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Ottimizzazione geometrica di microspecchi MEMS ad attuazione elettromagnetica

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Academic year: 2021

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(1)

C

ORSO DI

S

TUDI IN

I

NGEGNERIA

E

LETTRONICA

T

ESI DI

L

AUREA

M

AGISTRALE

Ottimizzazione geometrica di

microspecchi MEMS ad attuazione

elettromagnetica

RE LATORI:

Prof. Francesco Pieri

Prof. Giuseppe Iannaccone

(2)

Introduzione...1

1 Storia dei Microspecchi ... 4

1.1 I Primi Microspecchi ... 5

1.2 Microspecchi 1D ... 7

1.3 Microspecchi 2D ... 9

2 Applicazioni dei Microspecchi ... 11

2.1 MOEMS ... 12

2.2 Pico-Proiettori ... 13

2.3 3D Micro Laser Scanners ... 15

2.4 Virtual Touchscreen ... 16 2.5 Micro-Spettrometri ... 16 3 Specifiche Ottiche ... 18 3.1 La Diffrazione ... 19 3.2 Specchio Rettangolare ... 23 3.3 Specchio Circolare ... 26 3.4 La Risoluzione di un Microspecchio ... 29

3.5 Planarità Statica e Dinamica ... 35

3.6 Microspecchi in Risonanza e Quasi-Statici ... 38

3.7 Parametri di Merito ... 40

4 Tipi di Microspecchi ... 42

4.1 Microspecchi Elettrostatici ... 43

4.2 Microspecchi Elettromagnetici ... 47

4.2.1 Tecniche di Fabbricazione dei Microspecchi Elettromagnetici ... 52

4.3 Microspecchi Piezoelettrici ... 55

4.4 Microspecchi Elettrotermici ... 56

4.5 Confronto tra i Metodi di Attuazione ... 58

5 Modello Analitico ... 60

5.1 Convenzioni ... 62

(3)

5.3.1 Proprietà Elettriche e Magnetiche ... 65

5.3.2 Proprietà Meccaniche ... 66

5.3.3 Proprietà Imposte dalla Tecnologia ... 66

5.4 Equazioni Elettriche ... 67

5.5 Distribuzione del Campo Magnetico ... 68

5.6 Equazioni Meccaniche... 70

5.7 Campo Magnetico diretto lungo z ... 72

6 Ottimizzazione ... 73

6.1 Primo Approccio – Campo Magnetico Fisso ... 75

6.2 Secondo Approccio – Campo Magnetico Variabile ... 80

6.2.1 Trade-Off tra Lunghezza Totale lTy e Frequenza di Risonanza fφ .. 81

6.2.2 Trade-Off tra Lunghezza Totale lTy e Larghezza Totale lTx ... 86

7 Validazione Fem ... 90

7.1 La Scelta del Metodo di Validazione ... 91

7.2 Descrizione Script ... 91

7.2.1 Fase di Pre-Processing ... 92

7.2.2 Fase di Meshing ... 94

7.2.3 Applicazione dei Vincoli e dei Carichi ... 96

7.2.4 Soluzioni ... 97

7.2.5 Post-Processing ... 99

8 Conclusioni ... 102

9 Appendice ... 104

9.1 Distribuzione del Campo By ... 105

9.2 Mathematica ... 106

(4)

I

NTRODUZIONE

I dispositivi elettronici hanno caratterizzato senza dubbio il mondo negli ultimi anni e la loro diffusione ha raggiunto ogni tipo di ambiente. Queste innovazioni hanno cambiato la vita quotidiana dal momento che non c’è attività che non venga svolta o controllata per mezzo dell’elettronica. Il miglioramento delle prestazioni, la riduzione dei costi e la riduzione delle dimensioni sono diventati i pilastri dell’evoluzione nei semiconduttori. In un mondo in cui predomina oramai la diversificazione piuttosto che la miniaturizzazione, l’introduzione di sensori ed attuatori all’interno dei sistemi elettronici attira sempre più l’interesse dei consumatori, spingendo le aziende di dispositivi elettronici verso soluzioni “more than Moore” piuttosto che “more Moore.”

La legge di Moore afferma che la densità di integrazione dei chip raddoppia ogni 24 mesi circa, cioè, ogni 24 mesi (un ciclo) è possibile dimezzare la superficie occupata sul silicio mantenendo lo stesso circuito e lo stesso numero di dispositivi. La strada della legge di Moore non è però più l’unica perseguibile: il mondo dell’elettronica continua a proporre nuove soluzioni tramite l’affiancamento di microsensori e microattuatori alle già affermate soluzioni digitali (anche relative a nodi tecnologici non attuali) mantenendo il mercato sempre innovativo.

Fig. 0.1 – Grafico tecnologie competitive “More Moore” & “More than Moore”, riadattato da [1].

(5)

Infatti oggi il ciclo della legge di Moore sta rallentando, dato che avvicinano i limiti invalicabili della legge fisica. La ricerca nel settore elettronico si è quindi spostata verso soluzioni che integrano sistemi microelettromeccanici (Micro-electro-mechanical System o MEMS) all’interno del package, ovvero sensori e attuatori realizzati su uno stesso substrato di semiconduttore. Questi sistemi sono capaci di abbinare funzioni elettroniche, ottiche, di gestione dei fluidi, chimiche, biologiche e meccaniche, ottenendo tutto quello che serve per attirare le nuove grosse porzioni sul mercato dell’elettronica.

I microspecchi MEMS, oggetto di questa tesi, sono dispositivi MEMS che negli ultimi anni stanno suscitando un grande interesse. I microspecchi sono dispositivi che consentono la deviazione della luce su di essi incidente, controllandone l’angolo. Questa categoria di MEMS è oggetto di interesse delle più importanti aziende di semiconduttori, perché rappresenta una tecnologia abilitante per molte nuove applicazioni come proiettori, scanner, LIDAR. Un aspetto interessante dei microspecchi è la possibilità di realizzarli economicamente utilizzando le tecniche di fabbricazione dei semiconduttori. La micro-fabbricazione parallela di più dispositivi sullo stesso wafer di silicio offre infatti alti volumi di produzione riducendo i costi non ricorrenti sui singoli prodotti.

Esistono varie tipologie di microspecchi, distinte tra loro per il metodo di attuazione e le caratteristiche che ne derivano. In questo lavoro verrà trattato un microspecchio ad attuazione elettromagnetica, che rappresenta una tecnologia compatibile con le specifiche richieste dalle applicazioni portatili di proiezione/acquisizione delle immagini, ovvero basse tensioni di pilotaggio e discrete miniaturizzazioni. Inoltre, l’attuazione elettromagnetica è intrinsecamente lineare e può essere ottenuta facilmente dall’integrazione di bobine (o magneti) sul microspecchio.

La tesi è strutturata in sette capitoli. Nel primo capitolo il lavoro della tesi tratta una breve presentazione storica dei primi microspecchi realizzati. Nel secondo capitolo, viene illustrata una carrellata di possibili applicazioni per i microspecchi. Nel terzo, sono messi in evidenza tutti i possibili parametri di merito per la categoria dei microspecchi, in maniera tale da fornire i corretti strumenti di confronto tra microspecchi differenti. Il capitolo 4 presenta tutti i metodi, conosciuti in

(6)

di rotazione. Successivamente, nel capitolo 6, presento un metodo di ottimizzazione di specifici parametri di merito del microspecchio, determinando le geometrie adatte al raggiungimento di tali obiettivi di ottimizzazione. A supporto del modello teorico segue, nell’ultimo capitolo, la validazione numerica dei risultati. La convalida è ottenuta comparando il modello analitico con un modello descritto col metodo degli elementi finiti.

(7)

C

APITOLO

1

S

TORIA DEI

M

ICROSPECCHI

Con una prima introduzione storica dei microspecchi spiegheremo il perché della particolare forma che assumono oggi. Capire il loro funzionamento è essenziale per poter poi introdurre alcune possibili problematiche su vari aspetti della struttura. Mostreremo come durante il corso degli anni sono emerse due diverse scelte progettuali, microspecchi 1D e microspecchi 2D, ognuna delle quali impiega un numero diverso di specchi per effettuare la proiezione/scansione bidimensionale. Verrà quindi descritto il principio di funzionamento di questi due differenti metodi per individuarne vincoli progettuali, vantaggi e svantaggi.

(8)

1.1

I

P

RIMI

M

ICROSPECCHI

La prima forma di microspecchio venne realizzata da Jens Guldberg e Noel Thomas nel 1975 e descritta nell’articolo [2] “Mirror-Matrix Tube” per la modulazione meccanica della luce. La soluzione scoperta utilizzava un microspecchio costituito da una membrana a forma di quattro foglie rettangolari, ciascuna quasi completamente libera ad eccezione dello spigolo di ancoraggio al substrato, come mostrato in Fig. 1.1.1.

Fig. 1.1.1 – Mirror Matrix Tube di J. Guldberg e R. N. Thomas al microscopio elettronico a scansione (SEM).

Se irradiata da un fascio di luce, la singola foglia in posizione di riposo, permette la riflessione sul piano di proiezione. Il microspecchio è realizzato con una membrana di SiO2, come già detto a forma di quattro foglie ed accresciuta epitassialmente sul substrato di silicio, sulla quale vengono deposte delle piste di alluminio (Fig. 1.1.2). L’attuazione meccanica avviene tramite attrazione elettrostatica tra le piste di alluminio e l’elettrodo sottostante. Le piste di alluminio vengono caricate tramite un fascio di elettroni ottenendo in questo modo, la deflessione della foglia all’applicazione di una tensione di polarizzazione sul corrispondente elettrodo.

(9)

Fig. 1.1.2 – Sezione dello specchio a quattro foglie.

La struttura e il principio di funzionamento dei microspecchi di oggi sono differenti rispetto a questo primo approccio da parte di Guldberg e Thomas. Infatti, nelle recenti strutture a microspecchio, gli ancoraggi si trovano ai due estremi opposti del piatto riflettente, lasciando il resto dello specchio libero di muoversi in entrambe le direzioni di rotazione, così da ottenere un angolo complessivo di rotazione raddoppiato. Questa soluzione venne sperimentata per la prima volta da Petersen [3] nel 1980, modificando la forma del microspecchio di Guldberg e Thomas in un’unica struttura cristallina (c-Si), costituita da un piatto riflettente libero di ruotare ed agganciato al substrato solo da due piccole travi di semiconduttore che fungevano da molle torsionali per il movimento di ritorno. La forma del microspecchio di Petersen, indicata in Fig. 1.1.3, è fondamentalmente la stessa dei microspecchi di uso attuale.

(10)

Il meccanismo di attuazione rimane quello degli elettrodi posizionati nella parte inferiore del microspecchio come mostrato in Fig. 1.1.4.

Fig. 1.1.4 – Sezione dello specchio di Petersen.

Viene comunque inserita da Petersen una cresta di substrato: una sorta di supporto per evitare che lo specchio oscilli trasversalmente, ovvero che scenda parallelamente verso la buca realizzata per permetterne la rotazione vincolata.

1.2

M

ICROSPECCHI

1D

La struttura scoperta da Petersen è quella utilizzata essenzialmente in tutti i microspecchi 1D attuali, ad esclusione del metodo di attuazione. Questa tipologia 1D di microspecchi viene identificata come monodimensionale per la presenza di un singolo asse di rotazione, come illustrato in Fig. 1.2.1.

Fig. 1.2.1 – Microspecchio generico a singolo asse di rotazione (1D) in due diverse posizioni (a) e (b) assunte ad istanti differenti durante l’oscillazione.

L’asse di rotazione è collineare agli ancoraggi dello specchio con il substrato, ovvero alle molle torsionali che mantengono il piatto dello specchio sospeso. Naturalmente esistono tante varianti di microspecchio 1D che si distinguono sia per

(11)

la forma sia per le strutture perimetrali allo specchio, strutture dedicate all’attuazione del dispositivo. Alcuni esempi in Fig. 1.2.2.

Fig. 1.2.2 – Alcuni esempi di microspecchi 1D al SEM con attuazione: (a) elettrostatica [4]; (b) piezoelettrica [5]; (c) elettromagnetica [6].

Nell’obiettivo di inserire questa tipologia di microspecchio monodimensionale all’interno di sistemi per la proiezione delle immagini o per applicazioni laser scanner 3D necessiteremo dell’utilizzo di una coppia di microspecchi, uno per ognuna delle due direzioni ortogonali di scansione sul piano di proiezione. Quindi un microspecchio per la scansione orizzontale, generalmente la più veloce tra le due, e un altro per la scansione verticale, più lenta sullo schermo. Il principio di funzionamento dei due microspecchi a singolo asse di rotazione viene illustrato nelle seguenti immagini:

(12)

Essendo pilotato ad una frequenza notevolmente maggiore rispetto a quella dello specchio per la scansione verticale, il microspecchio in oscillazione orizzontale viene progettato per essere attuato alla sua frequenza di risonanza, ottenendo la possibilità di raggiungere frequenze generalmente superiori, come spiegato nella sezione 3.6. Al contrario, lo specchio con la frequenza di rotazione più lenta viene pilotato in condizioni quasi-statiche, ovvero ad una frequenza molto minore rispetto alla sua frequenza di risonanza [7]. Questa strategia di pilotaggio è tra gli approcci più comuni presenti in letteratura per ottenere la scansione 2D. Con il metodo di scansione bidimensionale (Fig. 1.2.3), l’utilizzo di due diversi specchi comporta senza dubbio una maggiore occupazione di volume rispetto alle soluzioni con microspecchi 2D (che analizzeremo nel paragrafo successivo), ma i microspecchi 1D, a differenza di quelli bidimensionali, non presentano fenomeni di disturbo legati alla contemporanea presenza delle due oscillazioni ortogonali tra loro.

1.3

M

ICROSPECCHI

2D

L’alternativa più compatta per la scansione bidimensionale prevede l’utilizzo di un microspecchio 2D, ovvero un unico microspecchio che abbia la possibilità di ruotare lungo due diversi assi di rotazione ortogonali tra loro. In linea generica il sistema è costituito dal classico piatto riflettente posizionato al centro della struttura, piatto che si aggancia tramite una coppia di molle torsionali ad un frame esterno di supporto. Questa prima coppia di ancoraggi permette il movimento dello specchio lungo l’asse di rotazione a scansione più rapida (l’asse x sul piano di proiezione) come indicato in Fig. 1.3.1. Il frame di supporto è a sua volta sospeso in aria ed ancorato al substrato esclusivamente tramite altre due molle torsionali che, a differenza delle precedenti, sono disposte lungo l’asse di rotazione y e ne permettono la scansione lungo l’omonimo asse sul piano di proiezione.

(13)

Oltre ad essere una soluzione generalmente più complessa a livello progettuale, il microspecchio 2D presenta delle problematiche legate alla cinematica. La presenza di entrambe le rotazioni causa l’indesiderato accoppiamento tra i due assi rotazionali ottenendo dei modi oscillatori spuri di ordine superiore a quello previsto nelle rispettive strutture [7]. Come per i microspecchi 1D, la strategia comune prevede l’attuazione della rotazione più rapida con un pilotaggio alla frequenza di risonanza (Fig. 1.3.2) e l’attuazione dell’oscillazione più lenta (in condizioni quasi-statiche) tramite il pilotaggio ad una frequenza notevolmente inferiore rispetto a quella di risonanza (Fig. 1.3.3).

Fig. 1.3.2 – Attuazione del piatto interno del microspecchio 2D alla frequenza di risonanza in due diversi istanti (a) e (b).

(14)

C

APITOLO

2

A

PPLICAZIONI DEI

M

ICROSPECCHI

In questo capitolo parleremo dei possibili utilizzi dei microspecchi. Le svariate tipologie di questi microsistemi (MOEMS) vanno ad inserirsi in contesti applicativi differenti a seconda delle caratteristiche che presentano. È utile quindi riuscire a capire come queste nuove tecnologie riescano a soddisfare le ingenti richieste da parte del mondo consumer, e a migliorare le funzionalità di sistemi più complessi. Il motivo di questa panoramica sulle possibili applicazioni è rendere chiaro come i microspecchi possano suscitare interesse e di conseguenza perché è importante approfondirne lo studio ricercando tecnologie sempre più innovative ed ottimizzate. Prima di fare ciò, è bene apprendere il concetto di MOEMS come categoria di dispositivi della quale i microspecchi fanno parte.

(15)

2.1

MOEMS

I sistemi a microspecchi in letteratura sono individuati come appartenenti alla categoria dei MOEMS (Micro-Opto-Electro-Mechanical System), ovvero dei sistemi il cui studio è ottenuto dall’unione dei settori scientifico elettronico, ottico e meccanico. Questi sistemi possono essere considerati una particolare sottocategoria di MEMS (Micro-Electro-Mechanical System) che include l’acquisizione e la manipolazione dei segnali ottici; tutto questo ovviamente su scala notevolmente ridotta.

Fig. 2.1.1 – Diagramma dei microsistemi, riadattato da [8].

Quando si parla di MOEMS in generale, il sistema ha tre diversi domini. Ognuno di questi domini elabora in qualche modo delle informazioni che possono o meno transitare da un dominio all’altro. Nel caso specifico dei microspecchi l’informazione di natura elettrica viene trasformata in un’altra di natura ottica. Per effettuare la sopraddetta conversione si transita dal dominio meccanico perché i segnali ottici, oltre ad essere manipolati tramite lenti ottiche o altri componenti, vengono modulati tramite la riflessione di microspecchi, e la posizione meccanica

(16)

Alcuni esempi applicativi dei microspecchi sono: • Pico-Proiettori

• 3D Micro Laser Scanner • Virtual Touchscreen • Micro-Spettrometri

2.2

P

ICO

-P

ROIETTORI

Grazie alle loro caratteristiche i pico-proiettori sono dei sistemi estremamente piccoli, capaci di proiettare immagini e video fino a qualche metro di distanza con elevata luminosità. Sono considerati tra le applicazioni a bassa potenza per il loro ridotto consumo di energia e, nell’obiettivo di essere introdotti all’interno di dispositivi portatili come smartphone, tablet e notebook, i pico-proiettori hanno specifiche importanti in termini di volume e peso minimi.

Fig. 2.2.1 – Dimensioni indicative di pico-proiettori [9].

Una categoria di pico-proiettori creati dalla Texas Instruments all’interno della tecnologia DLP (Digital Light Processor) sfrutta il modulo ottico chiamato DMD (Digital Micromirror Device) basato sull’utilizzo di array di microspecchi (Fig. 2.2.2). Per determinare la luminosità del singolo pixel basterà variare il duty cycle fornito al corrispondente microspecchio ottenendo così un’intensità controllata del colore in proiezione su quel determinato pixel.

Fig. 2.2.2 – Celle base di un array di microspecchi all’interno di un DLP, riadattamento da [10].

(17)

Un’altra categoria di pico-proiettori è caratterizzata dall’utilizzo di LSB (Laser Beam Scanning)[11]. In quest’ultimo caso il modulo ottico dei pico-proiettori è composto da: tre diodi laser di colore rispettivamente rosso, verde e blu (tecnologia RGB); uno o due microspecchi per le deflessioni del pixel sullo schermo in direzione x e y; altri elementi ottici passivi come lenti e/o filtri ottici. Un esempio è rappresentato in Fig. 2.2.3.

Fig. 2.2.3 – Pico-Proiettore LSB, immagine riadattata da [11].

In Tabella 2.2.1 vengono elencate le specifiche richieste dai vari formati video attualmente in uso.

Formato Video QVGA VGA SVGA XGA SXGA UXGA HDTV

Risoluzione Orizzontale 320 640 800 1024 1280 1600 1920

Risoluzione Verticale 240 480 600 768 1024 1200 1080

θmax∙D [deg∙mm] 3.9 7.8 9.7 12.4 15.6 19.4 23.3

(18)

frequenze; difficoltà dovute ai limiti imposti dalla diffrazione introdotta dallo specchio sul fascio proiettato e dalla struttura meccanica del microspecchio. Tali complessità verranno rese più chiare nella sezione 3.7, solo dopo aver appreso il concetto di diffrazione e come questa dipenda inevitabilmente dalle dimensioni del microspecchio.

2.3

3D

M

ICRO

L

ASER

S

CANNERS

I micro laser scanner appartengono alla categoria dei MEOMS di tipo ultra-fast per la modulazione dinamica della luce. Attualmente i laser scanner vengono utilizzati per la rilevazione di oggetti in movimento o per l’acquisizione delle superfici 3D ma presentano un elevato potenziale per le future applicazioni in ambito HMI (Human Machine Interface). Un esempio di queste applicazioni è il riconoscimento di strutture 3D sotto esame con successiva estrazione dell’informazione digitalizzata, come ad esempio la particolare posizione della mano dell’operatore mostrata in Fig. 2.3.1.

Fig. 2.3.1 – Analisi della posizione della mano tramite triangolazione, immagine riadattata da [13].

Tramite dei microspecchi vengono generate una per volta delle strisce di luce che, dopo la riflessione sull’oggetto da acquisire, determinano un certo profilo sulla camera di acquisizione. La camera è posizionata con un angolo ben noto rispetto alla sorgente così da poter risalire tramite triangolazione alla profondità dell’oggetto lungo la striscia di volta in volta irradiata. La medesima operazione ripetuta con una coordinata di striscia ζ ogni volta differente permette di ricostruire la superficie esterna dell’oggetto 3D [13].

(19)

2.4

V

IRTUAL

T

OUCHSCREEN

Una applicazione innovativa per i microspecchi è l’implementazione del classico modulo ottico per la proiezione (pico-proiettore) combinato ad un modulo di lettura della riflessione che permette di rilevare la presenza di oggetti posizionati davanti al piano di proiezione ed indicarne quindi la posizione (Fig. 2.4.1). A differenza del laser scanning questo tipo di applicazione è molto più compatta perché non utilizza il metodo della triangolazione, bensì una semplice lettura dell’intensità della luce riflessa. La lettura può essere fatta attraverso un modulo fotosensibile posto in prossimità dell’apertura del proiettore, ottenendo quindi un sistema molto piccolo e compatto. In base alla quantità di luce riflessa dall’oggetto (nell’ipotesi di riflettenti dello stesso tipo) è possibile identificare se in corrispondenza del pixel momentaneamente proiettato è presente oppure no un oggetto più vicino all’apertura del fotorilevatore (rispetto alla distanza del piano di proiezione) [14] .

Fig. 2.4.1 – Touchscreen virtuale.

2.5

M

ICRO

-S

PETTROMETRI

I microspecchi vengono utilizzati anche all’interno di applicazioni per il rilevamento e la quantificazione di sostanze chimiche tramite analisi spettroscopiche. La presenza di microspecchi in movimento è utile per effettuare una scansione della luce emessa o riflessa dall’ambiente sotto esame e quindi analizzarne lo spettro tramite altri moduli sensibili alla lunghezza d’onda, identificando così quella particolare sostanza in base alla presenza o meno nello

(20)
(21)

C

APITOLO

3

S

PECIFICHE

O

TTICHE

Per poter confrontare tutte le tipologie di microspecchi realizzati ed utilizzati tuttora è necessario apprendere quali sono i parametri di merito più adatti alla comparazione. I parametri di merito, che verranno discussi in questo capitolo, rappresentano delle metriche di caratterizzazione dei microspecchi che rimangono il più possibile indipendenti dal metodo di attuazione scelto (che determina il tipo di microspecchio).

(22)

Per effettuare lo studio di come la radiazione, in questo caso luminosa, si riflette sulla superficie del microspecchio e continua la sua propagazione facciamo riferimento ad un caso molto simile; quello della radiazione che si propaga dopo aver attraversato una fenditura. Apparentemente i due casi, la radiazione che si riflette sul microspecchio e la radiazione che attraversa la fenditura, possono sembrare molto differenti ma in realtà si riconducono entrambi allo stesso studio fisico. Questo perché in tutte e due i casi la radiazione incontra un ostacolo e di conseguenza a partire da esso possiamo considerare la propagazione successiva come quella scaturita da delle sorgenti secondarie posizionate: in corrispondenza della fenditura nel primo caso e sulla superficie del microspecchio nel secondo. L’unica concreta differenza che distingue i due casi rimane il semipiano di propagazione della sola radiazione successiva all’ostacolo, che nel primo caso, quello della fenditura, è il semipiano delle x positive (Fig. 2.5.1a), mentre nel secondo, il caso della superficie riflettente, diventa il semipiano delle x negative (Fig. 2.5.1b).

Fig. 2.5.1 – (a) Onda piana che attraversa una fenditura; (b) Onda che si riflette su uno specchio.

3.1

L

A

D

IFFRAZIONE

Il fenomeno della diffrazione si manifesta ogni qualvolta che una generica onda incontra un ostacolo. Secondo il principio di Huygens-Fresnel, i punti appartenenti al fronte d’onda possono considerarsi formalmente delle sorgenti secondarie coerenti di onde sferiche (stessa fase e stessa frequenza).

(23)

Fig. 3.1.1 – Onda piana attraverso una fenditura, immagine riadeguata da [16].

Per studiare la diffrazione e come si sviluppa l’onda al di là della fenditura, possiamo considerare una generica onda piana monocromatica che si propaga lungo

x ed attraversa un foro di forma qualsiasi come illustrato in Fig. 3.1.2.

Fig. 3.1.2 – Propagazione dell’onda piana lungo x attraverso una fenditura generica; conforme a quella in [16].

(24)

costituente parte della fenditura e rappresentante una sorgente secondaria di onda sferica. Come rappresentato in Fig. 3.1.2, il segmento OP̅̅̅̅ ha una lunghezza R ed è per scelta perpendicolare al piano dell’ostacolo, mentre viene indicata con r la distanza tra il punto P ed il centro della superficie dS. Nelle condizioni in cui le distanze R e r siano molto maggiori rispetto alle dimensioni della fenditura (esprimibile come √xmax2 ∙ymax2 , con xmax e ymax le dimensioni massime della

fenditura lungo le due direzioni) e dS molto minore rispetto alla lunghezza d’onda, tutti i contributi in arrivo sul punto P rimangono in fase tra loro determinando solo interferenze costruttive e non distruttive. Questa ipotesi risulterà vera indipendentemente da θ (angolo di incidenza rispetto alla normale di dS). Indicando

εA/r l’ampiezza dell’onda (costante in tutta l’apertura), il contributo sul punto P di dS è la parte o reale o immaginaria di:

dE = εA

r ei(ωt-kr)dS

(3.1.1) La distanza r può essere espressa formalmente con la seguente equazione:

r = √(x1− x0)2+ (y1− y0)2+ (z1− z0)2

(3.1.2) dove ricordiamo che (x1,y1,z1) sono le coordinate del punto P, mentre (x0,y0,z0) le coordinate del centro di dS. Aggiungendo la scelta arbitraria di una origine degli assi in corrispondenza della fenditura, possiamo porre in ogni caso la coordinata x0

sempre uguale a zero, quindi:

r = √(x1)2+ (y1− y0)2+ (z1− z0)2

(3.1.3) Potendo approssimare, per le ipotesi fatte, questa distanza r a una quantità infinita rispetto all’apertura è possibile sostituire nell’equazione (3.1.1) r con R, ma solo all’interno del termine di ampiezza dell’onda. Per il termine di fase della (3.1.1) è invece necessario fare uno studio più accurato a causa dell’assenza di assunzioni sul valore di k = 2π/λ, termine che può anche essere molto grande. Sapendo che la grandezza R può essere banalmente espressa come:

R = √x12 + y12 + z12

(25)

estendendo i binomi dell’equazione (3.1.3):

r = √x12 + y

12− 2y0y1+ y02 + z12− 2z0z1+ z02 = √x12 + y12 + z12− 2y0y1+ y02− 2z0z1+ z02

(3.1.5)

siamo in grado di sostituire con il termine R2:

r = √R2− 2y0y1+ y02− 2z 0z1+ z02 (3.1.6) raccogliendo R: r = R√1 + −2y0y1+ y0 2− 2z 0z1+ z02 R2 = R√1 + y0 2 + z 02 R2 − 2y0y1+ 2z0z1 R2 (3.1.7)

Sfruttando le condizioni di campo lontano y0,z0≪R il secondo termine sotto radice della (3.1.7) può essere trascurato:

r = R√1 −2(y0y1+ z0z1)

R2 (3.1.8)

Sviluppando in serie la (3.1.8) ed arrestando al primo ordine si ottiene:

r = R [1 −(y0y1+ z0z1) R2 ]

(26)

dE = εA

R ei (ωt−kR) e

i k (y0y1R+ z0z1) dS

(3.1.10)

per ottenere il contributo di tutte le sorgenti secondarie di onda sferica presenti sulla fenditura ed agenti sul punto P basterà calcolare l’integrale della (3.1.10) su tutta la superficie della fenditura:

E = εA

R ei (ωt−kR) ∬ e

i k (y0y1R+ z0z1)dS

Apertura (3.1.11)

Una caratteristica che permette di distinguere i microspecchi e classificarli in due differenti categorie è la forma della superficie riflettente. Tra le forme più diffuse per i piatti riflettenti ci sono quella rettangolare e quella circolare. Di seguito analizzeremo in dettaglio il fenomeno di diffrazione per entrambi i casi [16].

3.2

S

PECCHIO

R

ETTANGOLARE

Fig. 3.2.1 – Onda piana che attraversa una fenditura di forma rettangolare, conforme a quella in [16].

Riferendosi al caso in cui la zona di riflessione della luce (Fig. 3.2.1), ovvero l’ostacolo incontrato dal fascio luminoso, assuma una forma rettangolare,

(27)

l’integrale trovato nell’equazione (3.1.11) può essere separato nel prodotto di due integrali: E = εA R ei (ωt−kR)∫ e i k yR0y1 + b2 − b2 dy0∫ ei k zR0z1dz0 + a2 − a2 (3.2.1)

dove a e b sono le rispettive dimensioni del rettangolo e dS = dy0∙ dz0.

Possiamo a questo punto risolvere gli integrali singolarmente:

∫ ei k yR0y1 + b2 − b2 dy0= ∫ ikyR1 iky1 R ei k yR0y1 + b2 − b2 dy0 = − i R ky1[e i k yR0y1 ] − b2 + b2 = 2R kby1 b 2i(e i k b y2R1 − e−i k b y1 2R ) (3.2.2) ∫ ei k zR0z1 + 2a − 2a dz0= 2R kaz1 a 2i(e i k a z2R1− e−i k a z2R1) (3.2.3)

Definiamo per semplicità le quantità k b y12R = β e k∙a∙z12R = α, sostituendole rispettivamente nella (3.2.2): ∫ ei k yR0y1 + b2 2b dy0 = b(e iβ− e−iβ) 2iβ = b sin(β) β (3.2.4) e nella (3.2.3): k z z

(28)

E = εA R ei (ωt−kR) b sin(β) β a sin(α) α = AεA R ei (ωt−kR) sin(β) β sin(α) α (3.2.6)

dove A rappresenta il prodotto a∙b, ovvero l’area equivalente dello specchio. Volendo però riferirci all’intensità di irradiazione:

I = 〈Re{E2}〉T = I0( sin(β) β ) 2 (sin(α) α ) 2 (3.2.7)

Il plot 3D della funzione (3.2.7) è raffigurato in Fig. 3.2.2 al variare delle coordinate y1 e z1 sul piano di proiezione.

Fig. 3.2.2 – Plot 3D dell’intensità di irradiazione riflessa da un microspecchio quadrato (a=b) ed in arrivo sul piano di proiezione.

Dall’equazione (3.2.6) è abbastanza chiaro come l’intensità della radiazione in arrivo sul piano di proiezione dipenda fortemente dalle dimensioni del microspecchio (specchi più grandi lavorano meglio) ed ovviamente dalla distanza percorsa dalla radiazione.

(29)

3.3

S

PECCHIO

C

IRCOLARE

Affronteremo adesso il caso in cui la fenditura incontrata dall’onda piana sia di forma circolare o, equivalentemente, il caso in cui il microspecchio abbia un piatto riflettente circolare (Fig. 3.3.1).

Fig. 3.3.1 – Onda piana che attraversa una fenditura di forma circolare ed arriva sul punto P appartenente al piano di proiezione, conforme a quella in [16].

Ripartendo dall’equazione (3.1.11), per la risoluzione del doppio integrale è utile convertire lo spazio delle coordinate cartesiane in coordinate sferiche utilizzando le seguenti trasformazioni:

y0= ρ sin(φ) z0= ρ cos(φ)

y1= q sin(ψ) z1= q cos(ψ) (3.3.1) Otteniamo così una nuova espressione per il singolo elemento di area dS:

(30)

E =εA R ei (ωt−kR)∫ ∫ e i k ρ q cos(φ−ψ)R 2π φ = 0 a ρ = 0 ρ dρ dφ (3.3.3)

A questo punto è possibile semplificare il problema assumendo che la soluzione sia per simmetria indipendente dal valore assunto dalla variabile ψ, che per semplicità fissiamo al valore nullo. L’integrale relativo alla variabile φ rappresenta così una funzione irriducibile, nota come la funzione di Bessel (primo tipo) di ordine zero:

J0(k ρ qR ) = 1 2π∫ e i k ρ qR cosφ 2π 0 dφ (3.3.4)

Quindi applicando la (3.3.4) alla (3.3.3):

E = εA R ei (ωt−kR)∫ 2π J0( k ρ q R ) ρ = a ρ = 0 ρ dρ = εA R ei (ωt−kR) 2π ( R kq) 2 ∫ J0(w) w = k a qR w = 0 w dw (3.3.5)

in cui abbiamo effettuato un cambio di variabile, w = kρRq, quindi dρ = dw R kq .

Sfruttando inoltre la nota proprietà della funzione di Bessel:

∫ J0(w')w'dw'= w 0 w J1(w) (3.3.6) dalla (3.3.5) otteniamo: E = εA R ei (ωt−kR) 2π ( R kq) 2k a q R J1( k a q R ) = εA R ei(ωt−kR) 2πa2 R k a qJ1( k a q R ) (3.3.7)

dove J1(w) rappresenta la funzione di Bessel di primo tipo del primo ordine il cui

argomento è w = kaq

(31)

Infine, l’intensità di irradiazione: I = 〈Re{E2}〉T = 1 2E∙E *=2 εA2A2 R2 [ J1(k a qR ) k a q R ] 2 (3.3.8)

in cui A = πa2 è l’area del cerchio.

Il plot 3D della funzione (3.3.8) è raffigurato in Fig. 3.3.2 al variare delle coordinate

q e ψ sul piano di proiezione.

Fig. 3.3.2 – Plot 3D dell’intensità di irradiazione riflessa da un microspecchio circolare ed in arrivo sul piano di proiezione.

Anche nel caso di microspecchio a forma circolare si mantiene una forte dipendenza dalle dimensioni A del microspecchio ed ovviamente dalla distanza R percorsa dalla radiazione.

(32)

3.4

L

A

R

ISOLUZIONE DI UN

M

ICROSPECCHIO

Sulla base della soluzione (3.2.7) ottenuta per il microspecchio rettangolare e riscrivibile come: I = I0(sin( k b y1 2R ) k b y1 2R ) 2 (sin( k a y1 2R ) k a z1 2R ) 2 (3.4.1) possiamo individuare, oltre al punto di massima irradiazione (I0) posto alle

coordinate ( y1 = 0 , z1 = 0 ), un insieme di punti nei quali l’intensità luminosa in arrivo si annulla. Tale insieme di punti viene identificato con il termine “dark nodes”, letteralmente nodi oscuri, in corrispondenza dei quali uno dei due seni al numeratore della (3.4.1) si annulla:

sin (k a z1 2 R) = sin ( 2π λ a z1 2 R) = 0 ⟹ 2π λ a z1 2 R = mπ ∀ m ∈ Z (3.4.2) sin (k b y1 2 R) = sin ( 2π λ b y1 2 R) = 0 ⟹ 2π λ b y1 2 R = nπ ∀ n ∈ Z (3.4.3) ottenendo in questo modo un set di coordinate individuanti i vari dark nodes sul piano di arrivo della radiazione luminosa, rispettivamente per la coordinata z1:

z1m = m λ R a ∀ m ∈ Z (3.4.4) e per la coordinata y1: y1n = nλ R b ∀ n ∈ Z (3.4.5) In Fig. 3.4.1 viene illustrato il pattern di radiazione luminosa fino ad ora descritto, evidenziando la posizione dei nodi oscuri.

(33)

Fig. 3.4.1 – Pattern di irradiazione di un’apertura quadrata; immagine modificata a partire da quella in [16].

Nell’immagine Fig. 3.4.1 si identifica per convenzione la macchia luminosa centrale, sulla mappa di diffrazione, come zona delimitata dai primi dark nodes (y1-1 ÷ y 1 1; z 1 -1 ÷ z 1

1). La dimensione di quest’ultima zona, la macchia luminosa centrale della diffrazione, rappresenterà il singolo pixel sull’immagine proiettata. Dalla dimensione della macchia dipenderà la risoluzione del sistema. Infatti, uno dei criteri più comuni utilizzato per definire la risoluzione del sistema è quello proposto da Rayleigh [12]. In tale criterio si fa riferimento ad una pura sovrapposizione di due sorgenti luminose identiche ed incoerenti tra loro ma traslate di una quantità pari al dark node più piccolo. Il risultato di tale sovrapposizione, illustrato in Fig. 3.4.2, determina due macchie luminose centrali, distinguibili per traslazioni maggiori alla dimensione del dark node, ed indistinguibili per traslazioni inferiori.

(34)

Fig. 3.4.2 – Sovrapposizione di due sorgenti luminose incoerenti, diffratte da un microspecchio rettangolare e traslate l’una rispetto all’altra.

Il medesimo discorso può essere affrontato nel caso di microspecchio a forma circolare, il cui pattern di diffrazione è rappresentato dall’alternarsi di circonferenze luminose e circonferenze scure, il cosiddetto Airy disk (Fig. 3.4.3). Partendo dalla (3.3.8) possiamo cercare l’insieme dei punti a raggio qm in cui l’intensità luminosa si annulla: I = 2 εA 2A2 R2 [ J1(k a qm R ) k a q R ] 2 = 0 ⟹ J1(k a qm R ) = 0 (3.4.6) I punti individuati dalla (3.4.6) determinano le circonferenze scure dell’Airy disk, in corrispondenza delle quali l’argomento della funzione di Bessel assume il valore di minimo locale. I primi tre di questi minimi sono indicati nella seguente tabella:

J1(k a qRm) kaqm R 0.0 1.220π 0.0 2.233π 0.0 3.328π

(35)

La circonferenza a raggio più piccolo rappresenterà per convenzione la dimensione della macchia luminosa centrale, ovvero la dimensione del singolo pixel come per il caso rettangolare. Questa quantità qm, secondo il criterio di Rayleigh (Fig. 3.4.4), identifica indirettamente la risoluzione di un sistema a microspecchio circolare.

q1= 1.22π R k a = 1.22π λ R 2π a = 1.22 λ R 2 a (3.4.7)

Fig. 3.4.3 – Pattern di irradiazione di un’apertura circolare; immagine modificata a partire da quella in [16].

(36)

entro un certo margine di errore, delle grandezze indipendenti dalla distanza dal piano di proiezione (R).

Fig. 3.4.5 – Relazione tra le dimensioni del pixel proiettato e l’angolo di uscita dal microspecchio.

Con questo presupposto, in riferimento all’immagine in Fig. 3.4.5, possiamo calcolare l’angolo θPixel

Circ.

in uscita dal microspecchio circolare:

θPixel Circ.≅ tan

-1(q1 R)

(3.4.8)

in cui possiamo sostituire q1 con l’espressione ricavata nella (3.4.7):

θPixel Circ. ≅ tan -1(1.22 λ R 2 a R ) = tan-1(1.22 λ 2 a) ≅ 1.22 λ 2 a (3.4.9)

dove 2 a, nel caso di microspecchio circolare, rappresenta il diametro del cerchio riflettente. Invece, nel caso di microspecchio rettangolare risulterà:

θPixel Rett.≅ tan

-1(z11 R)

(37)

Sostituendo a z11 il risultato ottenuto dalla (3.4.4): θPixel Rett. ≅ tan -1( λ R a R) = tan -1(λ a) ≅ λ a (3.4.11) dove a ricordiamo essere una delle dimensioni del microspecchio rettangolare. In un microspecchio in grado di ruotare con un angolo pari a θmax, raggiungendo un angolo di scansione ottica complessivo di 2∙θmax, il numero di pixel distinguibili a schermo risulterà: N = 2 θmax θPixel = 2 λ θmax∙D (3.4.12) dove D rappresenta la dimensione caratteristica del microspecchio, equivalente: alla lunghezza del lato (a) nel caso di microspecchio rettangolare, al diametro nel caso del microspecchio circolare (2a) a meno del fattore 1.221 .

Fig. 3.4.6 – Numero di punti distinguibili a schermo in funzione dei due angoli caratteristici del microspecchio.

(38)

ottenibile nel caso rettangolare risulterà maggiore di quella del caso circolare per un fattore: NRett. NCirc. = θPixel Circ. θPixel Rett. = 1.22 (3.4.13)

Se da un lato l’utilizzo di un microspecchio rettangolare può risultare la scelta migliore in termini di risoluzione ottenibile, dal punto di vista della distorsione dell’immagine è la peggiore. Infatti, nel caso della forma rettangolare, a parità di intensità massima (al centro della macchia luminosa principale), l’entità delle macchie luminose perimetrali a quella centrale è maggiore rispetto a quella ottenuta con un microspecchio a forma circolare. Ciò significa che due pixel adiacenti tra loro si “disturbano” creando interferenza sull’informazione luminosa del singolo pixel. In altre parole, il rapporto segnale-rumore di un microspecchio rettangolare sarà inevitabilmente inferiore rispetto a quello di un microspecchio cdi forma circolare.

3.5

P

LANARITÀ

S

TATICA E

D

INAMICA

Durante i processi di produzione, uno degli obiettivi principali per ricavare un microspecchio al più possibile affidabile è l’ottenere una perfetta planarità della superficie riflettente. La deformazione dello specchio può diventare, nelle applicazioni a bassa distorsione dell’immagine, un vero e proprio fattore limitante. Esistono vari agenti esterni di rumore che contribuiscono alle deformazioni della superficie durante i processi di fabbricazione del microspecchio e determinano quindi un livello di planarità inferiore. Questa tipologia di deformazioni sono presenti anche quando il dispositivo rimane fermo identificando un livello di planarità di tipo statico poiché indipendente dalla velocità di attuazione dello specchio.

(39)

Fig. 3.5.1 – Relazione tra il fascio di radiazione divergente e la deformazione statica del microspecchio.

Nell’ipotesi in cui la deformazione del microspecchio assuma la forma descritta in Fig. 3.5.1, ovvero una superficie riflettente approssimata ad una porzione di sfera il cui raggio è pari a r, la radiazione incidente subirà una deviazione che dipenderà dal suo punto di arrivo sulla superficie del microspecchio. Indichiamo con h la massima deviazione, in corrispondenza del centro del microspecchio, rispetto al caso di planarità perfetta. Considerando uno specchio di dimensione a, l’angolo di deviazione complessiva risulterà doppio rispetto all’angolo di riflessione ϕ (o incidenza) formato con la normale alla superficie sul particolare punto di incidenza della radiazione. sin(ϕ) = a/2 r cos(ϕ) = (r − h) r (3.5.1)

sin2(ϕ) + cos2(ϕ) = 1 ⟹ (a/2 r ) 2 + (r − h r ) 2 = 1 (3.5.2) a2 2

(40)

Inserendo la (3.5.3) nella prima espressione della (3.5.1) otteniamo:

sin(ϕ) = 4 h a

a2 + 4 h2 ≅ ϕ

(3.5.4) Una buona regola di progetto è ottenere delle deformazioni limitate, che producano deviazioni del fascio relativamente inferiori alla dimensione del pixel a schermo (pari a θPixel

Rett. nel caso di microspecchio di forma rettangolare):

ϕ ≪ θPixel Rett. ⟹ 4 h a a2 + 4 h2 ≪ λ a ⟹ λ 4 ≫ a2 h a2 + 4 h2 (3.5.5) L’equazione (3.5.5) per deviazioni h molto minori rispetto alle dimensioni a dello specchio (condizione auspicabile) diventa:

λ

4 ≫ h (3.5.6) La regola di progetto (3.5.6), se rispettata, permette quindi di poter trascurare le deformazioni statiche del microspecchio [12].

Un’altra possibile problematica da affrontare è la presenza di deformazioni a livello dinamico che degradano la planarità della superficie riflettente solo durante l’attuazione del microspecchio. Le deformazioni sono dovute alla presenza di momenti di forze agenti sul piatto in movimento; tali forze sono massime quando lo specchio raggiunge la posizione di cosiddetto flyback, ovvero la posizione in cui questo si ritrova in massima deflessione, con una velocità angolare nulla e con un’accelerazione massima. In altre parole, il microspecchio si trova in flyback quando raggiunge l’estremo della scansione. Analizzando la distribuzione delle forze lungo la superficie è possibile ottenere la (3.5.7), che rappresenta la deformazione in funzione della coordinata z (direzione perpendicolare all’asse di rotazione) normalizzata tra -1 ed 1 (punti corrispondenti agli estremi dello specchio) come illustrato in Fig. 3.5.2.

(41)

δ(z) = δmax z5− 10 z3 + 20 |z|∙z − 11 z 1.83 (3.5.7) dove: δmax = 0.217 ρ f2a5θ max E t2 (3.5.8) indicando con ρ la densità del materiale, E il modulo di Young, f la frequenza di scansione, t lo spessore del piatto ed a la dimensione del microspecchio lungo la coordinata z. L’espressione (3.5.7) è ottenuta ponendo il problema in condizioni di

worst case, nelle quali vengono trascurate le forze di smorzamento (forze correlate

alla velocità della superficie che in flyback è nulla).

Fig. 3.5.2 – Deformazione dinamica del microspecchio lungo la sua sezione.

Per ridurre le deformazioni dinamiche sulla planarità dello specchio sono poche le operazioni possibili, perché molti dei parametri nell’espressione (3.5.8) sono di fatto fissati: dal materiale (ρ, E) e dalle specifiche dell’applicazione (f, θmax, a).

Rimane pertanto il parametro di spessore t che, oltre ad un semplice incremento di spessore, può essere aumentato tramite l’aggiunta di una corona di rinforzo inserita sul retro del piatto oscillante, incrementando in questo modo la rigidità del piatto. Da evidenziare la forte dipendenza con la frequenza di attuazione del microspecchio, che può diventare problematica nei casi in cui le specifiche dall’applicazione richiedano delle frequenze elevate.

(42)

di risonanza della struttura, sollecitando il piatto del microspecchio con segnali di pilotaggio in grado di instaurare tale regime oscillatorio. Questo particolare metodo permette di ottenere delle ottime performance ed arrivare a frequenze di attuazione molto elevate. Inoltre, l’energia di attuazione di questi microspecchi viene notevolmente ridotta dalle condizioni di risonanza meccanica del sistema, ottenendo potenze di funzionamento relativamente ridotte. In genere questi sistemi comportano una progettazione complessa ed accurata della struttura affinché abbia un elevato fattore di qualità meccanica Q. Non riuscendo a ricavare precisioni sufficienti sulle frequenze di attuazione, i microspecchi in risonanza necessitano spesso di sistemi di retroazione ad anello, chiusi su PLL (Phase Locked Loop) per correggerne la frequenza di oscillazione durante l’attuazione. Il metodo di attuazione in condizioni di risonanza comporta oltre allo svantaggio di ottenere degli angoli che oscillano in maniera sinusoidale (Fig. 3.6.1) determinando luminosità e dimensioni dei pixel non uniformi lungo la riga di scansione, anche il rischio dell’instaurarsi di altri modi oscillatori diversi da quello voluto (in genere il primo modo).

Fig. 3.6.1 – Proiezione di una riga pilotando lo specchio con segnale sinusoidale.

L’oscillazione alla frequenza di risonanza è generalmente dedicata alla porzione di sistema a scansione più rapida (scansione orizzontale nelle applicazioni di proiezione delle immagini). Per le scansioni più lente (scansioni verticali) sono invece impiegati microspecchi attuati in condizioni quasi-statiche, cioè a frequenze

(43)

di lavoro notevolmente inferiori rispetto alla prima frequenza di risonanza della struttura, motivo per il quale i microspecchi attuati in risonanza possono raggiungere frequenze superiori rispetto a questi microspecchi lineari. Inoltre, per questa categoria di dispositivi sono ottenibili degli angoli che variano linearmente a tratti (Fig. 3.6.2), dando luogo pixel uniformi, nel caso di proiezione delle immagini, o una scansione distribuita uniformemente, nel caso di laser scanner.

Fig. 3.6.2 – Andamento dell’angolo di un microspecchio lineare.

3.7

P

ARAMETRI DI

M

ERITO

Ricapitolando, tra i parametri di merito utilizzati comunemente per confrontare i microspecchi troviamo: la frequenza massima di oscillazione f, il prodotto θmax∙ D

(dove D è la dimensione del microspecchio) [17] e in alcuni casi anche i livelli di planarità del piatto riflettente (perché ad elevati livelli di frequenza le deformazioni ottenute sulla superficie dello specchio iniziano ad essere un fattore limitante per la sua affidabilità (3.5.8)). Inoltre, è possibile utilizzare il prodotto θmax∙ D ∙ f per

effettuare il confronto di microspecchi diversi con un unico parametro numerico. Esistono anche altre metriche di comparazione meno diffuse in letteratura ma comunque importanti come: semplicità di fabbricazione, ingombro complessivo del sistema, potenza dissipata per l’attuazione e tensioni di alimentazione. Come già anticipato nella seconda sezione 2.2, a prescindere dalla scelta fatta per il tipo di

(44)

specifiche di miniaturizzazione complessiva del sistema, limita fortemente la banda di funzionamento del dispositivo. Infatti, la massima frequenza di lavoro del microspecchio è il suo primo modo di oscillazione libera, cioè la sua prima frequenza di risonanza. Come abbiamo visto, il microspecchio può essere attuato anche a frequenze inferiori a questo limite superiore imposto dalla risonanza, come nel caso di attuazione in condizioni quasi-statiche, ma servirebbe comunque un’elevata frequenza di risonanza per la struttura del microspecchio, e questo va in contrasto con la specifica di alta risoluzione perché:

f Risonanza = 1 2π √ 2kφ 1 12 μ D 2(D2 + t2) ∝ 1 D2 (3.7.1)

che esprime la relazione di proporzionalità quadratica inversa tra frequenza di risonanza e dimensioni del piatto del microspecchio (nel caso di forma quadrata di lato D). La relazione (3.7.1) è valida per microspecchi di forma quadrata di lato D e spessore t; viene inoltre indicato con kφ la costante elastica delle molle e con μ la

(45)

C

APITOLO

4

T

IPI DI

M

ICROSPECCHI

L’obiettivo di questo capitolo è presentare una carrellata di tipologie di microspecchi classificabili per metodo di attuazione. Per poter evidenziare quali sono i vantaggi nell’utilizzo di microspecchi ad attuazione elettromagnetica, oggetto di ricerca di questa tesi, è utile infatti descrivere anche tutte le altre tipologie, evidenziandone i pro e contro, con l’ausilio dei parametri di merito discussi nel capitolo 3.

(46)

Come già anticipato, un altro metodo per suddividere i microspecchi in categorie è quello che li identifica in base al loro metodo di attuazione. Infatti, esistono al momento quattro tipologie possibili di attuazione: Statica (ES), Elettro-Magnetica (EM), Piezoelettrica e Elettro-Termica.

4.1

M

ICROSPECCHI

E

LETTROSTATICI

Il primo metodo in assoluto utilizzato per l’attuazione dei microspecchi è quello elettrostatico. È il più diffuso in letteratura probabilmente per la compatibilità con i processi di fabbricazione standard dei MEMS. Infatti, la produzione di questa tipologia di dispositivi non prevede l’utilizzo di materiali inusuali, a differenza degli altri metodi di attuazione che verranno descritti successivamente. Il principio di funzionamento dell’attuazione elettrostatica sfrutta le forze di attrazione tra due piatti con cariche opposte. Considerando due piatti piani e paralleli, come nel classico caso del condensatore, la forza elettrostatica che si manifesta tra di essi risulta:

FES =

ε A V2

2 d2 (4.1.1) dove A rappresenta l’area di sovrapposizione effettiva tra i due piatti, ε la costante dielettrica del materiale interposto tra essi, V la differenza di potenziale tra i due elettrodi e d lo spessore del dielettrico. Esistono due principali schemi di attuazione elettrostatica: quella a piatti paralleli e tramite strutture interdigitate. La prima, utilizzata anche da Petersen (Fig. 1.1.4), determina bassi fattori θmax∙ D, dovuti

soprattutto ad un limitato angolo di scansione θmax. Ha il vantaggio di poter posizionare gli elettrodi sulla parte inferiore dello specchio, limitando il più possibile la quantità di area occupata, ma a causa della bassa affidabilità e precisione, le loro applicazioni si restringono esclusivamente a quelle di microspecchi bistabili (come per i DLP). Per quanto riguarda le strutture interdigitate (Fig. 4.1.1), cosiddette comb-drive, le forze ottenute per il movimento sono notevolmente superiori. Queste strutture interdigitate sono costituite da due parti comb-finger (strutture a pettine formati da molti finger), una fissa (finger fissi) e l’altra mobile (finger mobili).

(47)

Fig. 4.1.1 – Microspecchio elettrostatico a comb-drive [18].

In letteratura [18] esistono a sua volta due tipologie di comb-drive: AVC (Angular Vertical Comb) e SVC (Staggered Vertical Comb); che si distinguono per la posizione iniziale dei finger mobili rispetto a quelli fissi (Fig. 4.1.2).

(48)

dalle molle. Per tale uguaglianza la forza torcente elettrostatica può essere espressa come: Te(θ) = V2 2 dC dθ = Nf V 2dCunit dθ (4.1.2) mentre quella di ritorno dovuta alle molle torsionali è:

Tr(θ) = wS tS3( 1 3− 21 100 tS wS(1 − tS4 12 wS4)) (4.1.3)

dove Cunit è la capacità per unità di superficie tra il singolo finger fisso e quello

mobile, G è il modulo di taglio, Nf è il numero di finger e (tS, lS, wS) sono

rispettivamente altezza, lunghezza e larghezza delle molle. Nel caso dei comb-drive SVC, la posizione iniziale (quando la tensione tra i due elettrodi è nulla) forma un angolo nullo tra i finger fissi e quelli mobili (Fig. 4.1.2b), mentre per i comb-drive AVC (Fig. 4.1.2a), questo angolo di posizione iniziale θi è diverso da zero e

determina, secondo gli studi fatti da Patterson e Toshiyoshi [18], una rotazione disponibile via via maggiore all’aumentare del valore di θi, come illustrato in Fig.

4.1.3.

Fig. 4.1.3 – Angoli di rotazione al variare dell’angolo iniziale θi nei microspecchi

attuati tramite AVC.

Nell’articolo di Toshiyoshi è inoltre dimostrato che l’angolo massimo raggiungibile

(49)

θmax = Tf Lol + Lfo

(4.1.4) nel caso SVC, mentre nel caso di AVC:

θmax = 1.5 Tf Lol + Lfo

(4.1.5) dove Tf rappresenta l’altezza dei finger, Lol la loro lunghezza e Lfo la dimensione

delle frange laterali non sovrapposte come mostrato in Fig. 4.1.2. Una comparazione tra i due tipi di comb-drive evidenzia come la scelta di strutture con angoli iniziali tra i comb-finger differenti da zero, possa ottenere dei vantaggi in termini di angoli massimi raggiungibili (Fig. 4.1.4).

Fig. 4.1.4 – Comparazione degli angoli massimi ottenibili dagli AVC e SVC.

In linea generale, gli attuatori elettrostatici (sia AVC che SVC) hanno un range di funzionamento (displacement) limitato dal fenomeno del pull-in. Se la tensione applicata all’attuatore supera un certo valore critico, la tensione di pull-in, il bilanciamento tra forza elettrostatica e quella elastica viene meno. La causa è un eccessivo aumento della forza elettrostatica perché, a parità di tensione, la stessa aumenta man mano che le due armature si avvicinano determinando il collasso dell’attuatore. Le prestazioni dei microspecchi elettrostatici sono tipicamente

(50)

necessità di fornire un elevato voltaggio ai comb-finger affinché si raggiungano discreti angoli. Ad esempio un microspecchio 1D, che raggiunge un angolo complessivo di 76° (θmax = 38°), alla frequenza di lavoro di 21.8 kHz, necessita di

una tensione di alimentazione di 196 Volt picco-picco [17]. Quest’ultimo aspetto può essere un fattore estremamente penalizzante se il MOEMS deve essere inserito in sistemi portatili con batterie di capacità limitata o in sistemi a stretto contatto con l’utente (come smartphone, tablet, notebook) nei quali le normative diventato notevolmente stringenti, per poterne garantire la sicurezza di utilizzo.

4.2

M

ICROSPECCHI

E

LETTROMAGNETICI

I microspecchi elettromagnetici nascono all’inizio degli anni ’90 dall’idea di Wagner e Benecke [19] di utilizzare la forza magnetica per realizzare dei microattuatori elettromagnetici. I metodi di fabbricazione e le idee su come applicare i principi delle forze magnetiche alle microstrutture di silicio vennero sperimentate e pubblicate [20] qualche anno prima, aprendo così la strada alle applicazioni elettromagnetiche all’interno del mondo dei MEMS. Le forze alla base dell’attuazione elettromagnetica possono essere generate tramite l’interazione di un campo magnetico H⃗⃗ con una corrente elettrica Jc, o con una magnetizzazione M⃗⃗⃗ .

Nelle condizioni in cui un campo H⃗⃗ incontri una pista percorsa da corrente Jc, la

componente infinitesima della forza di Lorentz (dFM), che agisce sul conduttore di lunghezza dl, sappiamo essere:

dFM

⃗⃗⃗⃗⃗⃗⃗ = μ0Jc dl̂ ^ H⃗⃗

(4.2.1) dove Jc è la quantità di corrente che attraversa il tratto di conduttore posto in

direzione dl̂ . Se invece, l’interazione avviene tra un magnete permanente di magnetizzazione M⃗⃗⃗ e un campo magnetico H⃗⃗ , la componente del momento di forza è:

dTM

⃗⃗⃗⃗⃗⃗⃗⃗ = M⃗⃗⃗ ^ H⃗⃗ dV

(4.2.2) dove dV rappresenta la componente infinitesima di volume del magnete permanente e dT⃗⃗⃗⃗⃗⃗⃗ è il momento che agisce su di esso. Un vantaggio della forza magnetica è il M raggio di azione r, perché il campo magnetico decresce come 1/r, a differenza del campo elettrico, sfruttato nelle applicazioni elettrostatiche, che decresce come

(51)

concreta base per la realizzazione di un microspecchio elettromagnetico, è costituito da un piatto di silicio sospeso e libero di ruotare perché ancorato al substrato solo tramite due travi che funzionano come molle torsionali. Sul piatto viene incollato un magnete permanente con magnetizzazione orizzontale M⃗⃗⃗ che, se soggetto ad un campo magnetico verticale esterno H⃗⃗ , determina delle forze di rotazione trasferite automaticamente sulla porzione di silicio libera di muoversi (silicio strutturale), perché solidale con essa.

Fig. 4.2.1 – Immagine riadattata del microattuatore elettromagnetico realizzato da Wagner e Benecke [20]: (a) pianta; (b)sezione.

Come è illustrato in Fig. 4.2.1, la generazione del campo magnetico esterno avviene tramite una bobina planare integrata sul substrato del chip. Grazie a tali avvolgimenti, modulando la corrente che li attraversa, è possibile modificare il campo magnetico prodotto nella zona centrale e controllare quindi l’entità delle forze agenti sul magnete.

(52)

Fig. 4.2.2 – Microattuatore di Wagner e Benecke al SEM [19].

Avendo modo di posizionare una zona piana e riflettente, solidale alla porzione mobile di silicio, può essere realizzato un microspecchio attuato magneticamente. Tra i vantaggi di questa categoria di microattuatori, e quindi microspecchi, evidenziamo la linearità nella relazione tra la grandezza di ingresso al sistema e quella di uscita. Infatti, considerando lineari le formule legate alla forza di richiamo delle molle in torsione, il sistema di equazioni per il bilanciamento delle forze determina, in prima approssimazione, una relazione lineare tra l’angolo di deflessione (grandezza di uscita) e la corrente di pilotaggio (grandezza elettrica in ingresso); quindi un sistema particolarmente adatto all’utilizzo nei microspecchi per le scansioni lente (condizioni quasi-statiche). Al contrario, una limitazione di questi sistemi è l’elevata dissipazione termica della bobina. Per ricavare degli angoli di deflessione sufficientemente grandi sono necessarie delle correnti elevate, sia positive che negative per ottenere entrambe le direzioni di rotazione. A causa delle inevitabili resistenze della bobina (Rbobina), tali correnti determinano una

potenza dissipata per effetto Joule che incrementa la temperatura del sistema:

PDissipata= (Jc)rms2 Rbobina

(53)

Fig. 4.2.3 – Piste in oro della bobina [19].

La bobina integrata (Fig. 4.2.3), che nel precedente esempio si trova in geometria planare, può anche essere realizzata su piani differenti da quello del substrato superiore, come ad esempio: un piano sul retro del chip oppure uno su di un chip aggiuntivo dedicato all’alloggiamento della bobina, anche se per problemi termici, dovuti alla potenza dissipata, sono in genere preferibili soluzioni in cui gli avvolgimenti si trovano sul lato superiore del substrato. I materiali magnetici possono essere anche depositati sul chip, come nel caso del microspecchio magnetico realizzato da Ji, Kim e Chung [21], che scelgono l’elettrodeposizione del Nichel ai lati della superficie riflettente per formare i magneti. Nella soluzione proposta, il piatto riflettente è ancorato tramite una sola molla, che ha la possibilità di flettersi, modificando la posizione dello specchio e l’angolo con il quale la luce viene riflessa su di esso, come illustrato in Fig. 4.2.4.

(54)

Dall’equazione (4.2.2), supponendo uniformi la magnetizzazione e il campo magnetico su tutto il volume del magnete permanente, integrando su tale volume si ottiene il momento totale:

TM

⃗⃗⃗⃗⃗ = ∫ M⃗⃗⃗ ^ H⃗⃗ dV V

= V (M⃗⃗⃗ ^ H⃗⃗ )

(4.2.4) Poiché la forza magnetica è proporzionale al volume del magnete, usando film sottili di materiale magnetico come quelli in Nichel, tale forza viene notevolmente limitata dai ridotti volumi di materiale magnetico disponibile. Infatti, le forze ottenute dai film magnetici elettrodepositati convenzionalmente riescono a stimolare le sole strutture attuate in risonanza, che richiedono delle forze di attuazione notevolmente ridotte rispetto ai casi di microspecchi attuati in condizioni quasi-statiche. Per attivare magneticamente in maniera statica le strutture ed ottenere forze sufficienti al movimento, sono necessari i convenzionali magneti di grosse dimensioni, che non possono essere elettrodepositati ma devono essere piazzati con delle tecniche SMT (Surface Mount Technology) ad alta precisione. Sull’idea di Wagner, può essere realizzata un’alternativa che sostituisce al magnete permanente una bobina interna posizionata sul piatto mobile, come per il microspecchio progettato da Cho e Yoon [22], illustrato in Fig. 4.2.5. Quest’ultima modifica determina un grado di libertà in più sulla scelta di come generare il campo magnetico statico, che può essere prodotto da delle bobine esterne oppure, in alternativa, da dei magneti permanenti.

Fig. 4.2.5 – Immagini al SEM del microspecchio di Cho e Yoon riadattate da [22].

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In ogni caso, a prescindere dal modo con cui si ottiene il campo magnetico H⃗⃗ , la presenza di una bobina planare integrata sul piatto del microspecchio permette, al passaggio della corrente, di creare delle coppie agenti sul piatto riflettente, realizzando una deflessione della struttura (Fig. 4.2.6).

Fig. 4.2.6 – Microspecchio ad attuazione elettromagnetica con avvolgimenti sul piatto mobile.

I tratti di pista ortogonali alla direzione di campo magnetico (nell’approssimazione che questo sia costante ed uniforme su tutta la bobina) sono soggetti alla forza di Lorentz FMn che porterà in torsione il piatto con una coppia:

TEM = ∑(FMn∙ rn) N

n=1 (4.2.5)

dove N è il numero totale di tratti di conduttore soggetti alla forza di Lorentz FMn (ricavata nell’espressione (4.2.1)) e rn il raggio relativo all’n-esimo tratto di pista,

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disponibili alla realizzazione. Un esempio di processo di fabbricazione può essere quello proposto da Cho e Yoon nel loro documento [22], illustrato in Fig. 4.2.7. Tale processo è una combinazione di tecniche di surface micromachining, per la definizione della forma dello specchio, delle molle e degli avvolgimenti, e di tecniche di bulk micromachining per il rilascio della struttura mobile. Il materiale di partenza è un wafer SOI (Silicon On Insulator) con uno strato sepolto di SiO2 spesso 1 µm che separa il substrato di silicio da un altro strato di silicio posto sulla parte superiore e spesso 5 µm (Fig. 4.4.2a). La fase successiva si occupa di definire la forma della porzione di silicio superiore con un attacco RIE (Reactive Ion Etching). Il silicio (strutturale) rimanente realizzerà il corpo mobile del microspecchio (Fig. 4.2.7b). In seguito, la deposizione di una lega Oro/Cromo (Fig. 4.2.7c) per poter effettuare, al di sopra di essa, l’elettrodeposizione della metal di Oro che realizzerà gli avvolgimenti (Fig. 4.2.7d). Per ridurre la resistività della bobina, e quindi anche la sua potenza dissipata, oltre a scegliere di utilizzare avvolgimenti in oro, è auspicabile che questi abbiano un elevato spessore per aumentare la sezione del conduttore. La definizione della forma delle piste in Oro usa un photoresist che viene successivamente rimosso (Fig. 4.2.7e). Allo step successivo, la deposizione di un altro photoresist permette l’eliminazione del sottile strato di lega Oro/Cromo rimasto, ad eccezione della zona in cui si realizzerà la superficie riflettente dello specchio (Fig. 4.2.7f e Fig. 4.2.7g). Mentre in Fig. 4.2.7h, vengono realizzati i ponti di metal per raggiungere i contatti interni alla bobina, sempre tramite l’utilizzo di photoresist. Nelle ultime fasi il Nitruro di silicio (Si3N4) posizionato sulla parte inferiore del wafer viene utilizzato come maschera per l’attacco anisotropo al silicio di substrato. Tale attacco avviene con KOH dal retro del wafer per rilasciare le parti mobili di silicio, ma viene fermato dalla presenza dell’ossido, come illustrato in Fig. 4.2.7i. Nell’ultimo step, l’eliminazione dello strato di ossido libera la porzione di silicio mobile (Fig. 4.2.7j).

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