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Ruolo del trattamento primario con chemioterapia e trastuzumab nel carcinoma mammario HER-2 positivo: un'analisi retrospettiva.

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INDICE

RIASSUNTO

...4-6

Capitolo 1 - INTRODUZIONE

...7

1.1 EPIDEMIOLOGIA E INQUADRAMENTO DEL PROBLEMA

...7-10

1.2 TRATTAMENTO DEL CARCINOMA MAMMARIO

...11-12

1.2.1 RUOLO DELLA CHIRURGIA

...12-16

1.2.2 TRATTAMENTO ADIUVANTE

...16-30

1.2.3 TRATTAMENTO NEOADIUVANTE

...31-40

1.2.4 TERAPIA DELLA MALATTIA METASTATICA

...40-41

Capitolo 2 - IL CARCINOMA MAMMARIO HER-2

+...42

2.1 RUOLO PROGNOSTICO DELL'IPERESPRESSIONE DI HER-2

...42

2.2 TRASTUZUMAB E SUO RUOLO NELLA TERAPIA

NEOADIUVANTE DEL CARCINOMA MAMMARIO

...43-48

2.3 LAPATINIB E SUO RUOLO NELLA TERAPIA NEOADIUVANTE DEL

CARCINOMA MAMMARIO

...48-54

2.4 PERTUZUMAB E SUO RUOLO NELLA TERAPIA NEOADIUVANTE DEL

CARCINOMA MAMMARIO

...55-61

Capitolo 3 - RUOLO DI TRASUZUMAB IN NEOADIUVANTE NELLA MALATTIA HER-2+

...62

3.1 RAZIONALE E OBIETTIVI DELLO STUDIO

...62-63

3.2 MATERIALI E METODI

...63

(3)

3

3.2.1 PAZIENTI E DISEGNO DELLO STUDIO

...63-65

3.2.2 METODOLOGIA DI LABORATORIO

...65-66

3.2.3 RACCOLTA DEI DATI

...66

3.2.4 OBIETTIVI E CONSIDERAZIONI STATISTICHE

...67-68

3.3 RISULTATI DELLO STUDIO

...68

3.3.1 CARATTERISTICHE DEI PAZIENTI E RISPOSTE ALLA TERAPIA NEOADIUVANTE

...68-70

3.3.2 CARATTERISTICHE DEI PAZIENTI E SOPRAVVIVENZA

....70-75

3.4 DISCUSSIONE

...75-79

(4)

4

RIASSUNTO

Il carcinoma della mammella è per frequenza il primo tra i tumori nel sesso femminile, rappresentando circa il 29% di questi. Il numero di casi di carcinoma mammario è aumentato in modo significativo a partire dagli anni settanta e l'introduzione della mammografia ci ha permesso di diagnosticare tumori che prima non erano evidenti. Questa neoplasia rappresenta la prima causa di mortalità oncologica nel sesso femminile.

Il trattamento dipende da più fattori. In particolare dipende dallo stadio in cui il tumore si trova alla diagnosi : si imposta una terapia differente a seconda che si tratti di un carcinoma in stadio precoce, localmente avanzato oppure con presenza di metastasi già alla diagnosi. Anche le caratteristiche istologiche e biomolecolari condizionano la scelta terapeutica, soprattutto lo stato dei recettori ormonali steroidei e la presenza o meno di HER-2 positività.

Il nostro studio si concentra sulla terapia neoadiuvante nei carcinomi HER-2+ localmente avanzati. Vi sono numerosi studi in letteratura a favore dell'utilizzo di trastuzumab associato a chemioterapia nel trattamento primario. E' stato visto che questa associazione garantisce un sensibile incremento dei tassi di risposte patologiche complete. Fra i più importanti ritroviamo lo studio pubblicato nel 2005 da parte di Buzdar et al., e lo studio NOAH.

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5

L'obiettivo di questo studio è stato di investigare se l'associazione di trastuzumab e chemioterapia neoadiuvante nella pratica clinica garantisca gli stessi risultati ottenuti negli studi randomizzati. Questo in relazione al fatto che è stata riportata un'alta variabilità del tasso di pCR, insieme alla scarsa letteratura riferita alla pratica clinica.

Abbiamo analizzato retrospettivamente 205 pazienti con cancro mammario HER-2+ trattati in 10 centri italiani di Oncologia Medica tra luglio 2003 e ottobre 2011. Tutti i pazienti hanno ricevuto terapia sistemica neoadiuvante con trastuzumab e chemioterapia. Sono stati utilizzati diversi regimi chemioterapici, anche se il 90% dei pazienti ha ricevuto schemi comprendenti antracicline e il 99% ha ricevuto taxani. Il trattamento primario è stato somministrato per più di 21 settimane (media: 24) a 130/205 (63,4%) pazienti, mentre il trastuzumab è stato somministrato per più di 12 settimane (media: 12 settimane) a 101/205 (49.3%) pazienti. E' stata definita risposta patologica completa (pCR/0) l'assenza di carcinoma invasivo e non invasivo a livello di mammella e linfonodi (ypT0 + ypN0). La pCR/is è stata definita come l'assenza di carcinoma invasivo a livello della ghiandola mammaria e dei linfonodi (ypT0/is + ypN0).

pCR/0 è stata ottenuta nel 24,8% e pCR/is nel 46.8% dei pazienti. Sia il sottotipo tumorale nonluminal/HER-2+

(p<0.0001) che una durata di trattamento neoadiuvante con trastuzumab maggiore di 12 settimane (p= 0.03) sono risultati predittori indipendenti di pCR/0. La sopravvivenza media libera da malattia (DFS) e la sopravvivenza cancro-specifica (CSS) non sono state raggiunte al momento dell'analisi. All'analisi multivariata, sia la sottoclasse di tumori nonluminal/HER-2+

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(DFS: P = 0.01 e CSS: p = 0,01) che lo stadio patologico II-III all'intervento chirurgico (DFS: p <0.0001 e CSS: p = 0.001) sono risultate le uniche variabili significativamente associate ad un peggior outcome a lungo termine.

Attraverso i nostri dati sia le diverse sottoclassi molecolari che le dimensioni del residuo tumorale dopo terapia neoadiuvante sono risultati i fattori prognostici più rilevanti per la sopravvivenza in questa coorte di pazienti.

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1 INTRODUZIONE

1.1 EPIDEMIOLOGIA E INQUADRAMENTO DEL PROBLEMA

Il carcinoma della mammella è la neoplasia più frequente nel sesso femminile, rappresentando approssimativamente il 26% di tutte le neoplasie riscontrate. Ogni anno circa 40000 donne muoiono per questa patologia, rappresentando il tumore con la seconda mortalità più elevata, dopo quello del polmone. Se si valuta l'incidenza internazionale si apprezza come essa vada incontro a variazione a seconda della regione mondiale in cui ci si trovi : è elevata negli Stati Uniti e nel Nord Europa, intermedia in Sud America e nel Sud e nell'Est Europa, bassa in Asia. Inoltre si è anche apprezzato un costante aumento dell'incidenza negli anni.[1]

E' facile capire, già da questi primi dati, come il carcinoma della mammella risulti essere un problema medico di interesse mondiale e un tumore dalla grande rilevanza in ambito oncologico.

Concentrandosi sulla situazione italiana e sul sesso femminile un tumore maligno su tre (29%) è un tumore mammario. I tumori della mammella rappresentano il tumore più frequentemente diagnosticato tra le donne sia nella fascia d’età 0-49 anni (41%), sia nella classe d’età 50-69 anni (36%), sia in quella più anziana >70 anni (21%). Andando a valutare le differenze fra le varie regioni italiane si registra una maggiore incidenza al Nord (124,9 casi/100.000 abitanti) rispetto al Centro (100,3 casi/100.000 abitanti) e al Sud-Isole (95,6 casi/100.000 abitanti). Riguardo la mortalità, anche nel 2013, il carcinoma mammario ha

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rappresentato la prima causa di morte per tumore nelle donne, al primo posto anche in diverse età della vita, cioè il 28% delle cause di morte oncologica prima dei 50 anni, il 21% tra i 50 e i 69 anni e il 14% dopo i 70 anni. A partire dalla fine degli anni Ottanta si è assistito ad una costante diminuzione della mortalità (-1,6%/anno), attribuibile all’efficacia dello screening, almeno in alcune fasce d’età, ed ai progressi terapeutici, in particolar modo alle terapie multimodali. [2]

Analizzando in particolare l'incidenza nelle varie aree mondiali si capisce che la neoplasia mammaria sia principalmente una patologia che colpisce i paesi industrializzati. Si ritiene che ciò sia legato soprattutto al diverso stile di vita, e questo ci rimanda ad una breve descrizione di quelli che sono i fattori di rischio principali per tale carcinoma. [3]

La neoplasia della mammella, al pari della maggior parte dei tumori solidi, è una malattia multifattoriale e non è corretto parlare di fattori eziologici, quanto di fattori di rischio. Vediamo quali sono i principali :

 Età: sembra essere il più importante. La probabilità di sviluppare un cancro al seno aumenta, infatti, esponenzialmente all'aumentare dell'età. Si passa da una percentuale dello 0,44% delle donne sotto i 30 anni al 2,38% a 50 anni e al 3,82% per le donne di 70 anni.

 Familiarità ed ereditarietà: il loro peso è sicuramente meno rilevante di quanto si creda, infatti solo il 5-7% dei nuovi casi insorge in soggetti con anamnesi familiare positiva, mentre il rimanente 93-35% si sviluppa come caso sporadico. Il rischio di ammalarsi di carcinoma

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mammario è, comunque, circa il doppio nei parenti di primo grado di una paziente che ne è o ne è stata affetta. Sono stadi individuati 2 geni in particolare ai fini della predisposizione ereditaria, il BRCA1 e il BRCA2.

 Fattori riproduttivi: l'età della prima gravidanza rappresenta un importante fattore protettivo, in parte dovuto allo stimolo differenziativo che essa esercita sull'epitelio ghiandolare mammario, riducendone la suscettibilità alla trasformazione. Di conseguenza anche il numero di gravidanze a termine ha un ruolo nel ridurre il rischio. Si individuano invece, come fattori di rischio accertati, un menarca precoce e una menopausa tardiva, probabilmente perché indicatori di una maggiore esposizione dell'epitelio ghiandolare agli stimoli proliferativi estrogenici.

 Fattori dietetici: sono stati oggetto di approfonditi studi, ma contrariamente a quanto si possa pensare, sono ancora oggi argomento di grande controversia. Numerosi studi analitici non sono riusciti a dimostrare una sicura associazione fra il tipo di dieta e un rischio aumentato. Una maggiore probabilità di sviluppare il cancro mammario sembrerebbe comunque associata al consumo di grassi animali e inversamente correlata a quello di fibre vegetali. Anche l'alcol comporterebbe una maggiore suscettibilità mentre un maggior contenuto di folati eserciterebbe un ruolo protettivo. In conclusione, comunque, pare che la dieta abbia un peso limitato nella genesi del tumore della mammella.

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 Fattori antropometrici e metabolici: l'obesità svolge sicuramente un ruolo importante, perché un eccesso di tessuto adiposo, che nella donna in post-menopausa è la principale fonte di estrogeni, provoca un eccessivo stimolo ormonale sulla ghiandola mammaria. Particolare attenzione ha ricevuto anche la sindrome metabolica. E' noto che essa aumenti il rischio di patologie cardiovascolari, ma studi recenti hanno dimostrato che anche il rischio di sviluppare la neoplasia mammaria raddoppia nei pazienti che presentano tale sindrome.

 Fattori ormonali: gli ormoni sessuali hanno un peso fondamentale nella genesi e nella progressione del carcinoma della mammella. Vari studi attribuiscono un ruolo causale ai livelli ed alla durata di esposizione agli estrogeni. Controverso è invece il ruolo dei progestinici, seppur dati recenti sembrano attribuire anche ad essi un potenziale dannoso. Ulteriore rischio è attribuito all'uso di una terapia sostitutiva ormonale al fine di prevenire i tipici disturbi post-menopausa. E' stato invece ridimensionato il pericolo associato ai contraccettivi orali. Oltre agli ormoni sessuali, sembrano coinvolti anche il fattore di crescita insulino-simile (IGF) e la prolattina, i cui livelli aumentati provocherebbero un aumento dell'incidenza.[2,3,4]

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1.2 TRATTAMENTO DEL CARCINOMA MAMMARIO

Il trattamento della neoplasia della mammella è di tipo multidisciplinare, coinvolgendo vari specialisti, quali chirurgo, oncologo e radioterapista. La scelta della terapia più adatta si basa sull'attenta analisi dei fattori prognostici e predittivi, che possono essere divisi in tre differenti categorie :

 categoria I (provata importanza prognostica): dimensioni e stadio del tumore, istotipo, grado istologico, interessamento linfonodale, stato dei recettori ormonali;

 categoria II (non validati formalmente): valutazione dello stato di HER2, MIB1/Ki67, invasione vascolare peritumorale;

 categoria III (valore prognostico non provato): sono vari, quali pS2, stato di EGFR, catepsina D, aneuploidia del DNA.

Lo studio dei fattori predittivi e prognostici è sempre in evoluzione: numerosi studi si preoccupano di ricercare altri elementi che ci possano aiutare a scegliere con maggiore precisione la terapia, ad esempio, uno studio pubblicato nel 2014 sul World Journal of Surgical Oncology, ha messo a confronto la prognosi di una neoplasia bilaterale con quella di una neoplasia unilaterale multifocale multicentrica; i risultati paiono indicare che non esistano sostanziali differenze in termini di Disease-free

survival e overall survival fra le due forme descritte.[5]

Risulta chiaro come la terapia del carcinoma mammario non sia un elemento statico, bensì dinamico e in continua evoluzione, tale da andare di pari passo con le nuove scoperte ed i nuovi studi pubblicati.

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Attualmente si individuano 3 situazioni differenti di trattamento: malattia loco-regionale, malattia localmente avanzata o non operabile in maniera conservativa, malattia metastatica. Nel primo caso si opta per un intervento chirurgico seguito da un trattamento adiuvante; nel secondo caso si effettua una terapia neoadiuvante seguita da intervento chirurgico e terapia adiuvante; nel terzo caso si effettua una chemioterapia con finalità palliative, un eventuale radioterapia palliativa e una terapia di supporto sistemica.

1.2.1 RUOLO DELLA CHIRURGIA

Il trattamento chirurgico del tumore della mammella si può effettuare con due differenti tipologie di intervento: la chirurgia radicale e la chirurgia conservativa. Negli ultimi anni l'intervento conservativo ha progressivamente ma definitivamente sostituito l'intervento radicale nel trattamento dei tumori in stadio iniziale.[6] La tecnica chirurgica che viene utilizzata è rappresentata dalla quadrantectomia, messa appunto da Umberto Veronesi negli anni '70, e consiste in una ampia resezione del carcinoma e del tessuto circostante fino ad asportare un intero quadrante della mammella interessata. L’exeresi chirurgica deve essere sufficientemente ampia da asportare anche 2 centimetri di parenchima macroscopicamente sano intorno alla lesione

neoplastica. Alla quadrantectomia si associa

contemporaneamente la dissezione completa dei linfonodi ascellari, la cosiddetta linfoadenectomia ascellare. Questa tecnica però non è esente da complicanze: si associa, infatti, alla

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possibilità aumentata di sviluppare edema e parestesie dell’arto superiore omolaterale, difficoltà ai movimenti del cingolo scapolare; per questo motivo ci si sta affidando sempre di più all'esame del "Linfonodo sentinella", tecnica che permette di individuare, tramite l'analisi di un singolo linfonodo, se si ha avuto o meno diffusione metastatica al distretto ascellare.[7] In seguito il paziente verrà sottoposto a radioterapia con tecnica IORT, ovvero a livello intraoperatorio, ricevendo generalmente una dose di 21 Gy.[8]

Risulta facile da capire perché, a parità di efficacia, risulti preferibile effettuare un intervento conservativo; questo fu dimostrato con lo studio effettuato a Milano fra il 1973 e il 1980 in cui furono incluse 701 pazienti con una neoplasia inferiore ai 2 cm e senza linfonodi palpabili a livello del distretto ascellare, 349 furono trattate con mastectomia radicale secondo Halsted mentre 352 furono trattate con quadrantectomia e svuotamento ascellare e radioterapia. Fra i due gruppi non si riscontrarono differenze riguardo disease-free survival e overall survival, dimostrando quindi come, nei casi di tumore di dimensioni sotto i 2 cm, la mastectomia fosse un intervento eccessivamente invasivo.[9] Per spiegare l'importanza che un approccio conservativo abbia, possiamo citare uno studio effettuato in Messico nel 2014, in cui si è andato a valutare la qualità della vita di 139 pazienti che hanno subito uno dei tre differenti interventi chirurgici per trattare la patologia : mastectomia con ricostruzione, mastectomia senza ricostruzione e quadranctetomia. A distanza di un anno, valutando vari parametri, quali lo stato globale di salute, il dolore e la percezione, si è visto come la chirurgia

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conservativa fosse in assoluto quella meglio tollerata e meglio accettata dalle pazienti.[10]

L'importanza della quadrantectomia è in costante crescita, negli ultimi tempi questa pratica è stata estesa anche al trattamento di tumori di dimensioni maggiori. In una pubblicazione da parte dell'Organizzazione Europea per il Trattamento e la Ricerca sul Cancro sono stati analizzati i risultati di uno studio multicentrico randomizzato in cui 868 pazienti eleggibili per chirurgia mammaria sono state divise in due gruppi : un gruppo ha ricevuto mastectomia radicale, l'altro invece ha ricevuto quadrantectomia associata a svuotamento ascellare completo e radioterapia. Va sottolineato come in tutti gli 868 casi le dimensioni della neoplasia fossero comprese fra i 2 cm e i 5 cm. Il tempo medio di follow-up è stato di 10 anni e non sono state registrate differenze sia per quanto riguarda l'overall survival (66% per il braccio mastectomia e 65% per il braccio quadrantectomia), sia per quanto riguarda l'indice di assenza di metastasi a distanza (66%

per il braccio mastectomia e 61% per il braccio

quadrantectomia); lievi differenze sono state registrate invece valutando l'indice di recidiva loco-regionale (12% per il braccio mastectomia e 20% per il braccio quadrantectomia). I risultati hanno evidenziato come non ci siano sostanziali differenze negli indici di sopravvivenza in pazienti con una neoplasia di stadio II,

trattati o con approccio radicale o con approccio

conservativo.[11]

La chirurgia non invasiva per il trattamento del carcinoma mammario non è sempre effettuabile, ma si effettua in tutti i casi in cui può garantire dei margini di escissione adeguatamente

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liberi da malattia. Quando questo non è possibile allora si effettua una terapia chirurgica più aggressiva, l'intervento di mastectomia radicale: in particolare si può scegliere questa opzione o per scelta della paziente o del chirurgo, se fallisce la quadrantectomia, se la paziente ha già avuto precedentemente un tumore mammario trattato conservativamente, oppure se il tumore è multicentrico o bilaterale.[12]

Descriviamo molto rapidamente le principali tecniche per eseguire una mastectomia :

 mastectomia radicale standard, effettuata asportando mammella, muscoli pettorali e linfonodi ascellari;

 mastectomia radicale allargata, oltre agli elementi asportati tramite la radicale standard, si vanno ad asportare anche i linfonodi mammari interni;

 mastectomia radicale modificata secondo Madden, rispetto alla standard si conservano i muscoli pettorali;

 mastectomia semplice con svuotamento ascellare, asportazione di mammella e fascia pettorale con linfonodi ascellari di primo livello;

mastectomia sottocutanea con tecnica skin sparing, la mammella viene asportata ma si conserva la cute.[13]

Allo stato attuale la chirurgia radicale non viene quasi mai seguita da una radioterapia con finalità adiuvante, dato che si è visto essere efficace nel ridurre l'incidenza di ripresa della malattia nelle zone irradiate, ma non sono stati registrati benefici in termini di aumento della sopravvivenza. Eccezione a questa linea guida sono i casi di malattia localmente avanzata con interessamento di cute e muscoli pettorali, la positività di 4 o più

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linfonodi ascellari, tumore di dimensioni maggiori di 5 cm, interessamento della cute o della parete toracica.[14] Oggetto di discussione è il ruolo della radioterapia post-mastectomia in pazienti con non più di 3 linfonodi positivi. Alcuni autori ne suggeriscono l'utilizzo in questi casi, basandosi anche sul fatto che l'ultima edizione della metanalisi del EBCTCG indica come la riduzione del rischio di recidiva locale è approssimativamente intorno al 15%, indipendentemente dal numero di linfonodi interessati.[15] Appare invece chiaramente trascurabile nelle pazienti con interessamento linfonodale ascellare negativo.[16]

1.2.2 TRATTAMENTO ADIUVANTE

Con il termine di terapia adiuvante si intende un trattamento effettuato dopo l'atto terapeutico principale, in genere chirurgia, al fine di distruggere eventuali micrometastasi presenti nell'organismo, aumentando quindi la percentuale di guarigione e sopravvivenza globale a lungo termine.

Nell'ambito del tumore mammario questo tipo di terapia può essere effettuata utilizzando mezzi differenti e la scelta è legata alle caratteristiche istologiche e biomolecolari della neoplasia.

Abbiamo già trattato nel sottocapitolo precedente quale sia il ruolo della radioterapia adiuvante, di come essa risulti necessaria dopo un intervento di chirurgia conservativa, mentre sia frequentemente evitata dopo un intervento di chirurgia radicale, salvo eccezioni specifiche.[11,14,15,16] Per concludere

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rapidamente il paragrafo dedicato alla radioterapia elenchiamo quali sono le controindicazioni assolute e relative al suo utilizzo:

 risultano essere controindicazioni assolute la gravidanza, l'impossibilità di mantenere una posizione adeguata ad una corretta irradiazione, alcune malattie del collagene in fase attiva, quali ad esempio LES o sclerodermia;

 sono, invece, controindicazioni relative una precedente irradiazione locale a livello toracico, un volume mammario non ottimale ad una corretta irradiazione e malattie del collagene in fase non attiva.

Una seconda opzione per una terapia adiuvante è rappresentata dal trattamento sistemico adiuvante; le classi di farmaci impiegabili sono tre : farmaci endocrini, chemioterapici e farmaci a bersaglio molecolare specifico. Queste tre classi di farmaci sono complementari ed è possibile combinarle in scelte terapeutiche personalizzate sulla base di fattori prognostici e predittivi espressi e, in particolare, sulla base del sottotipo tumorale, tenendo conto anche dei benefici attesi in termini di percentuale di beneficio assoluto ed effetti collaterali attesi, comorbidità del paziente e preferenze del paziente.[2,17]

La chemioterapia si basa sull'utilizzo di farmaci al fine di arrestare la crescita e la proliferazione delle cellule tumorali, sia uccidendole che impedendone la replicazione. E' stata sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso. Da allora, centinaia di studi clinici sono stati condotti, generando un'immensa mole di dati scientifici la cui interpretazione e trasposizione nella pratica clinica quotidiana è molto complessa. Per superare questo

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problema ci è di grande aiuto la metanalisi periodica dei dati raccolti in tutti gli studi randomizzati, conosciuta come metanalisi di Oxford o dello EEBCTCG. Il vantaggio della metanalisi è stimare l'effetto medio di diversi trattamenti e valutarne le differenze fra i diversi sottogruppi di pazienti. In base ad essa è stato possibile classificare i regimi polichemioterapici in tre diverse generazioni.[2,3,17].

1° generazione: si tratta di regimi basati sulla combinazione di ciclofosfamide-metrotrexato-fluorouracile(CMF) , somministrati per un numero di 6-12 cicli, i quali riducono mediamente il rischio di recidiva di circa un 30%, e la mortalità globale di circa il 16%. Sono tuttavia attualmente poco usati e rappresentano per lo più un riferimento storico.[3] All'interno della metanalisi dello EEBCTCG pubblicata nel 2012 sono stati messi a confronto gli effetti, in termini di tempo trascorso per sviluppare recidiva,

breast cancer mortality e di overall mortality, di regimi

chemioterapici selezionati a base di antracicline e regimi basati sulla combinazione standard o vicino agli standard di CMF. Sono stati presi in esame circa 100.000 casi in 123 trials randomizzati e i trattamenti polichemioterapici a base di CMF si sono rivelati essere inferiori in tutti e tre i parametri analizzati rispetto agli altri regimi, come si può facilmente intuire nella figura 1. L'unico elemento a favore dell'utilizzo della combinazione ciclofosfamide-metrotrexato-fluorouracile sembra essere una particolare efficacia nelle donne al di sotto dei 55 anni e con linfonodi ascellari non metastatici.[18] Alcuni autori li ritengono ancora validi per alcuni specifici sottogruppi di pazienti; in particolare, basandoci sulle analisi di sottogruppo non pianificate effettuate su un vecchio studio clinico randomizzato

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denominato NCCTG MA5 (Cheang et al.,2012), è stata avanzata l'ipotesi che questi regimi siano più efficaci di quelli a base di antracicline nel sottotipo tumorale triple negative, in particolare

basal like.[19] Questa ipotesi basata su dati deboli,però, non ha

trovato al momento forti conferme. Va detto che quello appena citato non è l'unico studio a favore di questa ipotesi, in uno studio condotto nel 2014 si sono valutati in maniera retrospettiva 276 pazienti affetti da carcinoma mammario triple-negative e linfonodi ascellari negativi, divisi in due gruppi, 211 pazienti avevano effettuato terapia adiuvante a base di CMF mentre 65 non avevano effettuato terapia adiuvante. Il tempo medio di follow-up è stato di 85 mesi, nei quali si è potuto valutare come il primo gruppo avesse un minor indice di recidiva loco-regionale e una maggior disease-free survival, in particolare nei tumori di diametro inferiore ai 2 cm.[20]

2° generazione: si tratta di regimi polichemioterapici contenenti antracicline, distinguibili fra quelli a bassa efficacia e quelli ad alta efficacia. Al primo gruppo appartengono quelli denominati AC, ovvero adriamicina e ciclofosfamide, e EC, ovvero epirubicina e ciclofosfamide; generalmente somministrati per soli 4 cicli, per lo più i pazienti a basso rischio. Ad alta efficacia sono invece i regimi noti come FEC, ovvero fluorouracile-epirubicina-ciclofosfamide, e come FAC, ovvero fluorouracile-adriamicina-ciclofosfamide, somministrati per 6 cicli.[3]

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Figura 1 Curve di confronto fra regimi a base di antracicline e regimi CMF.

Come si può appurare dai risultati della metanalisi dello EEBCTCG e anche dalle curve presenti in figura 1, i regimi a bassa efficacia sono in pratica equivalenti al CMF in termini di efficacia terapeutica, ma hanno un diverso profilo di tossicità, inducendo meno tossicità gonadica e più alopecia e

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cardiotossicità. I regimi ad alta efficacia, invece, sono più efficaci del CMF garantendo una maggiore riduzione del rischio di recidiva locale e della mortalità globale.[18] Tuttavia sono gravati da una maggiore tossicità acuta e di lungo periodo, in particolare quest'ultima è molto pericolosa, essendo rappresentata da insufficienza cardiaca congestizia e da leucemia mieloide acuta, ma è fortunatamente molto rara. Uno dei fattori principali su cui si deve basare la scelta del tipo di chemioterapia è il benessere del paziente e la sua qualità di vita, per questo è importante valutare attentamente il rischio di sviluppare tossicità ed il suo peso nella vita di chi si sottopone al trattamento. Una

review pubblicata nel 2011 ha preso in esame vari studi per

dimostrare quale fosse il rischio di sviluppare complicanze legate all'uso delle antracicline durante la chemioterapia adiuvante. Per la cardiotossicità sono stati valutati tre diversi studi, uno italiano, uno francese e uno americano. In questi venivano inseriti pazienti che avevano ricevuto antracicline con varie combinazioni per il trattamento del carcinoma mammario, e ne veniva indagato il

follow-up della funzionalità cardiaca tramite ECG,

ecocardiogramma o MUGA scan. Analizzando i risultati fu possibile dimostrare effettivamente come l'associazione antracicline-cardiotossicità fosse reale ma anche rara. Nel primo studio di 355 pazienti che avevano assunto doxorubicina, l'8% ha sviluppato una disfunzione sistolica in 11 anni di follow-up. Nel secondo studio furono inseriti 150 pazienti, 85 ricevettero una dose maggiore di epirubicina rispetto ai restanti 65, e il 2,3% di quelli che assunsero un'alta dose sviluppò insufficienza cardiaca congestizia, elemento che ci permise di valutare anche come si trattasse di una tossicità dose dipendente. Anche il terzo studio

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effettuato su 180 pazienti che avevano assunto doxorubicina messi a confronto con chi aveva ricevuto CMF, permise di dimostrare questa debole associazione e il maggior rischio di sviluppare cardiotossicità assumendo antracicline. Questi mostrarono, infatti, al follow-up a 8 anni una maggiore riduzione della frazione di eiezione del ventricolo sinistro rispetto all'altro gruppo.[21] Numerosi metodi sono stati proposti per cercare di ridurre il rischio di sviluppare tale effetto avverso, si è visto come la somministrazione di una dose settimanale e una infusione prolungata riducano le probabilità di sviluppare una riduzione di frazione di eiezione e una insufficienza cardiaca congestizia.[22] Abbiamo parlato anche di un'altro tipo di tossicità associata ad un rischio aumentato di sviluppare un secondo tumore primitivo, in particolare una leucemia mieloide acuta ed una sindrome mielodisplastica. Tramite tre studi principali pubblicati fra il 2003 ed il 2010, si è potuto dimostrare la rara associazione fra antracicline e leucemia mieloide acuta, nonostante non sia stato chiarito se si tratti di un evento stocastico oppure legato alla suscettibilità individuale verso questi farmaci. Lo studio Praga et al.,tramite una analisi retrospettiva, valutò 7110 pazienti che erano stati trattati con epirubicina e ciclofosfamide all'interno di 19 trials clinici randomizzati, con un follow-up medio di 8 anni. La probabilità di sviluppare o AML o MDS era di 0,55%. Fu comprovato anche un legame con la dose somministrata, poiché i pazienti che avevano ricevuto la dose più alta avevano un rischio maggiore, pari a 4,97%. Anche i risultati degli altri due studi, Smith et al. e Burnell et al. , confermavano queste conclusioni.[21] Questi dati ci aiutano a capire come sia delicata la scelta della terapia più

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adeguata, il ruolo dell'oncologo non è solo curare la patologia ma anche garantire la miglior qualità di vita possibile, per questo è fondamentale tener conto delle tossicità dei farmaci, avendo chiaro quanto dose, durata della terapia e fattori individuali influiscano.

3° generazione: questi regimi sono a base di una polichemioterapia con antracicline + taxani, quali TAC (docetaxel, epirubicina, ciclofosfamide), TEC (docetaxel, epirubicina, ciclofosfamide), FEC seguito da docetaxel oppure AC o EC seguito da paclitaxel. Questi ultimi sono denominati "Blocco-sequenziali", dato che prima vengono somministrati generalmente 4 cicli a base di antracicline e secondariamente altri 4 cicli in monoterapia con un Taxano.[3] Questi regimi sono mediamente superiori a quelli di seconda generazione, producendo una ulteriore riduzione del rischio di recidiva e della mortalità globale di circa il 15%. Va specificato che, comunque, che questa superiorità è risultata evidente solo negli studi in cui il taxano è stato aggiunto al regime di confronto con antracicline, aumentando quindi il numero di cicli di terapia. Nel caso invece sia stato usato come sostitutivo, non si è manifestata una superiorità degna di nota.[18,23] Avendo parlato della cardiotossicità legata all'utilizzo di antracicline, risulta intuitivo capire come queste ultime modalità di trattamento, in cui il taxano viene usato come sostitutivo, siano comunque consigliabili: riducono infatti la dose di antracicline somministrata e quindi il rischio di sviluppare tossicità, non modificando sostanzialmente l'efficacia. Al fine di ridurre al minimo il rischio cardiaco, sono stati messi a punto regimi a base

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di soli taxani, quali il TC (docetaxel e ciclofosfamide) somministrato per 4 cicli. Uno studio pubblicato nel 2009 dal

Journal of Clinical Oncology, sviluppato negli Stati Uniti, mise a

confronto la terapia a base di soli taxani con una linea di trattamento di seconda generazione, in particolare AC. I pazienti furono assegnati in maniera casuale a ricevere o 4 cicli di AC o 4 cicli di TC (510 vs 506) con somministrazione ogni tre settimane tramite infusione intravenosa. I risultati dimostrarono come la sola somministrazione di taxani garantisse una maggiore efficacia e, eliminando l'uso di antracicline, fosse anche un trattamento più tollerabile e meno intaccante la qualità di vita del paziente.[24] Nonostante questo regime non sia mai stato confrontato con un regime di seconda generazione ad alta efficacia, è logico dedurre, vista la superiorità nei confronti di AC, che siano di efficacia sostanzialmente sovrapponibile, con il grande vantaggio della minore durata, ovvero 4 cicli vs 6 cicli, e l'assenza di cardiotossicità. Per tale motivo il trattamento TC ha guadagnato attualmente molta popolarità e in generale, i regimi di terza generazione risultano attualmente molto utilizzati.

Passiamo adesso a trattare una seconda classe di farmaci impiegati nella terapia adiuvante, che risulta strettamente connessa al sottotipo di neoplasia: l'endocrinoterapia. Questa può essere effettuata nelle forme luminal A e luminal B, in cui le cellule tumorali presentano positività per i recettori di estrogeni e/o progesterone. L'ormonoterapia adiuvante può essere effettuata con tre diverse classi di farmaci: i modulativi selettivi del recettore per gli estrogeni (SERM), gli inibitori dell'aromatasi (IA) e gli analoghi del GnRH. Analizzando quali siano le

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indicazioni principali all'utilizzo dei farmaci elencati è intuibile come la scelta dipenda anche dall'età della paziente, e in particolare se si trovi o meno in menopausa o in prossimità di essa :

 Nelle pazienti in premenopausa o perimenopausa con diagnosi di carcinoma mammario infiltrante operato ER-positivo e/o PgR ER-positivo indipendentemente dalle altre caratteristiche della neoplasia deve essere somministrato Tamoxifene per 5 anni.[2]

 Nelle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario infiltrante operato ER-positivo e/o PgR positivo ancora in premenopausa o perimenopausa dopo 5 anni di terapia ormonale adiuvante con Tamoxifene, può essere valutata la prosecuzione di Tamoxifene per ulteriori 5 anni.[18]

 Le pazienti in postmenopausa con carcinoma mammario operato ER-positivo e/o PgR-positivo candidate ad ormonoterapia adiuvante devono essere trattate con terapia che comprenda antiaromatasici.[25]

 Nelle pazienti in postmenopausa con carcinoma mammario ER-positivo e/o PgR-positivo gli AI possono essere somministrati in monoterapia per 5 anni oppure in sequenza per 3-2 anni dopo tamoxifene somministrato per 2-3 anni.[26]

 Nelle donne in postmenopausa che hanno completato 5 anni di tamoxifene, particolarmente in alcuni sottogruppi, deve essere preso in considerazione, l’utilizzo degli antiaromatasici per altri 5 anni.[26]

 Nelle pazienti in postmenopausa con diagnosi di carcinoma mammario infiltrante operato ER-positivo e/o

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PgR positivo sottoposte a 5 anni di terapia ormonale con Tamoxifene può essere presa in considerazione la prosecuzione di Tamoxifene per ulteriori 5 anni, in presenza di controindicazioni o intolleranza agli inibitori dell’aromatasi.[25]

Le conoscenze sull'endocrinoterapia non sono ancora complete ma attualmente in via di sviluppo. Ad esempio con uno studio si è cercato di capire quanto fosse utile proseguire per altri 5 anni il trattamento con tamoxifene. 12894 pazienti hanno effettuato i classici 5 anni di trattamento adiuvante con tale farmaco, poi sono state randomizzate in due gruppi, di cui uno ha interrotto la terapia e l'altro ha proseguito per altri 5 anni. Tra le 6.846 donne con carcinoma mammario ER positivo, la prosecuzione del Tamoxifene per ulteriori 5 anni ha determinato una riduzione del rischio di recidiva (617 recidive nelle 3428 donne randomizzate alla prosecuzione vs 711 nei 3418 controlli, p=0,002), di mortalità per carcinoma mammario (331 vs 397 morti, p=0,01) e di mortalità per ogni causa (639 vs 722 morti, p=0,01). Tale riduzione appare più marcata dopo 10 anni dalla diagnosi (recurrence rate ratio [RR] 0.90 [95% CI 0,79-1,02] durante gli anni 5-9 e 0,75 [0,62-0,90] negli anni successivi; breast cancer

mortality RR 0,97 [0,79-1,18] durante gli anni 5-9 e 0,71

[0,58-0,88] negli anni successivi). Va tenuto presente che il meccanismo di azione del tamoxifene è esercitare una debole stimolazione sul recettore estrogenico, in particolare a livello della ghiandola mammaria, ma stimolare con più intensità il recettore estrogenico a livello osseo ed a livello endometriale. Quindi in corso di trattamento è possibile che si sviluppi

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iperplasia endometriale o, molto più raramente, un carcinoma. Nei risultati dello studio si è visto che la prosecuzione della terapia provoca solamente un raddoppio della probabilità di sviluppare tale tumore, quindi un aumento del rischio trascurabile. Il rischio cumulativo di carcinoma dell’endometrio, calcolato sulla totalità delle pazienti arruolate (12.894), durante gli anni 5-14 era del 3,1% (mortalità 0,4%) per le donne randomizzate a proseguire il trattamento verso il 1,6% (mortalità 0,2%) del braccio di controllo (aumento assoluto della mortalità del 0,2%).[25]

Recentemente sono stati presentati i risultati aggiornati dello studio aTTOM in cui, tra il 1991 e il 2005, 6.953 pazienti (2.755 con ER positivo ed 4198 con ER non determinato) che avevano assunto tamoxifene per 5 anni, sono state randomizzate ad interrompere tale trattamento o a proseguire tamoxifene per ulteriori 5 anni. La somministrazione di questo per 10 anni ha portato ad una riduzione nel numero di recidive di carcinoma mammario (580 pazienti delle 3.468 vs 672 pazienti delle 3.485; p = 0,003); tale riduzione è risultata tempo-dipendente, con una RR (rate ratio) di 0,99 durante gli anni 5- 6 (IC 95%: 0,86 – 1,15), di 0,84 negli anni 7 - 9 (IC 95%: 0,73 – 0,95) e di 0,75 nei successivi (IC 95%: 0,66 – 0,86). Il trattamento più lungo ha ridotto anche la mortalità per tumore mammario (392 decessi vs 443, dopo la recidiva; p = 0,05), con una RR di 1,03 (IC 95%: 0,84 – 1,27) negli anni 5 - 9 e di 0.77 (IC 95%: 0,64 – 0,92) successivamente, e la mortalità globale (849 decessi vs 910; p = 0,1), con una RR di 1,05 (IC 95%: 0,90 – 1,22) negli anni 5 - 9 e di 0,86 (IC 95%: 0,75 – 0,97) nei seguenti. Durante lo studio, sono stati diagnosticati 102 vs 45 tumori endometriali (RR =

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2,20, IC 95%: 1,31 – 2,34; p < 0,0001), con 37 (1,1%) vs 20 (0,6%) decessi (rischio assoluto 0,5%; p = 0,02).[27]

Per quanto riguarda, invece, gli inibitori dell'aromatasi, innanzi tutto dobbiamo distinguerli in due diverse tipologie : steroidei e non steroidei. I primi agiscono come inibitori irreversibili, come Examestane, mentre i secondi agiscono come inibitori reversibili, come l'anastrozolo.[3] La modalità di trattamento prevede la monoterapia per 5 anni oppure la sequenza per 3-2 anni dopo tamoxifene somministrato per 2-3 anni. Non esistono dati a supporto dell’utilizzo degli AI per periodi di durata superiore a 5 anni. Dati provenienti da una metanalisi di studi di ormonoterapia adiuvante con AI vs tamoxifene da solo vs switch dopo 2 o 3 anni di Tamoxifene indicano tassi di recidiva più bassi a favore dei regimi contenenti AI senza un chiaro impatto sulla sopravvivenza globale. Ad oggi non è possibile definire quale sia la strategia ottimale tra utilizzo degli AI da soli oppure in sequenza con tamoxifene. L’ormonoterapia adiuvante in postmenopausa contenente AI è superiore a quella con solo tamoxifene in tutti i sottogruppi di pazienti in termini di DFS.[28]

In premenopausa invece l'uso degli inibitori dell'aromatasi deve essere evitato.

Per concludere la descrizione dell'ormonoterapia adiuvante, dobbiamo descrivere gli analoghi del GnRh. L'indicazione al loro utilizzo è la seguente : nelle donne in pre-menopausa affette da carcinoma mammario ormono-responsivo gli LH-RH analoghi in associazione a tamoxifene somministrato x 5 anni possono essere utilizzati.[2] Nonostante l’aggiunta dell’LHRH analogo al tamoxifene sembra apportare un beneficio marginale in termini

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di riduzione del rischio di recidiva e di morte, l’utilizzo di tale combinazione evita l’aumento dei livelli di estradiolo plasmatico che si verifica con il solo tamoxifene riducendo le tossicità che ne possono derivare come cisti ovariche o metrorragie. Comunque, in linea generale, possono essere utilizzati solo prima che si sviluppi la menopausa, e molti studi non sono tutt'ora riusciti a dimostrare una loro grande rilevanza, per cui essi risultano infatti la classe di ormonoterapici meno utilizzata fra quelli descritti fino ad ora.

Per concludere la descrizione del trattamento adiuvante descriviamo rapidamente il trattamento di scelta nel caso in cui si sviluppi una neoplasia HER-2 positiva; tratteremo adesso l'argomento in maniera molto rapida, poiché analizzeremo successivamente l'iper-espressione di HER-2 e cosa comporti a livello terapeutico, concentrandosi sul setting neoadiuvante. In questo specifico sottotipo tumorale l'unico farmaco utilizzabile in ambito adiuvante e neoadiuvante è il trastuzumab, che ha forte sinergismo con i regimi chemioterapici. Varie sperimentazioni cliniche, che hanno coinvolto circa 15000 pazienti, hanno dimostrato come la somministrazione di tale farmaco nei casi di malattia HER-2 positiva ed associata all'utilizzo dei chemioterapici riduca le recidive del 45-50% e la mortalità del 35-45%.[2,3,30,31] Si è cercato di capire quale fosse la modalità di somministrazione più opportuna in associazione agli altri farmaci, ed in generale deve essere assunto per un anno con 18 assunzioni totali, ogni 3 settimane, e la terapia può essere cominciata o in sequenza o al termine della chemioterapia. Uno studio randomizzato di fase III pubblicato nel 2010 ha

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confrontato efficacia e tollerabilità della somministrazione contemporanea rispetto a quella sequenziale. I pazienti hanno ricevuto doxorubicina e ciclofosfamide per 4 cicli seguiti da paclitaxel settimanalmente per 12 settimane (braccio A), paclitaxel più sequenzialmente trastuzumab per 52 settimane (braccio B), o paclitaxel più concomitantemente trastuzumab per 12 settimane più trastuzumab in monoterapia per ulteriori 40 settimane (braccio C). Il confronto fra il gruppo A e il gruppo B, per un follow-up medio di 6 anni, ha dimostrato una differenza di DFS significativa, rispettivamente di 71,8% e 80,1%. Per il braccio C, invece, con 6 anni medi di follow-up, si è registrato un DFS di 84,4%. Questo studio ci ha permesso di capire come l'utilizzo di trastuzumab nella malattia HER-2 positiva garantisca un'efficacia maggiore alla terapia e che la modalità di somministrazione più efficace sia la modalità concomitante.[32] Bisogna ricordare che fra le tossicità di trastuzumab è presente cardiotossicità, quindi dobbiamo valutare il rischio cardiaco complessivo quando lo utilizziamo in concomitanza con le antracicline.[33] Infatti l'uso concomitante produce un lieve incremento di tossicità cardiaca, pari a 2,2% nel regime contemporaneo, versus l'1,5% nel regime sequenziale.[34] Quindi utilizzando tutti i dati disponibili si ha che, nelle donne a rischio moderato-alto ed in assenza di particolari fattori di rischio per cardiotossicità, la migliore scelta è il regime concomitante; mentre se il rischio è medio-basso o sono presenti fattori di rischio cardiovascolari si opta per la somministrazione sequenziale.

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1.2.3 TRATTAMENTO NEOADIUVANTE

Introduciamo ora un'ulteriore opzione di trattamento, la terapia neoadiuvante. Questa è strettamente connessa al concetto di neoplasia mammaria localmente avanzata, un gruppo eterogeneo di tumori (vedi fig.2) che corrispondono allo stadio III, come definito dal sistema di stadiazione dell'American Joint Cancer

Committee (AJCC).[35]

Generalmente, quando il tumore si presenta in questo stadio, risulta non operabile d'emblée. La chirurgia come prima opzione terapeutica è controindicata o perché tecnicamente non eseguibile (a meno di interventi talora altamente demolitivi) o perché insoddisfacente in termini di risultati terapeutici. Nella gestione di un carcinoma localmente avanzato, la scelta iniziale dovrebbe essere una chemioterapia sistemica neoadiuvante. I regimi a base di antracicline sono considerati lo standard in questi casi, tuttavia la durata ottimale ed il numero ottimale di somministrazioni sono ancora oggetto di discussione.[36] Attualmente lo standard è utilizzare gli stessi schemi utilizzati in adiuvante, e in particolare quelli comprendenti un'antraciclina ed un taxano, preferibilmente in regime blocco-sequenziale. Tali regimi possono essere somministrati interamente in fase preoperatoria. Questa terapia è in grado di indurre il 70-90% di remissioni, un 5-15% risultano remissioni anatomopatologiche complete.[37,38]

Una volta che il trattamento neoadiuvante è stato efficace, esso può essere seguito o dalla chirurgia o dalla radioterapia.

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Fig. 2 Sistema di stadiazione dell'American Joint Cancer Committee.

Generalmente, se si è raggiunto una condizione di operabilità, si invia la paziente all'intervento chirurgico, preferibilmente una mastectomia associata a radioterapia della parete toracica, seguite poi dal completamento della terapia medica adiuvante. Se persiste una condizione di non operabilità si opta per una radioterapia per ottenere un controllo locale.[38]

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La scelta dello schema neoadiuvante dipende anche dal sottotipo di tumore in questione. Come analizzeremo ampiamente nel sottocapitolo seguente, se si tratta di una malattia HER-2 positiva è indicata l'associazione di trastuzumab alla chemioterapia. La percentuale di risposte patologiche complete raggiunge, in questi casi, il 40-50%.[38]

Resta da valutare il ruolo dell'endocrinoterapia. Il suo utilizzo in neoadiuvante è generalmente considerato un'opzione adeguata nei tumori con recettori ormonali positivi. Vari studi ne hanno dimostrato un'efficacia simile alla chemioterapia sistemica nei pazienti con tale sottotipo tumorale. I tassi di risposta clinica variano da 13% a 100%, con una durata di trattamento compresa fra 3 e 24 mesi. In molti studi in cui la durata è stata superiore, o comunque prolungata oltre i 3 mesi, i tassi di risposta sono aumentati. Sono stati effettuati studi che hanno messo a confronto l'utilizzo di tamoxifene e degli inibitori dell'aromatasi in neoadiuvante, quest'ultimi si sono dimostrati superiori in termini di risposta tumorale e di possibilità di utilizzare successivamente la chirurgia conservativa.[39,40,41,42] Ad esempio in uno studio pubblicato nel 2007 fu selezionato un gruppo di pazienti divisi in 3 diversi bracci : gli appartenenti alla prima ricevettero come terapia neoadiuvante 1 mg/die di anastrozolo, quelli della seconda ricevettero 25 mg/die di examestane, i terzi ricevettero chemioterapia a base di doxorubicina e paclitaxel. La percentuale di risposte cliniche non differiva fra i pazienti che avevano effettuato l'endocrinoterapia e quelli che avevano effettuato la polichemioterapia sistemica, essendo in entrambi i casi intorno al 64%. Ma, a parità di efficacia, si vide come l'ormonoterapia fosse decisamente meglio

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tollerata (le tossicità legate alla chemioterapia sviluppate furono 79%-alopecia, 33%-neutropenia di terzo o quarto grado, 30%-neuropatia di grado 2) e quindi preferibile.[41] In un altro studio multicentrico randomizzato pubblicato nel 2001 furono selezionati 337 pazienti in menopausa con un carcinoma mammario non operato, e con recettori ormonali positivi. Furono divisi in due braccia, al primo gruppo fu somministrato giornalmente letrozolo ad una dose di 25mg, al secondo invece fu somministrato tamoxifene alla dose di 20mg/die. In entrambi i casi il trattamento ha avuto la durata complessiva di 4 mesi. L'obiettivo primario era di confrontare l'overall objective

response, determinato dalla palpazione clinica. Obiettivi

secondari erano valutare tale tasso attraverso ecografia e mammografia, e valutare la percentuale di pazienti candidabile alla chirurgia conservativa. Il tasso di overall objective response valutato tramite palpazione era significativamente superiore nel gruppo che aveva ricevuto letrozolo (55% vs 36%), lo stesso per la valutazione alla mammografia (34% vs 16%), e per i pazienti candidabili alla chirurgia conservativa (45% vs 35%). Questi risultati dimostrano come letrozolo fosse più efficace del tamoxifene nella terapia neoadiuvante nel caso di carcinomi con recettori ormonali positivi, nel caso di una paziente in menopausa; ed anche come non ci fossero sostanziali differenze di tollerabilità fra i due trattamenti.

Nell’ambito del trattamento sistemico primario risulta importante ottenere una risposta patologica completa (pCR), che per lo più è associata ad una prognosi migliore. In letteratura, tuttavia, sono riportate diverse definizioni di pCR:

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 ypT0 ypN0: assenza di residuo invasivo e non invasivo su mammella e/o su linfonodi.

 ypT0/is ypN0: assenza di residuo invasivo su mammella e/o su linfonodi; residuo non invasivo ammesso.

 ypT0/is ypN0/+: assenza di residuo invasivo su mammella; residuo non invasivo e coinvolgimento linfonodale ammesso.

 ypT≤mic ypN0/+: assenza di residuo macroscopico invasivo su mammella; residuo invasivo focale, residuo non invasivo e coinvolgimento linfonodale ammesso.

Uno studio ha analizzato il ruolo prognostico della risposta patologica completa in 6.377 pazienti con carcinoma mammario in stadio precoce che hanno ricevuto un trattamento a base di antracicline e taxani nell’ambito di 7 studi randomizzati condotti dal gruppo tedesco. Dall’analisi è emerso che il valore prognostico è in funzione della definizione della pCR: considerando la pCR come ypT0 ypN0 (hazard ratio per la SLM e la SG pari a 1), tutte le altre condizioni si associano ad una prognosi peggiore secondo un gradiente che va da ypT0/is ypN0 a ypT≤mic ypN0/+. Ne consegue che la definizione di pCR raccomandata dal gruppo tedesco è quella di assenza di carcinoma invasivo e in situ sia a livello mammario che dei linfonodi ascellari. Tuttavia, la più recente ed estesa metanalisi di terapia neoadiuvante, condotta da "The Collaborative Trials in

Neoadjuvant Breast Cancer (CTNeoBC)" su 12 trial

randomizzati per un totale di 13.000 pazienti, non ha confermato i dati del gruppo tedesco. I risultati, presentati al San Antonio

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Breast Cancer Symposium del 2012, sono stati i seguenti: pazienti che hanno ottenuto una pCR hanno mostrato un significativo vantaggio in termini di event-free survival (EFS) (HR 0,48, p<0,001) e OS (HR 0,36, p<0.001). Il tasso di pCR e la probabilità di rimanere liberi da un evento, rispetto a chi non otteneva una pCR, sono risultati differenti in funzione del sottotipo molecolare:

 recettori ormonali positivi, HER2-negativo, G1-2: 7% (HR per EFS 0,63, p=0,07);

 recettori ormonali positivi, HER2-negativo, G3: 16% (HR 0,27, p<0,001);

 recettori ormonali positivi, HER2-positivo (casi trattati con un regime contenente trastuzumab): 30% (HR 0,58, p=0,001);

 recettori ormonali negativi, HER2-negativo (casi triple-negative): 34% (HR 0.24, p<0.001);

 recettori ormonali negativi, HER2-positivo (casi trattati con un regime contenente trastuzumab): 50% (HR 0,25, p<0,001).

Questa metanalisi ha confermato la relazione tra pCR e sopravvivenza. Inoltre ha supportato la definizione di pCR che preveda l'assenza della componente invasiva ed in situ sia a livello mammario che dei linfonodi ascellari (ypT0/is, ypN0).[43,44,45]

E' evidente quindi che ottenere una risposta patologica completa sia un obiettivo fondamentale del trattamento neoadiuvante, soprattutto dato che è stata riconosciuta essere un

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fattore prognostico strettamente correlato con la probabilità di recidiva e l'overall survival.

Una review pubblicata su Lancet nel Febbraio 2014 si è preoccupata di analizzare e meglio definire l'importanza di pCR e del suo ruolo prognostico. Sono stati valutati studi che presentavano i tre seguenti criteri: includere almeno 200 pazienti trattati con terapia primaria seguita da chirurgia; avere dati disponibili riguardo pCR, EFS e OS; e presentare un follow-up di almeno 3 anni. Sono state confrontate le 3 più comuni definizioni di risposta patologica completa che vengono utilizzate, ovvero ypT0 ypN0 e ypT0/is ypN0 e ypT0/is, e le loro associazioni con EFS e OS in vari sottogruppi. Con tali parametri è stato possibile utilizzare i dati di 11955 pazienti e tramite essi dimostrare che eradicare il tumore dalla mammella e dai linfonodi ascellari (ypT0 ypN0 e ypT0/is ypN0) sia associato ad una migliore EFS e OS rispetto alla sola eradicazione mammaria. Inoltre è stato dimostrato che il valore prognostico del raggiungimento di pCR è maggiore in pazienti che presentano un sottotipo di tumore più aggressivo, in particolare una neoplasia triplo-negativa e una neoplasia con recettori ormonali negativi e HER-2 positiva trattata con trastuzumab.[46] Un altro studio pubblicato nel 2012 si era preoccupato di dimostrare come la probabilità di ottenere pCR fosse legata al sottotipo tumorale. Erano eleggibili i pazienti con un carcinoma di dimensioni maggiori di 3 cm che erano stati trattati con terapia primaria, anche in questo caso come pCR fu considerata l'eradicazione del tumore sia dalla mammella che dai linfonodi ascellari. 221 pazienti furono inclusi, di cui il 41% aveva i recettori ormonali negativi e il 31% presentava una malattia HER-2 positiva. Dei 210 pazienti con dati sia dello stato

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dei recettori che dei risultati della chirurgia, 56 raggiunsero una risposta patologica completa. Il tasso di pCR era minore (9%) nei pazienti con recettori ormonali positivi e negatività di HER-2 mentre era maggiore (45%) se i recettori ormonali erano negativi e HER-2 +. Questo dimostra come un tumore HR positive/HER2 negative abbia una minore sensibilità alla terapia neoadiuvante mentre un tumore HR negative/HER2 positive presenti una maggiore sensibilità.[47]

Attualmente il trattamento primario sta assumendo sempre più importanza poiché quando si vuole testare l'efficacia di uno specifico trattamento due sono le opzioni da poter percorrere : valutarne gli effetti e i risultati in neoadiuvante oppure in adiuvante. Può essere utile optare per una sperimentazione in neoadiuvante dato che permette di osservare i risultati in tempi più brevi rispetto ad una sperimentazione effettuata sulla terapia adiuvante. Nel primo caso infatti posso osservare al termine del trattamento quante sono state le risposte patologiche complete, quanti pazienti sono passati da non operabili ad operabili, e quanti possono subire una quadrantectomia invece che una mastectomia radicale, unica opzione prima di sottoporsi alla terapia. Nel secondo caso invece i tempi si allungano, dato che necessito di un follow-up più esteso per valutare i vari tassi di sopravvivenza globale, di sopravvivenza libera da malattia o di recidiva. Con numerosi studi si è visto come non ci siano differenze in termini di sopravvivenza, quindi a parità di benefici è chiaro come in sia preferibile associare lo studio ed i risultati ad un trattamento neoadiuvante.[48,49,50,51,52] Lo studio cardine che per primo ha introdotto il problema e lo ha analizzato è stato

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pubblicato da Fisher et al. nel 1998. Lo scopo di tale lavoro è stato di determinare, in donne con carcinoma mammario operabile primario, se la somministrazione preoperatoria di doxorubicina (adriamicina) e ciclofosfamide (Cytoxan), cioè lo schema AC, produceva un risultato migliore rispetto alla terapia post-operatoria a base di AC, se esisteva una relazione tra

outcome e risposta tumorale alla chemioterapia pre-operatoria, e

se tale terapia aumentava il numero di interventi chirurgici conservativi eseguibili. Per ottenere ciò sono state randomizzate 1523 donne a ricevere il trattamento chemioterapico AC o nella fase pre-chirurgica o nella fase post-chirurgica. La risposta clinica tumorale alla somministrazione in neoadiuvante è stata classificata in risposta completa, risposta parziale, o assenza di risposta. I tumori con una risposta completa sono stati ulteriormente classificati come pCR o come presenza di cellule invasive. DFS, DDFS e la sopravvivenza sono state valutate a 5 anni e confrontati fra i gruppi di trattamento. Non vi era alcuna differenza significativa in termini di DFS, DDFS, o sopravvivenza (p=0.99, 0.70, e 0.83 rispettivamente) tra entrambi i gruppi. Più pazienti trattati pre-operatoriamente, rispetto a quelli trattati dopo la chirurgia, hanno potuto effettuare un intervento conservativo associato a radioterapia (67,8% contro 59,8%, rispettivamente). I tassi di recidiva ipsilaterale del tumore mammario (IBTR) dopo mastectomia parziale sono risultati simili in entrambi i gruppi (7,9% e 5,8%, rispettivamente, p = 0.23). L'esito era migliore nelle donne i cui tumori hanno mostrato una PCR rispetto a quelli con un Pinv, CPR, o del CNR anche quando erano controllate variabili prognostiche di base. Le conclusioni ci mostrano che la chemioterapia pre-operatoria è

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efficace come la chemioterapia post-operatoria, permette più interventi conservativi, è appropriata per il trattamento di alcuni pazienti con stadio I e II di malattia e può essere utilizzata per studiare la biologia del cancro al seno. La risposta tumorale alla chemioterapia preoperatoria correla con l'outcome e potrebbe essere un surrogato per valutare l'effetto della chemioterapia sulle micrometastasi; tuttavia, la conoscenza di una tale risposta ha fornito poche informazioni prognostiche oltre quelle che sono risultate dalla terapia postoperatoria.[51]

1.2.4 CENNI DI TERAPIA DELLA MALATTIA METASTATICA

Circa il 10% dei carcinomi mammari si presenta in stadio avanzato alla diagnosi.[3] Le possibili opzioni terapeutiche, in questi casi, sono rappresentate dall'endocrinoterapia, dalla chemioterapia sistemica, dai farmaci biologici e da tutte le possibili combinazioni che si possono fare con tali farmaci.[53] Il miglioramento delle conoscenze di biologia tumorale e la scoperta di nuovi farmaci diretti contro specifici bersagli molecolari ha reso più efficaci gli algoritmi terapeutici.

Negli ultimi anni, grazie allo sviluppo di nuove scoperte e nuove tecnologie sia a livello diagnostico che terapeutico, si è avuto un graduale aumento della sopravvivenza mediana di pazienti affetti da carcinoma mammario metastatico. Uno studio pubblicato nel 2004 ha preso in esame 834 casi di cancro metastatico della mammella tra il 1974 e il 2000, tutti trattati in adiuvante con chemioterapia a base di antracicline. Furono

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evidenziati 5 differenti gruppi in base all'anno di insorgenza e fu confrontata fra essi la sopravvivenza. Fu possibile cosi dimostrare che, realmente, la prognosi di un tumore mammario con metastasi alla diagnosi è migliorata in maniera progressiva con il passare degli anni.[54]

Gli scopi principali del trattamento, in questi casi, sono l'aumento della sopravvivenza sia globale, sia libera da progressione di malattia, che libera da sintomi. Quindi ciò rende evidente come sia egualmente importante cercare di ritardare l'exitus, sempre garantendo la miglior qualità di vita possibile. Per tale motivo l'intento della terapia rimane ad oggi palliativo.

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2 IL CARCINOMA MAMMARIO HER-2+

2.1 RUOLO PROGNOSTICO DELL'IPERESPRESSIONE DI HER-2

Le neoplasie mammarie in cui è presente una iperespressione di

HER-2 sono associate generalmente ad una prognosi peggiore ed ad un andamento più aggressivo di malattia. La prognosi in questi casi è migliorata notevolmente da quando si è cominciato ad utilizzare trastuzumab nella pratica clinica. Uno studio osservazionale pubblicato nel 2010 ha messo a confronto la sopravvivenza tra 2091 donne con tumore mammario metastatico diagnosticato fra il 1991 ed il 2007, sulla base dello stato di HER-2 e del trattamento con trastuzumab. I risultati hanno dimostrato come il tasso di sopravvivenza ad un anno nei casi di tumore HER-2 negativo, HER-2 positivo trattato in prima linea con trastuzumab ed HER-2 positivo non trattato con trastuzumab, fosse rispettivamente 75.1%, 86.6% e 70.2% con differenze fra i tre gruppi statisticamente significative (p=0.0028). Quindi le pazienti del secondo gruppo, ovvero quelle trattate con trastuzumab, mostrano un incremento assoluto del tasso di sopravvivenza ad un anno di 11.5% e di 16.7% rispetto alle pazienti con carcinoma HER-2 negativo ed HER-2 positivo non trattato con trastuzumab. Questi risultati sembrano suggerire come un tumore HER-2 positivo abbia comunque una prognosi peggiore rispetto ad una malattia HER-2 negativa, e come solo l'utilizzo di una target therapy come il trastuzumab nelle pazienti provochi un miglioramento della prognosi, che diviene pari alle forme HER-2 negative od addirittura superiore.[55]

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2.2 TRASTUZUMAB E SUO RUOLO NELLA TERAPIA NEOADIUVANTE DEL CARCINOMA MAMMARIO

Trastuzumab (Herceptin®) è un anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante (moAb) diretto contro il dominio extracellulare della proteina HER-2.[56] Il meccanismo d’azione non è completamente noto ma diversi effetti molecolari e cellulari sono stati analizzati in sperimentazioni in vivo e in vitro. Trastuzumab è infatti in grado di legare il dominio extracellulare, prevenendo il clivaggio del dominio stesso e la dimerizzazione di HER-2, inibendone dunque l’attivazione recettoriale e la conseguente trasmissione del segnale a valle, che coinvolge più vie intracellulari, come le vie delle fosfatidil inositolo 3,4,5 trifosfato chinasi (PI3K) e delle MAP chinasi (MAPK). Il legame con il moAB e la mancata dimerizzazione può condurre ad una internalizzazione recettoriale con successiva degradazione.[57,58] Trastuzumab, oltre a tali meccanismi d’azioni citostatici, svolge inoltre un’azione citotossica mediando l’attivazione della citotossicità cellulo-mediata dall’anticorpo (ADCC, Antibody Dependent Cell Mediated Cytotoxicity).[59] Questo anticorpo monoclonale è associato ad un significativo miglioramento sia per quanto riguarda la disease-free survival che per quanto riguarda l'overall survival in donne affette da un carcinoma mammario HER-2 positivo, sia quando viene dato in combinazione alla chemioterapia adiuvante sia in sequenza, con finalità adiuvante e neoadiuvante. Numerose review ci hanno permesso di dimostrare come l'azione di trastuzumab sia sinergica a quella di vari chemioterapici utilizzati per trattare la neoplasia mammaria.[60,61] Uno dei primi studi per dimostrare i

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benefici derivati dall'utilizzo di trastuzumab come terapia primaria fu pubblicato nel 2005 da parte di Buzdar et al. Furono selezionati pazienti con un carcinoma della mammella localmente avanzato di stadio II e III. La conferma istologica è stata eseguita con prelievo bioptico e lo stesso è stato fatto sui linfonodi sospetti. Tutti i tumori erano HER-2 positivi, valutati

con tecnica FISH o con una iperespressione 3+

all'immunoistochimica. I pazienti furono randomizzati a ricevere o un trattamento chemioterapico o lo stesso in associazione al trastuzumab con somministrazione settimanale per 24 settimane, i chemioterapici utilizzati furono FEC per 4 cicli seguiti da 4 cicli di paclitaxel. L'obiettivo primario dello studio era confrontare il tasso di pCR fra i due gruppi. Tra il 2001 e il 2003 furono inclusi 42 pazienti, 19 nel braccio senza trastuzumab e 23 in quello con tale farmaco. Il primo gruppo registrò un tasso di pCR del 26.3% mentre il secondo un tasso del 65.2%; questa differenza era statisticamente significativa (p = 0.16). Inoltre le dimensioni del residuo tumorale a livello mammario erano significativamente minori nei pazienti trattati con trastuzumab, mentre a livello linfonodale non si registrarono differenze significative. Quindi, nonostante il ristretto numero di pazienti inclusi, questi rappresentano i primi dati in grado di dimostrare come l'aggiunta di trastuzumab alla chemioterapia primaria provochi un aumento significativo del tasso di pCR.[62]

Un altro studio importante che è stato utile nel dimostrare l'importanza di trastuzumab in neoadiuvante è lo studio pubblicato da Gianni et al., lo studio NOAH , ovvero un trial di fase III effettuato su pazienti con nuova diagnosi di carcinoma

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mammario localmente avanzato od infiammatorio. L'obiettivo principale di tale analisi era dimostrare la superiorità della terapia neoadiuvante effettuata con trastuzumab associato ai chemioterapici e seguita da trastuzumab anche in adiuvante rispetto alla sola chemioterapia, nei casi di malattia HER-2 positiva: si è confrontato la EFS (event free survival), come tempo fra la randomizzazione e la diagnosi di recidiva o di progressione o decesso per ogni causa; inoltre si è valutato il tasso di risposta patologica completa nei tessuti mammari e globalmente a livello della mammella insieme ai linfonodi, e la sopravvivenza in tutti e tre i gruppi in cui i pazienti erano stati divisi. Infatti un braccio con malattia HER-2 positiva aveva ricevuto la sola chemioterapia, un braccio con lo stessa tipologia di malattia aveva ricevuto in aggiunta anche trastuzumab mentre un terzo braccio con malattia HER-2 negativa aveva ricevuto solo i chemioterapici. I pazienti per essere eleggibili dovevano presentare un carcinoma localmente avanzato o infiammatorio e una positività di HER-2 dimostrata o tramite FISH o tramite esame immunoistochimico. Nel gruppo di controllo HER-2 negativo i pazienti dovevano avere recettori ormonali positivi e almeno una lesione misurabile o un carcinoma infiammatorio. Tutti i pazienti di tutti e tre i gruppi hanno ricevuto lo stesso schema di terapia neoadiuvante: 3 cicli di doxorubicina + paclitaxel, seguiti da paclitaxel per 4 cicli, successivamente è stato somministrato il protocollo CMF per 3 cicli. Il braccio che ha ricevuto trastuzumab ha assunto una prima dose di carico seguita da 10 cicli di somministrazione a dose standard. Dopo la chirurgia è stato proseguito in adiuvante per la durata complessiva di un anno. Tra il 2002 ed il 2005 334 pazienti sono

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