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RUOLO DELL'IMMUNOCITOCHIMICA NELLA DIAGNOSTICA DEI VERSAMENTI

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

_________________________________________________________________

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PATOLOGIA CLINICA E

BIOCHIMICA CLINICA

Direttore Prof. Aldo Paolicchi

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

Ruolo dell’immunocitochimica nella diagnostica dei

versamenti

Relatori Specializzanda

Prof. Aldo Paolicchi Dr.ssa Alessandra Devito

Prof.ssa Carla Di Loreto

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INDICE

INTRODUZIONE

1.Validazione di un nuovo protocollo 5

2. La citologia 6

2.1 Tipi di esame citologico 6

3. Citologia dei versamenti 7

3.1 Anatomia e fisiologia dei versamenti cavitari 8

3.2 Classi di versamenti cavitari 8

3.3 Versamento pleurico 10

3.4 Versamento addominale 10

3.5 Versamento pericardico 11

3.6 Condizioni benigne dei versamenti 11

3.7 Condizioni maligne dei versamenti 12

4.Ruolo dell’immunoistochimica e dell’immunocitochimica in anatomia patologica 13

4.1 Applicazioni dell’immunocitochimica 14

5. CytoRich 14

6. Recupero dell’antigene 15

6.1 HIER: heat induced epitope retrieval 16

6.1.1 Condizioni di riscaldamento 17

6.1.2 pH e composizione chimica delle soluzioni impiegate nel recupero antigenico 17

6.2 Apparecchiature impiegate per “l’antigen retrieval” 18

7. Immunoistochimica ed immunocitochimica 20

7.1. Gli anticorpi 20

7.2. Sistemi di rivelazione 22

7.3.1 Metodo di rivelazione diretta 23

7.3.2 Metodo di rivelazione indiretto 23

8. Le neoplasie 25

8.1 Tumori benigni 27

8.2 Tumori maligni 28

PARTE SPERIMENTALE

Scopo dello studio 29

Materiali e metodi 30

9. Casistica 30

10. Immunocitochimica 31

11. Descrizione degli anticorpi 33

12. Analisi statistica 40

RISULTATI 40

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 48

ICONOGRAFIA 52

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Per immunoistochimica (e immunocitochimica) si intende una tecnica di laboratorio complessa e specifica che consiste nella valutazione al microscopio della espressione di specifiche proteine presenti nei tessuti o di cellule intatte, laddove la pura morfologia risulti insufficiente a tale scopo [1]. Il principio che sfrutta tale metodica è la reazione immunitaria antigene-anticorpo, che si verifica in condizioni fisiologiche nell’organismo degli esseri viventi: in presenza di un antigene “estraneo” il sistema immunitario genera una risposta cellulare o umorale in grado di riconoscere l’antigene in modo specifico ed eliminarlo. Tale tecnica si interessa in particolare della risposta umorale, dove uno o più cloni di plasmacellule sono in grado di generare anticorpi verso uno o più epitopi di un antigene. Quest’ultimi, ottenuti con diverse tecniche, nelle quali fondamentalmente si immunizza un animale verso un antigene di interesse, vengono usati per rilevare la presenza dell’antigene (proteina, glicoproteina, polisaccaride, steroide, lipoproteina) su un tessuto a livello cellulare o extracellulare utilizzando opportuni sistemi di rilevazione come metalli, enzimi, fluorocromi associati all’anticorpo.

Pertanto essa risulta avere notevole importanza quale metodica di supporto all’osservazione morfologica dei preparati citologici permettendo di ricavare innumerevoli informazioni dal campione oggetto di studio e indirizzandone la diagnosi. Tra le difficoltà incontrate in questa tecnica vi è sicuramente la necessità di mantenere inalterate le caratteristiche antigeniche delle cellule al fine di un corretto riconoscimento da parte dell’anticorpo. Pertanto diversi studi sono stati condotti per migliorare sia le caratteristiche degli anticorpi, passando da immunoglobuline da utilizzare unicamente su sezioni congelate a quelle che possono esser impiegate su sezioni fissate chimicamente ed incluse, sia le caratteristiche antigeniche, cercando in questo caso le tecniche fissative più adatte per la conservazione dei tessuti e successivamente le tecniche per ripristinare l’antigenicità inevitabilmente alterata dai fissativi.

Bisogna però considerare che negli ultimi anni la ricerca di molecole utili alla diagnosi si è prevalentemente focalizzata sui campioni istologici, al punto che l’immunoistochimica rappresenta il “gold standard” mentre l’immunocitochimica presenta ancora ad oggi alcuni limiti. Questi sono attribuibili al fatto che nella citologia vengono a mancare le normali relazioni cellula-cellula e cellula-stroma che invece si possono evidenziare a livello tissutale. Inoltre quando si lavora su preparati citologici, le cellule sono “intere” (ovvero dotate di tutta la membrana cellulare) mentre in istologia si lavora su tessuti sezionati. Queste ed altre differenze tra citologia e istologia sono alla base delle diverse modalità

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con cui i campioni vengono trattati e dei diversi protocolli previsti per le reazioni di immunoistochimica.

Oltre alle problematiche nell’allestimento dei campioni condivise da entrambe le tecniche, bisogna considerare un aspetto fondamentale nella citologia: la fissazione. Infatti i campioni destinati alla citologia, dopo il prelievo devono esser fissati nell’immediato per evitare i processi di degenerazione cellulare che comportano alterazioni morfologiche ed antigeniche e possono compromettere l’interpretazione del campione.

Per cercare di ovviare a tale problema è possibile utilizzare dei fissativi liquidi, ma inevitabilmente dobbiamo porci alcuni quesiti: quale fissazione dei campioni citologici è adeguata? Le tecniche di immunocitochimica su tali campioni sono riproducibili? È possibile diagnosticare una neoplasia unicamente sulle informazioni ricavate dalla citologia e immunocitochimica? È possibile conservare i liquidi nel tempo per indagini immunocitochimiche analogamente al materiale istologico?

Il nostro studio ha l’obiettivo di rispondere a tali domande nel campo della diagnostica citologica di neoplasia nei liquidi cavitari prefissati con il fissativo CytoRich.

In letteratura gli studi a riguardo e le conoscenze sono limitati. A tal fine in una prima fase dello studio focalizzata sulla validazione della metodica, sono stati presi in considerazione un numero adeguato di casi clinici in cui si avesse a disposizione sia materiale citologico da versamento ( in tale studio versamenti pleurici, peritoneali e pericardici) che campioni istologici della neoplasia maligna che aveva generato il versamento. Seguendo opportuni protocolli sono state eseguite le reazioni di immunocitochimica sui liquidi di versamento ed in parallelo le stesse reazioni con i medesimi anticorpi sono state fatte per la parte istologica. Pertanto si è voluto confrontare la citologia con l’attuale “gold standard”, ossia l’istologia, verificando se l’espressione di diversi antigeni nei due tipi di campioni è conservata oppure invariata a seguito delle diverse procedure applicate. In tal modo si è potuto validare l’attuale protocollo impiegato in immunocitochimica, verificando soprattutto l’idoneità delle tecniche fissative adottate che rappresentano tuttora l’aspetto più controverso e verificare, per la prima volta, l’adeguatezza di questa tecnica al fine di equipararla con l’immunoistochimica.

Successivamente si è passati ad individuare specifici pannelli anticorpali da utilizzare nella diagnosi e tra questi i marcatori con maggiore sensibilità e specificità per identificare linee cellulari (mesotelio ed epitelio) e verificare l’origine organo-specifica dei vari carcinomi nei versamenti neoplastici, soprattutto nei casi in cui il versamento è la prima manifestazione

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della neoplasia. In tutti i casi sono stati utilizzati criteri puramente citologici/morfologici per fare la diagnosi di malignità.

1.Validazione di un nuovo protocollo

La validazione di un nuovo protocollo di laboratorio è un passaggio fondamentale al fine di poter utilizzare tale protocollo nella routine. Per “validare” un nuovo protocollo bisogna effettuare una serie di prove al fine di “dimostrare l’esattezza di un’operazione” in modo tale da poter verificare che la procedura è attendibile e affidabile. Nel nostro specifico caso, la tecnica ha un fine diagnostico, per cui bisogna avere la certezza che i risultati siano uniformi alla realtà, pena diagnosi sbagliate che possono incidere su mortalità e morbilità del paziente.

Per poter validare una procedura è necessario confrontarla con una tecnica che sia stata già validata e riconosciuta da opportuni organismi nazionali ed internazionali come riferimento. Un esempio è il caso dei recettori ormonali [2] (recettori per progesterone ed estrogeni) ed il recettore HER-2neu [3], la cui ricerca e valutazione semiquantitativa dell’espressione tramite tecniche immunoistochimiche è stata già validata per protocolli in cui la fissazione prevede l’utilizzo di formalina. Opportune linee guida a riguardo sono state redatte dall’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ed dal College of American PAthologists (CAP) e complessivamente prendono il nome di linee guida ASCO/CAP e definiscono le modalità di fissazione, i tempi di fissazione e le procedure più idonee per valutare i recettori sopracitati, in modo tale che i risultati siano riproducibili e standardizzati tra i diversi laboratori. Seppure queste linee guida definiscono rigidamente le procedure da seguire, non impediscono che la valutazione dei recettori ormonali e di HER-2/neu possono essere effettuati utilizzando altri tipi di fissativi. Per utilizzare però un fissativo diverso da quello previsto, è necessario validare la nuova metodica, e la validazione deve esser fatta tramite il confronto dei risultati rispetto alle linee guida ASCO/CAP. Nel caso in cui si concludesse che la nuova procedura, utilizzando un diverso fissativo, è paragonabile a quella di riferimento, la metodica potrà esser impiegata come routine all’interno del laboratorio.

Alla luce di tali premesse, in questo studio si prefigge tale obiettivo, ovvero la validazione di una procedura verificando soprattutto l’idoneità della tecnica fissativa impiegata, confrontando i risultati tra la tecnica che si vuole validare, ossia la procedura per l’immunocitochimica, con lo standard di riferimento, ovvero l’immunoistochimica.

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2. La citologia

Per citologia si intende lo studio delle caratteristiche morfologiche delle cellule umane e l’applicazione più importante di questo tipo di indagine è nella diagnosi delle malattie neoplastiche.

La prima applicazione della citologia quale procedura diagnostica anatomo-patologica è stata la diagnosi citologica sullo striscio vaginale, oggi nota come Pap-test, introdotta da Papanicolaou e Traut nel 1943 [4]. Tale test è diventato il più importante strumento di screening di massa per la diagnosi precoce dei tumori dell’utero e della vagina e come risultato si è avuta una rilevante riduzione della mortalità correlata a queste neoplasie. Con il tempo la citologia ha ulteriormente ampliato le sue applicazioni, diventando una tecnica utile per la diagnosi di neoplasie di organi quali la vescica ed il polmone, attraverso lo studio delle cellule naturalmente “esfoliate” nella cavità e raccolte nelle urine e nell’espettorato. Inoltre, esami citologici si possono effettuare sulle cellule aspirate da organi interni con l’ausilio di un ago sottile (cito-aspirazione con ago sottile o agoaspirato). Tra i numerosi vantaggi che ha la citologia vanno sicuramente considerati l’ottima specificità, la buona sensibilità e il costo per eseguire tale tecnica che oltretutto è minimamente invasiva, comportando in tal modo un minore disagio per il paziente. Questi motivi hanno determinato l’affermazione di questa tecnica diagnostica in ambito anatomopatologico, paragonabile per diversi aspetti all’istologia [5].

2.1 Tipi di esame citologico

In base alle modalità di raccolta del campione, si parla di citologia esfoliativa o di citologia ago-aspirativa.

La prima è una tecnica più immediata e di facile applicabilità per la semplicità di raccolta del materiale in quanto, come si evince dal termine stesso, studia le cellule che “esfoliano” spontaneamente o no, ossia si staccano dagli epiteli di rivestimento e si trovano libere nel lume o nelle cavità dell’organo (apparato urinario, cavità pleurica, pericardica, peritoneale, articolare, spazio rachideo). Può essere suddivisa in diretta e indiretta. Si parla di citologia esfoliativa diretta quando le cellule spontaneamente si staccano dalla loro sede naturale, come per esempio le cellule che dall’albero bronchiale finiscono nell’espettorato, che dall’apparato urinario finiscono nell’urina o che dal rivestimento delle cavità mesoteliali-celomatiche finiscono nel liquido di versamento pleurico, peritoneale o pericardico. La citologia esfoliativa indiretta o provocata, invece, richiede manovre meccaniche che favoriscono il distacco delle cellule dalla loro sede. Le tecniche utilizzate sono diverse e

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comprendono l’abrasione o scramping, lo spazzolamento o il brushing, il lavaggio o

washing l’apposizione od imprinting; ognuna di queste tecniche di prelievo è specifica per

certi tipi di indagine citologica su determinati organi o tessuti.

Ad esempio l’abrasione è comunemente impiegata per i prelievi esocervicali che vengono fatti per il Pap-test, per lo stesso test al fine di recuperare le cellule endocervicali si usa invece uno “spazzolino” operando in tal modo lo spazzolamento; il lavaggio viene fatto con soluzioni saline all’interno degli organi (per esempio nella vescica) ed infine l’apposizione viene principalmente utilizzata per i linfonodi sentinella per valutare la presenza di metastasi.

Nella citologia ago-aspirativa le cellule vengono asportate da una lesione mediante prelievo con ago sottile collegato ad un sistema di vuoto (in genere una siringa) che permette l’aspirazione del materiale. Viene effettuata per verificare la natura tumorale o meno di una neoformazione. L ’agoaspirato può essere fatto secondo due modalità di centratura della lesione: sotto guida ecografica o tomografica (TAC) per lesioni molto piccole, situate in organi profondi o da prelevare per via endoscopica oppure a “mano libera”, cioè senza il supporto dell’imaging, per neoformazioni superficiali e palpabili.

Dopo aver effettuato il prelievo, il materiale deve essere immediatamente e opportunamente fissato ed allestito secondo i protocolli del laboratorio che vengono scelti e perfezionati in base alla cellularità del campione. I fissativi impiegati variano infatti in base al prelievo, per esempio nel nostro laboratorio si utilizza il Cytolyt per gli agoaspirati da lesioni solide mentre il CytoRich per i versamenti. Analogamente le modalità di allestimento variano in base al materiale per cui si può utilizzare, per esempio, lo striscio per gli scramping, il ThinPrep per la citologia urinaria o i citoinclusi per i broncoaspirati [5].

3. Citologia dei versamenti

L’inizio della diagnosi citologica dei versamenti può esser ricondotto al 19esimo secolo, precisamene al 1867, quando Lucke e Klebs riconobbero la presenza di cellule maligne in un liquido ascitico. Successivamente, nel 1882 Quincke descrisse per la prima volta in modo dettagliato la cellule maligne presenti in versamenti derivanti da neoplasie del polmone e dell’ovaio.

Da allora studi sulla citologia dei versamenti sono stati pubblicati in letteratura ed oggi la citologia dei fluidi cavitari rappresenta la procedura più diffusa nella diagnosi di routine. Negli ultimi anni, l’aumento del numero di anticorpi disponibili in commercio, ha

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determinato una maggiore affidabilità della diagnosi e della tipizzazione delle cellule maligne presenti nei liquidi [6, 7].

3.1 Anatomia e fisiologia dei versamenti cavitari

La pleura, il pericardio e il peritoneo sono tre cavità del nostro organismo rivestite da una membrana sierosa, da quale prendono il nome di cavità sierose. In particolare, la pleura riveste i polmoni, il pericardio ricopre il cuore ed il peritoneo riveste la cavità addominale, parte di quella pelvica e gran parte dei visceri.

Queste membrane hanno origine embriologica comune e non presentano differenze sia da un punto di vista microscopico che immunologico [8]. Da un punto di vista istologico sono costituite da un singolo strato di cellule mesoteliali appoggiate su un sottile strato di tessuto connettivo fibrovascolare che garantisce il loro sostentamento. Le membrane sierose sono divise in due foglietti: quello parietale riveste le pareti delle cavità del corpo mentre il foglietto viscerale aderisce direttamente agli organi. Tra i due foglietti è presente una minima quantità di fluido sufficiente a lubrificare le membrane al fine di ridurre gli attriti (soprattutto durante la contrazione cardiaca e l’espansione polmonare nella respirazione) [9]. Questo fluido è prodotto dalle cellule mesoteliali del foglietto parietale e viene riassorbito dalle cellule del foglietto viscerale secondo un processo continuo regolato dalla pressione idrostatica dei vasi, dalla pressione oncotica e dalla permeabilità dei capillari [9]. In condizioni patologiche la quantità di fluido tra i due foglietti può aumentare considerevolmente, in tal caso si parla versamento [8].

3.2 Classi di versamenti cavitari

I versamenti possono essere classificati in due categorie principali, benigni o maligni: al primo gruppo appartengono i versamenti causati da malattie infiammatorie/infettive e disturbi circolatori mentre al secondo afferiscono i versamenti di origine neoplastica.

Condizioni patologiche, che causano l’insorgenza di versamenti, sono :

 agenti infettivi

 malattie infiammatorie

 disturbi circolatori

 neoplasie maligne.

I versamenti infettivi possono verificarsi in qualsiasi cavità corporea e possono essere dovuti agli effetti diretti di organismi invasori o alle conseguenze di un'infiammazione. La maggior parte degli elementi riscontrati nel campione citologico è costituita da cellule

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infiammatorie e mesoteliali. La caratteristica dell'infiammazione fornisce preziosi indizi sull'organismo responsabile. Ad esempio, un'elevata concentrazione di linfociti può indicare la presenza di tubercolosi. Talvolta possono essere presenti anche infezioni micotiche.

I versamenti infiammatori non infettivi segnalano una condizione patologica, sia essa autoimmune (artrite reumatoide, lupus sistemico) o reattiva ad un stimolo come la necrosi dei tessuti o la radioterapia. Tali processi infiammatori danneggiano le pareti dei capillari che si ramificano nel tessuto connettivo sottomesoteliale e ciò permette alle proteine e ai vari costituenti cellulari del sangue di riversarsi nelle cavità sierose. In questo caso il fluido contiene leucociti di diverso tipo oltre alle cellule mesoteliali. Tale tipo di versamento, essudato, è ricco in proteine ed ha un peso specifico superiore a 1.020.

Se invece il disturbo è principalmente circolatorio, la fuoriuscita di fluido attraverso la membrana sierosa eccede i normali processi di riassorbimento. Questo può essere il risultato di un aumento della pressione venosa, secondaria ad un insufficienza cardiaca congestizia o ad una cirrosi epatica, o di una ipoproteinemia dovuta ad insufficienza renale. Questo versamento, trasudato, contiene meno proteine e poche cellule rispetto all’essudato, ed il suo peso specifico è solitamente inferiore a 1.015.

Infine i versamenti possono esser causati da neoplasie, ed essere trasudati o essudati. I primi sono il risultato di uno squilibrio delle pressioni idrostatiche e oncotica, le cui cause più comuni sono attribuibili all'insufficienza cardiaca congestizia, la cirrosi e la sindrome nefrosica. Gli essudati, invece, derivano da lesioni al mesotelio, attribuibili a polmonite, lupus, pleurite reumatoide, infarto polmonare, o traumi [10, 11].

I campioni sono ottenuti inserendo un ago nello spazio pleurico (toracentesi), pericardico (pericardiocentesi) o nella cavità peritoneale (paracentesi). Il fluido così prelevato, viene raccolto in adeguati contenitori, fissato immediatamente e inviato al laboratorio. Per prevenire la coagulazione, che può ostacolarne la corretta valutazione, i fluidi possono essere raccolti in contenitori di eparina. In seguito il fluido viene refrigerato a 4 ° C fino al momento della preparazione del vetrino [11].

I metodi di preparazione disponibili e applicabili sono diversi ed utilizzando più di un metodo di preparazione per versamento si migliora la sensibilità nel rilevare la neoplasia. Una combinazione comune prevede l’uso dello strato sottile associato ad un cell block. Quest’ultimo infatti consente un confronto con sezioni istopatologiche in quanto viene fissato e colorato nello stesso modo [11, 12].

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3.3 Versamento pleurico

Il versamento pleurico è l’abnorme accumulo di liquido fra i due foglietti pleurici, conseguente ad un’alterazione dell’equilibrio tra processi di produzione e di riassorbimento del liquido pleurico fisiologicamente presente tra la pleura parietale e quella viscerale. Infatti la cavità pleurica contiene fisiologicamente una piccola quantità di liquido pleurico, approssimativamente 10 ml (*). Tale liquido può originare direttamente dal torace, come nel caso di un versamento primario spesso causato da infezione od infarto polmonare, o può essere secondario ad un’ascite.

Versamenti che interessano il lato destro della pleura e originano da patologie addominali, sono comunemente secondarie a cirrosi, ascessi epatici o sottodiaframmatici e alla sindrome di Meigs (versamento pleurico associato a fibroma ovarico). Le pancreatiti sono invece comunemente associate a versamenti che interessano la pleura sinistra.

Il versamento pleurico maligno è una complicanza piuttosto frequente di numerosi tumori sia di origine intratoracica che a partenza da organi extratoracici ed ha un’incidenza di circa 660 pazienti per milione di abitanti l’anno nel mondo. Le più comuni cause di versamenti pleurici maligni sono dovuti a metastasi pleuriche di tumori al polmone, mammella, sistema linfatico e tratto gastrointestinale.

Il carcinoma polmonare da solo è la seconda causa più comune di versamento pleurico maligno in pazienti con età superiore a 50 anni con una percentuale che va dal 7% al 15% secondo le varie statistiche. Esso infatti costituisce, ad oggi, la prima causa di morte per neoplasia a livello mondiale. Tumori maligni primitivi del mesotelio, i mesoteliomi, sono a loro volta causa di versamenti [8].

3.4 Versamento addominale

Il versamento addominale è l’accumulo patologico di liquido libero in cavità peritoneale. Spesso viene denominato ascite, ma in senso stretto questo termine indica un trasudato che si forma da una superficie non infiammatoria (Rousselot & Bomassi, 1998).

L’esame ultrasonografico dell’addome è un test diagnostico comunemente disponibile, non invasivo, né doloroso che consente una completa esplorazione della cavità peritoneale. Le asciti sono causate da una grande varietà di disordini che vanno dalla cirrosi, che ne rappresenta la principale causa, circa l’85- 90% dei casi, alle neoplasie.

Nel caso di cirrosi, essa è causata dalla ipertensione portale, in particolare dall’aumento della pressione idrostatica nel letto sinusoidale epatico, e pertanto determina un versamento trasudatizio. Le principali forme maligne sono invece associate al cancro

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dell’ovaio, della mammella, del tratto gastrointestinale o del sistema linfatico. Per forme di ascite maligna di origine sconosciuta, è opportuno prendere soprattutto in considerazione il tratto genitale nelle donne e l’apparato gastrointestinale negli uomini [8].

L’ascite neoplastica è rappresentata da un eccessivo aumento del liquido endoperitoneale, fino a raggiungere quantità di 8-10 litri, nel cui contesto è possibile evidenziare numerose cellule tumorali. Questa enorme produzione di liquido è sostenuta fondamentalmente da due fattori:

- dalla produzione di siero e mucina da parte delle cellule tumorali che fanno parte degli impianti carcinomatosi

- dalla iperproduzione di liquido peritoneale da parte delle cellule peritoneali stesse irritate dalla presenza dalle cellule tumorali a livello peritoneale.

3.5 Versamento pericardico

Versamenti pericardici, che talora causano tamponamento cardiaco, sono complicazioni ben note di diverse patologie, comprese infezioni e neoplasie, molti dei quali sono essudati.

Il tamponamento pericardico si verifica quando l’accumulo di fluido provoca un incremento di pressione nel sacco pericardico, tale da superare quella presente nelle camere cardiache. La diagnosi è in primo luogo clinica, basata sulla presenza di ipotensione, tachicardia, turgore giugulare, dispnea, tachipnea e polso paradosso (caduta della pressione sistolica di 10 mmHg o più durante l’inspirazione).

Le cause infettive sono molto comuni nei pazienti immunodepressi. Versamenti maligni sono invece comunemente associati a metastasi di carcinomi. I tumori a maggior probabilità di coinvolgimento pericardico sono quelli polmonari (30%), quelli mammari (23%), seguiti da linfomi, leucemie, sarcomi e melanomi. Bisogna però fare molta attenzione nella valutazione di un campione da versamento pericardico in quanto spesso può presentare cellule mesoteliali molto reattive che mimano un cancro [8].

3.6 Condizioni benigne dei versamenti

In molte condizioni benigne, l’aspetto citologico dei versamenti non è specifico: ad esempio il liquido pleurico di un caso di infarto polmonare è morfologicamente indistinguibile dal liquido pericardico causato da un insufficienza renale o dal versamento peritoneale formatosi per cirrosi. Fortunatamente, le caratteristiche di alcune condizioni

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benigne sono sufficientemente caratteristiche per restringere la diagnosi differenziale o addirittura indicarne la specifica eziologia.

Pleurite, pericardite e peritonite sono solitamente il risultato di un'infezione batterica, che nella pleura si traduce in un empiema pleurico; nella cavità peritoneale è spesso secondaria a infiammazione o lesioni dell'intestino. I preparati citologici di queste condizioni infiammatorie sono altamente cellulati e composti quasi esclusivamente di leucociti polimorfonucleati.

3.7 Condizioni maligne dei versamenti

Condizioni maligne possono essere associate a presenza di neoplasie primarie o secondarie. Nella maggior parte dei pazienti il versamento di natura maligna può derivare da una neoplasia primaria precedentemente documentata. In alcuni casi, invece, il versamento maligno può essere la prima manifestazione di una neoplasia occulta. Inoltre alcuni tumori hanno una tendenza maggiore rispetto ad altri a diffondere nella pleura, pericardio, o peritoneo.

Nei bambini, ad esempio, la causa più comune di un versamento pleurico o peritoneale maligno è non-Hodgkin linfoma [13].

Tra gli uomini, i tumori più diffusi che colpiscono la cavità pleurica sono l'adenocarcinoma metastatico del polmone e i tumori gastrointestinali metastatici. Nelle donne, invece, il tumore più comune è il carcinoma della mammella con metastasi, seguito dai tumori metastatici del polmone e delle ovaie [14-16].

Per quanto riguarda i versamenti peritoneali, il tumore metastatico più diffuso tra gli uomini è quello del tratto gastrointestinale, seguito dai tumori del pancreas e dei polmoni. Tra le donne invece, il più frequente è il tumore metastatico delle ovaie, quello gastrointestinale e pancreatico [16].

Possono verificarsi anche versamenti pericardici provocati da tumori maligni metastatici che coinvolgono il tessuto pericardico. Ad oggi non esistono criteri precisi per quanto riguarda l'esame citologico delle cellule provenienti da queste zone, pertanto per formulare la migliore diagnosi è necessario unire le informazioni dei preparati citologici a quelle cliniche del paziente.

Nella tabella, che segue, sono riportati i tumori più frequentemente riscontrati nei versamenti pleurici e peritoneali, rispettivamente negli uomini e nelle donne [11].

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Pleurico Peritoneale Pericardico Maschio adulto Polmone Linfoma/leucemia Tratto GI Pancreas Mesotelioma Gastroenterico Linfoma/leucemia Pancreas Genito-urinario Polmone Linfoma/leucemia Tratto GI Femmina adulta Mammella Polmone Ovaio Linfoma/leucemia Tratto GI Endometrio Pancreas Mesotelioma Ovaio Utero Mammella Tratto GI Linfoma/leucemia Pancreas Mesotelioma Mammella Polmone Linfoma/leucemia Tratto GI Bambino Linfoma/leucemia Altri tumori a piccole

cellule blu

Linfoma/leucemia Altri tumori a piccole

cellule blu

Linfoma/leucemia Altri tumori a piccole

cellule blu Tab.1 Tumori più frequenti che causano versamenti maligni, divisi per sede, sesso ed età.

(Davidson, Firat and Michael 2012)

Un buon criterio per identificare le cellule maligne nelle effusioni è quello di individuare prima alcune cellule mesoteliali benigne, e con queste come punto di riferimento, cercare una seconda popolazione che è chiaramente diversa. Le cellule maligne non sono necessariamente più grande di cellule mesoteliali; possono avere le stesse dimensioni, ma sono riconoscibili l’alterazione del rapporto nucleo-citoplasmatica, l’ipercromasia nucleare, o la presenza di macronucleoli. Eccezioni a questa regola si verificano, in particolare, nel caso di mesotelioma, nel quale una netta distinzione tra le cellule mesoteliali benigne e neoplastiche non è apprezzabile. Inoltre le cellule mesoteliali normali non formano quasi mai grandi gruppi di cellule, pertanto aggregati grandi possono far sospettare casi di malignità.

4. Ruolo dell’immunoistochimica e dell’immunocitochimica in anatomia patologica

L’immunoistochimica è stata probabilmente la tecnica che più di tutte ha rivoluzionato negli ultimi 50 anni la diagnostica in ambito anatomopatologico. Tra i suoi vantaggi vanno citati la notevole sensibilità e specificità, la possibilità di applicare la tecnica su materiale processato secondo la routine (anche se osservato per lunghi periodi) e l’accurata correlazione con i classici parametri morfologici. L’immunoistochimica è compatibile con la maggior parte dei fissativi attualmente in uso; infatti può essere impiegata anche su

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campioni che hanno subito decalcificazione nonché su sezioni già colorate. Oltretutto può essere adattata alla citologia (immunocitochimica) e alla microscopia elettronica.

Con il tempo questa tecnica ha sostituito e reso obsolete molte delle comuni colorazioni speciali (per esempio le colorazioni istochimiche od istoenzimatiche), nonché molte delle applicazioni diagnostiche della microscopia elettronica (ad esempio la diagnosi differenziale tra mesotelio reattivo, adenocarcinoma e mesotelioma) [17].

4.1 Applicazioni dell’immunocitochimica

A differenza dell’immunoistochimica, l’immunocitochimica presenta alcune limitazioni. Il principale ambito in cui l’immunocitochimica riveste un ruolo di primaria importanza è nella diagnosi differenziale nei versamenti sierosi in quanto consente di distinguere mesoteli reattivi da un adenocarcinoma o da un mesotelioma maligno. Molti studi hanno dimostrato che questo può essere possibile grazie all’aiuto offerto da opportuni pannelli di anticorpi. Infatti, l’accuratezza diagnostica è migliorata grazie alla combinazione dell’uso della microscopia ottica, che rileva le caratteristiche morfologiche delle cellule dei versamenti e all’utilizzo dei pannelli anticorpali che includono anticorpi capaci di riconoscere sia marcatori specifici dei mesoteli che degli adenocarcinomi.

Ulteriori applicazioni dell’immunocitochimica comprendono la diagnosi differenziale in neoplasie poco differenziate e in lesioni metastatiche in citologia agoaspirativa nonché l’identificazione di fattori prognostici e predittivi in citologia agoaspirativa mammaria [18].

5. CytoRich

Il CYTORICH® Red Collection Fluid (Thermo Scientific Shandon) è un fissativo emolitico utilizzato per la fissazione citologica e delle piccole biopsie. Nell’istituto di Anatomia Patologica dell’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine tale fissativo viene principalmente impiegato per la fissazione dei versamenti cavitari: viene fornito in appositi contenitori direttamente ai reparti, dove una volta eseguito il prelievo il campione viene immediatamente immerso in modo tale da ridurre al minimo artefatti e degradazione. Oltre ai liquidi cavitari, può essere impiegato anche per la maggior parte della citologia cervico-vaginale come l’analisi citologico su sputo, brushing, strisci, essudati e piccoli aspirati. Gli eccipienti attivi di CytoRich comprendono alcol isopropilico (10-39%), alcol metilico (7-13%), glicole etilenico (5-10%), formaldeide (0,1-1%) e soluzioni tampone. L’azione del CytoRich include l’emolisi dei globuli rossi, che sono elementi non utili alla diagnosi in

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quanto possono ostacolare la corretta interpretazione del preparato, e la fissazione delle cellule. L’attività emolitica comporta l’emulsione delle membrane degli eritrociti in modo selettivo e quindi la rottura mediata da una combinazione di alcol e lisi osmotica. È possibile che si verifichi una lisi lenta o una resistenza alla lisi completa per gli eritrociti di alcuni individui affetti da emoglobinopatia o in presenza di eritrociti senescenti.

L’attività fissativa è compiuta dalla miscela alcol-formaldeide ed ognuno di tali componenti dà un contribuito diverso migliorando la qualità complessiva della fissazione. Le globuline rilasciate dagli eritrociti e prelevate con il plasma sanguigno e i liquidi del tessuto interstiziale sono legate a ponte dalla formaldeide in soluzione prima della denaturazione con gli alcoli, impedendo così la formazione di super-aggregati (precipitati che si formano a seguito del fenomeno della flocculazione).

In certe cellule, le membrane, agiscono come barriere selettive che consentono agli alcoli di passare più rapidamente della formaldeide nel citoplasma e nel nucleoplasma e questo fa in modo che le cellule appaiono fissate con alcol. Successivamente, le giunzioni intercellulari e le proteine intracellulari sono fissate mediante legame incrociato dalla formaldeide, responsabile della stabilità a lungo termine delle cellule e dei frammenti di tessuto in sospensione [21, 22].

6. Recupero dell’antigene

La fissazione, come spiegato in precedenza, provoca inevitabilmente artefatti da denaturazione, inattivazione o inaccessibilità dei siti antigenici.

Questo fenomeno impedisce all’anticorpo di riconoscere e legare il relativo antigene e viene perciò chiamato mascheramento. Per rendere accessibile nuovamente l’epitopo le sezioni fissate ed incluse in paraffina vengono sottoposte a diverse tecniche che in generale sono definite “tecniche per il ripristino dell’antigenicità”. I principi su cui si basano queste tecniche sono fondamentalmente due: la digestione enzimatica che viene definita in inglese “unmasking” ossia “smascheramento” e i metodi basati sul calore che vengono definiti “antigen retrieval” ossia “recupero antigenico” o anche “HIER” (heat induced antigen retrieval).

L’azione degli enzimi consiste in una rottura selettiva dei legami chimici indotti dal fissativo o nella scopertura di antigeni mediante rottura di parti della proteina che , una vuota eliminate, consentono agli anticorpi l’accesso ad epitopi nascosti. Possono essere impiegati numerosi tipi di enzimi e miscele enzimatiche, quelli più utilizzati sono per esempio la pepsina, la tripsina, la pronasi e la proteinasi K. Ogni enzima opera a

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specifiche temperature, pH nonché può richiedere la presenza di cofattori perciò è necessario ottimizzare questi diversi parametri tramite opportune prove al fine di verificare le concentrazioni enzimatiche e i tempi più idonei per standardizzare le procedure evitando eccessive (ma anche troppo brevi) digestioni delle sezioni che potrebbero comportare perdita dell’antigenicità.

Il calore è il mezzo più utilizzato in laboratorio per il recupero antigenico, al punto tale da aver sostanzialmente accantonato completamente l’impiego degli enzimi. L’azione del calore comporta la rottura dei legami indotti dal fissativo, la denaturazione proteica, la chelazione del calcio e l’idrolisi. L’uso del calore è accoppiato a soluzioni a diverso pH necessarie per migliorare lo smascheramento e per tenere sempre idratate le sezioni, fattore fondamentale per garantire la riuscita delle reazioni di immunoistochimica. Analogamente agli enzimi anche per il calore è necessario standardizzare le procedure, in particolare è fondamentale ottimizzare la temperatura e il tempo di riscaldamento nonché i pH delle soluzioni per lo smascheramento.

6.1 HIER: heat induced epitope retrieval

L’uso del calore per il ripristino dell’antigenicità è attualmente largamente diffuso in anatomia patologica. Il successo dell’applicazione di queste tecniche a tessuti fissati in formalina e destinati alle colorazioni immunoistochimiche ha reso superfluo la ricerca di fissativi alternativi. Nel 1977 Prento e Lyon [23] hanno confrontato le performance di sei fissativi che potevano sostituire la formalina ed hanno concluso che la migliore colorazione immunoistochimica era ottenuta combinando la fissazione con quest’ultima alle tecniche di smascheramento con calore: nessuno dei sei fissativi era stato considerato adeguato a sostituire la formalina e in generale all’uso istopatologico. Le tecniche basate sull’uso del calore oltre ad essere utili per amplificare il segnale della reazione contribuiscono alla standardizzazione della routine in immunoistochimica visto che tali tecniche sono a loro volta ottimizzate e standardizzate. Un elemento chiave nella standardizzazione e nell’uso appropriato dello smascheramento tramite calore è comprendere i fattori più importanti che influenzano l’efficacia di queste tecniche; nei seguenti paragrafi sono riportati gli aspetti più significativi [18].

6.1.1 Condizioni di riscaldamento

Un risultato ottimale in immunoistochimica, utilizzando lo smascheramento con calore, è correlato con il prodotto tra temperatura e tempo di trattamento: T (temperatura di

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riscaldamento) x t (tempo di riscaldamento). Come spiegato in precedenza, l’impiego del calore quale sistema di smascheramento è motivato da studi biochimici secondo i quali le reazioni chimiche tra proteine e formalina possono essere, almeno in parte, reversibili, mediante l’uso di alte temperature o idrolisi alcalina forte.

Le reazioni chimiche che si verificano durante la fissazione in formalina rappresentano un processo ancora per molti aspetti oscuro, ma tramite diversi studi si è notato che mentre la componente dei tessuti che non subivano fissazione si denaturava a temperature comprese tra i 70°C e i 90 °C, le proteine fissate in formalina non subivano alcuna alterazione e ciò implica che quest’ ultime sono più resistenti alle alte temperature. Le tecniche di smascheramento che sfruttano il calore, perciò, sembra traggono vantaggio dal fatto che i cross-link indotti dal fissativo, proteggono la struttura primaria e secondaria delle proteine modificate dalla formalina dalla denaturazione durante la fase di riscaldamento ed allo stesso tempo riducono i legami crociati sulla superficie delle molecole ripristinando in tal modo l’antigenicità.

In generale le condizioni di riscaldamento sembrano essere i più importanti fattori per garantire l’efficacia delle tecniche di ripristino antigenico. Tali evidenze possono essere sintetizzate come segue: un significativo aumento del segnale della reazione immunoistochimica può essere raggiunto utilizzando alte temperature di riscaldamento in acqua distillata; in generale più la temperatura è alta migliori sono i risultati. Esiti equivalenti possono essere ottenuti utilizzando diverse soluzioni per lo smascheramento se il valore del pH di quest’ultime è monitorato e costante, dimostrando in tal modo che i singoli costituenti chimici non sono fattori determinati per ottenere risultati soddisfacenti. Bisogna tenere anche in considerazione che mantenere le sezioni in soluzioni per smascheramento senza l’apporto di calore non determina evidente e sufficiente ripristino antigenico [18].

6.1.2 pH e composizione chimica delle soluzioni impiegate nel recupero antigenico

Il pH delle soluzioni utilizzate è importante per la maggior parte degli antigeni. Questi possono essere distribuiti in tre ampie categorie in base all’importanza e al livello del pH per lo smascheramento:

 La maggior parte degli antigeni non ha mostrato variazioni significative utilizzando soluzioni con valori di pH compresi tra 1.0 e 10.0

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 Altri antigeni, in particolare antigeni nucleari (per esempio MIB1, ER), mostrano una evidente diminuzione dell’intensità di segnale a pH intermedi mentre risultati ottimali di hanno a pH bassi

 Un piccolo gruppo di antigeni (MT1, HMB-45) evidenziano un’immunocolorazione negativa o focalmente positiva molto debole a bassi pH (da 1.0 a 2.0) mentre risultati soddisfacenti a range di pH elevati.

A seguito di ulteriori studio effettuati da Evers e Uylings [24], è emerso che una tecnica di smascheramento adeguata per ottenere reazioni immunoistochimica soddisfacenti dipende otre che dalla temperatura dal pH della soluzione di smascheramento, la cui composizione chimica non incide sul risultato finale, in quanto è sufficiente che il pH si trovi ad un livello appropriato a seconda dell’antigene che si vuole evidenziare. Ad ogni modo, ci sono sempre certe situazioni in cui cofattori quali composizione e molarità delle soluzioni di smascheramento possono influenzare il risultato finale, ed è proprio quando gli esiti non sono quelli attesi che è necessario tenere in considerazione questi fattori.

In conclusione, i più importanti elementi che influenzano i risultati di una reazione immunoistochimica includono la temperatura e il tempo di riscaldamento (come visto in precedenza il prodotto T x t ) nonché molto importante è anche il pH delle soluzioni impiegate [18].

6.2 Apparecchiature impiegate per “l’antigen retrieval”

Il recupero dell’antigenicità, utilizzando il calore, richiede strumentazioni adeguate in grado di raggiungere alte temperature che possono essere mantenute il più possibile costanti. Le apparecchiature utilizzabili per lo smascheramento sono diverse: forni a microonde, pentole a pressione, autoclavi, bagni termostatici. Ognuno di questi strumenti presenta inevitabilmente vantaggi e svantaggi, per esempio il forno a microonde permette di raggiungere alte temperature in poco tempo ma spesso il riscaldamento non è uniforme (presenza di “hot e cold spots”), la pentola a pressione invece richiede tempi ridotti di smascheramento e raggiunge temperature molto elevate (fino a 120°C) ma al contempo rappresenta un rischio maggiore per l’operatore. Per tale motivo nel tempo si è cercato di migliorare queste strumentazioni impiegando sistemi combinati e cercando in particolare di perfezionare i risultati riducendo al minimo gli artefatti e mettendo a punto protocolli standardizzati.

Le apparecchiature attualmente più utilizzate sono i bagni termostatici in quanto garantiscono un controllo accurato della temperatura, costanza nella potenza erogata,

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base temperature di smascheramento e software in grado di controllare e registrare le attività dello strumento. Nel nostro istituto vengono principalmente impiegati due tipi di bagni termostatici: il più utilizzato si chiama PTLink (fornito dall’azienda Dako) che è costituito da due vasche in acciaio riscaldate alla base e all’interno delle quali viene posto il tampone per il recupero antigenico ogni vasca può contenere 24 vetri per ogni ciclo di smascheramento, i quali vengono semplicemente immersi nel tampone con l’ausilio di opportuni supporti. I tamponi utilizzati sono di due tipi: alto pH costituito da tampone tris EDTA 0,001 M pH 9.0 e basso pH composto da tampone citrato 0,01 M pH 6.0. i tamponi vengono forniti direttamente dalla Dako in forma concentrata, garantendo così migliore standardizzazione rispetto ai tamponi preparati direttamente in laboratorio. Lo strumento esegue lo smascheramento alla temperatura di 97°C per tempi compresi tra i 20 e i 40 minuti, in base alle valutazioni dell’operatore, e la sua peculiarità è che i vetrini non richiedono pre-trattamento, infatti l’apparecchio esegue sia sparaffinatura (favorita dalla presenza del tensioattivo Tween 20) che smascheramento antigenico, riducendo in tal modo i tempi. Una volta terminato il ciclo, è sufficiente porre i vetri in tampone di lavaggio a temperatura ambiente per 10 minuti e successivamente procedere con l’immunocolorazione manuale o automatica.

Il secondo tipo di bagnetto termostatato viene utilizzato per un numero esiguo di anticorpi (per esempio p16 ed HER-2) che richiedono l’impiego di soluzioni di smascheramento specifiche, che in genere differiscono solo per la composizione rispetto a quelle impiegate nel PTLink, ma che presentano tamponi e pH simili. L’apparecchiatura viene riempita di acqua distillata e all’interno viene poi immerso un contenitore con tampone, in cui una volta raggiunta la temperatura di 96-98°C si immergono i vetrini che vengono previamente sparaffinati e idratati (perciò tale procedura non prevede la sparaffinatura direttamente nel tampone come nel caso del PTLink). Questa modalità di smascheramento prevede tempi diversi per ogni tipo di antigene, che vengono scelti dall’operatore in base alla qualità dell’immunocolorazione finale. Il principale problema di questo strumento è la mancanza di un software in grado di seguire ogni fase della procedura di smascheramento.

Attualmente, nel tentativo di ridurre i tempi di ottimizzare le diverse fasi richieste per le colorazioni immunoistochimiche, si sta cercando di automatizzare tutte le fasi con strumentazioni in grado di eseguire sparaffinatura, smascheramento nonché tutte le fasi richieste per l’immunocolorazione.

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7. Immunoistochimica ed immunocitochimica

L’immunoistochimica (IHC) e l’immunocitochimica (ICC) sono tecniche che utilizzano una sonda. L’anticorpo, per rilevare la presenza dell’antigene specifico da esso riconosciuto, in genere una proteina, nelle cellule o tessuti oggetto di studio. Le metodiche di morfologia molecolare che utilizzano anticorpi come sonde hanno avuto un grande successo negli ultimi vent’anni e costituiscono un componente fondamentale dell’attività diagnostica istopatologia e citopatologia. Le ragioni di questo successo sono legate all’elevata specificità dei reagenti, alla disponibilità di un elevato numero di sonde in rapida espansione, alla disponibilità do sistemi di rivelazione molto sensibili e applicabili a differenti tipi di materiale, alla rapidità di esecuzione, alla possibilità di automazione (immunocoloratori) e ai costi contenuti.

I reagenti utilizzati nell’immunoistochimica comprendono:

 una sonda, rappresentata da un anticorpo policlonale o monoclonale;

 un sistema di rilevazione, che consiste in una sostanza legata all’anticorpo, un cromogeno fluorescente o un enzima in grado di modificare un cromogeno, e che permette di evidenziare al microscopio l’avvenuta reazione antigene-anticorpo nelle cellule o tessuto in esame [5].

7.1 Gli anticorpi

Gli anticorpi sono molecole proteiche presenti nel siero appartenenti alla superfamiglia delle immunoglobuline. Tali molecole vengono secrete dalle plasmacellule, ossia cellule che si differenziano dai linfociti B dopo l’attivazione di quest’ultimi indotta dall’antigene. Gli anticorpi sono costituiti da due differenti polipeptidi detti rispettivamente catene pesanti e leggere: ciascun anticorpo ha una caratteristica forma ad “Y” che consiste di die identiche catene pesanti e due identiche catene leggere. Entrambi i tipi di polipeptidi presentano una regione variabile amino-terminale, che differisce nella sequenza amminoacidica da un’immunoglobulina all’altra, e una regione costante, altamente conservata nella sequenza amminoacidica tra le immunoglobuline. Le regioni variabili contengono i siti in grado di riconoscere e legare l’antigene.

Gli anticorpi vengono classificati in base al tipo di catene leggere e pesanti, unite a quest’ultime tramite ponti disolfuro, possono essere del tipo κ o λ mentre le catene pesanti, unite a quest’ultime tramite pinti disolfuro, possono essere α, δ, ε, µ e γ che rappresentano rispettivamente gli isotipi IgA, IgD, IgE, IgM ed IgG. Tali anticorpi sono

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dotati di caratteristiche comuni ma al contempo possono essere differenziati in base alla loro diversa attività biologica [25].

Nell’ambito dell’immunoistochimica vengono impiegati anticorpi di classe IgG oppure IgM; preferibilmente però si utilizzano anticorpi di classe IgG vista l’elevata affinità che li contraddistingue.

Oltre alla classe impiegata gli anticorpi possono essere indifferenziati in base alla loro caratteristiche di affinità, avidità e specificità in anticorpi policlonali, monoclonali e ibridi:

 I sieri immuni o anticorpi policlonali si ottengono di solito da conigli o capre, opportunamente immunizzati con preparazioni antigeniche. L’introduzione nell’animale di una proteina evoca una risposta immune specifica diretta nei confronti dei diversi determinanti antigenici, o epitopi, presenti su di essa. La risposta immune si concretizza nella produzione di numerosi e differenti anticorpi, ognuno secreto da un distinto clone di plasmacellule e diretto contro un singolo epitopo dell’antigene. Pertanto nel siero dell’animale immunizzato sarà presente una miscela di anticorpi, costituita in parte da quelli diretti contro gli epitopi presenti nell’antigene, in parte da quelli diretti contro le sostanze adiuvanti eventualmente utilizzate e da quelli già presenti naturalmente nell’animale prima dell’immunizzazione [5].

 Gli anticorpi monoclonali sono immunoglobuline altamente specifiche dirette verso un singolo epitopo dell’antigene. Analogamente agli anticorpi policlonali vengono preparati mediante immunizzazione di una cavia, ma prevedono successivamente l’uso della tecnica degli ibridomi murini descritta nel 1975 da Kohler e MIlstein [26]. Le caratteristiche salienti degli anticorpi monoclonali sono l’elevata specificità per un singolo epitopo e la possibilità di ottenere reagenti omogenei in quantità praticamente illimitata.

La “tecnica degli ibridomi”, alla base della produzione di anticorpi monoclonali, prevede di prelevare una sospensione di linfociti B (cellule a vita media breve) dalla milza di un animale immunizzato (topo o ratto) e successivamente di mescolare le cellule B con le cellule di mieloma (tumore linfoide) della stessa specie animale (topo o ratto) in un medium di coltura contenente polietilenglicole che favorisce la fusione delle due cellule. Dalla fusione di linfocita B e cellula mielomatosa si forma un’ibridoma, ossia una coltura di cellule derivanti dalla fusione di un singolo linfocita B di un animale immunizzato verso un determinato antigene con una cellula di mieloma. L’ibrido accoppia la capacità di produrre un anticorpo specifico da una parte del linfocita con la caratteristica della cellula

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mielomatosa di crescere in coltura e secernere immunoglobuline indefinitamente. Dopo la fusione le cellule ibride sono selezionate attraverso l’aggiunta di sostanze che provocano la morte della cellula parentale di mieloma, e mentre le cellule della milza parentali hanno vita limitata e muoiono, solo le linee cellulari di mieloma ibride o ibridoma sopravvivono. Ogni cellula ibrida origina un clone cellulare che produce e secerne anticorpi monoclonali diretti contro un degli epitopi presenti sulla molecola dell’antigene con cui l’animale p stato immunizzato. Si esegue perciò la selezione del clone di ibridoma che produce l’anticorpo desiderato trasferendo piccole quantità di cellule in sub-colture o microcolture a bassa densità, fino a concentrazioni di una singola cellula, verificando di volta in volta la specificità del clone che produce l’anticorpo diretto verso l’epitopo che si vuole studiare, ed infine gli anticorpi sono purificati.

Oltre che in vitro con opportuni medium di coltura, gli anticorpi monoclonali possono essere ottenuti anche nella cavità peritoneale di animali in cui sia stato inoculato l’ibridoma. Dopo inoculazione, gli anticorpi monoclonali presenti nel liquido ascitico che si è formato nel cavo peritoneale, sono raccolti e purificati.

La produzione di anticorpi direttamente nel cavo peritoneale ha il vantaggio di essere maggiore rispetto alla sintesi in vitro; al contempo però la tecnica in vitro garantisce maggiore purezza rispetto all’antisiero ottenuto dal liquido ascitico in quanto quest’ultimo conterrà oltre all’anticorpo di interesse altre immunoglobuline e proteine che potrebbero causare successivamente fenomeni di background, ossia precipitazione aspecifica del prodotto di reazione durante la procedura immunoistochimica.

Attualmente per le tecniche di immunoistochimica vengono impiegati prevalentemente anticorpi monoclonali in quanto sono altamente specifici: ciò implica rischio di reazioni crociate, minore background ma allo stesso tempo bassa affinità e avidità che possono risultare un fattore limitante qualora l’antigene ricercato sia poco espresso o i suoi epitopi possano essere alterati nelle fasi di fissazione e processazione [5].

7.2. Sistemi di rivelazione

Gli anticorpi sonda sono proteine, molecole non visibili al microscopio, e devono pertanto essere marcati per poterne visualizzare la presenza una volta che si siano legati al determinante antigenico presente sul preparato istologico o citologico. Per visualizzare gli anticorpi sonda marcati si possono utilizzare diversi sistemi di rivelazione e di amplificazione del segnale: tali metodi si differenziano nei tempi di esecuzione (da una a

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molte ore), nei livelli di sensibilità, nelle caratteristiche applicative. La scelta del metodo dipende quindi dalle esigenze analitiche, dalle caratteristiche degli anticorpi, e dal tipo di materiale che si ha a disposizione (tessuto congelato o incluso in paraffina). Gli anticorpi possono essere marcati con sostanze fluorescenti, metalli o enzimi in grado di modificare un cromogeno. Le metodiche di base per la rilevazione della reazione vengono classificate come dirette ed indirette [5].

7.3.1 Metodo di rivelazione diretta

Le tecniche immunoistochimiche dirette prevedono che il marcatore sia legato direttamente all’anticorpo primario. Per esempio, per evidenziare un antigene a livello cellulare, l’anticorpo primario potrebbe essere un anticorpo di coniglio marcato con un fluorocromo e diretto contro l’antigene. L’impiego di anticorpi direttamente coniugati implica che è sufficiente utilizzare solo l’anticorpo primario e non ulteriori molecole perciò le procedure dirette sono più semplici e rapide, e storicamente sono state le prime ad essere utilizzate in immunoistochimica.

Il principale problema legato a questa tecnica è la scarsa versatilità e sensibilità in quanto è richiesta una elevata quantità di anticorpo altamente purificato ed ogni anticorpo deve essere marcato. Seppure dotate di elevata risoluzione, le metodiche dirette sono state ormai soppiantate dalle tecniche indirette in quanto caratterizzate da maggiore sensibilità e specificità. Le metodiche dirette vengono però ancora utilizzate a fine diagnostico per l’evidenziazione ed il riconoscimento di depositi di immunocomplessi o autoanticorpi nelle patologie autoimmuni e sottopopolazioni linfocitarie e nella caratterizzazione dei processi linfoproliferativi e mieloproliferativi [5].

7.3.2 Metodo di rivelazione indiretto

Il metodo di rivelazione indiretto è il più largamente utilizzato. L’anticorpo che riconosce l’antigene presente nella cellula o nel tessuto, definito anticorpo primario, viene visualizzato mediante una secondo sonda anticorpale, l’anticorpo secondario, che è coniugato con una molecola in grado di rivelare la reazione: le molecole più utilizzate sono enzimi. L’avvenuta reazione tra anticorpo primario ed antigene sarà quindi testimoniata dalla precipitazione di un cromogeno modificato dall’enzima nel sito di reazione e sarà visibile mediante la comune microscopia ottica.

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L’anticorpo secondario deve essere prodotto necessariamente in una specie diversa da quella dell’anticorpo primario in quanto riconosce come antigene la regione Fc do quest’ultimo; si tratta quindi anche in questo caso di una reazione antigene-anticorpo. Nel caso più comune l’anticorpo primario è un anticorpo monoclonale di topo mentre l’anticorpo secondario è un anticorpo di coniglio o di capra diretto nei confronti dell’anticorpo di topo. Il metodo indiretto è estremamente sensibile e ha il vantaggio che un solo anticorpo secondario marcato può essere utilizzato per riconoscere tutti gli anticorpi primari appartenenti alla stessa specie animale e dotati di specificità antigenica diversa [5].

La soglia di visibilità di una reazione immunoistochimica dipende dal numero e dalla concentrazione di molecole di antigene presente nel sito di reazione e dall’efficacia del sistema di amplificazione della reazione antigene-anticorpo. La quantità di antigene a livello tissutale è una variabile che dipende unicamente dall’oggetto in studio e perciò non può essere modificata. Il sistema di amplificazione ha visto invece numerose innovazioni e perfezionamenti che hanno reso possibile la visualizzazione sulla sezione anche di quantità minime di antigene. I metodi di amplificazione più diffusi sono quelli che utilizzano i complessi avidina-biotina, perossidasi-antiperossidasi e i polimeri.

Nello studio intrapreso è stato utilizzato come sistema di amplificazione “Dako REAL TM

EnVisionTM/HRP, Rabbit/Mouse. Tale sistema prevede l’utilizzo di polimeri di destrano a cui sono legate direttamente circa 20 molecole anticorpali ed oltre 100 molecole di enzima perossidasi. L’anticorpo primario legato al polimero viene principalmente utilizzato qualora sia richiesta tempestività nel risultato del test: per esempio in indagini estemporanee durante una seduta operatoria. In questo studio sono stati utilizzati solo polimeri coniugati con anticorpi secondari ed enzima che risultano essere più idonei in quanto “universali”: i polimeri infatti presentano anticorpi di capra in grado di legare la regione Fc sia delle immunoglobuline di topo che di coniglio e perciò risultano essere adeguati per effettuare tutta la routine. I vantaggi principali dell’uso dei polimeri è che garantiscono un’elevata sensibilità, una riduzione del background e la riduzione delle fasi operative, nonché con tali reagenti si elimina il problema dell’aspecificità legata alla presenza della biotina endogena qualora vengano utilizzati sistemi di amplificazione che impiegano compressi avidina-biotina [5].

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8. Le neoplasie

Il termine neoplasia significa “nuova crescita”. In origine il termine tumore si applicava al gonfiore causata da un’infiammazione, ma questo uso è quasi del tutto scomparso e il termine è oggi divenuto sinonimo di neoplasia. L’oncologia (dal greco òncos ossia rigonfiamento) è la branca della medicina che ha come oggetto di studio i tumori.

L’oncologo inglese Willis ha definito la neoplasia come “massa abnorme di tessuto, la cui crescita supera in maniera scoordinata quella dei tessuti normali e progredisce anche dopo la cessazione degli stimoli che ne hanno causato l’insorgenza” [27]. È noto che la persistenza dei tumori, anche quando lo stimolo scatenante è terminato, deriva dalla alterazioni genetiche ereditabili che vengono trasmesse alla progenie delle cellule tumorali. Queste modificazioni genetiche sono alla base dell’eccessiva e sregolata proliferazione che diventa autonoma (ossia indipendente dagli stimoli fisiologici di crescita) e afinalistica, sebbene i tumori rimangano in genere dipendenti dall’ospite per la nutrizione e l’apporto ematico. I tumori, in base alle loro caratteristiche, possono essere distinti in due grandi gruppi: tumori benigni e tumori maligni. Un tumore si definisce benigno quando le sue caratteristiche macroscopiche e microscopiche sono considerate relative innocue, per cui la formazione rimarrà circoscritta alla sede di origine, non potrà diffondere in altre sedi e si presterà di norma all’asportazione chirurgica con sopravvivenza del paziente. Occorre tuttavia notare che i tumori benigni possono produrre manifestazioni che vanno ben oltre la massa localizzata e talvolta sono responsabili di gravi patologie.

I tumori maligni sono comunemente indicati con il termine cancro, dalla parola latina che significa “granchio”, in quanto aderiscono in maniera tenace a qualsiasi superficie con cui entrano in contatto, proprio come il crostaceo, nonché per la loro caratteristica forma. L’attributo maligno, applicato a una neoplasia, implica che la lesione possa invadere e distruggere le strutture adiacenti e diffondere a sedi distanti (metastatizzare) causando la morte. Tutti i tumori, siano essi benigni che maligni, presentano due componenti di base comuni:

1. Cellule neoplastiche clonali (derivanti da una stessa cellula che ha subito un’alterazione genetica) che costituiscono il parenchima tumorale;

2. Uno stroma di sostegno costituito da un tessuto connettivo, vasi sanguigni, macrofagi e linfociti che sono parte del “tumor microenviroment”.

Benché a determinare il comportamento del tumore e le sue conseguenze patologiche siano fondamentalmente le cellule neoplastiche, la loro crescita ed evoluzione dipende

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dallo stroma perché è indispensabile un adeguato apporto di sangue affinché le cellule tumorali sopravvivano e si replichino, e il tessuto connettivo stromale fornisce il supporto strutturale essenziale per le cellule in accrescimento, tra le cellule tumorali e quelle stromali, inoltre, vi è una comunicazione che influenza direttamente la crescita dei tumori. In alcuni casi, la componente stromale è limitata, per cui la neoplasia si presenta soffice e carnosa; in altri, le cellule parenchimali stimolano la formazione di abbondante collagene, un fenomeno denominato desmoplasia. La classificazione dei tumori e il loro comportamento biologico sono basati principalmente sulla componente parenchimale (21). Le neoplasie, oltre ad essere definite in base alle caratteristiche di benignità e malignità, vengono classificate secondo il “criterio istogenetio”, ossia in base all’identificazione istologica del tessuto da cui ha preso origine il tumore. Le neoplasie possono essere classificate in:

 Tumori di origine epiteliale: derivano dalla cute e dalle varie mucose;

 Tumori di origine mesenchimale: derivano dal mesenchima, il tessuto embrionale che per differenziazione dà origine a tutti i tipi di tessuto connettivo e derivati; Tumori del sistema melanoforo: derivano dai melanociti, cellule che originano dalla cresta neurale e durante lo sviluppo migrano in determinati epiteli dove sintetizzano il pigmento melanina:

 Tumori del tessuto emopoietico: derivano dalle cellule staminali emopoietiche del midollo osseo (leucemie), o dai linfociti maturi (linfomi);

 Tumori del sistema nervoso: derivano dai diversi citotipi presenti nel sistema nervoso centrale (cellule nervose embrionali o adulte, astrociti, oligodendroglia, ependima, guaine del tessuto nervoso, cellule meningee);

 Tumori di origine placentare ed embrionale: derivano dalla placenta o dai tessuti embrionali.

Nelle neoplasie benigne e in quelle maligne ben differenziate, le cellule parenchimali sono ,molto simili fra loro, come se fossero tutte derivate da una singola cellula; in effetti sembra che la maggior parte delle neoplasie sia di origine monoclonale. In alcuni casi, però, le cellule originarie possono andare incontro a una differenziazione divergente dando origine ai tumori misti. Un esempio è il tumore misto delle ghiandole salivari in cui la componente epiteliale è dispersa in uno stroma mixoide in cui a volte si ritrovano anche isole di cartilagine o di osso. Si ritiene che tutti questi elementi derivino da un singolo clone in grado di dare origine a cellule epiteliali e mioepiteliali, ragione per cui la denominazione preferibile per questa forma neoplastica è “adenoma pleomorfo”. La maggior parte delle

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neoplasie, tumori misti inclusi, è composta da cellule rappresentative di un singolo foglietto embrionale. I teratomi, invece, contengono cellule mature ed immature rappresentative di più di un foglietto embrionale e, talvolta, di tutti e tre. I teratomi originano da cellule totipotenti che hanno la capacità di differenziarsi in qualsiasi citotipo presente nel corpo umano adulto e dunque possono dare origine a neoplasie che mimano qualsiasi tessuto come osso, cute, muscolo, grasso, nervi e altri. Infine un ultimo tipo di lesioni sono rappresentate dagli amartomi che si presentano come masse disorganizzate ma di apparenza benigna, composte da cellule normalmente presenti nel tessuto in questione. Un esempio è l’amartoma condroide polmonare, una lesione che presenta isole disorganizzate ma istologicamente normali di cartilagine, bronchi e vasi sanguigni [28].

8.1 Tumori benigni

Sono designati attaccando il suffisso “-oma” al tipo cellulare da cui insorge il tumore Adenoma è il termine usato per le neoplasie epiteliali benigne derivato da tessuto ghiandolare (anche le mucose sono considerate tessuto ghiandolare). Le neoplasie benigne da epitelio di rivestimento che producono isolate formazioni aggettanti nel lume o sulla superficie vengono designate papillomi (struttura “a cavolfiore”) e polipi (struttura “a fungo”).

Il nome attribuito ai diversi tumori benigni si ottiene aggiungendo il suffisso – oma al tipo di cellule da cui la neoplasia ha origine; questa regola vale di norma per i tumori di origine mesenchimale. Un tumore benigno che origina in un tessuto fibroso, pertanto, sarà detto fibroma, mentre un tumore cartilagineo benigno sarà un condroma. La classificazione dei tumori epiteliali benigni, invece, è più complessa: essi sono raggruppati in vario modo, alcuni sulla base delle loro cellule di origine, altri sulla base dell’architettura microscopica e altri ancora sulla base delle loro caratteristiche macroscopiche.

Adenoma è il termine applicato alle neoplasie benigne epiteliali derivate da tessuto ghiandolare, sebbene ciò non implichi necessariamente che abbiano una struttura ghiandolare. Si definirà pertanto adenoma sia una neoplasia epiteliale benigna che origina dalle cellule tubulari renali e cresce sotto forma di numerose piccole ghiandole strettamente raggruppate, sia una massa eterogenea di cellule della corteccia surrenalica che cresce senza riprodurre un aspetto caratteristico. Le neoplasie epiteliali benigne che generano proiezioni sulla superficie epiteliale simili una digitazione o a una verruca sono denominati papillomi. Quelli che formano grandi masse cistiche, come avviene nell’ovaio,

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sono denominate cistoadenomi quando infine una neoplasia, benigna o maligna presenta una proiezione macroscopicamente visibile a livello di una superfice mucosa e aggetta, ad esempio nel lume gastrico o nel colon, viene denominata polipo [28].

8.2 Tumori maligni

La classificazione dei tumori maligni segue essenzialmente lo stesso principio utilizzato per le neoplasie benigne, con alcune ulteriori specificazioni. I tumori maligni che originano nel tessuto mesenchimale sono di solito chiamati sarcomi (dal greco sarkos ossia carne), in quanto la ridotta quantità di tessuto connettivo li rende carnosi (per esempio il fibrosarcoma, il condrosarcoma, il leiomiosarcoma e il rabdomiosarcoma). Le neoplasie maligne di origine epiteliale, derivate da uno qualsiasi dei tre foglietti embrionali (ectoderma, mesoderma, endoderma), sono chiamate carcinomi. Quest’ultimi possono essere ulteriormente distinti in carcinomi a cellule squamose ed adenocarcinomi. I carcinomi a cellule squamose sono un tipo di cancro nel quale le cellule tumorali imitano l’epitelio stratificato squamoso, mentre il termine adenocarcinoma denota una lesione in cui le cellule neoplastiche epiteliali crescono in strutture ghiandolari. Talvolta è possibile identificare il tessuto o l’organo di origine, come avviene per l’adenocarcinoma renale o il carcinoma broncogeno a cellule squamose. Non di rado, tuttavia, in cancro è costituito da cellule indifferenziate di origine ignota che, possono essere riconosciute con l’ausilio dell’immunoistochimica e se anche questa non è di aiuto allora il cancro viene disegnato come tumore maligno indifferenziato o scarsamente differenziato [28].

Riferimenti

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