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Prefazione all'edizione italiana

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Academic year: 2021

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Federico Vercellone Introduzione

Al titolo di questo libro è affidata una tesi molto forte: l’arte è una componente essenziale della prassi umana. Questa proposta ci conduce attraverso tutta la storia dell’arte e la riflessione estetica dall’antichità sino ai giorni nostri. Essa consente di identificare uno spazio simbolico di immense dimensioni circoscrivendolo come un fenomeno relativamente unitario. Questa virtù sintetica, che non comporta tuttavia semplificazioni, è indubbiamente uno dei vantaggi della proposta

squisitamentw teorica affidata a quseto libro. Si tratta, anche per molti altri motivi che si proverà qui a riassumere,di una tesi molto forte e plausibile che ha un’evidente radice antropologica. Per cominciare, vien da dire che l’arte costituisce uno snodo fondamentale per quanto riguarda non solo la capacità ma anche la necessità simbolica dell’essere umano di dotare il mondo non solo di un significato ma anche di un senso. E le due cose non vanno sempre insieme. Si può conoscere il significato di un’espressione che non ha nessun senso, e che dunque allontana il soggetto dal

contatto con il mondo, e si può invece avere a che fare con espressioni simboliche che congiungono significato e senso e forniscono così un contesto positivo alla prassi e alla convivenza umana. In breve il buon senso esiste non per ultimo anche grazie all’arte.

Il contributo fondamentale di questo volume è riposto nella riattivazione di questo motivo del senso dell’arte. Il progetto di una nuova estetica di Bertram prende le mosse proprio da questa necessità impellente di reimmergere l’arte nel contesto della prassi umana dopo due secoli di un’estetica filosofica che ha dato per scontata la sua autonomia. La filosofia dell’arte sulla quale si è fondata la tradizione dell’estetica otto-novecentesca dal romanticismo sino ad Adorno ha in fondo, fatte salve poche eccezioni, costantemente preso in considerazione il continente arte come un continente separato dalla vita. Questo le ha consentito di circoscrivere il proprio campo di indagine

definendolo come il territorio dell’ apparenza e di esercitare su di esso lo sguardo speculativo. Un atteggiamento di questa natura rifletteva per altro la situazione di un’arte che faceva implicitamente proprio quanto era deposto nella concezione kantiana secondo la quale la bellezza suscita un piacere esente da ogni interesse, il cui statuto è squisitamente rappresentativo. Veniva così a delinearsi una sorta di via verso l’autoreferenzialità dell’arte la quale, in quanto destinata al mondo dell’apparenza, produceva istituzioni votate a tutelare la sua delicata autonomia. Dal museo alla sala da concerto si assistette così al sorgere di istituzioni deputate solo all’arte, mentre, in quanto si ha da fare con un universo che non è di questo mondo, il cui carattere di fatticità è quantomeno ambiguo – ecco che l’autoreferenzialità passa dall’oggetto estetico alla sua valutazione. Essa sarà delegata a specialisti dell’apparenza i cui parametri di valutazione sono quanto mai instabili e oscuri in quanto non richiedono, né possono statutariamente farlo, un riscontro da parte del mondo reale. L’arte viene così ad avvitarsi su se stessa, in una zona che sacralizza l’apparenza anche in forza della sua misteriosa opacità. L’arte viene così affidata alle sue vestali e queste ultime determinano i criteri del suo valore facendo così che un orizzonte assiologico possa trasformarsi anche in motivo della valutazione economica. Si va così dall’apparenza al mercato...

Sempre più, in questo contesto, si palesa come evidente la necessità di sospettare di questo statuto estetico dell’arte, di riconnetterla all’insieme delle prassi umane, ridestando così il suo senso profondo. E’ questo il percorso che viene realizzato da Georg Bertram in questo libro in un intenso confronto con alcuni dei più significativi rappresentanti della scena estetica contemporanea nel

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quadro di una ripresa notevolmente feconda del mai sopito dibattito su autonomia ed eteronomia dell’arte. Bertram avvia il percorso prendendo in considerazione la teoria estetica di due tra i più rappresentativi teorici contemporanei, Cristoph Menke e Arthur Danto. E’ un vis à vis che prelude a quello che verrà svolto nel secondo capitolo con le estetiche di Kant e Hegel. D’un lato Menke afferma che l’arte è paradossalmente, per dirla con le parole di Bertram, una «prassi del non-potere», in altri termini una situazione sospesa mentre Danto esalta nel fare artistico l’aspetto contenutistico di derivazione hegeliana. Contro l’autoreferenzialità dell’arte, che pure, come si vedrà, viene riconosciuta nella sua relatività, Bertram afferma che l’arte non è concepibile sulla base di una compiuta autonomia. Secondo Menke l’arte trae invece la propria linfa vitale proprio da una sospensione nei confronti della vita. Afferma Bertram:

«Riassumendo, la filosofia dell’arte di Menke afferma in modo troppo unilaterale la specificità dell’arte. Per questo motivo non riesce a chiarire il valore dell’arte nell’ambito della prassi umana. Questo è dovuto al fatto che l’arte è ridotta a un’esperienza unitaria: a un’esperienza determinata che i soggetti fanno quando si confrontano con opere d’arte o eventi estetici. La specificità dell’esperienza estetica è pertanto conseguentemente considerata come esperienza della

sospensione, cosicché l’esperienza estetica non si lascia includere nel flusso delle esperienze non estetiche. In questo senso esse sono autonome. Il prezzo di questa spiegazione della natura specifica dell’arte è però elevato: la concreta pluralità e la significatività dell’arte sono lasciate fuori. Perciò in questa teoria tutte le concrete espressioni, gli sviluppi e i conflitti che costituiscono la prassi dell’arte non svolgono alcun ruolo»1.

L’autonomia e l’auto-riflessività dell’arte, cui Bertram assegna un rilievo fondamentale, non funzionano a senso unico: sollevandosi dal contesto delle pratiche umane quelle artistiche si pongono nella condizione di modificarle ricongiungendosi così infine a queste ultime. Quella artistica è una prassi immersa nel tessuto delle tradizioni che attraversano il mondo della vita. Come si vedrà, l’interpretazione svolge, nel contesto della riflessione di Bertram, un ruolo fondamentale proprio su questi presupposti. E’ ineluttabile da questo punto di vista riconoscere il carattere critico, pubblico e politico dell’arte. Questo ci avvicina a due grandi autori della tradizione estetica, probabilmente i massimi, ai quali Bertram dedica il secondo capitolo del suo libro mentre, per altro verso, si è al contempo rinviati ai grandi temi dell’arte contemporanea. Vediamo come. Sono in gioco Kant e Hegel. E mettere in campo Kant e Hegel significa mettere in campo, nelle loro radici storiche, autonomia ed eteronomia dell’arte. Si è indotti a un confronto che guarda insieme al carattere essenziale, ontologico e a quello storico, attuale della pratica artistica. Bertram intende superare l’antinomia e la contraddizione tra Kant ed Hegel, tra autonomia ed eteronomia in ragione del fatto che l’arte costituisce un momento di vivificazione delle prassi umana e delle sue forme di vita. Più specificamente, l’arte tematizza momenti essenziali di un determinato mondo. La vivificazione avviene sia su di un piano teoretico sia su di un piano pratico.

Tornando, alla luce di queste premesse, ai due grandi classici dell’estetica moderna se, secondo Kant, le opere d’arte suscitano un’universale vivificazione del nostro essere garantita dalle nostre facoltà conoscitive che funzionano in modo uniforme in tutta l’umanità garantendo così

l’universalità della prassi sociale del gusto, le cose vanno diversamente per Hegel. Con lui si ha da fare con una concezione dell’arte che fa costantemente riferimento al contesto più ampio della vita

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della cultura e delle istituzioni. Il punto per Bertram è quello di intersecare i due momenti quello dell’autonomia dell’arte e quello della sua eteronomia, del suo attraversare, a voler ribadire i termini della questione, forme di vita di cui le pratiche artistiche sono espressioni. Infine Kant e Hegel incrociano, agli occhi di Bertram, i loro cammini. Se per Hegel l’arte deriva da un’autoriflessione che concerne la semantica espressiva delle forme di vita, questo non fa che approfondire il punto di vista kantiano di un’ intersoggettvità del gusto determinato da un uniforme funzionamento delle nostre facoltà conoscitive. Il confronto di Bertram ci conduce così molto vicino alla definizione dei compiti dell’arte contemporanea al di là della modernità estetica votata a un’unidirezionale

autoriflessività dell’arte: l’arte è chiamata a realizzare e dar voce a ai contenuti essenziali di una determinata «forma di vita»2. L’arte è dunque sempre legata ai suoi specifici contesti storico-

culturali e in questo quadro esprime la sua valenza imperitura ben al di là della diagnosi hegeliana circa la “fine dell’arte”. L’aspetto teoretico della intersoggettività che pervade il giudizio sull’arte è inestricabile dalle forme di vita in cui essa si incarna. Questo sfondo finisce per smentire proprio il carattere puro di questa intersoggettività che è sempre immersa in determinati mondi culturali, in un mondo della vita dalla quale il suo esercizio non può mai prescindere. E’ in questa oscillazione feconda e contraddittoria tra l’universalità intersoggettiva, teoretica della valutazione delle opere e il loro essere sempre immerse in contesti vitali che s’inserisce l’analisi di Bertram. Ogni

universalità è relativa, ma non per questo meno universale. Ogni universalità del fare artistico è sempre espressiva, e dunque connessa a un determinato fare che è un progetto. E ogni progetto umano, rammenta Bertram, rifacendosi a Heidegger, è connesso a un margine di indeterminazione che gli è proprio il quale costituisce la peculiare libertà e insieme la conduzione di comunicabilità delle opere. L’universalità del fare umano e dunque delle sue forme è inscindibilmente legato alla sua particolarità, alla sua peculiarità, e questo apre- ai nostri occhi- lo sguardo in direzione

dell’interculturalità, un tema quanto mai fondamentale ai nostri giorni non solo per quanto riguarda le forme della bellezza. Non abbiamo qui a che fare con un relativismo à la Sartwell3, ma con

un’apertura a un reale dialogo interculturale quanto mai importante nel nostro universo lacerato da divisioni culturali che sembrano incontenibili.

Il margine di indeterminazione che connota l’opera d’arte- e qui giungiamo a uno dei punti centrali della considerazione di Bertram - è legato alla sua autoriflessività. La definizione che Bertram dà dell’autoriflessività dell’arte è particolarmente convincente e originale. Essa prende le distanze da un’enfatizzazione dell’autonomia dell’arte moderna debitrice di una tradizione di origine hegeliana che si ripercuote nelle teorie dell’avanguardia, per esempio in quella di Peter Bürger4. L’arte è per

Bertram sempre consegnata a un margine di libertà e indeterminazione che interpretazione mette a profitto. L’autoriflessività dell’arte non costituisce in altri termini un motivo astratto che si inserisce tardivamente, e cioè modernamente, per volgerci a Hegel, nella compagine sensibile dell’opera. Questo ci condurrebbe dritti alla diagnosi hegeliana sulla “fine dell’arte”, sul venir meno del suo antico primato culturale e cultuale nel nostro tempo. Il moderno farsi carico da parte delle opere di motivi riflessivi non dipende, in altri termini, dalla loro tendenza all’astrazione la quale sarebbe hegelianamente consentanea con l’andamento del mondo moderno, un universo che parla il

linguaggio della ragione astratta. La natura autoriflessiva delle opere dipende piuttosto dal fatto che esse sono costitutivamente aperte all’integrazione dell’interpretazione che è parte consustanziale del

2 Cfr. a questo riguardo, da un altro punto di vista, N. Bourriaud, Formes de vie. L’art moderne et l’invention du soi, Paris, De Noël, 2003, 2009 2.

3 Cfr. Sartwell, I sei nomi della bellezza, Torino, Einaudi, 2006.

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loro essere. La possibilità di morire è altresì consustanziale a tutta l’arte che è sempre in procinto di fallire o di riuscire. La testimonianza della sua riuscita o del suo fallimento è connessa per l’appunto alla vita delle sue interpretazioni. Le opere addirittura - aggiungiamo noi- possono letteralmente scomparire dal nostro orizzonte come presenze reali, ma continuare a vivere in una tradizione interpretativa che può anche, paradossalmente, rinnovare l’originale assente come esemplarmente testimoniano i bronzi di Olimpia5. Il motivo dell’interpretazione è del tutto e giustificatamente

centrale nel pensiero di Bertram il quale lo utilizza come perno per definire la relazione dell’arte con la restante prassi umana. Siamo dunque nel quadro di un fecondo rinnovamento della tradizione ermeneutica. L’interpretazione di un’opera la immerge nuovamente nel complesso della prassi umana smentendo così ipso facto un’accezione teoreticistica dell’autoriflessività dell’arte. E’ un tema che apre la prospettiva illustrata da Bertram in direzioni molteplici. Non abbiamo infatti a che fare solo con un’interpretazione colta o tecnicamente competente delle opere, vengono bensì avvalorate anche le risposte irriflesse, come per esempio avviene quando si batte un piede

ascoltando un brano musicale. Si potrebbe aggiungere che emerge in questo contesto anche il valore “atmosferico” delle opere 6. Esso affiora a ben vedere anche semplicemente quando passeggiamo

nel centro storico di una città e ci sentiamo a nostro agio.

Le opere d’arte sono dunque, secondo Bertram, ontologicamente connesse alla loro interpretazione la quale costituisce un vero e proprio motivo di negoziazione dei suoi contenuti che avviene nell’interazione con i suoi fruitori. Grazie a quest’interazione l’opera stessa si implementa. La morte dell’arte non sussiste in questo senso che come elemento costitutivo dell’arte stessa che tramonta per risorgere, come in ben altro contesto ebbe a sottolineare Giovanni Gentile nel suo confronto con Benedetto Croce a proposito della tesi hegeliana7. Le opere d’arte determinano così

da sé ciò che in esse è rilevante esibendo in questo gioco dinamico la loro peculiare soggettività che non ha dunque nulla di magico o misterioso. Esse sono dotate di una costituzione intrinsecamente plurale. Abbiamo cioè a che fare con compagini dinamiche in cui il fruitore è partecipe del gioco inaugurato dall’arte secondo un andamento che colloca, come già si diceva, in un quadro

schiettamente ermeneutico questa estetica. Il fruitore è così interno all’interno all’opera, come ebbe a insegnare a suo tempo Umberto Eco in Opera aperta. Per altro verso ogni opera, non solo quella d’avanguardia, costituisce una provocazione: essa si apre in direzione di un’influente intersezione con l’insieme delle prassi umane. Le opere inoltre riescono o falliscono proprio nella relazione interattiva con il loro fruitore. Per riprendere questa tesi da un altro punto di vista, si potrebbe dire che, in quanto aprono o chiudono nella vicenda della loro ricezione il cammino delle

interpretazioni, le opere abbiano successo o falliscano. In quanto l’interpretazione va intesa essenzialmente, secondo Bertram, come interazione, l’arte è intrinsecamente connessa alla prassi umana in tutte le sue forme.

5 Cfr. Settis, Supremely originality. Classical Art as serial, interative, portable in: ID. S. Settis- A. Anguissola (a cura di),

Serial/Portable Classic. Multiplying Art in Greece and Rome, Milano, Fondazione Prada, 2015.

6 Cfr. Tonino Griffero, Atmosferologia, Roma-Bari, Laterza, 2010; ID., Quasi-cose: la realtà dei setnimenti ù, Milano, Bruno Mondadori, 2013.

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Nell’interpretazione ne va per altro anche della valutazione dell’opera che emerge così nel suo carattere di exemplum. Tutto questo ci rinvia al legame tra l’arte nel suo carattere storico e l’ethos storico di corrispondenza. Veniamo così rinviati alla dimensione pubblica dell’arte e insieme a quella dell’arte pubblica che esalta l’interattività interpretativa. Questa interattività

dell’interpretazione costituisce il cardine di quel radicale rinnovamento dell’estetica di conio ermeneutico che Georg Betram sviluppa in questo libro.

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