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Le fabbriche recuperate Scop.Ti e Ri-Maflow. Dalla delocalizzazione all'autogestione.

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Sommario

Sommario __________________________________________________________________________ 2 1. Sin patrones. I perché di un'indagine sul lavoro recuperato __________________________________ 3

Utopie, progetti di riforma, conflitti e nuove istituzioni. Oltre un secolo di idee e di pratiche per un governo dei produttori. ______________________________________________________________ 6 «Tutto il potere a…»? Pensare il controllo operaio in Italia alla fine della Grande Guerra _________ 11

Partecipazione operaia nel secondo dopoguerra. Riorganizzare la produzione, disinnescare il conflitto. ________________________________________________________________________________ 18 Materiale resistente: l'occupazione delle OMI Reggiane ___________________________________ 21 Avanti veloce. Argentina, 2001. ______________________________________________________ 25 «The Take»: Strumenti e limiti di una storia del lavoro e dei lavoratori recuperati ______________ 30 2. Inside Maflow: nomi e numeri di una storia aziendale _____________________________________ 36 2.1 Analisi del conto economico: alcuni perché del fallimento ______________________________ 43 Aperti per fallimento. Ri-Maflow, fabbrica abbandonata, fabbrica recuperata __________________ 52 Lo spazio, la riconversione, la democrazia. Fuori Mercato. _________________________________ 65 La vertenza con la proprietà e i rapporti con le istituzioni __________________________________ 81 Lavorare, partecipare, decidere. Democrazia operaia. _____________________________________ 85 Delle idee chiare e confuse. Garantire un futuro a Ri-Maflow. ______________________________ 91 3. Pot de fer: Scop.Ti, tè e tisane recuperate _______________________________________________ 94 L’Eléphant è di Unilever ____________________________________________________________ 97 Unilever e il piano di delocalizzazioni: il caso Le Havre ___________________________________ 98 Frederick Taylor alla Fra.Lib. La direzione Llovera _____________________________________ 100 Essere fralibiens: il lavoratore recuperato e il racconto di sé ______________________________ 101 L’annuncio della chiusura, l’organizzazione della lotta sindacale ___________________________ 105 Comunicare la mobilitazione _______________________________________________________ 112 Fra.Lib-Unilever 1-0. Preparare la «soluzione alternativa» ________________________________ 117 Continua la battaglia legale. Ruolo delle istituzioni, influenza del contesto politico _____________ 121 L’occupazione della fabbrica, tra tavoli di lavoro e resistenza ______________________________ 125 Seconda vittoria legale, primi passi verso il salvataggio dei mezzi di produzione _______________ 127 Fra.Lib vince anche in terzo grado. Nasce Scop. Ti ______________________________________ 131 Pot de thé: riattivare la produzione, riorganizzare il lavoro. In cooperativa. ___________________ 135

Come si produce: procedure e macchine per confezionare gli infusi _________________________ 137 Cosa si produce: tutti i prodotti Scop. Ti, tutti naturali ___________________________________ 142 Come si vende: la grande distribuzione e non solo _______________________________________ 143 Come si decide: la ricomposizione della catena di comando _______________________________ 144 Bibliografia _______________________________________________________________________ 149 Sitografia _________________________________________________________________________ 154 Appendice Documentale _____________________________________________________________ 160

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1. Sin patrones. I perché di un'indagine sul lavoro recuperato

La riappropriazione del luogo di lavoro da parte dei lavoratori è un fenomeno rilevante sia dal punto di vista economico e occupazionale, sia per l’impatto sociale e politico del recupero del lavoro, nel segno della gestione collettiva.

La crescente globalizzazione dei mercati e il conseguente aumento del livello di competitività, impongono alle imprese operazioni di ristrutturazione aziendale o di riassetto proprietario, che spesso passano attraverso l'acquisizione da parte di una nuova azienda di un’altra impresa o dei soli cespiti di questa. Uno studio pubblicato dalla Commissione Europea nel 2011 stima che siano 450.000 i trasferimenti di impresa ai lavoratori ogni anno, che corrispondono a 2 milioni di posti di lavoro.1 Nel dicembre dell'anno successivo la Commissione Europea emette una Comunicazione per definire un approccio europeo ai casi di fallimento e insolvenza, con lo scopo di creare un ambiente favorevole al trasferimento d'impresa ai lavoratori. Fino a quel momento, con la European Commission Recommendation del 2006, soltanto 16 paesi avrebbero aumentato del 50% gli incentivi legali e fiscali per quel tipo di cessione aziendale.2 Infine nel 2013 l'Entrepreneurship 2020 Action Plan, indica il business transfers to

1 Business Dynamics: Starts–up, business Transfers and Bankruptcy, European Commission –

Enterprise and Industry, Brussels, 2011, p. 106.

ec.europa.eu/DocsRoom/documents/10448/attachments/1/translations/en/.../pdf

2 Cfr. Business Transfers to employees under the form of a cooperative in Europe, CECOP

Publications– European Confederation of Cooperatives and worker–owned enterprises active in industries and services, Brussels, 2013, p.13.

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employees come ambito di azione prioritaria.3 Si rileva un’azienda tramite buy-out non soltanto come strumento per realizzare rapidamente un incremento produttivo, ma anche per affrontare una crisi o il fallimento di un'impresa, che possono derivare dallo scarso dinamismo della proprietà, da sottocapitalizzazione o da limitazione del credito. Non sempre si tratta di operazioni che si avviano in una fase antecedente al fallimento; al contrario, l'avvio della cooperativa può derivare proprio dal fatto che la società si trovi in regime di amministrazione controllata o concordato preventivo. In quel caso i lavoratori acquisiscono autonomamente l'impianto, al fine di garantire la continuità occupazionale e produttiva.

Nella letteratura sui casi di riappropriazione d'azienda, si parla di recupero del posto di lavoro (nei documenti ufficiali workplace take overs) e si distinguono tre tipologie di workers’ buy-out. Con la formula Employees Share Ownership Plan (ESOP) si definiscono quelle forme giuridiche tipiche della tradizione di common law che permettono la partecipazione azionaria dei dipendenti, funzionale alla ricapitalizzazione e alla successione di piccole e medie imprese, ad esempio come forme di subentro a un proprietario defunto. I lavoratori promotori dell’acquisto, per effettuare l'acquisizione, creano una nuova società, che si indebita presso un istituto bancario, costituisce un Employees Stock Ownership (ESO) e investe la somma presa a prestito nel capitale della nuova società (che allo stesso tempo garantisce il debito contratto dall’ESO). A quel punto la nuova società disporrà dei mezzi finanziari e della liquidità sufficiente ad acquisire la società-bersaglio e si impegnerà a restituire la

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5 somma ottenuta in prestito per costituire il fondo.

Sono frequenti le operazioni di acquisizione concertate con l'azienda-bersaglio (negotiated workers’ buy-out). Attraverso la capitalizzazione degli ammortizzatori sociali (trattamento di fine rapporto, indennità di mobilità, ma anche i risparmi personali), il ricorso all'indebitamento con investitori istituzionali, fondi mutualistici o istituti bancari, i lavoratori tentano di salvaguardare il proprio posto di lavoro percorrendo la strada dell'autogestione, rischiando capitale proprio e rivolgendosi al sistema cooperativo.4 Le fasi di questa operazione sono: accordo sindacale in merito al personale; trattativa con il curatore fallimentare o il liquidatore; presentazione del piano economico-finanziario alle leghe territoriali preposte al vaglio del progetto di cooperativa; costituzione della cooperativa e ricerca di finanziamenti; avvio della gestione cooperativa; disinvestimento da parte dei soggetti finanziatori.5 Al centro di questo elaborato ci sono invece gli interventi di riappropriazione dei mezzi di produzione e di ristrutturazione complessiva della direzione d'azienda che si qualificano per una dimensione conflittuale, a tratti extra-legale (labour conflict workers’ buy-out).6 Il processo di buy-out comincia dopo l'occupazione del sito produttivo e deve

4 Simply Buy–out. A guide to employee buy–outs and becoming an employee owned business, Co–

Operatives UK, 2009.

5 V. Roncato, Le operazioni di buy–out in Italia. Focus sul workers' buy–out come strumento per

gestire la crisi, tesi di laurea magistrale in Amministrazione, Finanza e Controllo discussa presso l'Università Ca' Foscari, Venezia, 2012.

6 M. Vieta, The Italian road to creating worker cooperatives from worker's buyouts: Italy's worker–

recuperated enterprises and the Legge Marcora framework, Euricse Working Paper n°78|15, 2015; R. Caragno e G. Caruso, ESOP: natura giuridica e potenzialità dello strumento partecipativo, Dossier Adapi, Osservatorio Partecipazione Lavoratori, n°1, 2010.

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confrontarsi con la riorganizzazione del lavoro e dei processi decisionali, con le logiche di mercato predominanti e quelle di cooperazione che si rivendicano.

Come si configura una ristrutturazione aziendale che mira al controllo operaio della produzione, alla ricerca di democrazia internae di redditività?7 Qual è il quadro storico entro il quale si inscrivono queste operazioni di recupero, che tentano di affermarsi come risposte alla crisi economica, ma anche come scommesse politiche? Come si misura la loro efficacia nel disarticolare una visione dell'attività produttiva imperniata sul profitto e sull'organizzazione verticale del lavoro? Attraverso la ricognizione storiografica e l’individuazione di un ventaglio di applicazioni concrete, proviamo a ripercorrere l’evoluzione dei casi di autogestione operaia a cui si ispirano le

empresas recuperadas argentine e le fabbriche recuperate che si stanno diffondendo in

Europa sin dalla metà degli anni Duemila.

Utopie, progetti di riforma, conflitti e nuove istituzioni. Oltre un secolo di idee e di pratiche per un governo dei produttori.

Nell'Ottocento nascono le prime strutture di organizzazione mutualistica e i primi processi di auto-organizzazione che si assesteranno in un vero e proprio movimento operaio: i produttori diretti, i lavoratori organizzati, devono detenere il controllo della produzione. La Francia degli ateliers di produzione e la Gran Bretagna delle prime cooperative di consumo hanno espresso progetti di autorganizzazione riconosciuti come

7 A. Jensen, Workers co–operatives. A strategy for democratising and revitalising industry, Sidney

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modelli per l'elaborazione politica e sociale futura.8 Le ragioni della nascita di movimenti cooperativi, di produzione e consumo, sono riconducibili agli effetti dell'inurbamento di ingenti masse lavoratrici e del loro inserimento in un processo produttivo che ha modificato il rapporto tra capitale e lavoro, mettendo in luce le contraddizioni della nuova divisione del lavoro e della meccanizzazione.

Nell'Inghilterra delle poor laws, il rinvio totale alle leggi di mercato per tutto ciò che attiene alla sopravvivenza, produce nuove forme concrete di solidarietà di classe,9 contro il potere disgregante della rivoluzione industriale e dell’etica individualistica del capitalismo, non solo sul lavoratore, ma anche sul suo

«ambiente sociale, il suo vicinato, la sua posizione nella comunità, la sua arte, in breve, quei rapporti verso l’uomo e la natura nei quali si collocava prima la sua esistenza economica».10

8 F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Roma, Edizioni Rinascita, 1949, pp. 24-25. «Il

socialismo tedesco non dimenticherà mai che esso poggia sulle spalle di Saint-Simon, Fourier e Owen, tre uomini che, con tutta la loro fantasticheria e tutto il loro utopismo, sono le teste più fini di tutti i tempi e hanno anticipate infinite cose che noi oggi dimostriamo scientificamente, così il movimento operaio pratico tedesco non può mai dimenticare che esso si è sviluppato sulle spalle del movimento inglese e francese»

9 Il giorno di ferragosto del 1844, ventotto tessitori di Rochdale, nel Lancashire, codificano per la

prima volta i principi della cooperazione con l'apertura del primo spaccio cooperativo, la Rochdale Equitable Pioneers’ Society, fondata su sette capisaldi: adesione volontaria dei soci; libera elezione, da parte di tutti i soci, degli organi direttivi ed amministrativi della società cooperativa; pratica del ristorno, o distribuzione degli utili ai soci in proporzione alle transazioni con la cooperativa (acquisti, conferimenti, prestazioni lavorative) effettuate da ciascuno di essi; interesse limitato alle quote sociali; vendita in contanti; neutralità politica e religiosa; sviluppo della educazione cooperativa.

10 Polanyi ravvisa l'acume con cui il filantropo, imprenditore e pensatore inglese Robert Owen elabori

il suo programma di educazione di massa verso un «nuovo sistema» di individui (e habitat) perfettamente inseribili nel sistema produttivo. K. Polanyi, La grande trasformazione, (1944). Trad.

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Nel caso francese, l'urgenza di una risposta all'estendersi della pauperizzazione

interroga il ruolo dello stato e della borghesia sulla quale si reggeva l'assetto sociale orleanista, incalzata dalla nuova divisione di classe generata dall'industrializzazione. Ricordiamo la fortunata idea11 di Charles Fourier di una società di individui associati, comproprietari in solido di mezzi di produzione; il «socialismo non esplicito»12 di Claude–Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, in cui la classe degli «industriali», comprendente capitalisti e operai, produce per il benessere comune, contro l'economia

it., Torino, Einaudi, 2010, pp. 163-164. Della «nuova visione del mondo» proposta da Owen si sono potute indagare le isolate esperienze del “villaggio di cooperazione” di New Lanark e le

testimonianze americane di New Harmony in Indiana e di Harmony Hall nello Hampshire, tentativi dislocati oltreoceano a seguito della recrudescenza delle ondate repressive contri i lavoratori in Inghilterra. Da ricordare in particolar modo la rivolta di Spa Fields e la sua repressione (dicembre 1816), la marcia dei Blanketeers (marzo 1817), l’insurrezione del Derbyshire (giugno 1817), il massacro di «Peterloo» (16 agosto 1819), la cospirazione di Cato street (febbraio 1829). Una buona sintesi in M. Bloy, Riots, Disaffection, and Repression, 1811-19, 2004, in

http://www.victorianweb.org/ R. Owen, A New View of Society and other writings, London, Everyman's Library, 1966.

11 Di questa diffusione ci parla Italo Calvino nei suoi tre saggi dedicati a Fourier. I. Calvino,

L'ordinatore di desideri, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 228. «Vi fu, negli anni tra il 1830 e il 1848, un'espansione fourierista internazionale: per l'influenza che ebbe sull'intellighenzia rivoluzionaria russa basti ricordare il circolo Petrasevskij di Mosca i cui membri (tra i quali Dostoevskij) finirono nel 1849 davanti al plotone d'esecuzione e (graziati in extremis) in Siberia; negli Stati Uniti, l'esperienza della collettività di Brook Farm, fondata nel New England dal reverendo George Ripley come applicazione della filosofia trascendentalista di Emerson, e cui partecipò anche Hawthorne, si trasformò, in seguito alla propaganda fourierista di Albert Brisbane, nella North American Phalanx; esperimenti e influenze si propagarono fino in Romania e in Spagna»

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della rendita fondiaria della classe nobiliare;13 l'autogestione di Pierre-Joseph Proudhon, basata sulla federazione delle «compagnie operaie»14 per un'iniziale gestione delle aziende, fino alla piena socializzazione delle stesse.15 Progetti societari, quelli avanz+ati dai socialisti “critico-utopistici”, ai quali Karl Marx antepone un'idea di governo della classe operaia che diventa

«la forma politica, finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro. […] la leva per svellere le basi economiche su cui riposa l'esistenza delle classi, e quindi il dominio di classe».16

13 V. Martino, Saint-Simon tra scienza e utopia, Edizioni Dedalo, 1978, p. 29. «Ma a parte la presenza

e l'incisività della ricerca sociologica, permane dell'opera di Saint–Simon una chiara dimensione politica che, prescindendo da ogni altra considerazione, non può essere espunta da una visione compiuta e organica della società, da una visione che deve perciò bandire “le incoerenti distinzioni tra realtà politica, economica e sociale, per guardare queste categorie come tre momenti di un'unica e globale situazione teorica e pratica”»

14 P. J. Proudhon, Idée générale de la révolution au XIXème siècle (1851), in Oeuvres, p. 161: «Ciò che

mettiamo al posto del governo, l'abbiamo già detto: è l'organizzazione industriale. Ciò che mettiamo al posto della polizia è l'identità degli interessi. Ciò che mettiamo al posto della centralizzazione politica è la centralizzazione economica»

15 Si veda il Frammento di lettera contenuto nel taccuino n°5 del maggio 1847, riportato in É. Dolleans,

Storia del movimento operaio 1830-1871, Firenze, Sansoni, 1957, p. 187.«Poiché la causa è comune fra i lavoratori delle città e quelli delle campagne, diventa ugualmente tale tra la democrazia operaia e la classe media, la classe media che dappertutto va ricadendo in plebe. Possano l'una e l'altra comprendere che la loro salvezza è nell'alleanza»

16 Marx riflette sulla Comune di Parigi come accadimento segnatamente “moderno” rispetto al ritorno a

presunti assetti sociali edenici e privi di conflitto tra classi proposto dal socialismo utopistico. Nell'esperienza della Comune si è stati capaci di cogliere la contraddizione tra la necessità dello sviluppo del sistema capitalista e il fatto che proprio in seno a esso si annidino le condizioni del suo superamento – la divisione in classi, la divisione del lavoro, l'alienazione dal lavoro, l'accumulazione di miseria che procede di pari passo all'accumulazione di capitale. K. Marx, La guerra civile in

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Lenin riflette sulla necessità di sostenere lo sviluppo di uno spirito cooperativo (e soprattutto funzionale alla costruzione della società socialista) nella fase che segue la rottura rivoluzionaria, poiché persistono rapporti economici e elementi culturali propri della società capitalista. In questo stato di transizione, in cui la produzione va gestita alla luce dello stravolgimento degli assetti di potere, sono le istituzioni ad assicurare «una serie di privilegi economici, finanziari e bancari alla cooperazione».17

E laddove la rottura rivoluzionare è ancora tutta da preparare? Per i “comunisti di sinistra” l'eradicazione dell'ideologia borghese dalle masse è un'esigenza da anteporre alla valutazione dello stato di salute dell'economia capitalistica: anche laddove si diano condizioni socio-economiche mature per l'innesco della rivoluzione proletaria, possono sussistere «ostacoli di natura soggettiva». Nei saggi che la studiosa Simonetta Ortaggi dedica al dibattito politico-strategico tra Lenin e i Likskommunisten, sono centrali le posizioni di Anton Pannekoek e di Herman Gorter – riassunte efficacemente in «la teoria dei Consigli come organizzazione di tutta la classe per Pannekoek, la teoria dei “nuclei” formati da una ristretta élite cosciente, per Gorter»18 – così come le divergenze

Francia, Milano, edizioni Lotta Comunista, 2007, pp. 73-74. K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII, Roma, Editori Riuniti, 2006.

17 V. I. U. Lenin, Sulla cooperazione, articolo apparso sulla Pravda, n. 115 e 116, 26 e 27 maggio 1923,

trad. it. reperita su https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/1/sullacooperazione.htm

18 Secondo Pannekoek sono i Consigli gli organi preposti all'auto-emancipazione del proletariato, per

Gorter il mutamento ideologico del proletariato si dovrà innescare a partire da “nuclei” ristretti, preposti all'educazione di porzioni di popolazione sempre più larghe, fino alla formazione rivoluzionaria di tutta la classe. S. Ortaggi Cammarosano, Il dibattito tra Lenin e gli «estremisti»

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ideologiche che intercorrono tra Lenin e Rosa Luxemburg. Di questa articolata rosa di posizioni, dobbiamo sottolineare il tema della presa di coscienza della contingenza storica nella quale ci si trova: nel primo dopoguerra come oggi, la possibilità di sviluppare e generalizzare esperienze di controllo operaio delle imprese si gioca sul terreno delle «mediazioni storiche concrete».19

«Tutto il potere a…»? Pensare il controllo operaio in Italia alla fine della Grande Guerra

Il tema della gestione diretta dell'economia da parte dei produttori organizzati e della strategia di gestione coerente con il progetto societario che ci si prefigge, ricorre anche nella riflessione storica e politica nostrana. La questione è fortemente legata alla trasformazione dei processi di produzione nelle grandi imprese che caratterizzano il modo di produrre capitalistico già da fine Ottocento e che diventano più importanti con la guerra e il decennio seguente. Guardando al periodo tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale, si assiste al mutamento dell’incidenza dei diversi settori sulla composizione del PIL, con un accresciuto peso dell’industria.20

europei, in Teorie politiche e storia sociale (Saggi. I. 1974–1984), Milano, Edizioni Unicopli, 2008, p. 78.

19 Ivi, p. 90-91.

20 V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita dell’economia dell’Italia, Bologna, Il

Mulino, 2003, p. 53. Protagoniste di questi risultati sono in particolare alcune grandi imprese: l’Ansaldo, i cui addetti passano dai 9000 del 1914 ai più di 40.000 del 1918, è la prima fornitrice di cannoni dell’esercito oltre a essere impegnata nelle produzioni siderurgiche, navalmeccaniche, elettrotecniche, aeronautiche; l’Ilva, cui fanno capo i maggiori impianti siderurgici del paese; la Fiat,

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Composizione percentuale del PIL per settori 1861-1963 Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica amministrazione

1861 46,1 18,4 30,4 5,1

1913 37,6 24,9 32,0 5,5

1938 26,6 30,3 31,7 11,4

1963 16,5 49,5 26,0 8,0

In generale, la dinamica della produzione industriale presenta un notevole sincronismo con l’andamento del reddito pro capite (crescono il saggio annuo di incremento del PIL e del PIL pro-capite) e diventa determinante nel più generale processo di sviluppo economico, preconizzando un aumento reale del benessere, seppure distribuito in maniera diseguale. 21

Andamento del PIL e del PIL pro capite in Italia in diverse fasi storiche Anno PIL PIL pro capite

1861 100 100

1896 131 104

Anno PIL PIL pro capite

1896 100 100

1913 151 135

Anno PIL PIL pro capite

1922 100 100

1929 117 111

che affianca alla lavorazione di automobili e camion quella di motori marini e d’aviazione, di armi e munizioni; la Caproni, leader nel settore aeronautico.

21 G. Fuà, Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia dall’Unità a oggi, vol. I: Lavoro e

reddito, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 245. Fonte dati tabella V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 53.

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1938 136 119

Anno PIL PIL pro capite

1951 100 100

1963 200 186

I comparti dell’industria manifatturiera assumono un peso diverso nel corso dei decenni, infatti, complici le commesse statali per la produzione di materiale bellico, automobilistico e aeronautico, l’industria metalmeccanica, chimica e siderurgica trainano l’Italia fuori dalla stagnazione che aveva accompagnato la produzione negli anni prebellici.22

Occupati nei principali settori industriali al 1911 Alimentare 295.268 Laterizi, vetro, cemento 182.701 Elettricità, gas, acqua 34.187 Metallurgia 42.663 Meccanica 269.392 Chimica 19.083 Tessile 505.806 Abbigliamento 167.685 Legno 220.674

22 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 112-113. Sono esclusi dal conteggio del settore

meccanico gli addetti dell’artigianato meccanico e della chimica tradizionale (produzione di saponi, candele, profumi) per mettere in luce il numero di addetti impiegati nei comparti industriali più avanzati.

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Pelli e cuoio 120.282

L’organizzazione del lavoro nelle fabbriche viene investita, in maniera non uniforme e con tempi diversi, dall’«organizzazione scientifica» teorizzata da Frederick W. Taylor nel suo The principles of Scientific Management (1911), nonché dall’arrivo di moderne macchine utensili, che consentono di allargare e standardizzare la produzione, in nome dell’ottimizzazione del processo produttivo, della riduzione dei costi, della parcellizzazione delle mansioni, dunque del pieno controllo sui ritmi della fabbrica da parte della direzione. La razionalizzazione del ciclo produttivo da un lato, dall’altro l’esperienza e gli effetti socio-economici della guerra, concorrono alla trasformazione della fisionomia dell’operaio, della quale intendiamo prendere in esame l’evoluzione degli strumenti della rappresentanza operaia, in periodo bellico e durante la smobilitazione che segue la prima guerra mondiale.

Le Commissioni Interne hanno rappresentato una questione centrale per la ridefinizione dei rapporti di lavoro nel primo ventennio del Novecento.23 Negli anni della Grande Guerra non viene delineato nessun intervento normativo a tutela della rappresentanza operaia, tuttavia si assiste all'intervento concreto di «commissioni operaie informali», nate dalla frizione tra un proletariato operaio sempre più vessato dai ritmi della produttività nello stato di guerra, e un padronato e un sindacato che, con

23 Il primo riconoscimento delle Commissioni Interne Riconosciute avviene 1906 (il primo accordo

sindacale in materia viene stipulato tra la FIOM e la ITALA Fabbrica Automobili di Torino) e prima di allora create all'occorrenza, sull'onda di agitazioni che necessitavano di una struttura che coordinasse le trattative con il datore di lavoro.

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obiettivi ben distinti, miravano a controllare la crescente conflittualità.24 La prima normativa in merito, seconda solo a quella emanata nel maggio del 1917 dalla Federazione degli Industriali Metallurgici Fiorentini, si avrà nel febbraio del 1919. Provvedimenti disciplinari, problemi in termini di istituzioni normative ed economiche riconducibili agli effetti della smobilitazione, questione dell'autorità padronale in fabbrica: sono queste le istanze fondamentali che stimolano le agitazioni.25

In pieno Biennio Rosso, il gruppo aggregatosi attorno al periodico L'Ordine

Nuovo, caldeggiava la trasformazione delle Commissioni Interne in veri e propri

Consigli di Fabbrica. In un contributo apparso sul settimanale ideato Antonio Gramsci, si legge

«che in esse l'esercizio della sovranità è un tutt'uno con l'atto di produzione; nelle commissioni interne, dunque, si realizzano embrionalmente tutti i principi che informeranno la Costituzione dello Stato dei Consigli».26

24 S. Ortaggi Cammarosano, Donne, lavoro, grande guerra. Saggi. II 1982–1999, Milano, Edizioni

Unicopli, 2009, p. 240.

25 In tutta Europa, l'esperienza di una disciplina del lavoro modellata sull'esigenza dello sforzo bellico

ha creato le condizioni affinché le questioni del controllo o della partecipazione operaia alla gestione dell'impresa diventassero oggetto di largo dibattito. Le pagine di Vittorio Foa sulla nascita nel 1917 degli shop stewards in Gran Bretagna e l'istituzione dei Whitley councils per la conciliazione tra lavoratori e dirigenze aziendali, così come la creazione nel 1920 dei consigli d'impresa nella repubblica di Weimar (Betriebsrätegesetz), nati dopo l'accordo Stinnes–Legien, ci restituiscono solo due delle possibili soluzioni alla richiesta di supervisione e conduzione della produzione messe in atto dalle forze politiche. Si veda in particolare V. Foa, La Gerusalemme rimandata, Torino, Einaudi, 1985, p. 150.

26 Il problema delle commissioni interne. Postilla, “L'Ordine Nuovo”, n°15, 23 agosto 1919, p. 177.

L'edizione da cui si citano gli articoli è L'Ordine Nuovo, a cura di V. Gerratana e A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987.

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16 E anche

«Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori […] Sviluppate e arricchite dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione».27

I Consigli sarebbero stati dunque il passaggio essenziale verso una nuova unità di classe e, di conseguenza, verso la rivoluzione socialista. Anche il sindacato, in questo senso, avrebbe fatto la sua parte, dismettendo la funzione di tutore presso il padronato della disciplina dei lavoratori e trasformandosi in un ulteriore elemento di rappresentanza e progresso della nuova società liberata dalle classi e dalla concorrenza tra unità produttive.28

L’intervento governativo promosso da Giolitti di fronte alle agitazioni operaie nel triangolo industriale italiano andava nella direzione del cosiddetto dialogo corporatista, mediato dallo Stato, tra «sistema politico e lavoro organizzato».29 Nell'ambito dell'accordo per soffocare l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (Lodo Giolitti), il presidente del consiglio inserisce la creazione di una commissione

27 Democrazia operaia, cit., pp. 88–89.

28 Sindacati e Consigli, cit., p. 241 «I sindacati di mestiere e di industria sono le solide vertebre del

gran corpo proletario […] Ma perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione

positivamente classista e comunista è necessario che gli operai rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla diffusione dei Consigli»

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governativa per elaborare una proposta di legge sul controllo sindacale delle imprese. Controllo che, sulle pagine di «L'Ordine Nuovo», viene interpretato come

«la truffa dei collaborazionisti e dei riformisti, che hanno condotto la classe operaia fin sul margine dell'insurrezione armata... senza aver pensato a dare armi e munizioni agli operai».30

La proposta giolittiana metteva l'accento sull'accrescimento dell'educazione dei lavoratori, su una maggiore attenzione ai loro suggerimenti relativi all'aumento dell'efficienza dei modi di produrre, sulla garanzia di applicazione della legislazione di protezione sul lavoro. Si trattava di prefigurare degli organismi partecipativi che scongiurassero l'inasprirsi della conflittualità e l'orientarsi di quest'ultima verso il modello del Soviet russo.31

L'avvento del fascismo rimette in gioco tutti gli spazi di rappresentanza via via conquistati dalla classe lavoratrice e dall'organizzazione sindacale32 e per tornare a parlare di partecipazione/gestione dei lavoratori si deve attendere il decreto sulla

30 Cronache dell “Ordine nuovo” [XXXVIII], “L'Ordine Nuovo”, n°16, 2 ottobre 1920, p. 695 31 S. Musso, Esperienze storiche di partecipazione: i Consigli di Gestione nel secondo dopoguerra, in I

Consigli di Gestione e la democrazia industriale in Italia, Roma, Ediesse, 2014, p. 25

32 Tra le azioni più incisive si ricorda la firma del patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) con cui la

Confindustria riconosce la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici alla Confederazione delle corporazioni fasciste e, viceversa, la Confindustria diventa unico referente per la rappresentanza degliindustriali. La Carta del Lavoro del 1927 sancisce il dovere del sindacato di «rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori, per cui è costituito», stabilisce il contratto di lavoro collettivo come strumento di conciliazione degli interessi opposti e di superamento della classe e mette al centro la previdenza sociale come nerbo centrale della conciliazione. S. Musso, Esperienze storiche di partecipazione, cit., pp. 28 e segg.

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socializzazione delle imprese del 12 febbraio 1944. In questo caso il regime, ormai ridotto a Repubblica Sociale di Salò, riesuma, nel tentativo di conquistare il consenso popolare, le formule rivoluzionarie del primo fascismo e nel Manifesto di Verona prevede l’abbandono delle corporazioni, la creazione di una Confederazione nazionale del lavoro, forme avanzate di legislazione sociale, nonché la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese. Quest’ultima si avvale di un'assemblea, che nomina un Consiglio di Gestione, presieduto dal capo dell'impresa con diritto di veto – il capitale ha sempre l'ultima parola in caso di conflitti con il lavoro – e un Consiglio Sindacale, retto da un iscritto all'albo dei revisori dei conti. Le prerogative del Consiglio di Gestione, sulla carta, sembrano rilevanti: lo si chiamava a deliberare

«su tutte le questioni relative alla vita dell'impresa, all'indirizzo e allo svolgimento della produzione nel quadro del piano nazionale stabilito dai competenti organi dello stato, nonché sulla ripartizione degli utili».33

Partecipazione operaia nel secondo dopoguerra. Riorganizzare la produzione, disinnescare il conflitto.

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La legislazione sociale fascista viene cancellata con il decreto del 17 aprile 1945 emanato dal CLNAI, ma il principio della partecipazione non viene meno, di più, assume caratteristiche operative peculiari, che contribuiscono a ridefinire i tratti dell'idea di controllo operaio nel secondo dopoguerra come difesa della produzione in funzione antifascista:

«La scelta da parte dei Comitati di liberazione della partecipazione operaia alla gestione dell’azienda fu l’esito del contributo dei lavoratori alla lotta di liberazione, alla difesa delle aziende con l’occupazione delle fabbriche, alla protezione dei macchinari dalla distruzione e dagli espropri da parte dei tedeschi in ritirata».34

Dalla Liberazione in avanti saranno il tema della produzione, della riattivazione del sistema economico e della difesa dell'occupazione, a guidare l'organizzazione della rappresentanza dopo il secondo conflitto mondiale, tra punte d'avanzamento e battute d'arresto. Nonostante le rassicurazioni del ministro dell'industria Rodolfo Morandi,35 la Costituzione del 1948 non si arricchirà mai di articoli che sanciscano il ruolo deliberativo e di controllo dei lavoratori nell'impresa. Emblematica è la formulazione dell'art. 46, in cui si riconosce il diritto a «collaborare», non partecipare, «alla gestione delle imprese». L'endiadi “collaborazione-controllo” si lega strettamente al complesso

34 F. Farina, le strutture della rappresentanza sul luogo di lavoro, Roma, Ediesse, 2013.

http://www.ediesseonline.it/files/articoli/ae/37–45%20Farina.pdf

35 Discorso di Rodolfo Morandi alla Consulta nazionale, Assemblea Plenaria, 28 settembre 1945. Lo

stralcio dal quale si cita è stato inserito in I Consigli di Gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia, cit., p. 225. Ripubblicato interamente in R. Morandi, Democrazia diretta e riforme di struttura, Torino, Einaudi, 1960, pp. 7-8. Morandi descrive i Consigli di Gestione come futuri supervisori dell'«integrità e della vita dell'impresa, cui il lavoratore […] affida la sua vita oggi»

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gioco di posizionamenti politici che concorrono alla mancata elaborazione di strumenti di coinvolgimento dei lavoratori nella direzione dell'impresa e alla possibilità di un vero e proprio controllo operaio dei mezzi di produzione. I Comitati di Liberazione Aziendale prima e successivamente i Consigli di Gestione, assumono sì la rappresentanza delle maestranze e un ruolo decisionale sulle scelte di produzione (soprattutto laddove permanevano posizioni dirigenziali vacanti a causa dei procedimenti di epurazione), ma siamo ben lontani dal controllo operaio della produzione incarnato dai Consigli della lezione gramsciana. Infine, la rottura della coalizione tripartita nel maggio del 1947 e la sconfitta del Fronte democratico popolare alle elezioni politiche dell'aprile 1948 raggelano qualsiasi dibattito e esperimento di democrazia industriale.

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Materiale resistente: l'occupazione delle OMI Reggiane36

«Ma la prima colata di ghisa, eseguita “senza padroni”, alla fonderia nuova, nel terzo giorno della serrata, acquistava agli occhi degli operai un grande significato, una più che esauriente risposta a chi “dopo aver abbandonato lo stabilimento senza preoccuparsi della sua sorte”, aveva definito l'occupazione “una azione illegale e delittuosa”».37

A dispetto di una temperie profondamente mutata, l’Italia nel secondo dopoguerra conosce un’interessante esperienza di riappropriazione di fabbrica, quella delle OMI Reggiane di Reggio Emilia. L’azienda si trovava ad affrontare la riconversione a una produzione civile, la ricostruzione degli impianti produttivi distrutti dai bombardamenti o depredati a seguito dell'occupazione tedesca e l'esuberanza di manodopera poco qualificata.38 Le Reggiane iniziano la loro attività produttiva nel 1904 e producono la quasi totalità dei convogli ferroviari della rete italiana; all'inizio della Grande Guerra le

36 Per la ricostruzione dell’esperienza delle OMI Reggiane sono stati fondamentali attraverso S.

Spreafico, Un'industria, una città, Bologna, Il Mulino, 1968; M. Bellelli, Scacco matto alle Reggiane, in Ricerche storiche, n°103, Milano, Mondadori, 2007; M.T. Grillo, Reggiane: memoria e evoluzione di una struttura industriale (http://www.lavoroculturale.org/reggiane/), Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia

http://www.istoreco.re.it/, Officine Meccaniche Reggiane http://www.officinemeccanichereggiane.it/

37 S. Spreafico, Un'industria, una città, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 383.

38 Alcune stime relative al 1946 fanno ammontare a 450 miliardi di lire correnti il valore complessivo

degli impianti industriali distrutti, pari a circa il 20% del valore degli impianti prebellici. Occorre sottolineare che la riattivazione industriale post-bellica italiana non mira tanto alla riproposizione dell'eccellenza raggiunta nella produzione di guerra, ma a lavorazioni che potevano assicurare abbondanti flussi di commesse, come ad esempio il settore del materiale ferroviario, visto che circa un quarto dei binari e un terzo dei ponti di Ferrovie dello Stato era stato distrutto. Lo sviluppo dell'economia italiana nel quadro della ricostruzione e della cooperazione europea, a cura dell’Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1952, p. 3-4.

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OMI assorbono anche il Proiettilificio di Modena. Nel 1933 l'IRI diventa azionista di maggioranza, ma ben presto sarà il conte Giovanni Caproni a riacquisire l'azienda e a orientare la produzione verso aerei da guerra e aerei e motori per conto della Siai Marchetti, della Piaggio e della Fiat, inaugurando un periodo di grande fortuna dell'azienda.39 Nel 1943 inizia però della parabola discendente delle Reggiane;40 al contempo il Partito Comunista, attraverso una vera e propria «commissione paramilitare per il sabotaggio della produzione della guerra» comincia a far circolare materiali informativi, capaci di riattivare un’educazione delle masse operaie annichilite dalla guerra e dalla sottrazione di diritti del periodo fascista. È soprattutto l’anno dei nove operai uccisi il 28 luglio da una truppa di bersaglieri mentre si dirigevano in corteo verso la prefettura, compiendo il primo atto di vita democratica a tre giorni dalla notizia della caduta di Mussolini.

Nel 1945 le Officine vivono una condizione di frammentazione del sito produttivo e della forza lavoro, disseminata negli stabilimenti del nord d'Italia o nelle fabbriche di armi tedesche. Programmazione e decentramento, necessità di ridurre il personale e

39 Con l’ingresso di Caproni, le OMI si collocano al quarto posto in Italia dopo la Fiat, l’Ansaldo e la

Breda per numero di dipendenti e volume di lavoro, arrivando a occupare più di 11.000 dipendenti rispetto ai 2000 dell’inizio della prima guerra mondiale.

40 La forte riduzione delle commesse belliche e l'ordine delle autorità di occupazione tedesca di

delocalizzare la produzione aeronautica produce una forte diminuzione delle maestranze, tra licenziamenti e dimissioni volontarie di coloro che non erano disposti a spostarsi nel Varesotto per lavorare. Inoltre non vide mai la luce la Commissione Interna, ripristinata attraverso la firma di un accordo inter–confederale con le organizzazioni industriali, caldeggiato da Bruno Buozzi e firmato pochi giorni prima dell'armistizio, il 2 settembre 1943. Per un quadro ampio dell'incremento della manodopera negli anni della produzione della guerra e del personale in forza nell'azienda (1905– 1950) si vedano le tabelle in S. Spreafico, Un’industria, una città, cit., pp. 259 e segg.

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bisogno di occupare migliaia di reduci, diventano le parole-chiave del piano di riconversione industriale e la sede centrale di Reggio Emilia diventa centro amministrativo, luogo di lavorazione iniziale delle materie prime e punto di assemblaggio finale degli apparecchi, aerei cargo e passeggeri.41

La mobilitazione si accende di fronte al varo di un piano di migliaia di licenziamenti e mancati rinnovi delle assunzioni, di salari decurtati del 50% e pagati in forma dilazionata.42 Nell'ottobre del 1950 l’azienda decide di licenziare 1200 operai dopo giorni e giorni di astensioni dal lavoro a singhiozzo. Per tutta risposta, le maestranze occupano la fabbrica. Durante il periodo di occupazione una parte consistente dei dipendenti continua a recarsi in fabbrica e a timbrare il cartellino, secondo i normali orari lavorativi, pur non ricevendo alcun salario.43 Senza l'attivazione di comitati di solidarietà che hanno coinvolto dai braccianti agricoli ai commercianti, dagli altri operai in lotta (Ansaldo e Breda) fino alle organizzazioni femminili di differente provenienza politica, è difficile pensare che il blocco dello stabilimento si sarebbe potuto protrarre per così tanto tempo.44 Nel corso dell'occupazione viene

41 Sullo sviluppo del trasporto aereo si veda la tabella in M. Bellelli, Scacco matto alle Reggiane, cit.,

p.51.

42 Ivi, p. 56.

43 Gli operai agiscono sull'esempio dell'Ansaldo, dove, nello stesso periodo, 23 mila operai

continuavano il lavoro in assenza di direzione aziendale. A. Micheli, Ansaldo 1950. Etica del lavoro e lotte operaie a Genova, Torino, Einaudi, 1981.

44 S. Spreafico, Un’industria, una città, cit., p. 385. «A dieci giorni dall'occupazione erano stati raccolti

a favore delle maestranze circa 180 ql. di frumento, 45 ql. di farina, grosse quantità di generi alimentari e oltre 2 milioni di lire: frutto della propaganda capillare in ogni rione, in ogni fabbrica, in ogni caseggiato». Si veda anche il contributo di un ex operaio delle Reggiane raccolto nell'ambito della serie di video-documentari della CGIL Centroxcentro Ritratti – Cento storie per cento anni

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progettato e prodotto un trattore cingolato chiamato R60, tuttavia il destino dell'azienda sembra orientato dalle parole di Confindustria sulla necessità di rimuovere le cosiddette «fabbriche cadavere», prive di una consolidata produzione in serie e di un prodotto sicuro da piazzare sul mercato. La procedura di liquidazione amministrativa risale al maggio 1950 e nell’ottobre del 1951 l'occupazione si conclude con un corteo di occupanti che esce dalla fabbrica – «colonne d'operai irrompere nelle vie e le vie farsi canto, grido, acciaio, fiume rosso di bandiere di popolo a braccio»45 – guidato da di Vittorio e dal trattore R60.

Quella delle OMI è stata l'occupazione di fabbrica più duratura della storia d'Italia e mette all’attenzione uno dei temi che più frequentemente incontreremo parlando di fabbriche recuperate ai giorni nostri, quello dell’anti-economicità come motivo sufficiente per disinvestire, parcellizzare e infine chiudere una produzione, pattuendo spesso e volentieri risarcimenti tutt’altro che appropriati rispetto al danno in termini economici e sociali che si fa a un territorio. I 368 giorni, resi possibili dalle reti sociali e sindacali e dal mutuo aiuto, traghettano la nostra dissertazione verso alcuni esempi di autogestione operaia che caratterizzano il Sud America, per certi versi non così difformi da quanto abbiamo appena ripercorso.

(https://www.youtube.com/watch?v=idFG_YzyWAw); l'intervistato afferma «arrivarono cinquemila galline! C'era una gallina per ciascun operaio [...]»

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Avanti veloce. Argentina, 2001.

Abbiamo fin qui tentato di chiarire con quale profondità il tema dell’autogestione operaia attraversi tutta la storia europea del Novecento. Si è scelto di richiamare i tratti del dibattito teorico e le forme della mobilitazione più utili a giustificare il vivo interesse per le esperienze delle ERT argentine che attraversa l’intera dissertazione.

L’occupazione e la riattivazione delle fabbriche in Argentina scaturisce a partire dall’insolvenza che investe il paese nel 2001. Il modello ISI (Industrialización

substitutiva de importaciones, del 1950), che mirava a stimolare lo sviluppo di settori

industriali locali, riflette una visione economica con un forte orientamento nazionalista, tipica del peronismo, e tace delle specifiche inadeguatezze di una parte significativa della borghesia argentina entra in crisi a partire dagli anni Ottanta, in concomitanza con gli effetti del consolidamento delle politiche reaganiane e thatcheriane.46 Nello stesso periodo, Carlos Saùl Menem conquista il vertice del Pj e nel 1989 avvia la sua rivoluzione (sua e di Domingo Felipe Cavallo, il plenipotenziario per gli affari economici del suo Gabinetto). L'obiettivo è trasformare l'Argentina in una «economia popolare di mercato», in cui si cerca di coniugare il carattere sociale della promessa

46 Una manifestazione di tale influenza sulla politica argentina può essere esemplificata da un

documento che riassume per punti le politiche economiche che sarebbero state auspicate dagli Stati Uniti: riduzione del deficit e della spesa pubblica, liberalizzazione di importazioni e esportazioni, facilitazione IDE, promozione delle privatizzazioni. J. Williamson, What Washington Means by Policy Reform, from Latin American Adjustment: How Much Has Happened?, Peterson Institute for International Economics, Washington, DC, 1990.

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revolución productiva e la svolta neoliberista che stavano progettando:47 contratti di lavoro più flessibili, riduzione degli investimenti statali nel settore industriale, normative più rigide sul diritto allo sciopero, deregolamentazione del mercato finanziario e l’abbattimento delle barriere protezionistiche per il mercato interno.

Nell'aprile del 1991, per assicurarsi maggiore credibilità sul mercato internazionale, viene applicato il Plan de Convertibilidad, ossia la parità fissa della moneta locale, il Peso, con il Dollaro, che comportava l’intervento della Banca centrale a ristabilire il cambio 1 a 1 ogni qualvolta variasse. Una volta legato il valore della valuta nazionale al Dollaro, la quantità di moneta nazionale doveva essere in ogni momento pari all’ammontare di riserve in possesso della Banca centrale, per garantire la circolazione di moneta. Inoltre, per favorire l’afflusso di Dollari nelle riserve argentine, il governo deve aumentare i tassi d’interesse sui titoli pubblici e privati, una politica che, sia nel lungo sia nel breve termine, rappresenta un costo sempre maggiore del denaro.48

Si tratta di una super-valutazione che genera disequilibri per lungo tempo sommersi, finché l'economia del paese non risente dei contraccolpi delle crisi

47 C. H. Acuña, Politics and Economics in the Argentina of the Nineties, in Democracy, Markets, and

structural reforms in Latin America, North-South Center Press, 1993. Una buona sintesi delle parole d'ordine della campagna elettorale di Menem: http://www.lanacion.com.ar/453836-menem-promete-un-salariazo-mas-planes-sociales-y-guerra-al-delito

48 F. Silvestri, L'Argentina da Perón a Cavallo: 1945-2002: determinanti storiche ed impatto socio-

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finanziarie del sud-est asiatico e della Russia.49 A questo si aggiunge l'improvvisa svalutazione della moneta messicana (dicembre 1999), che a sua volta provoca la svalutazione del Real brasiliano, con forti contraccolpi anche sull’Argentina e gli altri partner del MERCOSUR.50 Nonostante l'erogazione di fondi da parte del FMI, a sostegno delle misure di austerità varate dal governo per assicurare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, e l’adozione del cosiddetto Corralito, una misura concepita come strumento per evitare l’esportazione di liquidità attraverso il congelamento di tutti i conti bancari argentini per 12 mesi, gli operatori economici sono ormai persuasi dell'inevitabilità dell'insolvenza sul debito pubblico. Dal momento che la riforma aveva soppresso i controlli valutari, si innesca un massiccio deflusso di capitali, che mette in crisi l'equilibrio della bilancia dei pagamenti, tra risultati negativi del conto finanziario e delle partite correnti, la cui difficoltà è legata al defluire di risorse destinate al servizio del debito estero. Nel 2002 viene abbandonato l’ancoraggio al Dollaro: l’inflazione sale al 41%.51

Tra gli effetti congiunturali della crisi argentina, vi solo le proteste da parte di lavoratori e studenti che presidiano gli stabilimenti industriali a rischio chiusura o fallimento. Alcuni vengono occupati e la produzione prosegue sotto la gestione degli occupanti: nascono le fabricas sin patrones. Le rilevazioni condotte dal programma

Facultad Abierta dell'Università di Buenos Aires, nato nel 2002 come connettore tra la

49 A. Glyn, Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività, welfare, Milano, Brioschi Editore,

2007, pp. 113-117.

50 Il MERCOSUR è il mercato comune dell’America del Sud. Ne fanno parte Argentina, Brasile,

Paraguay, Uruguay, Venezuela.

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facoltà di Lettere e Filosofia e i movimenti sociali, rappresentano la fonte più aggiornata circa l'evoluzione, in termini quantitativi e descrittivi, del fenomeno nel paese. Il quarto rilevamento effettuato dal Programa nel 2014, descrive così l'andamento del numero di fabbriche recuperate:

«se tra il 2002 e il 2004 si sono registrate 161 aziende recuperate, per un totale di 6900 lavoratori occupati, tra il 2004 e il 2009, nonostante lo scoppio della crisi finanziaria nel 2007-2008 potesse far presagire l'imminenza di una nuova ondata di occupazioni di fabbriche, si contano 205 Empresas Recuperadas por los Trabajadores per un totale di 9362 lavoratori; una fase più dinamica è quella del triennio 2010-2013, in cui il numero sale a 311 fabbriche su tutto il territorio nazionale per un totale di 13462 lavoratori».52

Con un tasso di crescita base del 92,5% per il numero di aziende, del 95,1% per il numero di occupati e un tasso di sopravvivenza del 90%, le ERT appaiono come un fenomeno che nasce sì dalla necessità di rispondere alla crisi attraverso una conflittualità originata dal bisogno di salvaguardare il proprio posto di lavoro, ma anche come un'opzione concreta per ricreare delle fonti di reddito. A partire dal 2010 le fabbriche recuperate del settore manifatturiero compongono il 50,4% del totale (il settore “più recuperato” continua a essere quello metalmeccanico). Seguono il comparto alimentare, tessile, della grafica, dei servizi alla salute, dell'edilizia. Fatta eccezione per il settore terziario, i rilevamenti circa lo stato di salute degli impianti e del corredo di macchinari mostrano un 66% di strutture considerate in buona condizione contro un 28% di macchine obsolete, un 23% che lamenta mancanza di spazi o macchine, infine un 19% che incontra soprattutto problemi legati alle infrastrutture dedicate alla

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distribuzione dei prodotti finiti.53 Gli assetti proprietari si caratterizzano per un 16% di fabbriche la cui proprietà passa alla nuova cooperativa attraverso l'esproprio;54 un 16% di stabilimenti che continuano a produrre in occupazione; un 10% che riceve un'autorizzazione a proseguire l'attività a partire dalla dichiarazione di fallimento; il resto è regolamentato attraverso accordi di cessione concordati con i proprietari o altri dispositivi, come i comodati d'uso.55

Per quel che riguarda i processi decisionali interni, si cerca di instaurare una gestione della produzione e un’organizzazione del lavoro orientata al mantenimento della democrazia interna. In base allo studio condotto dalla ricercatrice cagliaritana Elvira Corona, sappiamo che l'88% delle fabbriche tiene assemblee regolarmente; di queste il 44% ne fa una a settimana, il 35% almeno una volta al mese.56 Il sociologo argentino Andrés Ruggeri sintetizza questo processo come

53 http://www.recuperadasdoc.com.ar/Informe_IV_relevamiento_2014.pdf , p. 28.

54 Alcuni studi evidenziano che lavoratori delle ERT preferiscono auto-definirsi come “lavoratori” veri

e propri, piuttosto che come “soci” di una cooperativa in autogestione, e che rivendicano come dirimente il concetto di “recupero” come maggiormente rappresentativo della peculiarità del processo di riappropriazione produttiva e di strumenti democratici. Tuttavia, la forma giuridica maggiormente adottata nel momento in cui i lavoratori si adoperano per una legittimazione del take over resta la cooperativa di lavoro, visto che finora rappresenta lo status giuridico che permette di distaccarsi dalla forma impresa tradizionale, di valorizzare la gestione alternativa con cui si porta avanti l'attività produttiva, di limitare i futuri tentativi di riprivatizzazione delle aziende, anche se come accennato poc'anzi, i casi di trasferimento della proprietà sono numericamente inferiori. Cfr. A. Ruggeri, Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla Rimaflow, Roma, Edizioni Alegre, 2014, p. 73.

55 Vedi tabella p. 12 e p. 23 http://www.recuperadasdoc.com.ar/Informe_IV_relevamiento_2014.pdf 56 E. Corona, Lavoro senza padroni, EMI Editore, 2012, p. 50.

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«la gestione dei lavoratori di un'unità economica, senza la presenza di capitalisti o manager, che sviluppa la propria organizzazione del lavoro in forme non gerarchiche».57

«The Take»: Strumenti e limiti di una storia del lavoro e dei lavoratori recuperati

È possibile scrivere una storia delle due fabbriche recuperate oggetto di questo elaborato oppure occorre rassegnarsi alla redazione di una serie di considerazioni parziali e circostanziate, utili forse per un instant book piuttosto che per l'indagine storica? È un interrogativo che scandisce tutta la stesura di questa tesi, fin dalla scelta di accadimenti così vicini ai nostri giorni e in continuo mutamento come oggetto di studio. Questa prossimità temporale è allo stesso tempo ricchezza e limitazioni: ci si può imbattere con la stessa probabilità in una sovrabbondanza di documenti e testimonianze, spesse volte non affrontabile nei tempi ristretti (e auto-finanziati) della laurea magistrale, oppure nella reticenza di lavoratori, delegati sindacali, soci ad aprire i faldoni, i bilanci... e la bocca. Selezionando e discutendo i materiali d'archivio ove disponibili, relazioni sindacali accantonate in qualche database poco curato e migliaia di volantini e pagine di blog legittimamente monofonici, proviamo a far emergere quelle «sottili seduzioni del diverso»58 di cui parlava Marc Bloch riferendosi alla possibilità di osservare, con un certo godimento, l'evoluzione delle attività umane con il favore del tempo che passa e le carte che si stratificano.

57 A. Ruggeri, Le fabbriche recuperate, cit., p. 74.

58 M. Bloch, Introduzione ad Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009, pp.

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Nel 2016, durante i brevi periodi di osservazione partecipante in entrambe le fabbriche (una settimana per ciascuna, tra il mese di marzo e il mese di settembre) e nel corso dell'Euromediterranean Workers' Economy Meeting, che si è svolto nel mese di ottobre presso la fabbrica recuperata VIO.ME di Salonicco, mi sono imbattuta nelle ripercussioni di tutte e due le variabili qualitative menzionate: momenti di ampia disponibilità a condividere esperienze, relazioni e progettualità intervallati da lunghe interviste caratterizzate da mormorii, scuotimenti di capo, sì e no – oui et non – appena accennati, sguardi che ammiccano verso un registratore che si vorrebbe spento. Di fronte all'impossibilità di trattenersi all'estero o comunque lontano dal luogo di residenza per periodi lunghi, l'osservazione delle assemblee di gestione, dei momenti di apertura della fabbrica alla cittadinanza, delle discussioni dei progetti di trasformazione degli aspetti produttivi o economici, si è svolta in un'unica soluzione di 5-7 giorni. All'interno dello stesso lasso di tempo si è raccolta una gamma di documenti aziendali (volumi di commesse trimestrali, bilanci annuali aggregati, documentazioni relative alle controversie con la proprietà o allo status di amministrazione controllata), più corposa laddove si è riusciti a instaurare una condizione di fiducia con le lavoratrici e i lavoratori e le reti associative solidali. L'eventualità di raccogliere lo stesso numero e la stessa tipologia di fonti avrebbe sicuramente giovato alla ricostruzione dei fatti e all'approfondimento delle dinamiche relazionali e gestionali, oltre che produttive. Tuttavia sarà interessante vedere come proprio le aporie legate al recupero di testimonianze piuttosto disomogenee possano raccontare molto di queste realtà aziendali e possano aiutarci a ipotizzare alcune linee interpretative.

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Queste premessa non scioglie il nodo iniziale, ma vuole testimoniare lo sforzo costante di mantenere in equilibrio elementi quantitativi e qualitativi: la storia dell'impresa e le vicende di fallimento o delocalizzazione produttiva rappresentano il contesto in cui si sviluppa l'esperienza di lavoro e di lotta di cui parlano ex operai e operaie, ex quadri sindacali, attivisti politici del territorio, rappresentanti delle realtà cittadine che nelle fabbrica recuperata trovano un nuovo spazio, fisico e di discussione politica. Per restituire in maniera organica le storie di vita raccolte, che si intrecciano alle vicende giudiziarie e alle necessità di riattivazione produttiva dei siti, si tenta un'operazione di montaggio, di giustapposizione, di taglio e giuntura affinché la dimensione soggettiva e quella politico-strategica restino in costante dialogo; di questo, ci interessano le analogie quanto gli scarti, le versioni univoche quanto le discordanze tra carta e parola.

Un'indagine dei successi e dei limiti del lavoro senza padroni, che sappia inquadrare la questione nel sistema capitalista vigente, è interessante per la possibilità che offre di descrivere i processi di innovazione sociale e tecnologica, di democratizzazione della direzione aziendale, di ristrutturazione delle relazioni col sindacato, col territorio e infine con il mercato, tra l'esigenza di far camminare assieme la questione politica del controllo operaio e la sussistenza degli operai stessi. Tutto ciò è da considerarsi degno di attenzione anche per la possibilità di estendere la riflessione sul fenomeno di recupero dei luoghi di produzione e lavoro al continente europeo e all'Italia stessa, inquadrando gli esperimenti di fabbriche recuperate nostrane ed europee come

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espressioni del rinnovamento delle forme di solidarietà sociale, che intendono contrastare la delocalizzazione delle attività produttive e la perdita di posti di lavoro.

A partire dall'accertamento delle basi storiche, storiografiche e di storia della politica che si è tentato di tracciare in questa prima parte, proviamo adesso a muoverci verso alcuni casi concreti. Sarà interessante indagare il rapporto tra le imprese recuperate, l'economia di mercato e un'idea di economia sociale e solidale; il rapporto con il sistema di credito; che cosa, come e per chi si produce; come si prendono le decisioni; quale rapporto esiste tra i lavoratori delle fabbriche recuperate e le organizzazioni sindacali, i movimenti sociali, il territorio in generale.

In primis è stata scelta la fabbrica francese Scop.Ti (ex Fralib), specializzata nel confezionamento di tè e tisane per la grande distribuzione, situata a trenta chilometri da Marsiglia, in località Gémenos (dipartimento Bouches-du-Rhône) e recuperata in toto dalle lavoratrici e dai lavoratori nel settembre 2010 a seguito di un tentativo di delocalizzazione produttiva in Polonia da parte della multinazionale proprietaria Unilever. Il secondo caso-studio individuato è la Ri-Maflow (ex Maflow) di Trezzano sul Naviglio (Milano), ex produttrice di componenti per il condizionamento nelle automobili, acquisita e delocalizzata dall'imprenditore polacco Boryszew a seguito della dichiarazione di insolvenza del 2009, ora luogo di lavoro recuperato, ma da reinventare completamente a livello produttivo. Volendo ricostruire come ci si è avvicinati allo studio di questi casi a livello metodologico, ci si è avvalsi, per quanto possibile, di metodi di ricerca qualitativi, quali l'osservazione partecipante, che si è potuta protrarre per un tempo sì limitato (due settimane per ciascuna esperienza), ma utile per ricostruire

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con maggiore chiarezza soprattutto alcune dinamiche decisionali e relazionali, interne e esterne. Si è fatto ricorso a interviste, alcune strutturate, alcune libere, affinché l'esperienza dei protagonisti delle operazioni di recupero emergesse attraverso resoconti, approfondimenti e valutazioni. A livello quantitativo, si è potuta analizzare una gamma di documenti aziendali (volumi di commesse trimestrali, bilanci annuali aggregati, documentazioni relative alle controversie con la proprietà o allo status di amministrazione controllata) tanto più corposa quanto si è stati in grado di tessere rapporti di fiducia con i lavoratori. Nel capitolo che segue, tutta la documentazione raccolta e le interviste verranno organizzate il più possibile attorno ai blocchi tematici indicati.

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2. Inside Maflow: nomi e numeri di una storia aziendale

Per ricostruire le vicende principali relative alla società Maflow S.p.A è stata utilizzata la Relazione ex art. 28 D.LGS. 270/1999 Maflow S.p.A in amministrazione

giudiziale – Maflow Polska Sp.zo.o in amministrazione giudiziale, redatta dai

commissari giudiziali Stefano Coen, Francesco Pensato, Vincenzo Sanasi d'Arpe. Data la complessità strutturale delle due società e la rilevante mole di partecipazioni societarie detenute, il Collegio Sindacale ha concesso l'autorizzazione a predisporre un'unica relazione per entrambe. Per quanto sarebbe utile allargare il perimetro d'analisi all'intero gruppo Maflow, si è data la priorità agli accadimenti che hanno interessato il sito milanese, ora fabbrica recuperata Ri-Maflow.

La storia della Maflow comincia nel 1973, l'anno della sua fondazione con il nome di Murray. La Murray si occupava della produzione di elementi per impianti di servosterzo e di tubi freno e frizione per diverse case automobilistiche; negli anni si specializza anche nel campo della progettazione e costruzione di componenti per il condizionamento auto. Alla fine anni Ottanta la Murray è l’azienda leader nella fornitura di assemblati per aria condizionata e sistemi di idroguida per le principali case automobilistiche d'Europa, con un giro d' affari nell'ordine di 50 miliardi di lire. Nel 1999 viene acquistata dal gruppo Manuli Rubber, che la rinomina Manuli Automotive

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Components S.p.A.59 La Murray è stata il fornitore principale della BMW, in particolare per i modelli Serie 1, Serie 3 e Z4; altri clienti sono stati Fiat (Croma e Panda), Peugeot, Renault, Scania (tubazione freno), Volkswagen e Volvo.60 In particolare l’intero gruppo Maflow è attivo nello sviluppo, nella produzione e commercializzazione, verso terzi e all'interno del gruppo stesso, di tubi di gomma rinforzata e in materiale composito per l'impiantistica di autoveicoli e nella lavorazione e produzione di parti metalliche e assemblati di gomma, alluminio o acciaio per altre applicazioni nel settore automobilistico (impianti di servosterzo, impianti di condizionamento, tubi per l’alimentazione del combustibile e il sistema di raffreddamento. Forte è la sua integrazione con tutta la catena produttiva, dallo sviluppo alla progettazione «sin dall'origine del ciclo produttivo, non solo per il singolo produttore, ma per il singolo modello automobilistico»61, fino al compound processing (particolare processo di polimerizzazione delle gomme), produzione e assemblaggio. Un documento redatto nel 2002 dalla società Caboto IntesaBci, che svolge per Manuli attività di monitoraggio sulle vendite dei prodotti dell’azienda e sui principali concorrenti della stessa, evidenzia

59 La Manuli si espande e acquista la Murray Europe, La Repubblica, 28 luglio 1990

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/07/28/la-manuli-si-espandeacquista-la-murray.html

60 Nel Resoconto della X Commissione Permanente (attività produttive, commercio, turismo) della

Camera dei Deputati del 26 gennaio 2010, si trova l'interrogazione del deputato Quartiani (PD) in merito a Iniziative a favore della continuità produttiva dello stabilimento Maflow di Trezzano sul Naviglio (Milano), dove vengono ricordati i principali committenti dell'azienda.

http://leg16.camera.it/453bollet=_dati/leg16/lavori/bollet/201001/0128/html/10#51n4

61 Ricorso per la dichiarazione di insolvenza ex artt. 3 e 5 D. Lgs. 270/1999 presentato da Maflow

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precocemente il piano di recupero di redditività attraverso processi di delocalizzazione industriale, per far fronte alla «sfortunata acquisizione di Murray»:

«Il gruppo ha iniziato ad implementare alcune importanti misure di contenimento dei costi, che recentemente hanno comportato la rilocalizzazione presso gli stabilimenti di Tychy (Polonia) delle attività produttive precedentemente allocate in Olanda (raccordi metallici ed assemblati flessibili), che ha fatto seguito ai trasferimenti di linee produttive effettuati nel corso del 2002. Riteniamo che la delocalizzazione verso paesi a basso costo della manodopera produca risparmi per circa 9 € mil nel triennio 2002-04».62

Nel 2004, invece, avviene il passaggio a un fondo di investimento; viene cioè scorporato il ramo d’azienda automobilistica (Maflow S.p.A.) e viene ceduto al fondo di

private equity «Italian Lifestyle Partner», promosso da Hirsch & Co, un istituto di

consulenza altamente specializzata per operazioni di finanza straordinaria, fondato nel 1997 da Mario De Benedetti e Jean François Aron, presente in Italia, Lussemburgo e Germania. Nella Relazione dei commissari giudiziali si fa riferimento alla costituzione di Maflow S.p.A con socio unico Reflexes Finance S.A, società anonima con sede in Lussemburgo, e con capitale sociale di 120.000 euro. In sede di costituzione della società Maflow è stato conferito il mandato all'organo di amministrazione di aumentare il capitale sociale fino a un massimo di 50 milioni entro la fine del 2005. In conformità con questa disposizione, il capitale sociale è stato aumentato fino a 10 milioni, un incremento interamente sottoscritto e versato dalla Reflexes Finance S.A per acquistare

62 Il mercato non capisce il tubo?, Caboto IntesaBci, 2002.

http://www.borsaitaliana.it/bitApp/view.bit?lang=it&target=StudiDownloadFree&filename=pdf%2F 12979.pdf

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