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Psicologia dei gruppi ultrà

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e

dell'Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in

Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea in Scienze e Tecniche di Psicologia Clinica e

della Salute

PSICOLOGIA DEI GRUPPI U LTRÀ

CANDIDATO Jacopo Bertoncini

RELATORE Dott. Stefano Carrara

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Indice

Introduzione 5

1. Dall’origine del calcio alla nascita ed allo sviluppo del

movimento ultrà 6

2. Panoramica delle principali teorie psicologiche sul fenomeno 22

3. Analisi degli ultrà come gruppo attraverso le principali teorie

gruppali 50

4

.

Contrasto al fenomeno: legislazione ed interventi psicologici 65

4.1 Interventi di tipo psicologico 65

4.2 Interventi di tipo legislativo 76

Conclusioni 82

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Introduzione

Questo elaborato è nato dal desiderio di unire i miei studi di carattere psicologico con la grande passione per il gioco del calcio. Quindi ho deciso di rivolgere la mia attenzione, nell’ambito del mondo del calcio, al fenomeno degli ultrà: sempre attuale, affascinante ed al tempo stesso controverso, ma poco studiato, soprattutto in campo psicologico. Si inizia parlando dei giochi con la palla antesignani del calcio, praticati fin dall’antichità, si giunge poi alla nascita ed allo sviluppo del gioco del calcio secondo

le regole moderne.

Successivamente viene fatta una ricostruzione storico-sociologica del movimento ultrà, soprattutto italiano, ma visto anche in rapporto ad altre realtà internazionali, in particolare britannica, tedesca e dell’Ex-Jugoslavia, e ad altri sport,

in modo specifico la pallacanestro e l’hockey sul ghiaccio. Parallelamente sono elencati i principali interventi legislativi italiani, promulgati

soprattutto a partire dal 2007, per contrastare il fenomeno della violenza negli stadi. Dopo un breve excursus sul gioco del calcio, segue l’analisi etimologica e la

definizione del termine “ultrà” confrontato con il termine “hooligans”. In seguito si passa ad analizzare le principali teorie psicologiche in grado di spiegare

come mai un individuo sceglie di diventare un ultrà e soprattutto di arrivare a compiere atti violenti. In particolar modo si fa riferimento al lavoro di Alessandro Salvini ed a vari approcci di tipo psicologico che vanno dalle teorie cognitive, a quelle comportamentali, a quelle psicodinamiche, per concludere con quelle

criminologiche. In seguito viene analizzato il movimento ultrà inteso come gruppo. Si comincia

esaminando il fenomeno secondo la teoria psicologica delle folle di Gustave Le Bon, per proseguire con un approccio psicodinamico secondo le teorie di Sigmund Freud e

Wilfred Bion.

Infine vengono proposte delle soluzioni al problema, con riferimento alle leggi in vigore ed ai possibili tipi di intervento, in particolar modo preventivi, da mettere in atto con il contributo della psicologia e l’aiuto di tutte le figure, professionali e non,

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1. Dall’origine del calcio alla nascita ed allo sviluppo del movimento

ultrà

Giochi con la palla simili al calcio, esistevano anche nell’antichità. Tra il III ed il II secolo a.C. in Cina si giocava il tsu-chu nel quale si doveva calciare una palla, riempita con piume e capelli, spingendola tra due canne di bambù: la porta non superava i 30-40 cm di larghezza. Circa 600 anni dopo, in Giappone si giocava il

kemari (tuttora praticato) nel quale l'obiettivo dei giocatori, disposti in cerchio, era

evitare che la palla toccasse terra.

Anche fra i popoli del centro America, Olmechi, Maya, Atzechi, Inca e Taino fin dal XV secolo a.C. era molto diffuso il gioco con la palla. (ad esempio i Maya giocavano alla “Pelota”, gioco carico di significati religiosi, gli Aztechi al Tlachtli ed i Taino praticavano il Batu).

Nella Grecia del IV secolo a.C. si giocava l'”episciro” (dal greco episkyros); ma già Omero (circa metà del sec. VIII a.C.) massimo poeta epico greco, autore dell'Iliade e dell'Odissea, nel libro VI dell’Odissea (vv. 141-145), quando Ulisse arriva all’isola dei Feaci, racconta di Nausicaa figlia del re Antinoo che, consigliata dalla dea Atena, gioca a palla (gioco chiamato “sferomachia”) sulla spiaggia con le proprie ancelle:

“Ma, spento della mensa ogni desio, una palla godean trattar per gioco, deposti prima dalla testa i veli;| ed il canto intonava alle compagne| Nausica bella dalle bianche braccia. |” (Omero, 1974, b, p. 263).

Poi ancora, nel libro VIII (vv. 496-512), descrive con particolari un altro gioco con la palla (l’”urania”) molto gradito al re Alcinoo (Omero, 1974, b).

Nella successiva epoca romana questo prese il nome di “arpasto” (in latino

harpastum), nel quale due fazioni dovevano portare una palla oltre la linea di fondo

avversaria e nel quale prevaleva l'aspetto antagonistico e fisico rispetto a quello puramente agonistico. Il poeta romano Marco Valerio Marziale ( Augusta Bilbilis [Spagna], 1º marzo 38 o 41d.C. – Augusta Bilbilis [Spagna], 104 d. C.), negli “Epigrammi” (2014), racconta che nelle terme e in altri luoghi di svago si giocava il

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“trigon”, a cui partecipavano tre persone, che dopo essersi disposte a triangolo, cercavano di colpirsi gettandosi l’un l’altro una o forse anche più palle.

Nel Medioevo, in Italia, dove venne probabilmente abbozzato il gioco del calcio attuale (anche se con caratteristiche più simili al rugby) si giocava il “calcio in costume” o “fiorentino” (praticato ancora oggi in forma di rievocazione storica). Nelle isole britanniche l’”arpasto”, antenato del calcio, portato dai conquistatori romani, incontrò diverse opposizioni: nel 1314 il podestà di Londra lo dichiarò fuorilegge, durante la Guerra dei cent'anni fu vietato a favore del tiro con l'arco; venne successivamente osteggiato da parte dei Puritani nel XVI secolo che lo consideravano frivolo. Lo sport rimase comunque praticato e non fu mai soppresso del tutto, finché non venne depenalizzato nel 1835 con il cosiddetto Highway Act, che vietò il gioco nelle strade pubbliche, ma lo rese possibile negli spazi chiusi. Il calcio attuale (“football”) nella forma codificata nacque a metà del XIX secolo nei college inglesi, come sport d’élite praticato dagli studenti ricchi. Le diverse scuole britanniche giocavano ognuna secondo le loro regole, spesso basilarmente diverse. Nel 1848, all'Università di Cambridge, H. de Winton e J.C. Thring, proposero ed ottennero di fare una riunione con altri undici rappresentanti delle varie scuole e club inglesi (tra i quali Eton, Harrow, Rugby, Winchester e Shrewsbury) per trovare un punto di incontro. La riunione durò otto ore e produsse un importante risultato: vennero infatti stilate le prime basilari regole del calcio, dette anche “Regole di Cambridge”.

Il 24 ottobre 1857 a Sheffield, Nathaniel Creswick fondò la prima squadra di calcio della storia: lo Sheffield Football Club. Ma il contributo di Creswick al gioco del calcio non si fermò qui: insieme a William Prest scrisse nel 1858 le cosiddette “Regole di Sheffield”, che si andavano ad aggiungere a quelle precedenti e introducevano nel gioco regole importanti come la durata della partita e la divisione della stessa in due tempi. La città di Sheffield può essere considerata a tutti gli effetti la madre del calcio moderno dato che, dopo la fondazione del primo club, nella cittadina inglese si giocò la prima competizione di calcio della storia: la Youdan Cup, vinta dall'Hallam FC, il secondo club di calcio della storia. Pochi anni dopo, il 26 ottobre 1863, a Londra venne fondata la Football Association, prima federazione

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In Italia le prime esperienze con il calcio si ebbero a Genova, Livorno e Palermo, città di mare che avevano costanti contatti con i fondatori inglesi. Anche qui il fenomeno è inizialmente legato alle classi superiori ed alla loro passione per le attività ginniche ed agonistiche.

In Inghilterra la seconda rivoluzione industriale portò alla nascita della classe operaia, alla diminuzione della giornata lavorativa, all’istituzione del weekend, all’innalzamento del tenore di vita ed allo sviluppo, anche tra le classi subalterne, delle attività legate al leisure time (“tempo libero”), tra cui appunto il calcio. In Italia, invece, le differenti condizioni socioeconomiche legarono, per un periodo decisamente più lungo, lo sport alle classi superiori.

Anche con l’avvento del XX secolo le condizioni del proletariato non cambiarono, così l’attività sportiva rimase appannaggio dell’alta borghesia. La natura elitaria del calcio si riflette nel modesto pubblico: appena un centinaio di spettatori a partita. Dal 1910, con i primi incontri internazionali, tra cui la prima partita della Nazionale contro la Francia, si verificò una costante crescita del pubblico calcistico che raggiunse le migliaia e si iniziò ad assistere alle prime manifestazioni di passione: cortei e carovane degli appassionati. Se per lungo tempo gli incontri di calcio si erano inseriti nel contesto urbano senza clamore e senza alterare i ritmi di vita della gente, da allora il gioco cominciò a coinvolgere l’intero ambiente urbano e sociale e ad avere risonanza al di là dell’ambito sportivo. Si iniziò a formare un pubblico calcistico meno elitario, ma pur sempre espressione della classe medie e della piccola borghesia, con l’esclusione delle classi contadine ed operaie.

Negli anni venti, nel primo dopoguerra, vi fu la nascita di quella che viene vista come una vera e propria malattia sociale, il “tifo calcistico”. Il fenomeno non era del tutto nuovo, ma raggiunse una tale intensità da assumere un nome distintivo. Crebbe anche il problema della violenza calcistica, alimentato dalla forte turbolenza che caratterizzò il periodo.

Negli anni Trenta, con i miglioramenti del tenore di vita della classe operaia, il calcio assunse caratteristiche sempre più moderne: giocatori professionisti, società inserite in intricati giochi politici e finanziari, ed infine pubblico di massa che inizia ad organizzare le prime trasferte, diffuse in Inghilterra già da decenni. Per la presenza di

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un regime dittatoriale con forte repressione poliziesca non si segnalarono significativi episodi di violenza sugli spalti.

Con il secondo dopoguerra, la profonda trasformazione che investì il Paese indirizzandolo sulla via dell’industrializzazione, cambiò le coordinate sociali. Negli stadi il pubblico non era più elitario: si passò dalle poche centinaia di spettatori dei primi anni del secolo alle centinaia di migliaia degli anni Cinquanta, delle vere e proprie folle. Il calcio divenne lo sport più popolare, superando il ciclismo.

Le trasformazioni socioeconomiche portarono all’aumento di tempo libero anche nelle classi subalterne: il pubblico quindi risultò composto soprattutto da maschi adulti, di origine operaia e piccolo-borghese, con qualche punta di alta e media borghesia solo nelle maggiori città del Centro-Nord. Inizialmente gli incidenti legati al calcio furono minimi e continuarono a ruotare intorno al fenomeno del campanilismo, ma nel giro di un decennio si ebbe un’escalation di violenza: scontri tra tifoserie avversarie, scontri con la polizia, violenze su arbitri e giocatori avversari. Questi primi episodi di violenza furono gli antesignani dei successivi comportamenti dei gruppi ultrà, i quali nacquero in maniera ufficiale alla fine degli anni sessanta. In realtà già dall’inizio del decennio si erano formati i primi gruppi di tifosi “organizzati”. Fu l’allenatore dell’Inter Helenio Herrera, a sottolineare, supportato dal club, la necessità che vi fosse un gruppo organizzato che seguisse ed incitasse la squadra con continuità. Questa schiera di aficionados (“affezionati”), nati in seno all’Inter, diffusasi presto anche nelle altre squadre, prese il nome di “Fedelissimi”. In questo decennio si assisté sempre più alla professionalizzazione e spettacolarizzazione del calcio, diffuso dalla tv come nessun altro sport. I club calcistici si trasformarono in società per azioni e si costruirono nuovi impianti sull’onda delle Olimpiadi del 1960.

Contemporaneamente si registrò un notevole aumento dei comportamenti violenti negli stadi, alimentati dal clima turbolento provocato dalle lotte studentesche ed operaie del ’68 e dal clima di tensione generato dal terrorismo di matrice politica. In questo clima, che portò a numerosi cambiamenti sociali, nacquero i gruppi ultrà, in origine legati soprattutto ad i movimenti giovanili sia politici che apolitici.

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nato nel 1969 ed ancora attivo con il nome di “Boys-San”. Sempre nel 1969 nacque il primo gruppo ad aver utilizzato la parola “Ultras”, vale a dire i sampdoriani “Ultras Tito Cucchiaroni”, seguiti nello stesso anno dagli “Ultras Granata” di Torino, nel 1973 dagli “Ultras Catanzaro”, nel 1974 dagli “Ultras Spezia” ed “Ultras Chieti”. Si verificò, in quel periodo, un cambiamento negli schemi comportamentali ed aggregativi dei tifosi più giovani ammassati nelle curve. Antonio Roversi (cit. in Marchi, 1994, p. 185) sottolinea come a partire dal 1970:

“Fanno la loro apparizione pistole, lanciarazzi, fumogeni, petardi e botti, strumenti di tifo pressoché sconosciuti sino a quel momento sulle gradinate, e tali da modificarne radicalmente l’aspetto tradizionale. In secondo luogo hanno inizio con una certa frequenza scontri tra le opposte fazioni di tifosi, sia durante che dopo la partita, anch’esso un fenomeno, per le forme che assume, del tutto inedito nel panorama calcistico del dopoguerra. Stanno facendo le prime apparizioni dei gruppi organizzati di giovani tifosi. Sono dei gruppi che mal si adattano al cliché della tifoseria tradizionale, e ciò non tanto perché si caratterizzano come portatori di forme inedite e molto più vistose del tifo – un attributo comunque importante e che si andrà continuamente evolvendo nel corso degli anni successivi – quanto perché tendono a esibire un atteggiamento aggressivo nei confronti degli analoghi gruppi avversari”.

Per Roversi i primi giovani che formarono i gruppi ultrà in Italia, in linea di massima, appartenevano a tre categorie. La prima era quella dei giovani indirizzati alla partita della domenica dai padri, ma che adesso si rendevano autonomi da tale vincolo e preferivano seguire la squadra insieme ai coetanei. La seconda categoria era quella dei gruppi tenuti uniti da un forte senso di appartenenza politica, di estrema destra o sinistra.

Infine vi erano quei giovani, venuti in contatto con gli hooligans inglesi già esistenti da tempo, che si univano, appunto, per assimilazione dai gruppi ultrà inglesi.

Questa è in breve la storia del movimento ultrà all’origine: le elencate caratteristiche di violenza presenti a partire dagli anni ’70 sono quelle più importanti, che sono rimaste nell’immaginario collettivo ed hanno contribuito a formare l’immagine

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dell’ultrà come la conosciamo oggi. Tuttavia la composizione dei gruppi ed altri elementi sono cambiati, vi è stata un’evoluzione del movimento, la violenza è diminuita, grazie anche al lavoro delle istituzioni e delle forze dell’ordine ed anche alla maggior consapevolezza da parte di alcuni ultrà del ruolo negativo degli scontri. Per gli ultrà lo scontro deve avvenire contro altri ultrà o al massimo contro il sistema che cerca di sopraffarli, rappresentato dalle forze di polizia, e da un lato, in questo caso la violenza, seppur da condannare, può apparire al limite più giustificata, o almeno più comprensibile. In passato non erano, però, inconsueti casi di scontri con persone che nulla avevano a che fare con il calcio, ma che semplicemente vi si trovavano in mezzo per il fatto di abitare in una città. Diffusi erano la devastazione delle città di squadre “nemiche”, graffiti sui muri, incendi alle auto, saccheggi negli autogrill, devastazione negli stadi o dei mezzi pubblici, sassaiole contro i pullman dei giocatori avversari.

Oggi di tutto questo è rimasto ancora qualcosa, ma molto poco rispetto al passato. Da un lato, come già detto, grazie al lavoro di repressione e di contenimento da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine che hanno anche svolto e svolgono un lavoro continuo di mediazione con i vari gruppi ultrà, mediazione fatta di piccole concessioni e scontri consentiti con altri gruppi, in cambio del risparmio della città. Da un altro lato va sottolineato il miglioramento degli stessi gruppi dettato da una maggior consapevolezza e senso di responsabilità: gli ultrà che si sono sempre definiti come paladini di una squadra e della città che rappresentano, schiacciati dalla repressione ed evitati dagli altri semplici cittadini, hanno capito che per sopravvivere devono avere un altro comportamento, più consono alle norme della civile convivenza. Va sottolineato che vi può essere stato anche un cambiamento dettato da un movimento che è sempre in continua evoluzione ed è migliorato comprendendo gli errori del passato, ma anche spinto da un cambiamento della società rispetto a quella dell’origine: oggi la violenza è sempre più condannata, mentre negli anni ’70 e ’80 essa era parzialmente giustificata e legittimata da ferventi movimenti di controcultura, ed addirittura politici, alcuni dei quali spintisi fino al fiancheggiamento del terrorismo.

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Italiana Calciatori, è quello delle minacce e delle intimidazioni rivolte dagli ultrà ai calciatori della propria squadra, in seguito a risultati e prestazioni particolarmente negative (Cucuzza, 2017).

Infine la nota più dolente del movimento riguarda gli eventi che hanno portato alla morte o di un ultrà o di un poliziotto o di un semplice cittadino.

Questi avvenimenti hanno sicuramente scosso tutta l’opinione pubblica nazionale e mondiale e le istituzioni che hanno reagito fermamente, ma anche gli ultrà stessi, i quali hanno sempre voluto la violenza e gli scontri, ma mai la morte: per esempio una regola non scritta della maggioranza degli ultrà è quella di non infierire su un avversario a terra. Un'altra regola è quella di non portare né coltelli né pistole, regola spesso violata da molti e che ha provocato molti danni ed imprevisti. Il tipico armamento degli ultrà è costituito da spranghe di ferro, sassi, viti, bulloni, bastoni di legno e mazze da baseball, in pochi usano anche bombe carta artigianali.

Con queste osservazioni non voglio dire che la violenza sia scomparsa, basti pensare al tifoso napoletano ucciso il giorno della finale di Coppa Italia 2014, anzi è sempre presente e va ancora combattuta, ma sono lontani gli anni ’70 e ’80 in cui essa dilagava e sembrava inarrestabile.

Per sottolineare l’evoluzione comportamentale del movimento ultrà vorrei citare il patto di non aggressione ancora in vigore, tra le tifoserie di Inter e Milan stipulato, in seguito ad anni di violenti scontri, al Mundialito del 1983, patto che, insieme alle prime diffide da parte della polizia, spostò l'attenzione delle curve verso un aspetto di maggior interesse: le coreografie. Le coreografie sono diventate una caratteristica del derby di Milano in cui le opposte fazioni si sfidano a chi realizza quella più bella. Ci sono dietro mesi di lavoro e sono un momento genuino e di alta spettacolarizzazione dell’evento calcistico, tanto è che ne parlano giornali e televisioni di tutto il mondo. L’avvenimento, però, fondamentale per la vera e propria reazione delle istituzioni, è stata, purtroppo, la morte dell’ispettore capo della Polizia di Stato Filippo Raciti, avvenuta il 2 febbraio 2007 durante gli scontri tra ultrà per il derby Catania-Palermo. La reazione del governo fu ferma ed immediata: in una sola settimana venne varato il decreto legge n. 8, precisamente l’8 febbraio 2007, trasformato poi in legge n. 41 il 12 aprile (legge Amato), che rivedeva il precedente decreto Pisanu del 6 giugno 2005.

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La legge introdusse “misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche, nonché norme a sostegno della diffusione dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni sportive.” Da segnalare la chiusura degli impianti non a norma di sicurezza, l’inasprimento del Daspo (da D.A.SPO., acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive), introdotto già dal 1989 (legge 13 dicembre 1989, n. 401), il divieto di vendita da parte delle società di biglietti a soggetti condannati, anche in via non definitiva, per reati commessi in occasione di manifestazioni sportive, aumento delle pene per chi commette reati, abolizione dei finanziamenti dei club ai gruppi ultrà, compresa la cessione a prezzo agevolato o gratuito dei biglietti, divieto di introdurre fumogeni, bengala e petardi, divieto di introdurre megafoni o tamburi, divieto di introdurre striscioni offensivi (per i restanti striscioni è necessaria l’autorizzazione della questura), per introdurre bandiere è necessaria l’autorizzazione della questura e l’asta deve essere cava ed ispezionabile all’interno. Non possono essere accettate aste con il fondo chiuso e non apribile.

Alla precedente legge va aggiunto il decreto Maroni del 15 agosto 2009 che introdusse la tessera del tifoso. Tale tessera è uno strumento di fidelizzazione adottato dalle società che è utilizzata dai tifosi per seguire la propria squadra in trasferta ed entrare nei settori dello stadio riservato agli ospiti, per caricarvi l’abbonamento, ma può servire anche per snellire il controllo dei documenti ai varchi, o dalle società stesse per incrementare il merchandising. Spesso ai possessori vengono riservati un paio di giorni nei quali hanno diritto alla prelazione sui biglietti di un evento. Seppur la tessera possa aver portato dei vantaggi ai tifosi, il compito fondamentale della stessa è quello di permette di stabilire la categoria degli spettatori ufficiali, garantire più sicurezza, perché esclude i soggetti sottoposti a Daspo o a condanne per reati da stadio.

Per questo motivo la tessera è stata aspramente critica dal mondo degli ultrà, rappresentati dall'avvocato Lorenzo Contucci, il quale sostiene che “è l'anticamera della carta sui diritti civili, un provvedimento da Ventennio” (La Tessera del Tifoso e

i diritti civili, 2009).

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In particolare gli ultrà contestano l’articolo 9 della legge del 2007, il quale impedisce alle società di vendere biglietti a soggetti che hanno ricevuto un Daspo (anche già scontato), o condanne (anche non definitive) per reati da stadio. In pratica ciò corrisponde ad una squalifica a vita. Nel nostro ordinamento costituzionale, però, non esiste la diffida per tutta la vita. Per questo l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive ha circoscritto l’articolo solo a chi sta scontando un Daspo od una condanna, e per chi ha ricevuto un Daspo od una condanna negli ultimi 5 anni. Tuttavia, è evidente una contraddizione nel sistema legislativo e l’articolo può sempre essere interpretato alla lettera in qualunque momento.

Per quanto riguarda il divieto di tamburi e megafoni, negli anni, ci sono state numerose petizioni, anche da parte di non ultrà, per la loro reintroduzione, dal momento che vengono percepiti non come strumenti pericolosi, ma come mezzi utilizzati per fornire un tifo più caloroso e partecipe alla propria squadra; servono solo a creare atmosfera, tanto è che sono da sempre autorizzati in altri stadi del mondo, tra cui la Germania.

In questo senso la questura di Milano per il derby del 23 novembre 2014 ha concesso con un’autorizzazione l’uso di tamburi allo stadio.

Una definitiva apertura a livello nazionale è finalmente arrivata con il Protocollo d’intesa firmato dai vari organi calcistici italiani e dal Ministero dell’Interno il 04 agosto 2017, che ha concesso, a partire dalla stagione 2017/2018, la reintroduzione negli stadi di tamburi e megafoni quali strumenti acustici, dopo previa autorizzazione del questore.

Sempre grazie alla legge del 1989 sono vietati negli stadi petardi, torce e fumogeni, anche se fino ai fatti di Catania sono stati tollerati.

Per quanto riguarda l’alcol, il cui smoderato uso è diffuso tra gli ultrà e che può causare un’ulteriore diminuzione dei freni inibitori, la sua vendita all’interno ed all’immediato esterno degli stadi è generalmente proibita non da una legge nazionale, ma da un’ordinanza dei sindaci che possono vietarne la vendita alle manifestazioni sportive in caso si evidenzi una situazione di concreto pericolo.

Dall'analisi di Carlo Ambra, attuale capo della DIGOS di Catania (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali), intervenuto su Adnkronos, ai nostri giorni, nelle serie professionistiche italiane, risultano attivi 388 gruppi ultras,

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composti da 41.120 individui. (Quasi 400 gruppi ultras, 45 estrema destra. Ecco la

galassia della tifoseria in curva, 2013).

Un caso unico nel panorama calcistica italiano è rappresentato invece dal Chievo Verona, compagine di Serie A. La maggior parte della tifoseria clivense, infatti, rifugge la mentalità ultrà tipica del resto d’Italia. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che il Chievo solo a partire dagli anni ’90 (prima promozione in Serie B nel ’94, prima promozione in Serie A nel 2001) si è affacciato sul panorama calcistico nazionale, mentre prima veniva considerata ancora una squadra di quartiere, in

confronto al ben più blasonato Hellas Verona, prima squadra della città. Il principale gruppo della tifoseria del Chievo è infatti il “North Side”, letteralmente

“Settore Nord”, adottato per distinguersi dai tifosi dell’opposta fazione cittadina del Verona, che occupano invece il settore Sud dello stadio: il gruppo nato solo nel ’94 con la promozione in B non è da considerarsi come un gruppo ultrà, ma come un’aggregazione di semplici sostenitori. Per questo, da una scissione del “North Side”, nel 2013 è nato il “Gate 7”, gruppo in antitesi rispetto al resto della curva e caratterizzato da una spiccata mentalità ultrà. Questo gruppo, però, composto soltanto da una decina di unità, è malvisto dal resto della curva e dalla società stessa,

che invece intrattiene ottimi rapporti con il resto dei gruppi di tifosi. Oltre a quello italiano e britannico, altri movimenti ultrà europei degni di nota e saliti

drammaticamente agli onori della cronaca negli ultimi anni (anche se il fenomeno è diffuso un po’ ovunque in Europa) sono quelli: russo, greco, polacco, ucraino,

olandese e dell’area dell’Ex-Jugoslavia. Allargando gli orizzonti del movimento al di fuori dell’Europa (ricordiamo in Europa

centro-meridionale si parla di ultrà, nell’area britannica-olandese si parla di hooligans), il fenomeno ultrà è diffuso ad esempio in Turchia (i più caldi sono quelli delle squadre di Istanbul) e spostandosi ancora più lontano in Argentina (qui i gruppi vengono definiti barra bravas) ed in Brasile (qui vengono chiamati torcidas

organizadas).

Rimanendo invece nel nostro Continente, ma volgendo lo sguardo ad un altro sport,

troviamo gruppi ultrà anche nella pallacanestro. In Italia i primi gruppi si sono sviluppati dopo quelli del calcio, negli anni ’70-’80: il

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ancora oggi attivo. Nel basket come nel calcio vi sono stati molti scontri e conseguenti repressioni

attuate dalle forze dell’ordine, ma sicuramente il fenomeno è meno noto rispetto a quello del calcio, in primis per la diversa risonanza mediatica dei due sport, in secondo per la diversa portata del fenomeno, più numeroso nel calcio che nel basket; per questi motivi il fenomeno nella pallacanestro è stato contenuto in maniera migliore. Il fenomeno ultrà nel basket, come nel calcio, si è diffuso un po’ in tutta l’Europa centro-meridionale, non solo in Italia; tifoserie particolarmente note sono quelle del Panathinaikos Atene in Grecia, del Partizan e della Stella Rossa in Serbia. A pochi

passi dall’Europa è giusto menzionare i tifosi turchi del Fenerbahçe. Un confronto è doveroso con il sistema sportivo statunitense, dove i numerosi sport

di squadra diffusi (football americano, baseball, basket, calcio) sono seguiti

costantemente da un gran numero di tifosi, estranei però alla mentalità ultrà. Un caso particolare (cfr. infra) è il caso dell’hockey sul ghiaccio in cui anche negli

Stati Uniti e Canada si verificano frequenti scontri tra giocatori stessi, e tra tifosi

avversari, anche se non si può parlare di gruppi ultrà. “Sono andato a vedere una rissa, e ne è venuta fuori una partita di hockey su

ghiaccio”. (Woody Allen, n.d.). Importante sottolineare il legame tra ultrà e politica. Molti gruppi ultrà sono sorti alla

fine degli anni ’60 e nei primi anni ’70, un periodo in cui molti giovani partecipavano attivamente alla vita politica. Molte curve infatti hanno assunto fin da allora una precisa connotazione politica, incentrata quasi sempre all’estremismo, di

destra o di sinistra. Non era sporadico vedere comparire nelle curve simboli politici come croci celtiche,

svastiche, o immagini del Che Guevara, o sentire risuonare cori che inneggiavano al razzismo e all’antisemitismo. Le autorità hanno reagito vietando i cori e vietando la riproduzione di qualsiasi messaggio politico su striscioni, bandiere e magliette (legge

8 aprile 2007, n. 41). Grazie alle leggi promulgate o più probabilmente ad un’evoluzione del movimento,

dovuta al cambiamento dei tempi ed all’idea diffusa che prima di ogni cosa venga la fede calcistica e non l’idea politica o il ceto sociale, la maggior parte delle tifoserie si

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definisce apolitica. Ciò è confermato dal Rapporto annuale 2003 dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, realizzato dalla Polizia di Stato analizzando la stagione calcistica 2002-2003. L'elaborato prende in esame 128 squadre tra Serie A, Serie B, Serie C1 e Serie C2 arrivando a decretare che 27 tifoserie sono orientate verso posizioni politiche di destra (ad esempio quella della Lazio) e 15 di sinistra (ad esempio quella del Livorno). Sette curve risultano invece composte, anche se con percentuali differenti, da frange di orientamento diverso (ad esempio quella del

Milan). Le restanti 79 tifoserie vengono definite apolitiche. Tuttavia, il caso degli adesivi antisemiti di Anna Frank con la maglia della Roma

affissi in curva sud (di solito riservata ai tifosi romanisti) dagli “Irriducibili” della Lazio, domenica 22 ottobre 2017 nella gara contro il Cagliari, fa emergere come il

legame tra ultrà e politica sia ancora molto attuale. Un caso particolare di tifo e politica è quanto è avvenuto in Germania Ovest a partire

dagli anni ’80, in seguito a quella che venne definita una vera e propria “invasione

turca”: nel 1982 infatti vi erano in Germania Ovest un milione e mezzo di turchi. Il giovane leader di estrema destra Michael Kühnen, ex ufficiale dell’esercito e

fondatore del gruppo neonazista “Fronte d’azione nazional-socialista”, iniziò fin da subito a fare proseliti tra i ragazzi delle curve facendo leva sulla “coscienza tedesca”

e sulla difesa della Nazione dai “nemici”. Nacquero così gruppi estremisti un po’ in tutte le grandi squadre del Paese, si

diffusero gli slogan razzisti e antisemiti, con esplosione di risse e di attacchi agli

immigrati turchi.

Ad oggi è difficile valutare con esattezza la portata del fenomeno, anche perché gli ultrà neonazisti in Germania sono sempre stati una minoranza e tenuti sotto controllo dalle istituzioni; è accertato però come l’ideologia neonazista abbia messo profonde

radici in alcuni settori del tifo giovanile tedesco. (Roversi, 1994). Ben peggiore, in ogni caso, è stata la situazione dell’Ex-Jugoslavia. Anche in questo

caso siamo di fronte ad una forte contaminazione tra tifo calcistico e politica. La politicizzazione dei tifosi è stata però resa più drammatica dalla conseguente partecipazione di questi tifosi alle varie fasi della guerra che ha insanguinato queste regioni negli anni ’90 del secolo scorso.

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Il primo passo è stato compiuto quando i gruppi ultrà delle principali squadre slave si sono schierati, all’inizio della crisi balcanica, per le principali forze di estrema destra presenti nelle rispettive Repubbliche.

Il risultato di questa contaminazione è stato disastroso: sappiamo tutti le vicende relative ai crimini di guerra ed alla “pulizia etnica” nell’Ex-Jugoslavia.

“Si potrebbe dire che il tifo calcistico violento sia stato in Jugoslavia la via più idonea per realizzare il trasferimento di tensioni e frustrazioni massicce sempre crescenti, prodotte dalla crisi, dal piano sociale al piano nazionale ed etnico, fissandosi peraltro esclusivamente, in modo naturale e molto forte, proprio su gruppi nazionali ed etnici specifici e prescelti. Appunto per questo, certi incontri di calcio hanno assunto le caratteristiche di veri scontri nazionali ed etnici. Perciò fare il tifo per una determinata squadra è diventato il modo di affermare la propria nazionalità e appartenenza nazionale e di confrontarsi con la nazione considerata storicamente nemica…” (Marchi, 1994, p. 40).

Il tifo calcistico perciò è servito come mezzo per rafforzare la xenofobia, le divisioni etniche ed il nazionalismo estremo.

Per quanto riguarda i giorni nostri, da alcune interviste ad ultrà, emerge una nuova consuetudine presente nei gruppi, quella di uscire dal contesto dello stadio e riversarsi nelle proteste di piazza.

In un’intervista pubblicata su Repubblica del 6 maggio 2014, un ventiseienne ultrà bergamasco dichiara:

“Oggi si va dappertutto. Ci sono manifestazioni che come disordini valgono dieci partite. Se ci sono incidenti lo sai prima. E vai. Io sono nato col calcio. Mi piace lo stadio, la rivalità tra gruppi. Ma negli ultimi anni ho partecipato a decine di cortei perché sapevo che c'era casino. Dagli “Indignati” ai “Senza casa” ai “Forconi” alle proteste studentesche. E i “No-Tav”. L'anno scorso ero in Val di Susa ogni fine settimana. Dove ci sono scontri ci sono anche gli ultrà. Fanno da supporto”.

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E ancora in un altro passaggio afferma:

“Abbiamo alzato il tiro. Siamo usciti dal perimetro dello stadio. Lo Stato aveva deciso di eliminarci con la repressione. Avevamo detto che non ci saremmo arresi e infatti molte tifoserie la tessera del tifoso l'hanno boicottata […] Lo Stato adesso ci ritrova nelle piazze. I napoletani a Chiaiano per l'inceneritore, quelli del Nord a Torino coi “Forconi” o in Val di Susa, romani fiorentini e livornesi a Roma coi ‘Senza casa’. Voi li chiamate ‘black bloc’, ma sono ultrà […] Al vero ultrà della politica non gliene frega niente […]

Comunque più lo Stato alza il livello della repressione e più le curve alzano il livello della violenza. Vediamo chi vince” (Berizzi, 2014).

Da queste parole si può vedere una delle nuove direzioni che sembra aver preso il fenomeno ultrà e come esso abbia ancora di più allargato i propri orizzonti fino a arrivare ai “black bloc”.

La motivazione pare essere quelle insita in ogni ultrà, ovvero la ribellione ai poteri forti, lo scontro, l’affermazione violenta della propria identità. Si può intuire perciò come l’ultrà sia assimilabile sempre di più ad un teppista vero e proprio.

Infatti il termine inglese “hooligans” tradotto in italiano significa “teppismo” (ricordiamo, che pur con le dovute differenze, gli hooligans sono la controparte britannico-olandese degli ultrà).

Prendendo spunto dalle parole di Emanuel Gluskin (2012, 2014) che si è occupato di teppismo il comportamento degli ultrà, non solo nell’ultimo caso dell’intervista, ma anche più in generale, può essere visto come puro “teppismo per teppismo”, come violenza senza alcun profitto visibile.

Gluskin individua come causa del teppismo la società stessa, ovvero, ad essere precisi, lo “stress” causato dalla società. Per stress intende “stress intellettuale” (intellectual overstress), inteso come sovraccarico, come disordine o disturbo mentale. Secondo Gluskin bisogna impedire a questo “stress” di crescere, perché “l'assenza di un ordine intellettuale necessario nel genere umano, può causare un illimitato (a seconda dell'energia che può essere coinvolta) disturbo fisico nella

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Possiamo quindi utilizzare, anche se a mio avviso con un po’ di forzatura, tale teoria per il mondo ultrà: l’aumento dello “stress” nella società può portare più facilmente alla formazione e alla preservazione di un gruppo di individui con disturbi psicopatologici, o comunque più predisposti alla violenza, che andrà poi a rinforzare il movimento ultrà.

Per quanto riguarda il teppismo ed il vandalismo, a cui il fenomeno ultrà può essere accostato, vorrei sottolineare la “teoria delle finestre rotte” (broken windows theory), formulata nel 1982 dai sociologi James Q.Wilson e George Kelling (che ripresero un esperimento condotto nel 1969 da Philip Zimbardo, professore dell’Università di Stanford), e così denominata, perché prevede che le persone, vedendo una finestra rotta che non viene riparata, si abituino ad un'idea di deterioramento, di disinteresse e mancanza di regole che stimola le attività criminali.

Questa teoria criminologica infatti afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi ed altri microcrimini contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce e il rischio di crimini più gravi.

La “teoria delle finestre rotte” è alla base della politica di “tolleranza zero” applicata dal 1994 al 2001, con risultati contrastanti (la criminalità è effettivamente diminuita, ma non venivano tutelati i diritti umani ed inoltre i costi per i risarcimenti danni e la spesa pubblica sono stati elevati), da Rudolph Giuliani durante il suo trascorso come sindaco di New York.

Collegando la teoria al nostro tema si evince subito come gli ultrà, equiparabili a dei vandali, sono sospinti a commettere piccoli reati, come imbrattare con scritte ad esempio l’esterno di uno stadio o un semplice muretto, rompere od incendiare un seggiolino dello stadio, a causa del degrado in cui si trovano molte arene italiane non solo all’interno, ma anche all’esterno.

Se vi è una scritta che deturpa un ambiente andrebbe prontamente rimossa, così come se vi è un seggiolino rotto, va prontamente sostituito con uno nuovo, in modo da scoraggiare e prevenire futuri crimini.

Gli stadi italiani e le loro aree esterne sono vecchi, degradati ed inadatti ad ospitare un evento sportivo moderno. Il confronto con altri stadi d’Europa, ad esempio

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inglesi, ma non solo, a parte alcuni casi (Stadio Giuseppe Meazza, Juventus Stadium, Dacia Arena - Stadio Friuli e Mapei Stadium - Citta del Tricolore) è impietoso. Occorre riqualificare gli stadi o costruirne di nuovi, fornendo maggiori servizi ed una miglior visuale al pubblico, in maniera che sia più coinvolto nello spettacolo e si diverta maggiormente ed acquisisca maggior rispetto dell’ambiente – stadio, in maniera da evitare comportamenti inadeguati. È necessario inoltre occuparsi non solo degli stadi in sé e per sé, ma anche delle loro aree esterne, spesso abbandonate a loro stesse.

In questo senso qualcosa in Italia si sta muovendo, c’è chi ha costruito un nuovo stadio (l’Udinese), chi ha in progetto di farlo (Cagliari), chi lo sta ristrutturando (Atalanta) o chi ha in progetto di farlo (Bologna) e chi ha riqualificato l’area circostante con un centro ludico-commerciale (Sassuolo).

Il problema delle strutture per le manifestazioni calcistiche è una questione quasi del tutto italiana, all’estero infatti ogni Nazione è ormai dotata di stadi avveniristici. È bene sottolineare come la risoluzione di questo problema non porterà all’estinzione del fenomeno, all’estero infatti non è avvenuto, ma sicuramente lo riduce e lo controlla e può far nascere una consapevolezza ed un rispetto comune verso le strutture che può essere fondamentale per risolvere il problema della violenza.

Questo è uno punto su cui le società e le nostre istituzioni negli ultimi anni stanno insistendo molto.

Per concludere con la teoria delle finestre rotte, riteniamo che quelli elencati siano spunti che ben si ricollegano ad essa.

A proposito invece della “tolleranza zero”, riteniamo che una sua forma sia stata applicata dalle istituzioni a partire dal febbraio del 2007 a seguito dell’uccisione del commissario Filippo Raciti, con tutti i provvedimenti che ne sono seguiti (cfr. infra). (L’applicazione fattane da Rudolph Giuliani, in un contesto ambientale e legislativo del tutto diverso come la città di New York, esula dal tema di questa tesi).

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2. Panoramica delle principali teorie psicologiche sul fenomeno

Prima di parlare degli ultrà è necessario parlare del calcio. Il calcio è uno sport di squadra, praticato con un pallone sferico all'interno di un campo di gioco rettangolare con due porte, da due squadre composte da 11 giocatori. Il gioco è regolamentato da una serie di norme codificate e il suo obiettivo è quello di segnare più punti (detti gol, adattamento dell’inglese “goal” che significa “meta”, “scopo”, “traguardo”) della squadra avversaria, facendo passare il pallone fra i pali della porta rivale, difesa da un giocatore, che riveste il ruolo di portiere.

Il gioco è semplice quasi infantile, ma se andate allo stadio di domenica vedrete una folla di persone unita appassionatamente, con l’emozione alle stelle, a vedere persone che calciano la palla qua e là. L’interrogativo quindi è: ma perché questo gioco suscita tali sensazioni?

Per rispondere è possibile ricorrere al pensiero di Desmond Morris, famoso etologo e zoologo autore del saggio La tribù del calcio (1981) in cui spiega il comportamento aberrante e violento delle tifoserie inglesi e non. Secondo Morris per rispondere alla nostra domanda dobbiamo tornare agli albori del genere umano, quando eravamo un popolo di raccoglitori-cacciatori. I maschi dovevano diventare abili cacciatori per garantire la sopravvivenza della specie, ma oggi la caccia è stata soppiantata in quasi tutto il mondo dagli sport con la palla. Secondo D. Morris il passaggio è stato dalla caccia per la sopravvivenza, agli sport sanguinari ed infine agli sport con la palla, tra cui appunto il calcio. Gli sport con la palla moderni non implicano l’uccisione di un animale, infatti la vittima è simbolica (p. 16):

“È la porta che viene presa di mira, come il cacciatore primordiale prendeva la mira con la propria arma, ora si mira con la palla da calcio, e quando entra in porta allora la preda è stata uccisa in maniera simbolica.”

Questa forma simbolica di caccia non ha preso forma solamente in Europa, ma in tutto il mondo. La FIFA (Fédération Internationaile de Football Association) oggi ha più membri delle Nazioni Unite (per l’esattezza, al 2017, sono 211 membri per la

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FIFA e 193 per l’ONU); il calcio è un fenomeno globale, perché riattiva l’impulso primordiale della caccia e lo fa in modo incruento.

Nel mio elaborato viene utilizzato il termine ultrà indipendentemente che si riferisca ad un termine singolare o plurale, dal momento che il termine di origine straniera è ormai acquisito stabilmente nella lingua italiana e quindi lo si deve lasciare invariato secondo una regola ortografica della lingua italiana, senza dover aggiungere una “s” finale per il plurale. È da sottolineare, comunque, come i nomi di alcuni gruppi ultrà italiani presentino al loro interno la dicitura “ultras” (esempio i sampdoriani “Ultras Tito Cucchiaroni”), probabilmente perché alla nascita dei gruppi ultrà il termine non era ancora stato acquisito dalla lingua italiana e quindi fu utilizzato il termine “ultras”, rimasto poi invariato.

Il termine “ultrà” deriva dal francese ultra-royaliste, cioè “ultra-realista” (dal latino “ultra”, ovvero “oltre”), che indicava la forza politica dominante al tempo della Seconda Restaurazione (1815-1830).

Gli “ultras” rappresentavano gli esponenti più radicali della destra estrema, ed ancora oggi, in Francia, il termine viene usato per indicare chi esprime le proprie idee con modi eccessivamente bruschi.

Nel calcio, invece, gli ultrà identificano i tifosi estremi, gli “irriducibili”, sono organizzati in gruppi e spesso sono politicamente schierati. Il termine “ultrà” è stato usato per la prima volta da televisioni e giornali italiani a partire dagli anni ’60, in corrispondenza, appunto, della nascita del tifo organizzato, composto soprattutto da giovanissimi (dai 15 ai 20 anni).

In realtà il tifo ha origine antichissima: già alle Olimpiadi dell’Antica Grecia esisteva tale pratica che poi si è evoluta con il passare dei secoli. La parola “tifo” infatti ha origine dal greco typhos che significa “vapore”, “ardore” a sua volta derivato dalla radice sanscrita dhu- che significa “agitare”. Per cui, nel linguaggio comune, il termine “tifo” rappresenta una condizione psico-emotiva di agitazione, di ardore, come se la ragione del tifoso fosse momentaneamente offuscata da un impeto fanatico.

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“…così Odisseo (gli) correva vicino, calpestandone| le orme coi piedi prima che attorno la polvere si alzasse (da esse);| gli soffiava sul capo il divino Odisseo| correndo sempre con furia; e tutti gli Achei gridavano| per lui desideroso di vittoria, molto incitandolo mentre accelerava.| Ma quando ormai correvano l’ultimo tratto, allora Odisseo| invocò, nel suo cuore, Atena dagli occhi di civetta:| “Ascoltami, o Dea, vieni benevola e soccorri i miei piedi”.| Così diceva pregando; lo ascoltò Pallade Atena,| rese leggere le ginocchia, i piedi, e, più in alto, le mani.| Ma quando stavano per finire la gara,| Aiace correndo scivolò- infatti lo danneggiò Atena-| lì dove era ammucchiato del letame di buoi altomuggenti,| sacrificati dal piè veloce Achille in onore di Patroclo;| e la bocca e le narici si riempirono di sterco bovino;| il divino Odisseo, che molto sopporta, alzò allora in alto il cratere,| così era giunto primo; e il famoso Aiace prese il bue”.|

I mass media, ma anche molti studiosi, usano in maniera equivalente il termine “ultrà” e quello inglese “hooligans” (derivante dallo slang irlandese hooley che significa “festa sregolata”): in realtà, per essere corretti, “ultrà” è da riferirsi ad un fenomeno dell’Europa centro-meridionale (compresa l’Italia), mentre “hooligans” ad un fenomeno britannico ed olandese.

La prima differenza tra ultrà e hooligans sta nella organizzazione dei primi contrapposta allo spontaneismo e alla maggior violenza, anche fuori dal campo, dei secondi, seppur anche i primi non siano per nulla esenti da comportamenti violenti. Gli hooligans come gli ultrà riconoscono dei capi, dei leader, ma non hanno un’organizzazione vera e propria. Gli ultrà si riuniscono prima delle partite per dividersi i compiti e prepararsi al tifo della partita. Allo stadio il loro leader si posiziona al centro del settore occupato, la “curva”, e coordina, come un direttore d’orchestra, i cori dei propri compagni. Questa maggiore organizzazione degli ultrà rispetto agli hooligans fa sì che le coreografie con cartelloni e striscioni siano tipiche solamente dell’Europa centro-meridionale. Gli ultrà in più utilizzano sciarpe e bandiere con aste, mentre gli hooligans soltanto le prime. Utilizzati dagli ultras, non dagli hooligans, ma poi proibiti in Italia (decreto legge 8 febbraio 2007, n. 8, trasformato poi in legge 8 aprile 2007, n.41, legge Amato) e successivamente

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reintrodotti (Protocollo d’intesa del 04 agosto 2017), insieme ad i megafoni sono anche i tamburi.

Infine un’altra differenza fondamentale è che gli hooligans sono un fenomeno puramente maschile, mentre gli ultrà, anche se a larga maggioranza maschile, possono ospitare al loro interno delle donne.

Le differenze sono chiare, ma spesso questi termini vengono usati, anche dagli esperti, in maniera intercambiabile, perché stanno comunque ad indicare una forma di tifo estremo e a tratti incomprensibile ai più.

Gli ultrà sono quei tifosi che seguono in maniera viscerale e costante la propria squadra, sono affiliati ad un gruppo organizzato e sono caratterizzati da un forte senso di appartenenza quotidiano alla squadra ed al proprio gruppo che trova il suo culmine nell’evento sportivo. Gli ultrà desiderano che la loro squadra vinca ogni volta, credono che si possa sempre vincere e per questo non smettono mai di supportare la squadra, ritenendo di poter influenzare l’esito dell’incontro. Secondo loro la vittoria è sempre dei tifosi, perché i tifosi restano, mentre i giocatori se ne vanno.

La propria squadra di calcio rappresenta per un ultrà una forma di identità: rappresenta la sua città, la sua cultura, il suo sistema di valori, in Italia e nel mondo. Essi ultrà si differenziano dai semplici tifosi per il fatto che il tifoso va allo stadio per la partita e finita la partita se ne torna a casa, mentre l’ultrà vive ogni momento della giornata in funzione della squadra: la segue dappertutto, in casa ed in trasferta, anche all’estero, e partecipa agli incontri che si fanno in settimana con il resto del collettivo. A ciò va aggiunto un comportamento molte volte violento. I tifosi semplici vengono indicati in inglese con il termine “supporters” oppure “fan”. “Fan” deriva dal latino fanaticum termine latino della sfera religiosa di accezione negativa che stava a significare “invasato da estro divino”. Nell’ambito sportivo però bisogna fare distinzione tra “fan” e “fanatico”. Entrambi hanno in comune un interesse predominante su uno sport o su un soggetto, ma, mentre il comportamento del fanatico, quindi dell’ultrà, viola le convenzioni sociali prevalenti, quello di un fan non viola solitamente queste norme. Questo excursus etimologico è utile per far capire il perché lo sport, ed in particolare il calcio, che è il più popolare, sia così

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appassionante: gli atleti vengono visti come eroi, come idoli da idolatrare, da qui il legame con l’origine del termine.

In Inghilterra il termine “fan” ha origine nel XVII secolo come abbreviazione di

fanatic con sfumature religiose. Fanatics infatti erano agli occhi della Chiesa

anglicana i dissidenti protestanti.

Il significato moderno del termine nasce invece nel giornalismo, quando nel 1889 il

Kansas Times & Star usò il termine la terminologia Kansas City baseball fans per

riferirsi ai sostenitori della locale squadra. Il termine entrò ben presto nel linguaggio giornalistico, tanto è che il termine comparve in una lista pubblicata nel 1902 dalla Cornell University Dialect Society con il significato di: “appassionato di baseball; comune tra i giornalisti” (Carnochan, 2010).

“La stranezza del mondo dei fan sportivi risiede nella sua natura quasi religiosa. La derivazione di ‘fan’ da ‘fanatico’ implica questa relazione. Il comportamento sia dei tifosi che dei giocatori ha spesso un contenuto magico. La ‘fede’ dei tifosi sta nella lealtà all’idea di un’identità permanente di squadra che supera i cambiamenti nel tempo” (Carnochan, 2010, p. 504).

“Tra le tantissime tipologie di tifosi si possono distinguere due macro-categorie: quelli che guardano il campo e quelli che guardano la curva. I secondi sono quelli che già si potrebbero definire ultrà”. (Cagnucci, 2009, p. 167).

Da ricerche sociologiche sappiamo che in Italia il numero dei “tifosi estremi” oscilla, negli ultimi venti anni, tra le duecentomila e le trecentomila unità, in maggioranza giovani, ma non solo, e che ogni società, dalla Serie A alla Serie C (attuale Lega Pro), ha i propri gruppi ultrà. Il fenomeno ultrà è nato e si è sviluppato in ambito giovanile, dove recluta la maggior parte dei suoi seguaci. Quindi, anche se oggi vi partecipano individui di tutte le età, fa parte, in un certo senso, di una sottocultura giovanile con un proprio stile di vita e proprie espressioni gergali.

In passato, in modo erroneo, ma non del tutto, si riteneva che questi gruppi fossero formati da persone provenienti dalle classi popolari, invece ne fanno parte borghesi e cittadini tranquilli, rispettosi delle regole nella vita di tutti i giorni, ma che nel

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weekend alle partite si trasformano, come se andassero in guerra con striscioni, spranghe e caschi.

Tra di essi possono esserci anche soggetti con disturbi psicopatologici o tratti di personalità borderline.

In Italia i mass media, in primis i giornali, si sono occupati del fenomeno fin dalla nascita negli anni ’60, documentando gli scontri tra i vari gruppi. Più tardi vari studiosi, non molti a dire il vero, in particolare sociologi, psicologi e psichiatri si sono occupati scientificamente del problema del tifo violento, cercando di darne spiegazione e trovarne le cause, però ancora manca una teoria esaustiva del fenomeno. Il più delle volte i ricercatori non sono stati capaci di indicare le cause prime né gli elementi scatenanti.

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Tabella I – Dati dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, Rapporto

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Cercare un’unica causa responsabile è probabilmente impossibile, trattandosi di comportamento umano. La personalità, la famiglia, i modelli di comportamento, gli stili educativi, il background culturale ed ambientale ed infine una predisposizione genetica sono tutti ambiti da analizzare.

Gli ultrà mettono in atto comportamenti per lo più violenti, ma anche non violenti, a volte intenzionali e programmati, altre volte automatici, ma sempre tesi ad un fine: dimostrare la propria supremazia nei confronti dell’avversario, visto come un nemico, una “supremazia riconosciuta” da tutti.

La miglior definizione di violenza nello sport, quindi anche nel calcio, è stata data da Simons e Taylor nel 1992. Essi danno la definizione di “tumulti nello sport” (sport

riots), ovvero di “comportamenti messi in atto a scopo distruttivo o ingiurioso

durante un evento sportivo da spettatori di parte che possono essere causati da fattori personali, sociali, economici o di competizione”. (Simons & Taylor, 1992, p. 213). Ci sono diversi modelli teorici che cercano di spiegare il motivo per cui un individuo decide di diventare un ultrà violento ed unirsi ad un gruppo.

Il senso comune porta a vedere gli ultrà come soggetti antisociali, persone fuori dalla società, come dei pazzi, ma così non è, il discorso è più ampio. Se si riuscisse a dimostrare che gli ultrà sono tutti dei malati mentali, il problema sarebbe risolto, ed il mondo del calcio sarebbe risollevato, dal momento che vedrebbe allontanata l’idea che questo tipo di tifo trasgressivo gli appartenga oramai come una tradizione.

Secondo Alessandro Salvini (1988, 2004), ordinario di psicologia clinica dell’Università di Padova, che si è occupato del tifo violento, ci sono due principali modelli teorici utilizzati: quello delle teorie “meccanomorfe” e quello legato ad un’impostazione “antropomorfica”. Il primo modello considera il tifoso come individuo mosso da meccanismi psicologici interni ed esterni, mentre il secondo vede il tifoso come una persona mossa dalla sua intenzionalità. Nel primo caso sono da prendere in considerazioni variabili psicologiche come l’intelligenza, i tratti di personalità, la reattività emotiva, la disposizione all’aggressività ed i condizionamenti familiari. Nel secondo caso invece sono da valutare i processi cognitivi, i costrutti personali, l’interazione simbolica, l’azione comunicativa, l’assunzione di un ruolo ed il rispetto delle regole di condotta.

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Salvini nei suoi studi sui tifosi violenti ha utilizzato la teoria dell’“interazionismo semiotico” che rientra nei paradigmi del modello “antropomorfico”. L’“interazionismo semiotico” “parte da un’immagine dell’uomo come agente attivo, in grado di selezionare gli stimoli a cui rispondere, che compie tale selezione nell’ambito dei rapporti interpersonali e in questo processo trasforma la società o il mondo sociale in cui vive”. Tale definizione si lega perfettamente al modello della “psicologia dell’azione” e l’“interazionismo psicologico” rientra in questo paradigma.

Il potenziale di ogni individuo e le sue capacità emergono sempre in una situazione interattiva:

le capacità e le proprietà del comportamento appartengono tanto al soggetto quanto al contesto, ovvero alla relazione che le rende possibili. I comportamenti sono generati sempre dentro una struttura, ma, mentre i comportamenti sono visibili, la struttura non lo è:

la struttura non è solamente il semplice ambiente, ma è qualcosa di più ampio che attraversa l’individuo. Così l’ultrà trova espressione non dentro l’ambiente stadio, ma attraverso una “struttura generativa” a cui partecipa, in cui l’aggressività diventa un mezzo di difesa e di autoaffermazione.

Limitate indagini sui giovani, come quelle di Gian Vittorio Caprara, hanno ipotizzato una relazione tra psicopatologia giovanile e tifo violento. È emerso il profilo di un giovane emotivamente depresso, occasionalmente istrionico, irritabile e aggressivo, poco tollerante alla frustrazione, il quale sembra trovare identità solo nel gruppo di amici. Un tratto comune ai suoi pari, ma in lui accentuato è l’aggressività, unita alla labilità emotiva e alla disinibizione perversa. L’impulso ad agire è il mezzo attraverso cui questi giovani psicopatici, portati ad apprendere il mondo con schemi cognitivi stereotipati, affrontano l’angoscia della vita, poiché hanno difficoltà ad apprendere le regole di comportamento. Queste ricerche sui rapporti tra personalità e comportamento aggressivo hanno anche dimostrato che gli individui caratterizzati da irritabilità e suscettibilità emotiva sono più inclini a reagire in maniera aggressiva a frustrazioni di modesta identità (cit. in Salvini, 2004).

Tuttavia molti studiosi, tra cui i criminologi clinici T. Bandini e U. Gatti, criticano il concetto di personalità psicopatica e rifiutano la tendenza a creare nessi causa-effetto

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tra disturbo mentale e comportamento delinquenziale. Inoltre la natura episodica del tifo violento, che sembra, attivarsi solo entro la dimensione sportiva, induce a chiedersi, se la personalità psicopatica possa realmente spiegare il tifo violento (cit. in Salvini, 2004).

A partire da questi interrogativi è stata recuperata, per primo da M. Zuckerman, la nozione di “temperamento”1.

Gli studi si sono concentrati anche sugli individui dediti alla ricerca di forti sensazioni (sensation seekers). Ricerche sperimentali dimostrano che questi soggetti sviluppano una forma di attivazione ipomaniacale, iperattività, euforia, autostima, sicurezza e ricerca di ogni tipo di sensazione.

La caratteristica del tifo estremo è la ricerca della tensione emotiva, è quindi evidente che l’eccitazione provocata dalle situazioni della partita di calcio offre a molte persone la possibilità di soddisfare la propria ricerca di sensazioni forti (cit. in Salvini, 2004).

In conclusione l’espressione “personalità psicopatica” non sembra poter indicare genericamente una categoria del tifo violento. Inoltre spesso il termine è usato come contenitore in cui si gettano i casi più difficili da spiegare, con esigenza di controllo sociale. Travestendo un’espressione con giudizi morali, essa non acquisisce automaticamente valore diagnostico. È troppo facile classificare come psicopatico un comportamento senza analizzarlo approfonditamente, come se un tifoso che si comporti in modo violento debba per forza essere un soggetto con personalità psicopatica. Un comportamento, seppur illecito, violento, punibile dalla legge, non può ipso facto essere classificato come “malattia”:

una diagnosi di disturbo di personalità può essere utile solo se fatta in modo metodologicamente corretto. Ciò non esclude, naturalmente, che tra gli ultrà vi possano essere soggetti con caratteristiche di interesse psicopatologico.

Il concetto si ricollega al discorso più ampio e sempre attuale riguardo l’imputabilità di un delinquente e cioè se egli nell’atto di commettere il reato sia stato capace di

1 Il temperamento è l’insieme di disposizioni comportamentali presenti sin dalla nascita, le cui

caratteristiche definiscono le differenze tra gli individui nella risposta all’ambiente. Il temperamento riflette dunque una variabilità biologica. La personalità, invece, non è qualcosa di innato, né immodificabile, né valutabile in termini di positivo o negativo, mentre è più opportuno definirla in termini di adattiva o disadattiva. È una struttura interna all’individuo, andata costruendosi nel corso

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intendere e di volere. Nel caso venga meno una delle due precedenti condizioni cade anche l’imputabilità e quindi il soggetto è considerato affetto da disturbi psichici. Un’altra ricerca di stampo cognitivista, di cui i maggiori esponenti sono A. D. Wooster, D. Bannister e S. Jackson, si è adoperata nel capire come certi giovani costruiscono la realtà in cui abitano, nella quale essi proiettano una concezione di se stessi, dando vita a comportamenti ed emozioni congruenti con l’immagine di Sé. La concezione di Sé occupa un posto decisivo nell’organizzazione cognitiva. Ognuno di noi organizza il proprio mondo a seconda della concezione che ha di se stesso. La rappresentazione di Sé che le persone comunicano, ci informa in che tipo di realtà essi pensino di trovarsi e chi credano di essere. La psicologia cognitivista pone l’accento non sul Sé, ma sulle idee che formano la concezione di Sé, su ciò che dovremmo e vorremo essere. Si tratta cioè delle convinzioni su ciò che siamo, su ciò che siamo capaci di fare e su ciò che siamo disposti a fare2.

Il concetto di Sé si differenzia durante lo sviluppo. Nel passaggio infanzia-adolescenza-giovinezza il Sé passa da un sistema di riferimento legato al giudizio altrui, ad uno centrato sull’autopercezione. Il soggetto quindi dovrebbe diventare capace di guardare da prospettive diverse, autoregolarsi e comprendere il punto di vista degli altri.

Denis Wooster afferma che un’inadeguata concezione di Sé si riflette sulla capacità dell’individuo di capire le situazioni ed i comportamenti altrui e ciò può causare difficoltà nell’adattamento sociale (cit. in Salvini, 2004).

Una persona del genere sarà allora più incline ad usare schemi interpretativi semplici e stereotipati, ad utilizzare comportamenti attacco-fuga in situazioni difficili e risposte aggressive. Riportando queste osservazioni al caso degli ultrà, è facile pensare come alcuni di essi abbiano un concetto di Sé poco differenziato che li porta ad usare meccanismi di pensiero-azione altamente semplificativi e perciò inadeguati, perché privi di un processo auto-valutativo. Tutto questo si manifesta con il cercare

2 Per Jung (Tipi psicologici, 1921) il Sé rappresenta l’unità e la totalità della personalità nella sua parte

conscia ed in quella inconscia. Nell’ambito, invece, delle teorie psicoanalitiche il concetto di Sé è stato introdotto da Hartmann nel 1950 (Implicazioni tecniche della psicologia dell’Io) ed è stato sviluppato soprattutto da Heinz Kohut (La ricerca del Sé, 1978) che ha dato origine alla cosiddetta psicologia del Sé. In essa il Sé è visto come un sistema organizzato dei ricordi, intesi come rappresentazioni di se stessi, centro dell’esperienza e principale istanza motivazionale all’azione.

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dagli altri le spiegazioni del proprio comportamento, per mancanza di incapacità di ricostruirne i moventi. Esemplificativa è la testimonianza di un giovane ultrà della Roma, riportata sempre da Salvini (2004, p. 36):

“Quello della partita è il momento in cui finalmente mi sento bene, non c’è bisogno di pensare, mi sento pronto a tutto, a gridare e a menare ma se devo dire a me stesso perché, non lo so”.

Per quanto riguarda le teorie della “personalità psicopatica” è interessante segnalare l’ipotesi psicodinamica post-junghiana dell’“Io eroico”, sviluppata da J. Hillman, seguace di C. G. Jung e fondatore della cosiddetta “Psicologia Archetipica”.

Secondo questa concezione, per alcuni ultrà, la partita attiverebbe un modo “psicopatico” di relazionarsi con lo spettacolo calcistico attraverso l’incontro tra le aspirazioni di un Sé percepito come incompiuto e la concezione tirannica di un Sé ideale imposto dalla cultura collettiva. Vale a dire che un “modello eroico di Sé” viene offerto a chi ha bisogno di identità e di dare significato al proprio Sé.

La partita, in particolare per i giovani ultrà, diventa quindi una sorta di psicodramma dove possono sentirsi partecipi di ruoli eroici, di compiti da giustizieri, quindi è lo spazio entro cui il giovane indossa i panni dell’eroe per mimesi.

James Hillman sostiene che il modello dell’eroe esige una realtà da sfidare concretamente, ossia in modo fisico e materiale, in caso contrario verrebbe a mancare la conferma della propria personificazione eroica. Spesso è lo scontro fisico che decide quale gruppo ultrà è veramente superiore (cit. in Salvini, 2004).

Gli ultrà sembrano mettere in atto due costanti: la prima è quella di trasformare il pensiero in azione, eliminando l’elemento di finzione del gioco e facendo acquisire alla realtà una dimensione concreta e minacciosa. La seconda costante è complementare alla prima: la realtà nemica e negativa impone il compimento del “gesto eroico”.

L’immaginario dei giovani è ricco di fantasie distruttive, aggressività, impulsività, e l’unica sicurezza che sembrano trovare è quella dell’azione: dare sfogo all’affermazione aggressiva di sé attraverso i ruoli e le personificazioni a cui

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partecipano. Secondo questa concezione le latenze psicopatiche dell’“Io eroico” si manifestano in aggressività verso un nemico da attaccare:

l’uso di simboli truculenti, i richiami alla sfida, i motti guerrieri, la mitografia anche politica presente negli stemmi e nei canti, non sarebbero quindi semplicemente un ingenuo artificio retorico di cui sorridere, ma un antefatto dell’azione, nell’attesa che l’“Io eroico” possa manifestarsi.

Per Hillman la guerra, quindi lo scontro nel caso degli ultrà, è una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie dotata di una carica libidica, al pari della pulsione opposta dell’amore.

“E non andremo alla guerra ‘in nome della pace’, come tanto spesso una retorica ipocrita proclama, ci andremo in nome della guerra: per comprendere la follia del suo amore”. (Hillman, 2004, p. 11).

La guerra è un elemento primordiale dell’essere e genera le strutture essenziali della nostra esistenza.

Per Hillman, quindi, si può resistere alla guerra, comprenderla meglio, ma non si potrà mai eliminarla del tutto fin tanto che gli dei non spariranno.

Nel processo terapeutico psicodinamico ha ancora un ruolo importante il recupero delle esperienze traumatiche rimosse, ed il reindirizzo della pulsione sessuale rimasta fissata ad oggetti e stadi infantili.

Sebbene il pensiero di Freud si sia evoluto nel tempo, infatti inizialmente egli parla di una sola forma di libido (Freud, 1989), per poi teorizzare anche una pulsione aggressiva (Freud, 1978), per arrivare alla posizione finale (Freud, 1986) con la pulsione di vita (“eros”) e quella di morte (thanatos), nel pensiero psicoanalitico la liberazione da esperienze traumatizzanti e conflittuali ha un ruolo fondamentale anche nell’apparato psichico.

La psiche tende a ricercare un equilibrio energetico attraverso il deflusso di energia aggressiva, infatti ogni ristagno istintuale sarebbe fonte di tensione. La pratica sportiva così favorirebbe un processo di spostamento e sublimazione

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