôn, long.

*stode-garda ‘recinto per cavalli’

Ottavio Lurati, Addio a Max: schede tra religione e società civile

Marco Maggiore, Per l’etimologia dell’italiano sfasciare ‘rompere’

Fabio Marri, Una caponata lessicale tra Olindo Guerrini e Max Pfister

Alessandro Parenti, Per l’etimo dell’italiano antico guastada ‘sorta di bottiglia’

Dario Petrini, Intorno al milanese campaná ‘puzzare’

Wolfgang Schweickard, It. assareli / assareri

Carolina Stromboli, Osservazioni sull’etimologia di attaccare e

staccare

Fonetica storica

Hans Dieter Bork, Zur Entwicklung der inlautenden Konsonanten-gruppen -ns-, -nf-, -nv- in den romanischen Sprachen

Mariafrancesca Giuliani, Il luogo dell’incrocio: sull’inserto nasale nella derivazione italoromanza di lat. *COCTARE

» 135 » 147 » 161 » 165 » 171 » 185 » 211 » 221 » 233 » 253 » 269 » 291 » 303 » 311 » 323 » 325 » 341

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SOMMARIO 7

Michela Russo, Gli sviluppi palatalizzati e non palatalizzati di GL: il caso di *SUBGLUTTIARE. Nuovi indizi dalla Romània meridionale

Lessicologia

Marcello Barbato, Lat. mediev. camp. refaneo < lat. reg. rufus ‘rovo’?

Pietro G. Beltrami, La voce sonetto del Tesoro della Lingua Italiana

delle Origini

Adriana Cascone, Ricerche etimologiche tra vecchie e nuove ipotesi: una proposta per il sic. urvicari

Vito Luigi Castrignanò, “Ceraldi” e “sanpaolari”. Considerazioni sul lessico del tarantismo

Jean-Paul Chauveau , Français parcours, d’un fantôme l’autre

Luca D’Onghia, Aggiunte settentrionali al Dizionario del lessico

erotico

Sergio Lubello, Italiano e lessico giuridico: il LEI sub specie iuris

Stella Retali-Medori, La Corsica alla luce del LEI: omaggio a Max Pfister

Giovanni Ruffino, I nomi del ghiozzo in Sicilia. Un saggio del voca-bolario-atlante del lessico marinaro

Storia delle lingue

Andrea Bocchi, Benutino da Cingoli e la mala vicinanza del comu-ne di Montecchio (cinque lettere cingolacomu-ne del 1398-1401)

Chiara Coluccia, Voci dantesche rare, il LEI e la lingua italiana

Rosario Coluccia, Iberismi quattrocenteschi e storia della lingua italiana: cosa insegna il LEI

Francesco Crifò, «Restituire la storia medesima dell’uomo». Per un

Dizionario Etimologico del Veneziano Antico

» 357 » 381 » 383 » 391 » 403 » 421 » 433 » 451 » 465 » 477 » 491 » 503 » 505 » 515 » 529 » 541

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8 L’ITALIA DIALETTALE, LXXX

Francesca De Blasi, Glossaristica e lessicografia filologica: problemi pratici e questioni teoriche. Riflessioni in margine al Lessico

dei Poeti della Scuola siciliana (LPSs)

Elda Morlicchio, La rete di relazioni tra lingue germaniche e varietà italoromanze: il caso di “tregua”

Fedele Raguso, Testimonianza di lessico artigianale in un documen-to del XVI secolo da Gravina di Puglia

Gilles Roques, L’apport du moyen français à l’histoire de l’emprunt à l’italien du mot escale

Francesco Sestito, Poffarre

Fiorenzo Toso, Appunti per una storia di bazar nelle lingue d’Italia

Storia della ricerca etimologica e nuove applicazioni

Martin Glessgen, L’apport des “Inconnus” du FEW à la recherche étymologique

Michele Loporcaro, Come nasce un grecismo: il tipo apulo-salentino e lucano orientale ˹lúm(m)ura/ u˺, ˹rúm(m)ula/-u˺ ‘mora di rovo’

Nicoletta Maraschio, Etimologie di Crusca

Lorenzo Tomasin, Lausberg e l’etimologia degli antichi

» 559 » 583 » 593 » 597 » 607 » 617 » 631 » 633 » 677 » 699 » 713

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Il 21 ottobre 2017 Max Pfister moriva dopo una settimana che, per chi l’ha vissuta da lontano, è stata un susseguirsi convulso di notizie, delle quali, dopo la prima comunicazione sulla rottura di un aneurisma aorti-co che aveva aorti-colpito lo Studioso (autentiaorti-co fulmine a ciel sereno: assai più che incredibile, pareva semplicemente impossibile che Max, la cui energia e la cui disponibilità erano inesauribili, stesse male), si sperava potessero risultare rassicuranti, e che invece andavano sempre più affievolendo le speranze, fino all’ultima, irrimediabilmente definitiva comunicazione di Wolfgang Schweickard.

L’impressione, grande, sollevata dalla scomparsa dello Studioso si mi-sura dalle commemorazioni tutt’altro che formali uscite immediatamente dopo l’evento. Si rammentano qui, ma senza pretesa di esaustività, il «Ri-cordo di Max Pfister» di Anna Cornagliotti, comparso per dir così “a caldo” alle pp. IX-XI del 41° volume del Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano (serie III; 2017), e rinnovato, con non poche memorie personali, alle pp. 7-10 del volume 6/1 (2018) di Carte Romanze («Ricordo di Max Pfister (Zurigo, 25 aprile1 1932 – Saarbrücken, 21 ottobre 2017)»); la commemorazione di

Rosario Coluccia alle pp. 389-392 di Studi di Filologia Italiana 75 (2017), di cui è notevole l’incipit, assolutamente non convenzionale; il «Ricordo di Max Pfister» di Marcello Barbato, comparso in Medioevo Romanzo 41/2 (2017), pp. 433-436; la doppia commemorazione di Wolfgang Schweickard, in tedesco («Max Pfister (21. April 1932 – 21. Oktober 2017)») in Zeitschrift für Romanische Philologie 134/1 (2018), pp. 323-327, e in italiano («Ricordo di Max Pfister (21 aprile 1932 – 21 ottobre 2017)») in Lingua Nostra alle pp. 1-3 del 1° fascicolo del 79 volume (2018); la «Nécrologie» di Martin Glessgen («Max Pfister (21 avril 1932 – 21 octobre 2017)») in Revue de Linguistique Romane 82 (2018), pp. 313-324; l’«In memoriam Max Pfister (1932-2017)» di Jan-Pierre Chambon e Yan Greub alle pp. 9-23 del 122° volume (2018) della Revue des Langues Romanes; ancora, la lunga

comme-1 Sic; ma qui, «25 aprile» e non «21» (la vera data) è certo per “attrazione” del «25 [aprile]»,

che, qualche rigo più giù, è ricordato come il giorno, «una bellissima giornata di sole», in cui Max Pfister aveva festeggiato il suo ottantacinquesimo compleanno con la famiglia, gli amici e i colleghi.

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10 [2] morazione («Max Pfister (1932-2017)») di Marcello Aprile, alle pp. 3-15 del 44° volume (2018) degli Studi di Linguistica Italiana.

Max Pfister non era solo il grande filologo e studioso universalmente ammirato, era anche una persona sotto molti aspetti eccezionale, di gran-dissima generosità scientifica (chiunque l’abbia frequentato sa del tempo che convintamente dedicava e dei consigli e degli insegnamenti che convin-tamente dispensava ai collaboratori del Lessico Etimologico Italiano) nonché accademico sui generis, che, per dirne una, al posto di quelle tràdite non esitava ad accogliere, ove (va da sé) le trovasse convincenti, nuove proposte etimologiche da parte dei collaboratori, senza farsi in nessun modo condi-zionare dall’età o dalla posizione accademica di chi tali proposte avanzava. I soggiorni più o meno lunghi che tutti i collaboratori “esterni” facevano periodicamente a Saarbrücken (né era raro che Max Pfister si occupasse personalmente delle necessità logistiche dei suoi ospiti, andando finanche a prenderli in macchina, quando arrivavano, o accompagnandoli in mac-china, quando ripartivano, allo Hauptbahnhof o al non grande Flughafen della città saarlandese) erano, in ogni caso, un’avventura intellettuale: a tacer d’altro, a tacere ad esempio dei colloqui sugli Unbekannten ovvero «ignoti» (come Max Pfister rendeva in italiano la voce tedesca, inaugu-rando un uso fatto proprio anche dai collaboratori italiani; vale a dire, sulle migliaia di schede contenenti voci italiane e dialettali rimaste senza etimo-logia nonostante le vagliature ripetute), colloqui cui partecipavano, assieme a non pochi “giovani” nel frattempo divenuti “anziani”, i massimi esperti di etimologia italo-romanza (sempre, Alberto Zamboni; talvolta, Manlio Cortelazzo o Giovan Battista Pellegrini o Giuliano Gasca Queirazza…) – a tacere dunque dei colloqui sugli Unbekannten, è da dire che fra la biblioteca di romanistica, quella centrale universitaria e la casa di Max Pfister si poteva trovare praticamente tutto quel che concernesse la filologia, la storia della lingua e la dialettologia italiane. Ma i soggiorni a Saarbrücken potevano ben essere, talvolta, un’avventura anche in senso concreto, specie quando non c’erano ancora i voli low cost e per raggiungere il Saarland dall’Italia, da certe parti dell’Italia, potevano non bastare ventiquattro ore di treno – in merito si era costituita tutta un’aneddotica di faticosi viaggi notturni in cuccetta, di scomodissime coincidenze, a ore antelucane salendo su e in tar-da serata scendendo giù, sovente a Mannheim o a Strasburgo, talora a Metz (per chi venga dall’Italia, cioè da sud, Saarbrücken è disagevolmente collo-cata sulla direttrice est-ovest da Francoforte a Parigi), di gelidi arrivi sotto la neve per essere partiti (evidente l’ignoranza del modo di dire tedesco

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se-[3] 11

condo cui es gibt kein schlechtes Wetter, es gibt nur schlechte Kleidung, non si dà cattivo tempo, si dà solo abbigliamento inadeguato) con abbigliamento poco consono da climi non altrettanto invernali; né meno aneddoticamente divertenti, ma a raccontarle dopo!, risultavano le incomprensioni coi portie-ri dei diversi edifici del campus universitaportie-rio (come la volta che alcuni col-laboratori italiani, alloggiati alla Sportschule dell’università ma dimentichi delle istruzioni ricevute, e cioè che la porta d’ingresso della Schule no chiuderla a chiave se, rientrando, la trovavano chiusa a chiave ma doveva-no lasciarla aperta se la trovavadoveva-no aperta, trovata la porta aperta a un rientro a tarda ora dopo cena, pensarono bene di chiuderla: col risultato – era un venerdì sera – che, arrivati più tardi ancora e trovatisi davanti alla porta che non si apriva, gli atleti attesi nella scuola per il week end si lasciarono andare a proteste e schiamazzi fragorosi all’indirizzo dell’incolpevole portiere, il quale ovviamente non mancò di protestare con Max Pfister; ma ai colpevoli italiani arrivò solo una eco molto sbiadita del “fattaccio”). Aneddotica varia e variopinta, che veniva fuori soprattutto durante le cene conviviali che, alla fine di laboriose giornate trascorse al secondo piano dell’alto e lunghissimo edificio dove allora si trovava l’istituto di Romanistik, Max Pfister soleva offrire ai suoi ospiti o allo Stuhlsatzenhaus, un piccolo ristorante molto “te-desco” (oggi scomparso perché i suoi locali sono stati fagocitati dall’univer-sità) ai confini del campus universitario, o in qualche ristorante della vicina Dudweiler; e che divertiva molto lo stesso Max, il quale, a sua volta, non mancava di tirar fuori ricordi dei suoi primi viaggi in Italia, ad esempio di quando (doveva essere il 1957 o giù di lì) era stato borsista di scambio alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

Comprendendo esclusivamente contributi (la cui suddivisione in sezio-ni è più che altro orientativa) di amici, colleghi, collaboratori del LEI e di tanti allievi, diretti o indiretti, dello Studioso scomparso, il presente volume, l’ottantesimo de L’Italia Dialettale (anno 2019), è un omaggio minimo ma imprescindibile alla generosa, umanissima, indimenticabile figura di Max Pfister.

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Massimo Fanfani

Sull’etimologia di

aggeggiare

Mi provo a imbastire il mio primo scritto etimologico nel ricordo di Max Pfister, un uomo e uno studioso che ho imparato a conoscere e ad ap-prezzare via via di più da quando, nel 1979, cominciarono a uscire i fascicoli del LEI. Ne aspettavo l’arrivo curioso di scoprire ciò che emergeva da quella gran massa di dati, ordinati e organizzati in modo tanto chiaro che la vita delle parole prendeva corpo, sorprendentemente, quasi da sola. Ma nello stes-so tempo, di fronte a quel nuovo modo di fare etimologia, fondato su una vastissima documentazione sempre vagliata con grande intelligenza, restavo senza fiato e finivo per accantonare ogni mia giovanile velleità etimologistica. Quando poi conobbi Max di persona, rimasi affascinato da come mi accolse e dal modo serio e comprensivo con cui affrontava ogni cosa, dall’e-strema apertura e generosità verso i giovani cha avviava alla ricerca, dal suo profondo senso dell’amicizia. E ora di lui ricordo soprattutto gli aspetti e i momenti di più viva e disinteressata umanità: le feste che era felice di orga-nizzare per gli amici, le piacevoli conversazioni nelle pause del lavoro, gli in-contri durante le vacanze. Come l’ultimo a Brissago, in una stanza affacciata sulla luce del lago e piena delle bozze del LEI che svolazzavano al vento. Volle a tutti i costi accompagnarci nel parco botanico dell’Isola Grande, e qualche giorno dopo salire, munito dei suoi scarponi, in Val Onsernone, affascinato dalla parlata locale, contento di sedersi in un grotto a raccontare la sua gio-ventù, desideroso di percorrere gli erti sentieri dell’alta valle, col suo passo deciso, tanto che faticavo a stargli dietro.

Seguito sempre ad arrancare mediocremente, persino nelle vie di pianu-ra. Ma vorrei che questo piccolo studio etimologico fosse un segno di grati-tudine per il tanto che gli debbo e innanzitutto per quel che ho appreso dal suo coraggio, dalla sua fiducia nella bellezza della vita, dal suo amore per il lavoro.

**

Mentre in italiano per il verbo lavorare – che anticamente, e già in lati-no, indicava un’attività faticosa e impegnativa come quella del contadino – mancano corrispettivi di pari livello (a parte operare, che tuttavia ha diversa fisionomia e articolazione semantica, e a parte qualche sinonimo areale del tipo di travagliare o di faticare), sono invece abbastanza numerose, sia nella

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186 MASSIMO FANFANI [2]

lingua comune sia nelle parlate regionali, espressioni che con varie sfumature indicano il surrogato del lavorare, ovvero il “lavoricchiare” o il “lavorare alla meno peggio”: abalociare, abballuccicare, acciabattare e racciabattare, accia-pinarsi, acciarpare, acciottorare, affaccendarsi, affruciare, affuffignare, armeg-giare, arrabattarsi, brigare, ciancicare, darsi da fare, frucchiare e fruzzicare, gingillarsi, ingegnarsi, rabberciare, rabbriccicare, raffazzonare, trafficare, tra-menare ecc.1. In genere si tratta di verbi che descrivono un operare in tono

minore o in modo divagato, ma talora anche un lavorare senza darlo a vedere o senza farsene vanto: dietro alcuni di questi verbi si avverte infatti un at-teggiamento di gelosa riservatezza nei confronti della propria attività: atteg-giamento nel quale si distinguono soprattutto i Toscani ai quali, non a caso, si deve gran parte di questa girandola di formazioni espressive. Da ultimo anche aggeggiare, un verbo che sembrerebbe esser stato ricavato da aggeggio ‘oggetto qualsiasi, senza valore’.

Tant’è che proprio sul sostantivo aggeggio si è appuntata l’attenzione degli studiosi, che ne hanno ricondotto l’origine all’antico fr. agiets ‘ninnoli, gioielli’ (dal lat. ADIECTI ‘accessori’), prendendo in considerazione il

plura-le per poter giustificare la prepalataplura-le2. Tuttavia tale etimologia parve poco

plausibile a Bruno Migliorini che nel suo Prontuario preferì mantenere l’in-dicazione di «etimo incerto»3. Negli ultimi tempi si sono avute comunque

due nuove e originali proposte etimologiche che meritano di esser prese in considerazione.

Nel 1983 Maria Giovanna Arcamone, nonostante il legame semantico risulti piuttosto tenue, riportava aggeggiare e aggeggio alla famiglia lessicale

1 Com’è noto, lavorare proviene dal lat. LABORARE, affine ai verbi LABARE e LABI ‘vacillare,

fati-care’ (cfr., sull’evoluzione semantica, G. Keel, Laborare und operari. Verwendungs- und Bedeutungsge-schichte zweier Verben für ‘arbeiten’ im Lateinischen und Galloromanischen, St. Gallen, Schwald, 1942; R. Ostrá, Le champ conceptuel du travail dans les langues romanes, in «Etudes romanes de Brno», III, 1967, pp. 7-84; H.-W. Klein Giessen, Zur semantischen Differenzierung der romanischen Sprachen, in Serta romanica. Festschrift … Rohlfs, Tübingen, Niemeyer, 1968, pp. 17-34, a p. 20); per la distribuzione in Italia dei geosinonimi di lavorare vedi la c. 1615 dell’AIS. Mancano invece studi d’insieme sui verbi che indicano il “lavoricchiare” in italiano. Per i loro consigli desidero qui ringraziare gli amici Andrea Dardi, Fabio Marri, Alessandro Parenti, Fiorenzo Toso e Antonio Vinciguerra.

2 Il primo lessico etimologico a proporre la derivazione dal francese è il DEI: «probabilmente

adattamento dell’a. fr. agiets, agies (XIII sec.) frascherie, ninnoli, gioielli (lat. adjectum […])»; ma quasi di certo il fr. agiets fu suggerito dal REW che lo riporta al lemma adjĕctum. Tale etimologia è poi stata generalmente ripresa (quasi sempre, come già nel DEI, con qualche cenno dubitativo) dalla lessicografia successiva: cfr. Palazzi; GDLI; Garzanti (1965); Devoto, Avviamento; Zingarelli (1971 sgg.); DELI; Sabatini-Coletti.

3 B. Migliorini e A. Duro, Prontuario etimologico, Torino, Paravia, 1950; «etimologia incerta»

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[3] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 187

di aizzare (alla quale assegnava tutta una serie di voci toscane come azzicare ‘muovere, adescare’, nazzicare ‘rovistare’, azzeggiare ‘infuriarsi’, arzigogolare ecc.), famiglia che deriverebbe da un archetipo *azzare, frutto del tema lon-gobardo *hatz(j)a- ‘aizzare’4. Va però detto che non tutti i membri di tale

fa-miglia sembrano figli del medesimo padre: azzicare viene da assillare, arzigo-golo ha forse a che fare con il biblico Gog, e di conseguenza è molto probabile che anche aggeggio, attestato per giunta diversi secoli dopo la maggior parte dei suoi fratellastri, abbia altra origine5.

Una decina di anni fa Alberto Nocentini ha invece sostenuto che il «to-scanismo recente» aggeggiare deriva da aggio ‘percentuale guadagnata nel cambio di una valuta’: originariamente il verbo avrebbe avuto il significato di ‘trafficare sui cambi di moneta’, per poi assumerne uno più largo6.

Innan-zitutto Nocentini sgombra il campo dalla primogenitura del sostantivo ag-geggio, per la verità con buoni motivi, anche se, come vedremo, la faccenda è più complessa di quella ipotizzata7. In questo modo, ponendo al centro

aggeggiare, può svolgere agevolmente il suo ragionamento tutto fondato su considerazioni semantiche:

Quanto al significato, il Devoto-Oli, che ha una percezione esatta della toscanità, assegna ad aggéggio quello di ‘gingillo, oggetto imprecisato’, coi traslati di ‘persona

inaffidabile’ e ‘pasticcio, imbroglio’ e ad aggeggiare il valore transitivo di

‘accomo-dare alla meno peggio’ e quello intransitivo di ‘gingillarsi’.

Attingendo alla mia competenza personale, aggiungo che aggeggiare è

sinoni-mo di trafficare nei valori intransitivi, così come il derivato aggeggióne è sinonimo

di trafficóne nel senso di ‘persona che si occupa di faccende poco chiare’. A sua volta

il verbo aggeggiare non può che esser derivato da aggio ‘eccedenza del prezzo del

cambio sul valore reale della valuta’ […].

Il significato primitivo di aggeggiare doveva quindi essere ‘trafficare sui

cam-bi’, attività guardata con sospetto per timore di imbrogli […]. Una volta perduto il

4 M.G. Arcamone, Tedesco hetzen ‘aizzare’, ‘lavorare in fretta’ e l’origine germanica di alcune

voci toscane, nei «Quaderni dell’Atlante Lessicale Toscano», I, 1983, pp. 115-143.

5 Per azzicare cfr. LEI, I, 1598, 1600, 1602; per arzigogolo cfr. A. Nocentini e A. Parenti,

l’Etimo-logico. Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2010 (d’ora in avanti EVLI) e LEI, I, 1604.

6 A. Nocentini, Alcuni toscanismi recenti: aggeggio, buttero, gingillo, ghingheri, in «Lingua

nostra», LXVIII, 2007, pp. 52-56; cfr. anche EVLI che riporta la stessa argomentazione, ma che per datare i termini in questione si serve, diversamente dal solito, delle attestazioni letterarie ricavabili dal GDLI (aggeggiare: prima del 1936; aggeggio: 1926; aggeggione: 1943), assai più tarde di quelle lessico-grafiche.

7 Scrive Nocentini (Alcuni toscanismi cit., p. 53): «data la natura verbale del suffisso -eggiare, il

rapporto di derivazione va dal verbo al sostantivo e quindi aggéggio va considerato deverbale di aggeg-giare»; sul suffisso cfr. Rohlfs, § 1160.

(18)

188 MASSIMO FANFANI [4]

significato denotativo, il verbo ha mantenuto quello connotativo: l’accezione in-transitiva di ‘trafficare sui cambi’ ha assunto il significato generico di ‘trafficare’ con connotazione negativa e l’accezione transitiva di ‘aggiustare il cambio della va-luta’ quello di ‘accomodare alla meno peggio’. Da questi significati verbali si passa agevolmente ai significati sostantivali di aggéggio come ‘coso, oggetto dall’utilizzo

imprecisato’ e con riferimento personale come ‘individuo poco affidabile, maneg-gione, disonesto’8.

Anche se la quadratura del circolo compiuta da Nocentini appare per-fetta, la sua soluzione non convince pienamente. Se il significato negativo di trafficare ‘intrallazzare in modo disonesto’ è anch’esso piuttosto recente e quindi appare poco spendibile come paragone per aggeggiare, che di per sé non ha una connotazione negativa così marcata (come aggeggione in senso peggiorativo non è lo stesso di trafficone ‘imbroglione’), è proprio la base di derivazione, aggio ‘premio sui cambi’, l’inciampo maggiore.

Aggeggiare è un tipico verbo della parlata popolare, di valore generico e scarsamente impiegato nello scritto, tanto che, registrato la prima volta nel 1868, se ne hanno radi esempi successivi: se fosse collegato ad aggio, che è voce antica, con un preciso valore specialistico e ben attestata in Toscana a partire dal sec. XV, molto probabilmente qualche occorrenza scritta di aggeggiare con il presunto originario significato di ‘speculare sull’aggio di una moneta’ l’avremmo avuta9. È difficile, specie in epoca

moderna, che un termine passi da un ambito tecnico (o particolare) a quello comune (o anche a un altro più specifico) senza aver lasciato traccia nel primo. Ma anche ammessa questa eventualità, un’ulteriore riprova ce la forniscono i lessicografi dell’Ottocento che per primi colsero l’affiora-re della parola e cercarono di spiegarne l’origine: nessuno la ricollega al termine aggio, il quale, se fosse stato effettivamente alla base del derivato, sarebbe dovuto venir loro in mente, come di solito avviene coi verbi in

8 Nocentini, Alcuni toscanismi cit., pp. 53-54. Occorre avvertire che non tutti i significati

addot-ti dal Devoto-Oli son frutto di una «percezione esatta della toscanità»: in paraddot-ticolare quelli traslaaddot-ti di aggeggio come ‘persona inaffidabile’ (e di aggeggione «in senso non buono, armeggione, maneggione») provengono dalle indicazioni fuorvianti – lo vedremo meglio più avanti – della precedente lessicografia da cui anche quel vocabolario in larga parte dipende. Va poi osservato che l’ulteriore accezione negativa di aggeggio: «Con altro senso, pasticcio, imbroglio: ti sei messo proprio in un bell’a.!», anch’essa dipen-dente dalla tradizione lessicografica, non compare nelle prime edizioni del Devoto-Oli (1967 e 1971), ma solo dalla recente edizione “rinnovata” del 1990.

9 Su aggio, un grecismo che dall’Esarcato si diffonde in Veneto nella forma lazo (sec. XIII) e in

Toscana come laggio (sec. XIV), vedi la sintesi di A. Castellani, Grammatica storica della lingua italia-na. I. Introduzione, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 185-188.

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[5] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 189

-eggiare: guerreggiare rimanda a guerra, lumeggiare a lume, rumoreggiare a rumore ecc.10.

*

Così forse conviene cambiar prospettiva, provando a partire non dall’e-timologia, ma da come la parola ci si è presentata nella breve strada che ha percorso dalla sua prima apparizione ad oggi. Nocentini ha ragione quando la qualifica come un toscanismo recente: è infatti attestata, come si è visto, solo da un secolo e mezzo e si è diffusa quasi solo in Toscana. Lo osservava già Giulio Cappuccini nel suo Vocabolario (1916): «Ma tutta questa famiglia di parole [aggeggio, aggeggiare, aggeggione] è ignota, sebbene non ignotissi-ma, fuori di Toscana; e son tutte dell’uso popol.»; e ancora Migliorini nel suo rifacimento del medesimo vocabolario (1945): «Voci popolari in Tosc., e qua e là nell’Italia centrale»11. Oggi non si va molto oltre: in genere i lessici

le classificano come regionalismi, ovvero toscanismi: in particolare – a parte

10 Va ricordato che nell’Ottocento il termine aggio era ben presente non solo nel linguaggio

economico ma anche in quello comune, dove circolavano inoltre le formazioni derivate dal francese aggiotaggio, aggiotatore e aggiotare (attestate risp. dal 1765, 1801 e 1831). Se una certa “speculazione” era sempre più o meno rientrata nella pratica della compravendita, in quel secolo, con l’incremento dei commerci e dell’attività borsistica, le nuove possibilità legate all’emissione di banconote e di titoli, la pubblicazione quotidiana di bollettini coi valori di merci e monete, l’aggiotaggio si sviluppò in modo abnorme e contagioso: «Oggidì – scriveva Gerolamo Boccardo nel suo Dizionario di economia poli-tica (1857) – esso è divenuto un fenomeno giornaliero, abituale, uno dei caratteri più comuni e più distintivi delle speculazioni che si basano sul credito, o meglio sull’abuso del credito. I fondi pubblici peculiarmente gli servono di costante e regolare alimento; e siccome la più parte dei governi sono gra-vati di un debito enorme che tutti i giorni si accresce; così gli aggiotatori sono sicuri che non mai fallirà loro questa base di operazioni. […] I fondi pubblici non sono la sola materia dell’aggiotaggio. Si aggiota sopra i terreni propri alle costruzioni di case, sulle azioni industriali d’ogni natura, sulle coltivazioni di miniere, sulle imprese di canali e strade ferrate, […] sul sapone di Marsiglia, sull’olio della riviera ligure, sul vino, sul carbone, sul pane, su tutto, persino sulla vita degli uomini… » (pp. 53-55). Per la verità in Toscana, finché governarono i Lorena, la speculazione sui titoli e sulle merci, anche nei momenti di crisi, fu sempre abbastanza moderata. Quando invece la regione entrò a far parte del Regno d’Italia, an-che per i contraccolpi della situazione internazionale, la sua economia si ritrovò inaspettatamente sulle montagne russe. Le cose si aggravarono proprio quando Firenze divenne capitale. Il governo piemonte-se già fortemente indebitato dai disavanzi di bilancio, il primo maggio del 1866 il ministro Scialoja, in previsione della guerra imminente e nell’impossibilità di ricorrere a nuovi prestiti, decise d’introdurre il “corso forzoso” dei biglietti di banca. Come effetto immediato si ebbero forti oscillazioni dell’ag-gio (l’eccedenza del valore dell’oro rispetto alla lira cartacea) e la scomparsa della moneta metallica, perfino quella di bronzo. La svalutazione della lira provocò un’impennata dei prezzi, anche qui con continue notevoli oscillazioni, e un progressivo calo delle importazioni (per una sintesi della situazione economico-finanziaria del periodo, cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. V. La costruzione dello Stato unitario, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 296-309). Tutto questo per dire che un termine come aggio era allora ben presente anche ai meno perspicaci dei lessicografi toscani: ma nessuno lo ricollegò ad aggeggiare.

11 Lo Zingarelli, dalla prima edizione (1917-1922) all’ottava (1957) classificava aggeggio

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190 MASSIMO FANFANI [6]

aggeggio che si può dire accolto nell’uso comune – aggeggiare e aggeggione rientrano fra quei termini locali che se vengono impiegati nella lingua, lo sono quasi solo per celia12.

Va poi subito aggiunto che fra le varie (e non sempre effettive) accezioni di aggeggiare i vocabolaristi, rimpallandoselo l’un l’altro – e oggi tuttavia collocandolo finalmente in seconda fila – riportano un lampante “significato fantasma”: ‘far tardi, perder tempo, temporeggiare’13. Nell’uso corrente (e

negli esempi reali del passato) tale significato non sussiste, il verbo indicando solo l’attività di ‘aggiustare alla meglio’, ‘armeggiare’, ‘lavoricchiare’, ‘traffi-care’. È ovvio che quando “si aggeggia” s’impiega del tempo o che addirittura quel tempo lo si spreca, perché aggeggiando si va per le lunghe e di solito un lavoro “aggeggiato” prima o poi lo si dovrà rifare14. Ma si tratta di una

conseguenza che si può dedurre logicamente dal significato del verbo, e non di un’accezione particolare che si è definita ed emancipata fino a costituire un nuovo nucleo semantico. Insomma: per aggeggiare non è avvenuto finora uno sdoppiamento di significato analogo a quello che possono vantare due suoi quasi sinonimi più anziani, cincischiare e gingillare/gingillarsi, che, oltre ai loro primitivi valori concreti, rispettivamente di ‘tagliuzzare, lavorar male’

12 Sempre lo Zingarelli, dal 1971 in poi, indica come “tosc. fam.” aggeggiare e aggeggione, che

sono considerati regionalismi toscani anche nel Sabatini-Coletti e nel GRADIT: parrebbe quindi che soltanto aggeggio, non segnato nella maggior parte dei lessici recenti da marche regionali, abbia una qualche diffusione nell’italiano comune, come infatti si può facilmente riscontrare. Comunque anche aggeggiare e aggeggione talora vi trovano impiego, e spesso con fine espressivo, come in questo esempio gaddiano del 1940: «L’applicazione degli elastici alle scatole […], ecco, se n’era incaricato un giostrone di macchina a disco orizzontale, a piatto, ingegnosissima […]. Quell’aggeggione tutto aggeggiato di aggeggini era tenuto nel segreto, i nordamericani lo avrebbero “copiato” volentieri» (C.E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti, I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni e D. Isella, Milano, Garzanti, 1991, p. 260).

13 Nel GDLI tale accezione compare senza esempi; nel Devoto-Oli (1971) se ne legge un esempio

fittizio tuttavia poco probante: «2. intr. (aus. avere) Gingillarsi: guarda di tirar via invece di star tanto ad aggeggiare!»; lo stesso nel Vocabolario Treccani (1986): «2. intr. (aus. avere) Gingillarsi, operare len-tamente: sta lì ad a. senza concluder nulla» e nel Sabatini-Coletti: «v. intr. (aus. avere) Perdere tempo in cose inutili, gingillarsi: non stare ad a.!». Invece, come vedremo più avanti, il “significato fantasma” è assente da vocabolari fondati realmente sull’uso.

14 L’idea della “perdita di tempo” collegata all’aggeggiare, propagginatasi di vocabolario in

voca-bolario, continua affiorare anche in qualche lessico dialettale: vedi, da ultimo, P. Panizza, Il fiorentino raccontato ai forestieri, Sesto Fiorentino, Apice libri, 2016, dove nella descrizione a p. 17 si dà il termine nella sua accezione usuale: «Simile [ad affare e lavoro] è il significato di aggeggio, oggetto che non si capisce a cosa serva o come possa funzionare, che è roba da poco. […] Ad esso è collegato il verbo aggeg-giare, ovvero adoprarsi in qualche opera senza riuscire a compierla o comunque conducendola svoglia-tamente»; mentre nel glossario finale ritorna la definizione “vocabolaristica” di aggeggiare: «trafficare, gingillarsi senza costrutto o con perdita di tempo» (e si riporta con un punto interrogativo l’etimologia dell’ELVI).

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[7] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 191

e di ‘baloccarsi’, hanno acquistato anche quello astratto di ‘perder tempo’15.

Così, mentre a chi fa tardi possiamo tranquillamente dire: “non cincischia-re!”, “non gingillare (non ti gingillare)!”, gli potremmo dire “non aggeggia-re!” se e solo se in quel momento stesse effettivamente aggeggiando.

A questo punto ci si può chiedere da dove salti fuori la voce e perché si sia potuto affermare codesto significato fantasma. Come talora càpita, parrebbe che tutto abbia avuto origine da un abbaglio preso dai primi lessicografi che si trovarono fra le mani aggeggiare, una parola evidentemente mai sentita prima, non facile da inquadrare semanticamente e dalla struttura non chia-ra: una base aggio, come si è visto, pareva improponibile e aggeggio è solo un deverbale. Per di più, il momento in cui la parola cadde sotto la loro lente non era dei più pacifici per le indagini linguistiche.

Si vivevano infatti i turbinosi anni dell’unificazione nazionale, quando anche i filologi e i vocabolaristi, che di solito hanno i piedi per terra, si eran lasciati prendere dalla lessicomania, illusisi quasi tutti di affratellare gl’ita-liani sfornando vocabolari e le più varie ricette per risciacquare la lingua. In tale operoso fervore volto all’edificazione di una lingua nazionale al passo cogli eventi, si distinsero soprattutto i Toscani, non perché fossero depositari di chi sa quale privilegio da riaffermare, ma perché avvertivano più o meno oscuramente che stava ormai sfumando il primato fino allora accordato alla loro lingua: perfino le idee filofiorentinistiche dei manzonisti, coi quali si eran messi subito in competizione, non lasciavan presagire nulla di buono16.

Così, prima che tutto fosse definitivamente travolto, serrati i ranghi, si dette-ro a spigolare ogni residua pdette-roda e cavedagna come pdette-rofughi sulla via dell’e-silio, con risultati di cui ancor oggi gli studiosi profittano, ma facendo spesso d’ogni erba un fascio. In questo modo fra le tante voci usuali racimolate dal

15Cincischiare (da *INCISULARE ‘tagliare’) è attestato nel Ricettario laurenziano (sec. XIV) col

significato di ‘tagliuzzare’ (cfr. TLIO); successivamente assume altre analoghe accezioni (‘tormentare’ ‘spiegazzare’, ‘lavorar male’), ma il significato di ‘perder tempo’ è ottocentesco: cfr. GDLI, § 5, dove compaiono esempi di Pananti, Tommaseo, Giusti, Cicognani ecc., preceduti da uno del Pulci («trasse Aldighieri un colpo, e valse mille, | ché la Fortuna crudel non cincischia | due parte al saracin del capo fece |che non si rappiccò poi con la pece»: Morgante, xxii, 107), nel quale il verbo va tuttavia interpre-tato non come ‘indugiare’, ma come ‘tagliar malamente, colpire a vuoto’. Per gingillare/gingillarsi (da gingillo) cfr. DELI che data così le due accezioni: ‘trastullarsi’, 1798; ‘perdere il tempo’, 1863.

16 Sull’attività di registrazione lessicologica e di approntamento di strumenti linguistici e

lessico-grafici da parte dei Toscani in epoca postunitaria, vedi specialmente A. Castellani, Consuntivo della po-lemica Ascoli-Manzoni [1986], ora in Id., Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, a cura di V. Della Valle, G. Frosini, P. Manni e L. Serianni, Roma, Salerno, 2009, pp. 139-162, a pp. 151-157. Il quadro fu comunque assai più articolato di quanto di solito non lo si rappresenti. E, a differenza delle apparenze, la maggior parte dei vocabolaristi toscani si collocò su una sponda opposta a quella dei “manzonisti”.

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192 MASSIMO FANFANI [8]

parlato della Toscana di allora, non privo come sempre di loglio forestiero, poté figurare anche aggeggiare, una novità di cui per l’avanti non si aveva avuto contezza, colta al volo a Firenze da due dei migliori “linguaioli” del momento, il lunigianese Girolamo Gargiolli e il calabrese, ma fiorentino d’a-dozione, Costantino Arlìa. Tanto che nel giro di pochi anni il verbo fu regi-strato da tutti i vocabolari e fra gli addetti ai lavori divenne, in certo modo, una parola di moda17.

Il Gargiolli, dopo aver pubblicato due “saggi” sulla parlata degli arti-giani fiorentini, nel 1868, l’anno della discussa Relazione manzoniana, mise fuori – in velata polemica con questa – un interessante volume sul linguag-gio (moderno sì, ma con un suo ineliminabile retaglinguag-gio antico) dell’arte della seta a Firenze, affiancando all’edizione di un trattato quattrocentesco sulla materia, una serie di coloriti dialoghi in cui disponeva ciò che aveva raccolto dalla viva voce di fabbricanti di drappi, tessitori, avviatore, orditore, rimet-titore18. Proprio qui, tra i tanti termini tecnici dell’arte della seta che

Gar-giolli riportava a galla o coglieva nell’uso, compare anche il primo esempio di aggeggiare, proferito da una semplice lavorante di stoffe nel descrivere un aspetto piuttosto sconfortante della sua attività: «Ma il guaio è quando ci manca il lavoro. Allora sì che abbiamo le lune. Ogni mattina facciamo motto ai mercanti, che ci danno belle parole, ma non sono quelle che s’infilzano. Poerine noi, si va da una bottega all’altra, finchè sona l’avemaria del mezzo giorno, senza aver compicciato nulla. […] Dio è giusto e toccherà il cuore de’ mercanti, che finiranno d’aggieggiare, e ci daranno la tela»19.

Che la parola fosse allora una novità, lo si capisce più che dal corsivo, dalla grafia incerta (nell’errata corrige in fondo all’ultima pagina aggieg-giare sarà corretto in aggegaggieg-giare) e dalla necessità di darne una spiegazione nel glossario finale, nonostante non fosse precisamente un termine tecnico dell’arte della seta: «aggeggiare: andare da oggi a domani, non dare nè in tinche, nè in ceci [‘esser indeciso, temporeggiare’]»20.

17 La moda sembra provocata in modo artificiale proprio dalla capillare propagazione

lessicogra-fica, e ritroviamo il termine non di rado impiegato direttamente dagli stessi lessicografi: «Tombacco – Questa voce è segnata nelle Tariffe… – Inglesi? – No, signore: italiane; ossia inglesi, alle voci delle quali è stata messa una vocale in fine, e, così aggeggiate, offerte agli italiani dal 1860 in qua» (P. Fanfani e C. Arlìa, Lessico della corrotta italianità, Milano, Carrara, 1877); un altro es. dell’Arlìa alla nota 33.

18L’arte della seta in Firenze. Trattato del secolo XV pubblicato per la prima volta e Dialoghi

raccolti da G. Gargiolli, Firenze, Barbèra, 1868.

19 Ivi, pp. 230-231.

20 Ivi, p. 297; anche la definizione fatta solo attraverso modi di dire, ci fa intendere che per il

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[9] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 193

Tale significato, che è quello “fantasma” registrato ancor oggi nei voca-bolari, è chiaramente dedotto dal contesto complessivo dell’episodio narrato, rappresentandone l’ovvia conseguenza: “i mercanti dicon solo belle parole … non si compiccia nulla … ergo i mercanti menano il can per l’aia, prendono tempo”; tuttavia la semantica propria di aggeggiare resta ignota. Infatti, a ben vedere, nell’esempio riportato da Gargiolli quel verbo potrebbe esser sosti-tuito anche da altri indicanti azioni che comportano un qualche impiego di tempo (i mercanti finiranno di girare i pollici, di baloccarsi, di contar frottole, di sonnecchiare, e così via), senza mutare d’un briciolo il senso complessivo alla frase: dunque l’esempio non serve gran che per mettere a fuoco il reale valore della nostra parola. Tuttavia il significato ipotizzato da Gargiolli fu subito accolto, con qualche ovvio accostamento parasinonimico (e con l’ag-giunta del sostantivo aggeggione), nel Giorgini-Broglio (1871): «Aggeggiare, v. intr. Ciancicare, Gingillare, Operare con gran lentezza. Aggéggia aggéggia, e non conclude nulla. Che aggeggi costà? – Dell’uso fam.»; «Aggeggióne -óna, s. m. e f. Chi aggeggia, cincischia; Ninnolone. Che aggeggiona è quella don-na!».

L’Arlìa intercettò la parola poco dopo, nel 1872, in uno dei dialoghi di lingua parlata, analoghi a quelli del Gargiolli, che andava pubblicando sulla rivista di Pietro Fanfani «La Unità della lingua». Si trattava del pezzo inti-tolato La bozzolara (ovvero la venditrice di dolci, propriamente di bozzolari ‘ciambelle zuccherate’), una composizione anch’essa costruita ad arte per il-lustrare le parole dell’arte del pasticciere21. A un certo punto gli interlocutori

del dialogo si lamentano dell’aiutante di bottega che non lavora come do-vrebbe: «Aggeggia tutta la mattina quel benedetto ragazzo, e sempre lascia da fare qualche cosa. O dov’è egli?»22. Nel glossario che segue il dialogo,

21 C. Arlìa, La bozzolara, ne «La Unità della lingua», III, 15 marzo 1872, pp. 243-249; 1 aprile

1872, pp. 258-263. (È da notare che di fronte all’avanzata di confettiere (confetturiere), pasticciere e biscottiere, tutti ben attestati nella Firenze degli anni sessanta dell’Ottocento, Arlìa, intitolando il suo dialogo alla bozzolara, ovvero alla ciambellaja, mostri di prediligere il termine più debole, destinato a scomparire dall’uso comune: «voce tosc. mezzo antiquata» scrive nel 1916 il Cappuccini, anche se localmente se ne può attestare la sopravvivenza fino alla metà del Novecento: «bozzolaro. È, per i fio-rentini, un pasticciere alla buona, che vende soprattutto frittelle, sommommoli, ciambelle dolci; voce viva tra il popolo. Il Vocabolario dell’Accademia dà a bozzolaro anche il significato di ‘pasta inzucche-rata a forma di cimbella’, che io non conosco» (E. Bianchi, in «Lingua nostra», V, 1942, p. 17); oggi tuttavia è disusato a Firenze. Come mostra la parola, bozzolara è un settentrionalismo: i buzzolà [buc-cellati] ‘ciambelle’ nel sec. XVIII da Venezia si erano diffusi in Toscana dove il termine fu riadattato in bozzolari; per indicarne la venditrice il Fagiuoli nelle Rime usò bozzolaraja, mentre la voce ven. era buzzoladaro: cfr. LEI, 6, 720; 7, 1358, 1363, 1364.

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194 MASSIMO FANFANI [10]

della parola si dà più o meno il medesimo significato indicato dal Gargiolli: «Aggeggiare, v. intr. Operare con lentezza o male, gingillarsi», sebbene in quell’ “operare … male” faccia già capolino l’accezione autentica23.

Chi cominciò a imboccare la strada giusta riguardo alla semantica del-la parodel-la, ma con un esempio forse poco calzante, fu Giuseppe Rigutini, nell’Appendice (1876) al Vocabolario della lingua parlata, il Fanfani-Riguti-ni: «Aggeggiare. trans. Voce del linguaggio familiare e vale Assettare alcuna cosa in modo da darle buona apparenza: “Il quartiere era un vero porcile; ma ora l’ha aggeggiato in modo che non par più quello”». Anche nell’edizione ampliata del 1893 Rigutini si mantenne sulla stessa linea, evitando ogni ac-cenno all’accezione astratta nata dall’abbaglio del Gargiolli24. Spetta

tutta-via all’Arlìa il merito di aver centrato con chiarezza il significato giusto in un articolo del «Borghini» del 1878: «Accomodare, Riparare una cosa guasta. Fare alla meglio»25.

Dopo un tale avvio col piede sbagliato, i vocabolari che seguirono cerca-rono di riprendere il passo con soluzioni di compromesso, cioè tenendo insie-me tutte le accezioni proposte, anche quelle immaginarie, ovvero sommando insieme le definizioni di Giorgini-Broglio, Rigutini e Arlìa. Lo si vede bene nel Nòvo dizionàrio di Petrocchi (1887), che per aggeggiare, accanto al pri-mo pseudosignificato, registra l’uso transitivo (e riflessivo) del verbo con il senso di ‘aggiustare alla meglio’: «aggeggiare, intr., pop. Gingillare con poca o punta conclusione. O che aggeggi? ma falla smessa. § tr. Accomodare alla meglio. Ò aggeggiato un po’ po’ questo salòtto; ma lo piglieranno com’è. § intr.

23 C. Arlìa, Esercizio lessicografico sopra alcune Voci e Maniere usate nella Bozzolara, ne «La Unità

della lingua», III, 15 aprile 1872, pp. 273-281, a p. 273. Dipende da questo preciso esempio G. Moise (Grammatica della lingua italiana, 2a ed., Firenze, Tip. del Vocabolario, 1878, p. 796): «Verbi assoluti

[…] 1) Aggeggiare che significa Operar con lentezza, Perdere il tempo in cose da nulla; che pure si dice Gingillare o Gingillarsi, Ninnolare o Ninnolarsi. – Aggeggia tutta la mattina quel benedetto ragazzo, e sempre lascia da fare qualche cosa».

24 G. Rigutini e P. Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, nuovamente compilato da

G. Rigutini, Firenze, Barbèra, 1893; alla defizione di aggeggiare, quasi identica a quella del 1876, si allarga l’esemplificazione: «Si aggéggia un quartiere una stanza; – Si aggéggia anche una persona, or-nandola di abiti, ec.».

25 C. Arlìa, Diporto filologco. Dialogo I. Lorenzo e Adalberto [si tratta di una controrecensione

a una recensione, ovvero all’opuscolo All’Appendice al «Vocabolario italiano della lingua parlata» compilato da G. Rigutini. Appendice di A. Cerquetti, Milano, Carrara, 1877], nel «Borghini», IV, 15 gennaio 1878, pp. 220-224, a p. 221: «Aggeggiare […]. È registrato […]. Sì bene: come v. intr. Nel signi-ficato di Ciancicare, Gingillare, Operare con gran lentezza, e anche come trans. per Assettare una cosa in modo da darle buona apparenza, ma non in quello di Accomodare, Riparare una cosa guasta, Fare alla meglio. “Guarda di accomodare questi stivalini. – O se son tutti abbertucciati! – Gua’: aggeggiali meglio che puoi” […] Aggeggione. Colui che fa ogni cosa senza badare, senza punta attenzione. “Di chi è quel quaderno pieno di scarabocchi? – Che si domanda? Di quell’aggeggione di Gino”».

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[11] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 195

pron. Mettersi d’intorno panni, frònzoli e sim. S’è aggeggiata la vèste di su’ madre. § p. pass. Aggeggiato»26. Addirittura l’Arlìa nelle sue Voci e maniere

di lingua viva (1895) indica tutta una serie di accezioni primarie e secondarie dotandole di numerosi esempi fittizi, sia per gli impieghi transitivi del verbo (‘rassettare alla meglio’, ‘imbrogliare, far credere il falso’), sia per gli intransi-tivi (‘ciancicare, gingillare, perder tempo’, ‘rimediare’, ‘almanaccare’), sia per i riflessivi (‘vestirsi, abbigliarsi alla meno peggio’)27.

È questa linea lessicografica di sommatoria semantica, dipendente dal Giorgini-Broglio e dal Petrocchi, che si è poi trasmessa ininterrottamente da un vocabolario all’altro fino ad oggi, fino al Devoto-Oli, al Sabatini-Co-letti, al GRADIT, e che ha avallato lo pesudosignificato di aggeggiare come ‘temporeggiare’. L’altra linea, quella rappresentata da Rigutini, più aderente all’accezione reale del verbo, è rimasta minoritaria e si è continuata nel No-vecento solo nei vocabolari fondati effettivamente sull’uso: Mestica (1936), Cappuccini-Migliorini (1945) e De Felice-Duro (1974), il quale per aggeg-giare dà questa esemplare definizione: «1. Tr. Costruire, mettere insieme, accomodare alla meglio: cosa stai aggeggiando?; è riuscita ad a. un paralume che è proprio carino. 2. Intr. (aus. avere) Occuparsi di cose da poco, lavorare con non grande impegno e competenza, con scarsi e mediocri risultati: inve-ce di studiare sta ad a. tutto il giorno».

*

Non molto meglio stanno le cose riguardo alla vicenda del sostantivo aggeggio, attestato anch’esso nei medesimi anni. Il primo esempio “vivo” (si fa per dire) della parola proviene da un dialogo di lingua, analogo a quelli ap-pena visti di Gargiolli e Arlìa, dovuto a una maestra toscana, Angiolina

Bul-26 La particolare accezione di ‘mettersi d’intorno panni, fronzoli’, accezione che si comprende

facilmente visto che aggeggiare, per la sua valenza generica, può trovar impiego nei più vari contesti, la si ritrova in quegli anni anche nelle pagine di un romanziere piemontese ma fiorentino d’adozione: «pri-ma che il servitore colle fascette, i cosmetici ed i capelli posticci non lo avesse tutto quanto aggeggiato, ne mostrava cento [di anni] per lo meno» (G. Gloria, F.E.R.T., Torino, Roux e Favale, 1879, p. 47 e p. 90 [aggeggiarsi]).

27 C. Arlìa, Voci e maniere di lingua viva, Milano, Carrara, 1895: «Aggeggiare, v. trans. Cosa, o

non buona, o guasta, ovvero nel farla, non riuscita bene, rassettarla in modo che abbia buona apparenza. Es.: “Ma ti pare che i’ possa presentare questo vestito così rincincignato, se non l’aggéggio alla meglio? […]. § Imbrogliare, far credere il falso; Operare irregolarmente o disonestamente. Es.: “Eh, là là con tan-te chiacchiere, tu non m’aggeggi mica, sai? […]. § intr. Ciancicare, Gingillare, Ninnolare, Operare con lentezza, Perder tempo, ecc. Es.: “Lisa, tutta la mattina ti aggéggi in camera senza rassettarla” […]. § Ri-mediare. Es.: “Hai perduto la lettera! e ora come si aggeggia?”. § Almanaccare, Sofisticare, ec. Es.: “Ma che tu aggéggi, grullo? Se tu non hai quattrini non potrai avere l’accollo”. § intr. rifl. Vestirsi, Adornarsi ma in senso irrisorio e vilificativo […]»; oltre al participio aggeggiato, le Voci e maniere registrano anche, con dovizia di esempi, aggeggiatura, aggeggiaturina, aggeggìno, aggéggio, aggeggìo, aggeggióne.

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196 MASSIMO FANFANI [12]

garini, assai attiva sul fronte della diffusione del buon italiano nelle scuole28.

Collaborando alla rivista pedagogica milanese «Le prime letture» con una serie di Diàloghi toscani volti all’illustrazione di specifici settori del lessico, nel 1872 la Bulgarini trovò il destro, in quello intitolato La càmera, di inse-rire anche il nostro termine: «Ària vuòl èssere […] quella che ci deve tenere in buona salute, e non tanti aggeggi ciarlataneschi»; e di descriverlo così in nota: «Aggéggio, voce spregiativa colla quale il Toscano indica in generale ogni cosa che non gli vada a’ versi, o in cui sospetti che gatta ci covi. Ogni dialetto ha di queste voci»29.

L’esempio era stato tuttavia preceduto dalla registrazione del sostantivo nelle Voci e maniere del parlar fiorentino (1870) di Pietro Fanfani, dove se ne sottolineava la connotazione negativa (che la Bulgarini avrebbe fatta sua): «Questa voce significa cosa o fatto spiacevole, o poco onesto, o simili. Che aggeggi! Quell’aggeggio di parlare col mago non mi va». Tale connotazione dipendeva certo da qualche particolare impiego della parola, ma in realtà non pare esserle propria, perché un “aggeggio”, in sé e generalmente parlan-do, non è né buono né cattivo, ma solo cosa di poco valore30. Tuttavia il

Vo-cabolario della lingua parlata (1875) di Rigutini e Fanfani rincarò la dose: «Aggéggio. s. m. Voce familiare adoperata in varii sensi, ma sempre in modo o derisorio o vilificativo; ed ora val Cosa da nulla, Ninnolo, Gingillo, così al proprio come al figurato; ora Cosa, Oggetto che non ha nè forma nè nome determinato; ed ora in senso morale Cosa o Fatto che ha dell’imbrogliato e del disonesto, che anche dicesi Imbroglio, Pasticcio: “Ci vuol altro che que-sti aggeggi per tirarsi avanti a queque-sti giorni: – O che aggeggio è cotesto che m’hai portato? – Guarda quanti aggeggi s’è messa d’attorno: – Che aggeggi! – Quell’aggeggio di parlar sempre a quattr’occhi non mi va”»31.

28 Angiolina Bulgarini (Grosseto 1847-1896) fu maestra di lingua italiana nelle Scuole

prima-rie femminili di Roma e autrice di scritti e volumi per l’insegnamento, fra cui ricordo: Dialoghetti famigliari. Studi di parlata toscana con note dichiarative per uso delle scuole elementari e delle Famiglie, Milano, Agnelli, 1872 (con numerose edizioni successive); Un fior non fa ghirlanda. Scenette domestiche per le bambine, Siena, Tip. Sordo-muti di L. Lazzeri, 1874; A. Bulgarini e P.E. Castagnola, Avviamento allo studio della lingua italiana, Roma, A. Manzoni, 1876.

29 A. Bulgarini, La càmera, in «Le prime letture», III, 1872, pp. 100-102 a p. 100.

30 In effetti nell’esempio della Bulgarini («aggeggi ciarlataneschi») la connotazione negativa

dipende dall’aggettivo; e così a Fanfani “non va” di parlare con un mago, ma nel suo esempio aggeggio potrebbe anche esser sostituito un qualsiasi altro termine neutro: propostito, idea ecc. Tuttavia la parola, forse per influenza di un termine dal significante affine come maneggio, sulle prime poté venir conno-tata negativamente; si veda questo es.: «Gli è questo uno dei cento aggeggi, onde si valgono i massoni che pescano nel pubblico erario» («La Civiltà cattolica», XXXVIII, vi, 1887, p. 312).

31 Da questa definizione dipende alla lettera anche quella nelle Giunte al TB: «Voce familiare,

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Ninno-[13] SULL’ETIMOLOGIA DI AGGEGGIARE 197

Va comunque notato che nella definizione del Rigutini-Fanfani affiora per la prima volta l’accezione concreta della parola («ed ora val Cosa da nul-la, Ninnolo, Gingillo») che è quella primaria e fondamentale, mantenutasi nell’uso fino ad oggi. Tale accezione è infatti collocata al primo posto nel Nòvo dizionàrio di Petrocchi (1887): «Oggetto di poco conto, di poco valo-re, che non funziona bène, che non si capisce alla prima che sia. O che aggég-gio m’ài portato? Alla fèsta con quest’aggégaggég-gio? Questo non è un macinino, è un aggéggio»; Petrocchi tuttavia non omette di registrare gli altri significati “vilificativi”: «Anche di guadagni meschini. Questi son aggeggi, caro mio, con questi non pol campare. § Cosa equivoca. Pasticcio. O in che aggéggi mi méscoli?».

Come si vede, anche per il sostantivo come già per il verbo, i lessicografi all’inizio procederono a tentoni per poi aggiustare il tiro con una defini-zione che comincia a includere il significato reale ed effettivo, quando ci si rende conto che nell’“aggeggiare” domina l’idea concreta del lavoricchiare, e di conseguenza l’aggeggio non può esser altro che un qualche prodotto o arnese di quell’attività concreta più che un fatto moralmente disdicevole. Tuttavia la linea di sommare al significato reale anche quelli approssimativi ipotizzati per primi viene ripresa da un vocabolario all’altro e si snoda fino al Devoto-Oli, al Sabatini-Coletti, al GRADIT. Anche in questo caso saran-no i vocabolari che si fondasaran-no per davvero sull’uso, come il De Felice-Duro (1974) a indicare solo il significato effettivo: «aggéggio m., tosc. – Oggetto di poco valore e pregio, di poca utilità e funzionalità: una stanza piena di mille a.; e spesso, per indicare indeterminatamente un oggetto o arnese qualsiasi: metti via codesto a., ti puoi far male».

Anche sul versante dell’etimologia le proposte dei primi lessicografi fu-rono in genere dei tentativi di imbroccare una qualche plausibile soluzione. Mentre Napoleone Caix (Studi di etimologia italiana e romanza, Firenze, Sansoni, 1878, p. 196) accosta aggeggiare ad acciacciare e acciaccinare, per lo più ci si riferì al sostantivo aggeggio (o aggeggìo), considerato evidentemente la forma di partenza, sebbene sia solo un derivato (come passeggio da passeg-giare, solfeggio da solfeggiare ecc.): «Aggeggìo. È un aggeggìo, Intende il vol-go il tramestare cose e parole, certo da addere, aggiungere. Pare che anco lo sviluppo fonico si presti a questa parola» (1878, Giacchi, Diz. del vernacolo fiorentino); «Aggeggio […] Rammenta il lat. Agere e Agitare, se non è suono

lo, Gingillo, così nel propr. come nel fig.; ora Cosa, Oggetto, che non ha né forma, né nome determina-to; ed ora, in senso morale, Cosa o Fatto che ha dell’imbrogliato e del disonesto […]».

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imitat.» (1879, Giunte al TB); «Il Giacchi […] parmi che ben si sia apposto, opinando che il verbo Aggeggiare è il latino addere, mutate in g le due d, del che abbiamo moltissimi esempi» (1895, Arlìa, Voci e maniere); «adjectĭo ag-giunta?» (1917, Zingarelli)32.

*

L’incerto procedere nelle spiegazioni dell’etimologia e del significato della parola ci rivela come sulle prime essa risultasse effettivamente poco chiara. Se si fosse trattato di una voce formatasi secondo i moduli tradiziona-li oppure fosse stata di largo uso comune – anche se priva, come talora càpita, di attestazioni scritte – di certo il Gargiolli, l’Arlìa o i compilatori toscani del Giorgini-Broglio avrebbero saputo sbrogliar la matassa agevolmente, al-meno sul versante della definizione.

Ma, al di là di quel che ne venne detto o non detto allora, è proprio la modalità con cui la parola salì alla ribalta ad apparire insolita. Di prime attestazioni “reali” non c’è quasi traccia, ma per diverso tempo ne abbiamo solo degli esempi fittizi per mano di linguaioli e di vocabolaristi, tutti pronti a certificarne la toscanità, ma, come si è visto, più o meno incerti sul suo pre-ciso valore33. Colpisce poi che le prime registrazioni siano tutte concentrate

nel medesimo arco di tempo: gli anni di Firenze capitale o poco più in là. Tali elementi mostrano che la parola, per quanto fosse allora diffusa in Toscana, non poteva che esservi stata impiegata da poco, che era presente solo nell’oralità e che, vista la sua opacità semantica, probabilmente dove-va essere un gergalismo proveniente da fuori, il quale, con la casacca un po’

32 Il ricondurre aggeggio ai lat. ADDERE o ADJECTUM, in fondo, va nella medesima direzione di

coloro che hanno ipotizzato l’origine dal fr. agiets (cfr. nota 2).

33 Se per i lessicografi toscani il neologismo era poco chiaro, fuori di Toscana aveva suscitato

mag-giori perplessità, come quelle espresse da C. Gambini e C. Negroni (Appuntature al Vocabolario italia-no della lingua parlata di Giuseppe Rigutini, nel «Propugnatore», XIV, 1881, 4 e 5, pp. 92-140 a p. 105) che lo ponevano fra i fiorentinismi non appartenenti alla lingua comune: «Aggeggiare – Voce del lin-guaggio famigliare, e vale assettare = Non si trova questo vocabolo nemmeno nel vocabolario dell’uso toscano». Mentre Ruggero Bonghi, recensendo l’edizione delle Poesie di Francesco Ruspoli (Livorno, Vigo, 1882) curata dall’Arlìa (nella «Cultura», II, 1° novembre 1882, pp. 83-84, a p. 84), chiedeva al curatore il significato di un aggeggiare che compariva nell’introduzione; al che l’Arlìa rispondeva nel fascicolo del 1° dicembre 1882 (pp. 167-168) partendo dalla definizione che conosciamo: «Aggeggiare è voce dell’uso famigliare, e si adopera in varii significati, ma sempre vilificativi e derisorii. – Nel senso morale poi vale “cosa fatta non rettamente, ma o con imbroglio o con modi illeciti”. E però io scrissi che il Cavalcanti aggeggiò un rifacimento, perchè non operò da persona per bene abusando della fiducia dell’amico. Nel Nuovo Vocabolario questo verbo è registrato come intransitivo, e quindi in tutt’altro significato che quello di qui su. | Nelle Giunte al Vocabolario della lingua parlata è pur registrato come transitivo, e spiegato “aggiustare una cosa in modo che abbia bell’apparenza”. È un significato affine; e se a “cosa” il compilatore avesse aggiunto “cattiva” o altro qualificativo simile, la definizione si sarebbe più ravvicinata al significato da me notato».

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riadattata, aveva reso irriconoscibili le sue primitive generalità. Anche ag-geggiare, insomma, sembrerebbe rientrare in uno di quei fiotti di neologismi d’uso vivo e di varia provenienza che ingrossarono sempre di più la corrente dell’Arno nel corso dell’Ottocento e in particolare dopo che il Granducato divenne provincia italiana e dopo che Firenze fu tramutata nella capitale del Regno34. Ma da dove era piovuta una simile parola?

Qualche prima indicazione la si può ricavare dall’aspetto formale di ag-geggio e aggeggiare, termini che presentano una reduplicazione sillabica (con variazione vocalica) tipica delle onomatopee e delle voci casalinghe e bambi-nesche35. Queste ultime, per la verità, sono anch’esse onomatopee o

“parao-nomatopee”, create più che dai bambini, dalle madri e dalle nutrici le quali, partendo da una sequenza fonica prodotta dai fantolini o da qualche sempli-ce parola degli adulti, la riplasmano in modo espressivo reduplicandone un suono o una sillaba, a imitazione e condizionamento dei balbettamenti in-fantili. Le creazioni che ne risultano, sebbene nate in ambito domestico, non sono affatto effimere: scavalcano i secoli e hanno non di rado una diffusione transregionale (e translinguistica: si pensi all’ampia rete di corrispondenze, anche in lingue distanti fra loro, delle parole per indicare familiarmente il padre e la madre). La loro solidità è testimoniata dai molteplici derivati cui possono dar luogo e dalla fortuna che spesso godono nella lingua comune. Proprio per la loro natura affettiva e familiare le voci infantili e le reduplica-zioni espressive si presentano inoltre in numerose varianti, dovute alle aree di diffusione, ai momenti della loro circolazione o a motivi del tutto casua-li non sempre interpretabicasua-li coi socasua-liti criteri della fonetica: bombo/mommo (bumba/mumma nelle Marche); cincino/zinzino, cioccia/poccia/poppa, dindi/ bimbi (nel padovano), tata/dada ecc.

Ora, se aggeggiare rientra fra le voci reduplicanti di questo tipo, non è difficile scovarne una variante che le corrisponde a pennello, sia formal-mente che semanticaformal-mente, ovvero il gergalismo accecciare, attestato – come vedremo meglio più avanti – nelle parlate meridionali: «Accecciare – Ac-ciabattare» (Volpe, Vocabolario napolitano-it., 1869). È dunque probabile che aggeggiare non sia altro che un semplice prestito interno dal napoletano al toscano, avvenuto nella Firenze dell’Ottocento, forse proprio negli anni dell’Unità, quando la città cominciò ad accogliere funzionari, impiegati,

34 Sull’apertura del toscano al lessico del resto d’Italia nel sec. XIX, vedi B. Migliorini, Storia

della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 725-728.

35 Su questo tipo di formazioni cfr. F. Skoda, Le redoublement expressif: un universal linguistique.

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operai, soldati da ogni parte d’Italia, quasi raddoppiando – dopo lo sposta-mento della capitale nel 1865 – la sua popolazione.

Gli effetti linguistici di tale rapido mutamento della composizione demografica e del tessuto socio-culturale della città non sono stati studiati come avrebbero meritato, anche se già allora molti notarono che il fiorenti-no si era fiorenti-notevolmente allargato e “imbarbarito”36. Ma mentre nei confronti

dei forestierismi e dei neologismi del linguaggio amministrativo e tecnico-scientifico si erano levate le proteste dei puristi, le voci dialettali e le espres-sioni proprie delle varietà regionali, in gran parte già di comune dominio o comunque consonanti col toscano, trovarono strada facile per metter radici e acclimatarsi, tanto da essere scambiate per indigene. Basta scorrere il Vo-cabolario dell’uso toscano (1863) di Fanfani, per rendersi conto che già negli anni precedenti l’Unità non erano affatto poche tali espressioni, sebbene dal lessicografo pistoiese venissero «spacciate per toscane» ai suoi lettori: «se questa o quella frase, proprietà, idiotismo o altro che sia, l’avete anche voi nel vostro dialetto, io nol sapevo; ma ora che me lo dite, tanto meglio, rispondo io: vuol dire che le somiglianze tra dialetto e dialetto son più di quelle che credevo»37. E se dal Fanfani era stato considerato toscano un

meridionali-36 Così scriveva Pietro Fanfani nel 1865 («Il Borghini», III, p. 764): «Firenze dopo il trasporto

è, per la più parte della gente nuova, poco di meglio che una tana da fiere […]; è degna di riso la lingua che vi si parla, o non certo degna di scambiarsi co’ dialetti dell’altre parti d’Italia». E ancora Fanfani e Arlìa nella prefazione al Lessico della corrotta italianità (1877): «Si parli un po’ col popolo fiorentino, e vedrassi come fra mezzo all’oro che gli esce di bocca, vi è di molta ma di molta scoria di forestierume: ed insino alle serve ed alle trecche, le quali pretendono di parlare in punta di forchetta, ti vengono fuori col loro sortire per uscire, con l’a meno che, col croscé, con la chemise, e con altre simili gioje, che è un dispetto e un dolore l’udirle; e basta fare una giratina e guardare i cartelli delle botteghe fiorentine, che sono scritti più in lingua francese che italiana, per avere una certa prova della forza che può far l’uso popolare in questa lingua» (p. xiii).

37 P. Fanfani, Uso toscano, p. xvi. Sull’opera vedi T. Poggi Salani, Il «Vocabolario dell’uso

tosca-no» di Pietro Fanfani [1983], in Ead., Sul crinale. Tra lingua e letteratura. Saggi otto-novecenteschi, Firenze, Cesati, 2000, pp. 19-40: la studiosa ne rileva il carattere «confuso ed eterogeneo» e mette bene in luce l’intreccio delle componenti toscane. Meriterebbe soffermarsi anche su quelle extratoscane o panitaliane, parimenti significative per comprendere il carattere speciale dell’opera. Non si tratta, infatti, di un vero e proprio lessico dialettale ma di un “vocabolario dell’uso”, in certa misura «fratello germano di qualunque altro Vocabolario della lingua italiana», dato che raccoglie anche cospicui nu-clei di voci circolanti, oltre che in Toscana, in altre aree italiane se non in tutta la Penisola: nunu-clei di voci colloquiali, gergali, regionali, specialistiche e anche di veri e propri dialettalismi allora affioranti nel parlar comune. Qui segnalo alcuni termini di chiara origine non toscana, sebbene Fanfani ten-da a considerarli, più o meno inconsapevolmente, come toscani o “attoscanati”: abacchio e abbacchio («Abbacchio si dice su nella Montagna pistojese […]. Abacchio poi lo dicono a Firenze, ed è di uso fra’ conciatori […]. Tal voce poi usasi anche da’ Lucchesi»), abbagattare, abbaino, abbeccè, abbottarsi, abbu-rare, acciaccare, accostarello, ambrogetta, bacocco, baggianata, baggiano, cascina, cassetto, cioce ‘ciabatte’, ciucco, compare, coppa ‘tipo di salume’, formentone, lazzerone, magnano, maritozzo («si fa in Roma […].

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