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Personal branding: diventare celebrities con i social network sites

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Academic year: 2021

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risorse umane

PERSONAL BRANDING: DIVENTARE

CELEBRITIES CON I SOCIAL NETWORK SITES

Relatore:

Candidata:

Prof.ssa Roberta BRACCIALE

Letizia ISOLDI

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• Introduzione……….……….pag. 5

Capitolo 1: Il personal branding e le celebrities

1.1 Che cos’è....………..……….pag. 8

1.1.1 Erving Goffman……….………pag. 11

1.2 Storia……….………..pag. 14 1.3 Trasformazione digitale e web reputation………..……….…pag. 15

1.3.1 L'economia dell'attenzione ..………..pag. 19

1.4 Il personal branding in Italia ..……….………..…pag. 22 1.5 La mercificazione del sé………...pag. 23 1.6 La cultura delle celebrities………..pag. 25

1.6.1 Emile Durkheim………...pag. 25 1.6.2 Henry Jenkins e Graeme Turner……….………..pag. 27 1.6.3 Terri Senft………..pag. 29 1.6.4 Tom Marshall………..…..………...pag. 31 1.6.5 Alice Marwick e danah boyd……….…………..……….………..pag. 34 1.6.6. Oliver Driessens………...pag. 40

Capitolo 2: Il personal branding e le piattaforme online

2.1 I social network sites……….………….………..pag. 46 2.2 Twitter………....…….……….………..pag. 53

2.2.1 Twitter e il personal branding………...………...pag. 57

2.3 Facebook……….pag. 61

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2.5 YouTube………..…………pag. 77

2.5.1 YouTube e il personal branding……….……….pag. 80

Capitolo 3: Esempi di personal branding

3.1 Metodologia della ricerca: ipotesi e scopo dell’analisi……….…………..pag. 83 3.2 Il caso Chiara Ferragni………...………….………pag. 89

3.2.1 Risultati dell’analisi e conclusioni……….……...pag. 92

3.3 Il caso Clio Make Up………...pag. 101

3.3.1 Risultati dell’analisi e conclusioni………..pag. 104

3.4 Il caso The Jackal………...………….pag. 115

3.4.1 Risultati dell’analisi e conclusioni………...pag. 117

• Conclusioni………pag. 124

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Introduzione

Questo lavoro nasce dalla volontà di approfondire un fenomeno nuovo che sempre di più si ritrova nella società odierna.

Guardandosi intorno, infatti, è facile rendersi conto del proliferare di casi di persone comuni diventate celebrità grazie all’utilizzo di Internet. Tuttavia è possibile anche accorgersi che, in un mondo sempre più globale e senza confini, sono pochi coloro che riescono ad attirare l’attenzione sufficiente da garantirsi un posto di primo piano. L’aumento della disoccupazione e della crisi economica, infatti, ha trasformato la società in un mercato sempre più competitivo in cui riuscire a “inventarsi un lavoro” diventa un buon metodo per sopravvivere.

Tuttavia molto spesso chi riesce a ottenere fama non è necessariamente chi possiede particolari abilità ma anche chi possiede solo un carisma tale da ottenere l’apprezzamento del pubblico, grazie alla capacità di trasformare la propria identità in un marchio con caratteristiche proprie, specifiche e riconoscibili.

Questi aspetti appena descritti sono alla base di questo lavoro che si occuperà proprio di analizzare il nuovo fenomeno del personal branding, facendo riferimento alle nuove celebrità nate sul web.

La letteratura italiana su questo argomento risulta essere alquanto scarsa essendo questo un fenomeno in divenire, quindi si farà riferimento soprattutto alla letteratura straniera.

Nel primo capitolo verrà innanzitutto descritto in modo approfondito che cos’è il personal branding, cosa significa, quindi, creare il “marchio di sé stessi” nel mondo virtuale. A proposito di questo ci si concentrerà sul contributo del sociologo Erving Goffman, il quale, si è ritenuto che, seppure molti anni prima dell’avvento del digitale, sia riuscito a descrivere quanto la creazione di un personal brand sia indispensabile e soprattutto inevitabile.

Verrà descritta, successivamente, una storia del personal branding e un quadro del fenomeno nella realtà italiana.

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Inoltre, per garantire una visione completa, si terrà conto del fatto che il personal branding online si sia potuto affermare grazie alla trasformazione digitale che caratterizza la nostra società, nella quale la reputazione digitale e la capacità di attirare l’attenzione sono diventate variabili sempre più determinanti del successo. Verrà, quindi, approfondito il nuovo concetto dell’“economia dell’attenzione” e infine, una conseguenza del fenomeno, cioè la mercificazione del sé.

Nella seconda parte del capitolo l’attenzione si concentrerà, invece, sulla principale conseguenza di un personal branding che funziona: l’ottenimento della fama.

Partendo dal sociologo Emile Durkheim si arriverà a descrivere le teorie di diversi sociologi contemporanei (tra cui spiccano Alice Marwick e danah boyd) sulle nuove celebrities nate sul web. Attraverso questi excursus sui diversi autori, quindi, verranno chiarite le caratteristiche delle nuove celebrities e della società contemporanea in cui esse nascono, per cercare di capire cosa li contraddistingue dalla “vecchia” fama che nasceva grazie al cinema o alla televisione.

In merito a questa parte del lavoro bisogna puntualizzare che tutti i documenti sono letti in originale o comunque in lingua inglese, pertanto molte citazioni e termini non verranno tradotti per non rischiare di manipolarne il significato originale.

In ogni caso, come già accennato, questa lavoro vuole concentrarsi sul personal branding nel mondo online, quindi, che nasce e si costruisce soprattutto sulle piattaforme digitali di social network.

Pertanto nel secondo capitolo verranno descritte le quattro piattaforme online più utilizzate nel mondo in termini di numero di iscritti quali Facebook, Twitter, Instagram e Youtube e la relazione tra le caratteristiche di queste infrastrutture e il personal branding. A questo proposito, vale la pena sottolineare che le proprietà dei quattro social network sites cambiano continuamente, quindi ciò che verrà descritto farà riferimento alle caratteristiche riscontrabili nel settembre 2017.

In ultimo, nel terzo capitolo verranno descritti tre casi di studio: la fashion blogger Chiara Ferragni, la truccatrice Clio Make Up e i video makers The Jackal. I casi proposti sono tre esempi diversi di creazione di un brand di successo slegato da

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competenze o abilità particolari ma, altresì, legato principalmente a una identità personale.

L’analisi di questi casi avrà come obiettivo non tanto la descrizione di quali sono le strategie che funzionano e quali no, in quanto si ritiene di non aver strumenti sufficienti per poter misurare in modo oggettivo tali aspetti, quanto la descrizione dell’utilizzo delle piattaforme. Verranno, quindi, osservate per un certo periodo le pagine social sui 4 SNS precedentemente descritti di tutti e tre casi di studio, appuntandosi gli aspetti ritenuti più rilevanti.

Si farà riferimento, quindi, a come vengono utilizzati i diversi social network sites confrontandoli tra di loro e ai riflessi che questo ha sul pubblico.

Si darà, infatti, molta importanza alla community di fan creatasi intorno a questi tre brand personali in quanto si ritiene che sia un elemento caratterizzante importantissimo.

I casi scelti sono tutti italiani così da poter analizzare la loro crescita e diffusione in un contesto uguale per tutti.

Si arriverà, infine, a tratteggiare gli elementi che contraddistinguono un personal branding ben riuscito, essendo tutti e tre i casi scelti esempi di ottenimento di un gran numero di followers e di fama.

Il personal branding, quindi, è un fenomeno del tutto nuovo su cui manca ancora molta letteratura, ma è un buon punto di partenza per descrivere e esaminare persone che hanno saputo sfruttare al meglio la prima risorsa a disposizione di ognuno di noi e cioè sé stessi.

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Capitolo 1: Il personal branding e le celebrities

1.1 Che cos'è il personal branding

Affinché sia possibile analizzare al meglio casi di creazione di un marchio personale bei riusciti è necessario, innanzitutto, definire bene di cosa si sta parlando e, quindi, che cos'è il personal branding.

Il concetto di personal branding nasce e si sviluppa negli ultimi decenni nonostante, in realtà, ogni giorno senza accorgercene stiamo mettendo in atto la nostra personale strategia.

Un buon self branding, infatti, non è altro che la capacità di auto promuoversi e di fare marketing di sè stessi, abilità che si ritiene essere sempre più importante in un mercato saturo e competitivo come quello odierno.

Infatti, con la disoccupazione in Italia che supera il 10% saper promuovere sè stessi per spiccare, farsi notare, diventare la minoranza che "ce la fa" sta diventando quasi componente imprescindibile della sopravvivenza in un mondo del lavoro con così tante barriere all'entrata.

La definizione del concetto viene fatta risalire a un articolo di Tom Peters, CEO di Fast Company, nota rivista di business statunitense, del 1997 dal titolo The brand

Called You (Fast Company, nº10, Mansueto Ventures LLC., agosto 1997, p. 83).

Secondo Peters:

«Qualsiasi sia la mia estrazione sociale o età, io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile del marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. La mia reputazione e la mia credibilità si definiscono tramite la qualità del mio lavoro attuale e passato e determinano la qualità del mio lavoro futuro».

Tom Peters in questo articolo sostiene che gli individui devono assumere il controllo della propria "brand identity" per distinguersi nel mercato del lavoro, proiettare un'immagine dinamica e memorabile e fornire costantemente valore ai consumatori, ai datori di lavoro, ai mercati o semplicemente al loro pubblico (Peters 1997).

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Per primo, quindi, adattò il concetto di "Brand" alla persona. Come, infatti, si costruisce il marchio di un prodotto o di un'azienda e attraverso le sue caratteristiche si definisce un'identità, allo stesso modo, trasmettendo le proprie caratteristiche, quelli che riteniamo essere i nostri punti di forza e le nostre competenze per far sì che gli altri abbiano una percezione positiva di noi stessi, stiamo creando il "brand" di noi stessi. Fare personal branding significa proprio costruire un'immagine pubblica distintiva per il proprio guadagno economico e/o per costruire il proprio capitale culturale e sociale (Khamis et al 2016 p. 12).

L'idea di base è che proprio come i brand commerciali, anche gli individui possono sviluppare un'identità pubblica singolarmente carismatica e rispondente agli interessi e alle esigenze del pubblico di destinazione. Come disse, infatti, lo psicologo Erikson (1956 cit. in Kucharska 2017 p. 5) in un'epoca ben diversa dalla nostra, l'identità è «il legame di un individuo con i propri valori». Egli sostenne che scopo fondamentale dell’uomo è la ricerca di un una propria identità, che pur variando nel tempo, è caratterizzata dall’esigenza di un coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale. Risulta evidente, quindi, quanto l'identità personale e in particolare i valori personali attuino una forte influenza sul riconoscimento della propria marca personale.

Così come le dimensioni della personalità come la forza, la capacità di persuadere, la sincerità, l'eccitazione e la competenza (Aaker 1997 cit. in Khamis e al. 2016 p. 2) danno a un prodotto, un servizio o un azienda caratteristiche simili a quelle umane rendendo il brand più familiare e appetibile, così fare personal branding significa sfruttare queste qualità proprie per far diventare sè stessi un "brand" ed autopromuoversi.

Così come il marchio rappresenta l'identità di una merce (un prodotto, un servizio o una ditta) e la sua funzione principale è quella di trasmettere un certo livello di qualità e di coerenza (il consumatore si crea delle aspettative che devono essere rispettate), lo stesso succede per il brand umano (nonostante quando si ha a che fare con un "marchio umano" mantenere coerenza e autenticità è una sfida ancora più difficile. Thompson 2006 p. 104).

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sull'argomento, ha affermato che fare personal branding significa innanzitutto definire la propria unicità e personalità, sviluppare un senso di individualità che possa aiutare a differenziarsi dagli altri concorrenti.

Processo che una volta era considerato una tecnica solo per le celebrità (Rein, Kotler e Shields 2006 cit. in Labrecque et al. 2011 p. 38) e per i leader politici o imprenditoriali oggi viene invece considerato un processo possibile anche per la gente comune non essendoci più necessità di speciali mezzi (Shepherd 2005 cit. in Labrecque et al.2011 p. 38).

Come Labrecque e al. argomentano:

«No longer does a person need to be familiar with complex coding languages or other technicalities to build Web sites, because virtually anyone can upload text, pictures, and video instantly to a site from a personal computer or mobile phone. With technological barriers crumbling and its increasing ubiquity, the Web has become the perfect platform for personal branding ». (2011, p. 38).

Inoltre, per la creazione di marchi personali la consapevolezza dei valori e dei vantaggi personali, accanto alla formulazione di un "sé prolungato" diventano fondamentali. Secondo Belk, infatti, (2013 cit. in Kurchska 2017 p. 5), i brands personali non sono altro che un prolungamento del proprio sè, un aggiunta, quindi, alla nostra identità, per fini di autopromozione e riconoscimento.

Sociologi come Vallas e Cummins (2015 p. 21) hanno sottolineato che il discorso del branding personale produce una narrazione del "sé incorporato" che richiede l'interiorizzazione della logica basata sul mercato. Un mercato in cui il prodotto che si sta vendendo è la propria persona.

Ancora, secondo Brooks e Anumudu (2016 cit. in Johnson 2017 p. 21), l'identità personale si sviluppa in un contesto sociale di reciproche relazioni umane di riconoscimento e responsabilità e il personal branding è lo schieramento delle narrazioni di identità degli individui per scopi di carriera e di impiego.

Sviluppare, quindi, un marchio personale è un processo in divenire che coinvolge interazioni continue con gli altri sia face to face che online (Hearn 2010 p. 426).

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Lo scopo dell' utente creatore del proprio brand personale è quindi quella di essere in grado di esercitare influenza nei confronti del proprio pubblico. A questo proposito, Peter Montoya, scrittore di molti volumi sul tema e considerato uno dei massimi esperti sull'argomento nella cultura di massa americana, ritiene che sfruttando il proprio brand è possibile raggiungere 3 diversi livelli di influenza sul proprio pubblico.

Il primo livello è definito “sostenitore” (advocate), e consiste nell’associare sè stessi a un trend anche se questo potrebbe essere di breve durata e sfruttare la propria popolarità del momento per aumentare la consapevolezza e l'accettazione del proprio brand da parte dei sostenitori; il secondo è il “trend setter” in cui si è talmente parte di una tendenza da essere in grado di influenzare il pubblico o anche di diffondere nuove idee e rimanere ricordati anche quando la tendenza è finita. Infine il terzo e più alto livello di influenza è “l’icona” o simbolo, questo livello non è facile da raggiungere ma permette una crescita organica del brand. In questo caso il brand simboleggia intere culture o movimenti, es. Che Guevara (Montoya 2002 video online).

Per concludere, quindi, il marchio personale è la sintesi di tutte le aspettative, le immagini e percezioni che si creano nelle menti di altri quando vedono o sentono un nome (Rampersad 2008 p. 34). In ogni momento della nostra vita ognuno di noi costruisce il proprio "brand" ma fare personal branding significa farlo con consapevolezza.

Il personal branding può riguardare chiunque e dovunque, e messo in atto sistematicamente può diventare un vero e proprio mestiere e una notevole fonte di guadagno, come dimostrano casi di persone comuni diventate celebrità come Chiara Ferragni, Clio Zammatteo (in arte Clio Make up) o il gruppo dei The Jackal i quali hanno costruito intorno alla loro immagine imperi milionari, che, seppure non sono la norma, ne sono un emblematico esempio.

1.1.1 Erving Goffman

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risulta essere ancora molto attuale e sono in tanti ad associarla al personal branding e alle sue caratteristiche.

Secondo Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione (1959) ognuno di noi costruisce la propria immagine cercando di influenzare il modo in cui si viene guardati dagli altri.

Ogni individuo crea una propria maschera, una messa in scena le cui regole e le cui caratteristiche strutturali determinano le diverse parti recitate dal soggetto stesso. Tale maschera non è altro che il risultato del gioco mutevole delle interazioni sociali. Goffman scrive: «L'individuo è un semplice gancio al quale viene appeso temporaneamente il prodotto di un azione collettiva» (Goffman 1959 cit. in Crespi 2002 p. 188).

Ciò che mantiene il sè è il contesto istituzionalizzato nel quale il soggetto agisce attraverso il suo personaggio (l'individuo che rappresenta un ruolo) e il pubblico che, con la sua attività interpretativa, interpreta ciò che il personaggio sta trasmettendo. Come sottolinea anche il sociologo Marshall (2010 p. 43), la presentazione del sé è un atto consapevole dell'individuo e richiede un'attenta manovra per mantenere l'autostima di sè e la reputazione presso gli altri.

Goffman, usa il termine "drammaturgia" all'interno della sua teoria dell'auto-presentazione per descrivere la vita come una metafora di una commedia in cui il

frontstage è il palco in cui l'individuo mette in scena il proprio ruolo e il backstage è

ciò che il soggetto tiene nascosto.

Il front stage è il luogo in cui celebrità, atleti o chiunque stia facendo personal branding tenta di costruire il proprio marchio mostrando solo messaggi positivi e scelti precisamente, i quali meglio si adatteranno al modo in cui si vuole essere percepiti dal pubblico e dai fans. Terreno fertile e luogo prediletto per le celebrità in questo senso sono le pagine social. Gli oggetti del "vecchio" palcoscenico di Goffman che riguardavano principalmente il rapporto face to face ora possono essere metaforicamente tradotti con i vari profili, immagini e post pubblicati sui social media.

Nel front stage attraverso un adeguamento continuo alle percezioni del giudizio del pubblico avviene, quindi, ciò che Goffman chiama "gestione dell'impressione" che

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influenza ciò che l'individuo è ma soprattutto ciò che mostra e vuole mostrare agli altri.

La gestione dell'impressione è descritta come uno sforzo consapevole per controllare, regolare e manipolare i propri comportamenti per imporre un'impressione favorevole a un pubblico mirato (Rosenberg e Egbert 2011 cit. in Shaker et al. 2014 p. 15). La gestione dell'impressione si basa su interazioni, infatti le persone si impegnano in «azioni strategiche per creare e mantenere un'immagine desiderata» (Goffman, 1959 citato in Shaker et al. 2014 p. 15).

Durante questo processo le persone enfatizzano o de-enfatizzano determinate caratteristiche, rispondendo ai feedback del loro pubblico in un processo dinamico e ricorsivo (Leary e Kowalski 1990 cit. in Marwick e boyd 2012 p. 123).

Questi aspetti riescono a descrivere bene cosa significa adattare e plasmare la propria identità al punto di trasformarla in un brand, tuttavia, pensando al front stage delle celebrities e al loro personal branding si possono trovare dei cambiamenti rispetto ai decenni scorsi.

Come sottolinea la sociologa danah boyd in un suo celebre articolo (2011 p. 55), con la televisione le celebrità, per sembrare più "autentiche" tendevano a mostrare la loro immagine targetizzandosi specificatamente in un'unica direzione. Oggi, in un mercato dello spettacolo sempre più saturo, i politici e le celebrità scelgono la "polisemia" per poter richiamare diversi tipi di pubblico, anche opposti. Esempio di "polisemia" è Madonna, interpretata contemporaneamente e diversamente sia da giovani donne che hanno risposto al suo messaggio femminista sia da giovani uomini che hanno risposto alla sua immagine di donna sexy (Fiske, 1989 cit. in Marwick e boyd 2010 p. 123).

Inoltre, come in ogni spettacolo, anche nella vita esiste un backstage, una zona più intima che, secondo Goffman, viene comunque influenzata delle interazioni, dal pubblico e dai feedeback che il soggetto riceve.

Questo luogo indica tutto ciò che è intimo, che non è pubblico, ciò che il soggetto non vuole far vedere, eventi o opinioni che influenzerebbero negativamente il marchio che si sta costruendo. Nel caso del personal branding, quindi, altro non è che tutto ciò che non viene mostrato, e nello specifico nel mondo online tutto ciò che non viene

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pubblicato. Diminuendo i tabloid e i paparazzi per le persone famose è diventato più facile costruire positivamente il proprio frontstage attraverso i social network ed evitare di rendere noto tutto ciò che lederebbe il marchio personale (back stage). La teoria di Goffmann può, quindi, aiutare molto a capire cosa significa "fare di sè stessi un brand". L'attenzione costante al proprio front stage e al proprio back stage sono una metafora perfetta per indicare la relazione strategica tra la persona intima/privata e la persona pubblica di chi soltanto sfruttando la propria identità sta creando un nuovo brand, una nuova icona o addirittura una tendenza.

1.2 Storia del personal branding

Definire con sicurezza la storia del personal branding è pressochè impossibile, alcuni autori ritengono che sia sempre esistito essendo parte integrante della società e della comunicazione stessa, altri preferiscono far risalire il suo inizio al 1997 e all'articolo di Tom Peters, in quale fu il primo a darne una definizione.

In ogni caso è possibile definire alcuni momenti critici nello sviluppo del fenomeno così come definirne un'evoluzione in relazione ai cambiamenti generali nel modo di fare comunicazione.

Nel 1937 Napoleon Hill, scrittore e saggista statunitense, che si dice essere stato il primo a occuparsi di come ottenere successo personale, nel suo libro più importante

Think and Grow Rich scrisse:

«Dovrebbe essere incoraggiante sapere che praticamente tutte le grandi fortune hanno cominciato sotto forma di compenso per i servizi personali resi o con la vendita di proprie idee» (cap. 6)

Senza, quindi, farne riferimento consapevolmente si può ritenere che definì l'importanza dell'autopromozione di sè stessi per ottenere successo.

Si può, quindi, facilmente dedurre che l'idea alla base delle strategie di personal branding sia sempre stata presente, tuttavia inizialmente soltanto in relazione al marketing e alla pubblicità piuttosto che a un vero e proprio cambiamento nel modo

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di intendere sè stessi.

Oggi, invece, i cambiamenti sociali e le nuove tecnologie hanno reso il fenomeno molto più ampio e alla portata di tutti. Nonostante, quindi, siano sempre più numerosi i manuali o i convegni per imparare a fare personal branding che continuano a essere concentrati soprattutto sugli aspetti relativi al marketing e alla pubblicità, sono da considerare altrettanto importanti anche tutti gli aspetti sociologici a esso connessi.

Il nuovo mondo di Internet, infatti, ha creato la necessità di sapere gestire oltre che semplicemente sè stessi nella quotidianità anche la propria identità online e la reputazione ad essa connessa, così come il diffondersi del concetto stesso di personal branding va collegato al fenomeno più ampio della nascita della nuova cosiddetta "economia dell'attenzione" che verrà analizzata più nel dettaglio in seguito.

1.3 Trasformazione digitale e web reputation

Fare personal branding significa saper gestire la propria identità, fare personal branding online significa saper gestire la propria identità online. Un personal branding fatto bene garantisce lo sviluppo di quella che viene detta una web reputation positiva.

Shepherd (2005 p. 11) suggerisce che per spiegare come la gente costruisce la propria identità e la propria reputazione online può essere utilizzata tranquillamente come punto di partenza la teoria della costruzione dell'identità umana offline.

Nel caso della costruzione dell'identità umana, come spiegato più dettagliatamente a proposito della teoria di Goffman, gli individui sviluppano le loro identità attraverso la selezione di qualità socialmente desiderabili o serie di caratteristiche personali che attribuiscono un certo senso al sé individuale (Markus e Nurius 1986 cit. in Shaker et al. 2011 p. 11).

Arrivano, quindi, a definire la propria identità in relazione ai feedback che ricevono dagli altri durante le loro relazioni e oggi anche l'ambiente online offre una vasta gamma di piattaforme per stabilire o mantenere relazioni sociali per la formazione della propria identità, come siti di social networking, giochi multiplayer, chat room,

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incontri online e altro (Ribeiro 2009 cit. in Shaker et al.2011 p. 11).

I feedback ricevuti degli altri fanno, quindi, da catalizzatori per influenzare la percezione di sè stessi che inevitabilmente contribuisce in modo significativo allo sviluppo delle identità e del brand nelle piattaforme online.

L'auto-creazione dell'identità del marchio personale nelle piattaforme di comunicazione online diventa sempre più importante e altro non è che una forma di duplicazione di identità attraverso la comunicazione di informazioni tramite testi o immagini che possono aiutare gli individui a esplorare e rivedere le proprie identità (Yurchisin et al 2005, Whitty 2007 cit. in Shaker et al. 2011 p. 12).

Questi aspetti possono essere ricondotti al fatto che oggi, quello a cui stiamo assistendo è una sempre maggiore necessità di produzione di beni immateriali, come la conoscenza e la comunicazione, che richiedono nuove forme di lavoro, che coinvolgono la creatività, l'innovazione e la manipolazione dell'emozione e dell'impatto personale. Questo "lavoro immateriale", definito da Maurizio Lazzarato come «il lavoro che produce l'informazione e la cultura contenuto della merce» (Lazzarato 1996 cit. in Hearn 2008 p. 425), richiede che il lavoratore metta nel proprio lavoro la propria esperienza di vita, la competenza comunicativa, il senso di sé e la propria identità. Non a caso, sono proprio queste le caratteristiche che contraddistinguono i casi di auto promozione di sè che verranno analizzati e che dimostrano, quindi, la potenza di un buon "lavoro immateriale".

I reality, anche, rappresentano l'esempio paradigmatico di come gli effetti della creatività, e della capacità comunicativa dei singoli individui di diventare direttamente produttivi per il capitale (Hearn 2008 p. 426) influiscono sugli individui stessi, facendo sì che un sé possa diventare culturalmente leggibile e potenzialmente redditizio per la cultura in generale.

Il branding personale può, pertanto, essere considerato una forma di lavoro affettivo e immateriale che è intenzionalmente intrapreso dagli individui per raccogliere l'attenzione, la reputazione e, potenzialmente, il profitto.

La promessa di una preziosa reputazione data dalla produzione televisiva di reality e dalla partecipazione on-line sul web è testimonianza di una struttura contemporanea di sensazione dove la visibilità e l'intimità personale sono "chic"

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(Andrejevic 2004 cit. in Hearn 2008 p. 422). La fama diventa denaro, e la manipolazione di influenza per ottenere una buona reputazione digitale è diventata un'abilità necessaria.

Hearn (2008 p. 423) sostiene che la reputazione è un attributo personale estremamente fluido, contingente e precario, generato interamente dalla percezione, dall'attenzione e dall'approvazione degli altri e che la costruzione di una reputazione implica un processo in corso di gestione delle immagini e della percezione e, in quanto tale, non viene mai data una volta per tutte.

Inoltre, mentre storicamente la reputazione è stata considerata come un riflesso diretto della qualità intrinseca del lavoro o della realizzazione di una persona, oggi l'acquisizione della reputazione è poco correlata a una specifica abilità o realizzazione, ma sembra derivare esclusivamente dagli strumenti utilizzati per ottenerla con tutti i mezzi necessari (Rodden 2006 cit. in Hearn 2008 p. 422) tra cui esprimere sentimenti e opinioni online per il proprio pubblico e fare in modo che vengano apprezzati.

Inoltre, «la reputazione è cultura e prodotto di essa e in quanto tale dipendente dal mezzo che l'ha prodotta» (Hearn 2008 p. 427).

Oggi, infatti, la velocità di trasmissione nell'industria dei media ha reso ancora più forte il legame tra reputazione e fama e come Leo Braudy ha scritto, la reputazione e la fama sono, almeno discorsivamente, contrassegnati dalla contraddizione tra il desiderio di trasparenza di ciò che è veramente 'dentro' e ciò che altri vedono e celebrano (Braudy 1997 cit. in Hearn 2008 p. 423).

A tal proposito la sociologa Hearn riprende Eva Illouz per sottolineare che la cultura popolare all'inizio del ventesimo secolo, ha portato a nuovi tipi di "simboli d'identità" e nuovi stili emotivi basati su nuovi tipi di egoismo fondati sulla costante ricerca dell'autenticità personale e della verità (2007 p. 424).

Infatti alla sempre maggiore centralità della produzione del capitale sociale e del lavoro immateriale con l'ascesa dei sociale network, si aggiunge l'ascesa di una cultura dell'intimità pubblica, in cui l'esposizione pubblica e la mediazione dell'emozione e dell'impatto personale sono chiaramente legati al valore monetario, con l'emergere di ciò che Arvidsson e Peitersen hanno chiamato "il sentimento

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generale". Arvidsson e Peitersen sostengono che «una qualche forma di affetto pubblico, come la reputazione sta emergendo come un "nuovo standard di valore"» (Arvidsson e Peitersen 2009 cit. in Hearn 2010 p. 422).

La Hearn (2010 p. 424) continua sottolineando che mentre prima dell'era digitale non era possibile conoscere appieno la portata delle nostre relazioni sociali e delle connessioni o l'impatto della rete sociale che avevamo tessuto, oggi i social media come Twitter o Facebook, forniscono un nuovo "protocollo" per le relazioni sociali; consentono alle connessioni personali di diventare più durevoli, rappresentabili, sempre espandibili e, soprattutto, rendono pubblica la loro qualità affettiva. Non solo possiamo vedere il numero di rapporti che una persona ha, ma possiamo valutare anche la loro qualità e il loro comportamento; il che significa che «ciò che era privato o intimo sta diventando un parametro pubblico che può e si utilizza per valutare il valore sociale globale di una persona o di un'organizzazione» (Arvidsson e Peitersen, 2009 cit. in Hearn 2010 p. 429) e quindi la sua reputazione.

Tuttavia molte persone non sono ancora a conoscenza delle informazioni disponibili online su di sè e non sono del tutto consapevoli dell'impatto a lungo termine che possono avere sulla loro reputazione (Solove 2007 cit. in Labrecque et al. 2010 p. 39), rendendo la creazione della propria reputazione online nella maggior parte dei casi del tutto inconsapevole.

Dal punto di vista strettamente economico la misurazione della reputazione di un brand avviene attraverso la misurazione di valori quali la fedeltà dei consumatori, le associazioni emotive e l'attaccamento sentimentale. (Lury e Moor 2010 cit. in Hearn 2010 p. 428).

Quello che si fa, quindi, è misurare la percezione degli individui trasformando valori qualitativi in quantitativi a tal punto che i sentimenti umani vengono mercificati e, nello stesso tempo, gli individui diventano merce.

In più, come sostiene Hearn (2010 p. 435), questi sistemi di misurazione possono essere altrettanto utilizzati per misurare la reputazione digitale delle persone. Attualmente Google è lo strumento fondamentale per misurare e mantenere nel tempo la propria reputazione online almeno a livello solo quantitativo, analizzando, cioè, esclusivamente la propria presenza sul web.

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Google è il primo motore di ricerca al mondo, talmente popolare che in inglese è nato il verbo transitivo "to google", col significato di "fare una ricerca sul web"; con lo stesso significato, in tedesco è nato il verbo "googeln" e in italiano è nato il verbo "googlare". "Googlare" sè stessi, quindi, è un ottimo modo per capire di che tipo è la propria reputazione digitale.

L'argomento meriterebbe un analisi ben più approfondita, quì ci si limiterà a dare indicazioni generali su come si ottiene (o è stata ottenuta) una buona "Google reputation", espressione di un brand che piace.

La gestione ed ottimizzazione dei risultati di ricerca su Google viene definita SEO acronimo che sta per Search Engine Optimization, più semplicemente chiamata oggi SEO. In linea di massima l'ordine dei risultati in una ricerca dipende dall'importanza delle fonti e dal numero di link a essa connessa. Maggiori sono i link alla pagina, migliore sarà la sua indicizzazione e quindi la sua cosiddetta "link popularity". Più siti "linkano" a una pagina web, più questa sarà tra i primi risultati della ricerca. Attraverso un algoritmo chiamato "page rank" Google calcola, quindi, i numeri di link a una pagina e il peso di questi e "mette in ordine" le pagine. Coloro che hanno compiuto una buona strategia di personal branding o semplicemente hanno diffuso un brand, che sia un prodotto o una persona, saranno, quindi, tra i primi risultati di Google e potranno avere, quindi, uno strumento oggettivo per misurare la potenza della loro strategia, consapevole o meno.

1.3.1 L'economia dell'attenzione

Nel 1997, Michael Goldhaber (articolo online) ha sostenuto che mentre Internet ha fornito alle persone un'abbondanza di informazioni, questo ha creato contemporaneamente una scarsa attenzione, rendendo l'attenzione una risorsa estremamente preziosa. L'attenzione, quindi, diventa difficile da conseguire a causa della sua intrinseca scarsità diventando la forza trainate della nuova economia detto, appunto, dell'attenzione.

L'economia di attenzione è un costrutto sociologico che, in un mondo multimediale pieno di informazioni, ritiene che ciò che è prezioso è quello che può attirare "gli

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occhi" (Fairchild 2007 p. 360). Secondo Fairchild:

«Indipendentemente dalla sua vacuità sociologica o dalla validità, l'economia dell'attenzione è ormai una realtà consolidata. Ha ispirato nuovi pensieri su come creare relazioni durature, flessibili ed evolutive tra gli individui » (2007, p. 359).

Quindi come nota Shepherd, il personal branding è «essenzialmente un dispositivo che aiuta ad ottenere attenzione e ottenere un vantaggio competitivo in un mercato affollato» (2005, p. 597) diventando così indispensabile e rendendo la fama/celebrità più accessibile, essendo questa derivante principalmente dal livello di attenzione che si riesce a raggiungere.

In un ambiente e nell'era del surplus dei media, dove il pubblico è saturo di informazioni basta attirare "semplicemente" l'attenzione (Brody 2001 cit. in Fairchild 2005 p. 362) di un pubblico sempre più distratto, dispersivo e privatizzato per ottenere dei vantaggi sia da un punto di vista economico che da quello della propria soddisfazione personale.

Secondo Marwick e boyd (2011 p. 142) prima dell'era digitale, ottenere fama era un'esperienza relativamente rara ottenuta o da coloro che avevano compiuto qualcosa di notevole (sportivi, politici o innovatori) o da personalità molto popolari nell'industria culturale (cinema o musica) o da coloro nati nell'élite della società (reali o molto ricchi) ma tutte queste persone avevano almeno una cosa in comune: riuscivano a attirare facilmente l'attenzione qualunque cosa facessero.

Dai primi anni 2000, invece, l'auto-branding ha iniziato ad essere praticato non solo da coloro che avevano già un'immagine pubblica (come sportivi, musicisti professionisti e simili) ma anche da gente "ordinaria" che aveva scrupolosamente valutato la possibilità di commercializzare sè stessa grazie alle tecnologie contemporanee.

Il self-branding attraverso i media sociali si avvale, quindi, dell'attenzione e della narrativa, aumentando significativamente il potenziale per la fama e la celebrità. Le narrazioni potenzialmente interessanti attraggono il pubblico per una moltitudine

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di motivi ma ciò che conta è che trovino un seguito attraverso i media sociali e che quindi riescano a distinguersi nell'economia di attenzione.

I media sociali ospitano gli utenti ordinari con storie e / o contenuti distintivi e gli forniscono strumenti visibili per misurare la propria popolarità e visibilità facilmente e quindi gestire autonomamente sè stessi in base all'obiettivo che se ne vuole ottenere.

Andrew Wernick (1991 cit. in Marwick 2015 p. 5) nel suo libro Promotion Culture sostiene, infatti, che l'intensificazione e la generalizzazione dei processi di promozione e commercializzazione ha prodotto una "cultura promozionale" e un'epoca di "spin", in cui ciò che conta di più non è il "significato", la "verità" o il "contenuto", ma "vincere" l' attenzione, la fedeltà emotiva o la quota di mercato. Beni, servizi, aziende e, soprattutto, le persone sono tutte implicate in una cultura promozionale.

Il personal branding diventa, perciò, una funzione di un'economia di immagine, dove l'attenzione è monetizzata e la notorietà, o la fama, è capitale.

Lo storico della cultura contemporanea Warren Sussman (1984 cit. in Hearn 2010 p. 424), inoltre, afferma che le procedure di auto-produzione e di auto-presentazione hanno sempre riflesso gli interessi dominanti economici e culturali del tempo e oggi i nuovi processi di identificazione con gli altri, l'aumento dell'importanza dell'attenzione e lo sviluppo di un'economia dell'attenzione possono essere interpretati come sintomi sociali di un cambiamento dell "IO" in Occidente.

Come sociologi come Philip Cushman e Anthony Giddens (1991 cit. in Hearn 2008 p. 424) sostengono, infatti, dopo la seconda guerra mondiale si è sviluppato un nuovo "Sè", un "sè vuoto" che ha bisogno di consumare per identificarsi con qualcosa, non sentendosi mai pienamente soddisfatto.

Il consumismo dipende dall'attenzione che a sua volta perpetua alla costruzione dell'identità attraverso la produzione di una narrazione coerente di sé che è l'unica continuità rimanente nella nostra vita (Giddens 1991; Cushman 1990 cit. in Hearn 2010 p. 424) e che è quello che molte più persone stanno mettendo in atto.

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1.4 Il personal branding in Italia

Come già detto, in Italia sia la letteratura scientifica che le ricerche sull'argomento risultano essere molto scarse nonostante proprio in Italia si sia sviluppato uno dei casi di personal branding più ben riusciti a livello mondiale.

L'unica ricerca sull'argomento risale al 2011 e nonostante si occupi di personal branding in relazione al mondo del lavoro e alla carriera e quindi non del personal branding in relazione alle celebrities è sembrato giusto, comunque, menzionarla soprattutto per via delle conclusioni interessanti che si possono trarre dai risultati. La ricerca è stata fatta nel settembre 2011 dall'agenzia Ambito5, specializzata in strategie di social media e gestione della comunicazione nel Web 2.0 con l'aiuto di Viadeo, social network professionale.

La ricerca ha coinvolto 23 blogger e esperti del settore per comprendere come il tema del personal branding viene considerato in Italia. I risultati hanno dimostrato che la conoscenza è molto scarsa e c'è, quindi, ancora molta strada da fare.

Infatti:

• il 39% degli intervistati pensa che il Personal Branding sia un lavoro • il 28% una sfida

• il 17% una disciplina da studiare

• il 13% una definizione usata a sproposito • il 3% pensa che sia altro.

Alla domanda se, secondo la propria esperienza, i blogger italiani curano il proprio personal branding:

• il 22% ha risposto No • il 78% ha risposto Si

Mentre alla domanda su quanti italiani curano il proprio personal branding: • il 5% ha risposto l'80/90%

• il 10% ha risposto il 40/50% • il 5% ha risposto il 30/40% • Il 13% ha risposto il 20/30% • il 54% ha risposto il 10/20%.

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Dai risultati evince quanta confusione ci sia sull'argomento. Se, infatti, gli intervistati ritengono che ben oltre la metà del blogger curino il proprio brand, essi rispondono anche di non curarne il proprio. Rimane da capire se il motivo sia da ricondurre alla modernità dell'argomento o se gli intervistati non ritengono le azioni di personal branding un modo vantaggioso per impegnare il proprio tempo.

1.5 La mercificazione del sé

Bauman, nel suo famoso saggio Consumo dunque sono (2007), ha messo in evidenza come il nuovo mercato del lavoro stia spingendo tutti alla mercificazione della propria persona, esortando sempre più a esporsi, a scoprirsi, fin nei più intimi dettagli della propria vita privata, allo scopo di risultare più interessanti, coinvolgere maggiormente il proprio pubblico e aumentare le probabilità di essere notati. Nella sua lettura della società moderna, le persone

«sono lusingate, incitate o costrette a pubblicizzare una merce che sia attraente e desiderabile, a farlo con tutte le forze e ad usare tutti i mezzi di cui dispongono per accrescere il valore di mercato di ciò che vendono. E le merci che sono sollecitati a mettere sul mercato, pubblicizzare e vendere sono sè stessi» (Bauman, 2007 p. 27)

Questo concetto descritto da Bauman ben sintetizza il problema principale che può essere riconnesso alle azioni di personal branding e cioè il rischio di trasformare sè stessi in una merce, mercificandosi.

Tuttavia, come sottolineano Marwick e boyd (2011 p. 123) bisogna considerare che per la maggior parte dei casi di personal branding, soprattutto riguardanti le celebrities, abbiamo a che fare con una scelta consapevole, pertanto forse è più giusto

parlare di un' "automercificazione strategica".

Quando si tratta della celebrità bisogna farlo considerandola sia come il lavoro che come la cosa che il lavoro produce. Essa presenta e personifica le due facce del capitalismo: la produzione di merce e la produzione di merce con valore prezioso (Marshall 2006 p. 635). In questo modo, questi soggetti si trasformano in materie

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prime con un valore economico.

Quindi anche se la mercificazione è stata descritta come «endemica alla logica del capitalismo» (Ralph 2009 cit. in Driessend 2013 p. 21) e come «il processo apparentemente irresistibile in cui tutto sembra soggetto all'intensità del capitalismo moderno» (Cashmore e Parker, 2003 cit. in Driessend 2013 p. 21) va, comunque, considerato come conseguenza inevitabile nella creazione di un "marchio umano".

Per Hearn questa monetizzazione dell' "essere" è più facilmente spiegabile attraverso il concetto di "fabbrica sociale" che descrive una situazione nel capitalismo contemporaneo in cui il lavoro si estende ben oltre i limiti temporali e spaziali dei luoghi di lavoro tradizionali e la produttività del capitale penetra sempre più profondamente in tutto, inclusi gli aspetti più intimi della nostra vita. (Hearn 2010 p. 416) e il rischio è che un'azione di personal branding incoraggi gli individui a vedere sè stessi come «merci da produrre e consumare nel mercato sociale» (Hearn 2010 p. 431).

Il self-branding, infatti, chiede all'individuo di vedere le relazioni come transazionali e strumentali, e guardare al mercato per misurare la realizzazione personale. «Ogni incontro sociale prova in modo efficace quanto è utile (e quindi prezioso) il proprio brand» (Wee and Brooks 2010, p. 54).

In questo modo, come sottolinea Hearn, il personal branding esalta l'insicurezza che intende risolvere, in quanto si basa su condizioni economiche notoriamente precarie, decentrate e flessibili. Scrive:

«Here, we see the “self” as a commodity for sale in the labour market, which must generate its own rhetorically persuasive packaging, its own promotional skin, within the confines of the dominant corporate imaginary» (Hearn 2010, p. 437)

creando quindi una tensione costante e inevitabile. L'attore è incoraggiato a pensare a sè stesso come un fornitore di servizi, dove il servizio fornito è l'attore stesso. Spiegato il concetto e accettato il rischio rimane da chiarire se quest'aspetto, se fatto con consapevolezza, sia da considerarsi necessariamente e in assoluto una

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conseguenza negativa o se semplicemente sia da considerarsi una conseguenza di un processo consapevole, strategico e ben definito.

1.6 La cultura delle celebrities

In un mondo in continua evoluzione come quello attuale e soprattutto sempre più permeato dai nuovi mezzi di comunicazione, un mondo in cui la comunicazione sta cambiando essendo sempre di più mediata dai social network, sono in tanti gli aspetti sociali che stanno subendo mutamenti, uno di questi è il mutamento della cosiddetta "celebrities's culture" sia per ciò che riguarda il rapporto di queste con il proprio pubblico sia per la nascita di nuove forme di celebrità che nascono e si sviluppano sul web, grazie ad efficaci azioni di personal branding.

Si è ritenuto importante occuparsi di questo aspetto in modo approfondito in quanto soltanto così si può realmente capire come può una "semplice" buona azione di personal branding portare persone comuni a diventare celebrità.

Attualmente la letteratura italiana risulta essere molto scarsa (per non dire inesistente) anche su quest'argomento quindi si farà riferimento soprattutto a studi e ricerche straniere per poi cercare di adattarle alla realtà italiana. Alcuni termini, quindi, non verranno tradotti in quanto manca un corrispettivo italiano, in altri casi, invece, si è preferito cercare la traduzione più adatta.

Si analizzerà la nuova cosiddetta "cultura delle celebrities" partendo da uno dei padri della sociologia, Emile Durkheim, che molti anni fa profetizzò quello che sta accadendo oggi, per poi occuparsi di analisi più contemporanee avendo come punti di riferimento coloro che si ritiene abbiano prodotto studi più dettagliati e pionieristici.

1.6.1 Emile Durkheim

Nella sua ultima e grande opera del 1912 Le forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim scrisse che

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cose sacre, cioè separate, proibite; credenze e pratiche che riuniscono in una stessa comunità morale, chiamata chiesa, tutti coloro che vi aderiscono.» (p. 65).

Per Durkheim l'essenza della religione consiste, quindi, nella divisione del mondo in fenomeni sacri e profani, non nella credenza in un dio trascendente: vi sono religioni, anche superiori, senza divinità.

Nonostante il sociologo non abbia mai definito nello specifico cosa intendesse per sacro si può ricavarne il significato contrapponendolo al suo opposto, il profano, indicante ciò che è quotidiano, vicino, tangibile, regno dell'esperienza comune. La fama e le celebrità di oggi possono essere ricondotte, quindi, al mondo del sacro. In questo senso si ricollega Durkheim alla cultura delle celebrità e al rapporto che esse hanno con il loro pubblico.

Una delle sue più grandi preoccupazioni, infatti, era la scomparsa della vecchia dimensione sacrale nella società moderna, il cui unico antidoto sarebbe stato il culto dell'individuo.

In una società sempre più utilitarista e dominata dalla divisione del lavoro, nella misura in cui tutte le altre credenze e pratiche assumono un carattere sempre meno religioso, l'individuo diventa oggetto di una nuova forma di religione (Durkheim, 1893 cit. in Smith 2014 p. 260) in cui la modernità attribuisce un carattere sacrale al valore dell'individualismo morale al punto da creare un vero e proprio culto dell'individuo.

La celebrità in un età secolare come questa, diventa, quindi, l'oggetto del sacro (Rojek 2001 cit. in Turner 2006 p. 158) e i suoi fans diventano la comunità morale con credenze e pratiche proprie.

L'individuo è sacro e la celebrità che crea e costruisce la propria fama autopromuovendo sè stessa e la propria immagine e mettendosi in una relazione di superiorità con il pubblico diventa "sia credente che Dio" (Durkheim cit. in Giddens 1972, p. 149).

La fama di oggi, per concludere, si basa su questo: siamo tutti fan e celebrità della nostra vita, quindi siamo tutti sia credenti che dèi (Smith 2014 p. 260) del "brand" di noi stessi.

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1.6.2 Henry Jenkins e Graeme Turner

Per quanto non strettamente correlato all'argomento vale la pena citare due sociologi contemporanei quali Henry Jenkins e Graeme Turner, le cui analisi ci permettono di avere un ulteriore quadro generale dei cambiamenti che i nuovi media hanno portato nella società contemporanea.

Jenkins occupandosi dell'analisi della produzione e del consumo mediale ha analizzato i processi sottostanti la nuova cultura partecipativa, affiancandoci un nuovo tipo di cultura sviluppatosi nell'era contemporanea, detta cultura convergente.

Secondo Jenskins, infatti, oltre alla cultura partecipativa in cui, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, tutti siamo sia consumatori che produttori (promuser) di messaggi e contenuti, bisogna considerare anche lo sviluppo di una nuova cultura (quella convergente) derivante dalla intersezione tra i "vecchi" storici produttori di contenuti e i "nuovi" (i consumatori), la quale produce e può produrre esiti imprevedibili.

Al di là di questo secondo aspetto è evidente come le nuove celebrità sviluppatesi grazie ai social network sono un chiaro esempio degli effetti della cultura partecipativa. Vecchi semplici consumatori grazie a un utilizzo consapevole dei social network, mettendo in atto processi di personal branding diventano, infatti, i leader nella produzione di contenuti grazie alla conquista di fama e celebrità.

Graeme Turner, invece, conia il concetto di "demotic turn" (in italiano dovrebbe essere tradotto con "cambiamento demotico" ma si preferisce lasciare il termine inglese) per dare un'accezione negativa al processo di "democratizzazione" che si ritiene essere in atto nella nuova cultura partecipativa in riferimento alla crescente visibilità della persona ordinaria (Turner 2006, p. 158).

Turner sostiene che la visibilità della gente comune nei media vada intesa come una strategia economica attraverso cui i conglomerati dei media hanno rafforzato l'industria dello spettacolo a spese degli altri settori o del cambiamento di questi. Soprattutto, l'autore osserva, la partecipazione del pubblico alla produzione di

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contenuti di notizie ha portato a una fusione di tutti gli ambiti con l' intrattenimento. Ritiene che anche se la partecipazione senza precedenti delle persone ordinarie nei media possa sembrare in qualche modo democratica in realtà è un'illusione e il potere delle èlites resta praticamente intatto (2011 p. 151).

Utilizzando il termine "celetoid" di Rojek (2001) per descrivere la persona 'ordinaria', il cui obiettivo primario è la visibilità nei media (o la fama), non importa quanto fugace o fragile, Turner scrive:

«Given what appears to be our culture’s appetite for consuming celebrity and the scale of the demand for new stories, gossip and pictures the celebritymedia industries generate,3 the accelerated commodity life cycle of the celetoid has emerged as an effective industrial solution to the problem of satisfying demand» (2006, p. 156).

Aggiunge che la televisione sfrutta questo desiderio e ciò che sembra realtà è in verità subordinato agli interessi di marketing e di audience:

«In addition to exploiting those who have already been established through other means, television has learnt that it can also invent, produce, market and sell on its celebrities from scratch on a much larger scale than ever before. Installing ordinary people into game shows, docu-soaps and reality TV programming enables television to ‘grow their own’ celebrity, to control how they are marketed before, during and after production – all of this while still subordinating the celebrity of each individual to the needs of the particular programme or format» (Turner 2006, p. 156).

L'economia politica della realtà televisiva si basa, in sostanza, sulla rapida diffusione e sul continuo rinnovamento dei suoi partecipanti, il che implica che queste celebrità in produzione raramente hanno una vera opportunità per stabilire una carriera di lunga durata (Turner 2006 p.159).

Concludendo, Graeme Turner sostiene che la celebrità è nello stesso tempo una rappresentazione e un discorso, un concetto e che sia contemporaneamente una merce scambiata tra industrie di promozione, pubblicità e media che producono tale rappresentazione e una formazione culturale con una precisa funzione sociale

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(Turner, 2004 p. 9). Definisce, quindi, tre definizioni da considerare le basi da cui far partire qualunque tipo di analisi: la celebrità come (1) un modo per rappresentare e parlare alle persone; (2) un processo attraverso il quale una persona viene trasformata in una merce; e (3) un aspetto della cultura che viene costantemente reinsegnato e riformulato.

Qualunque significato si decida di utilizzare, la critica di Turner ai nuovi media e alle nuove celebrities è feroce.

1.6.3 Terri Senft

Molto importanti in questo ambito sono gli studi della sociologa americana Terri Senft, la quale ha coniato il termine "micro-celebrities", che verrà successivamente preso in prestito da numerosi altri sociologici, indicante proprio il nuovo processo che porta persone comuni a diventare celebrità grazie all'utilizzo del web.

La sociologa ha coniato il termine nel 2001 in un libro sulle cosiddette camgirls, giovani donne che mettevano la propria vita su Internet utilizzando video o blog, presentandosi come un "pacchetto" coerente e ben "brandizzato", per poi adattarlo a qualunque tipo di popolarità nata su Internet. La sociologa descrive questo processo come:

«a new style of online performance in which people employ webcams, video, audio, blogs, and social networking sites to ‘amp up’ their popularity among readers, viewers, and those to whom they are linked online» (Senft, 2008 p. 25).

Dalle sue ricerche emerse che il rapporto di queste giovani donne con il pubblico sembrava essere più "reale" di quello convenzionale tra celebrities e fan nei media mainstream, nonostante però ci fosse una somiglianza importantissima: entrambi dovevano o 'brandizzarsi' o 'morire'.

La sociologa sottolinea, quindi, come nello stesso tempo in cui i mercati di posti di lavoro sembrano diminuire e escludere, le nozioni culturali sulla notorietà, la celebrità e la fama sembrano essere in espansione e inclusione.

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Al rallentamento di determinati settori del capitalismo (lavoro, potere di spesa dei consumatori) sta corrispondendo l'accelerazione di altri (creazione e distribuzione dei media). Con Internet ciò che è cambiato non è tanto la presenza delle celebrità che sono sempre state parte della società ma il loro ruolo in essa, vedendo aumentare la loro pervasività e ubiquità.

La nuova pratica della micro-celebrità, infatti, unisce il pubblico e la comunità dei fans. Il pubblico desidera che qualcuno parli a loro, la comunità di fans che qualcuno parli con loro. Le micro-celebrità, le celebrità che nascono sul web, fanno entrambe le cose.

L'architettura dei social media incoraggia tutti gli utenti a monitorare costantemente le attività degli altri, in nome della connessione sociale, venendo meno il vecchio consumatore passivo dei media antecedenti Internet.

Con la nuova economia dell'attenzione guardando, linkando e cliccando il vecchio consumatore passivo diventa produttore della risorsa più preziosa di tutte: l'attenzione. Tuttavia, le celebrities online non accumulano capitale perché ottengono attenzione ma accumulano capitali perché sono riuscite a trasformarsi da cittadini ad aziende che ottengono l'attenzione degli altri, perchè sono riuscite a produrre in modo qualitativamente e quantitativamente elevato quello che Marx chiamò "lavoro immateriale".

Inoltre, altro aspetto che la Senft sottolinea, è che la microcelebrità online porta quasi necessariamente le persone a mettere in discussione la distinzione tra il privato e il pubblico. Tutto diventa pubblico, come dimostra la recente tendenza di artisti già famosi che si sentono sempre più obbligati ad utilizzare i siti di social network per parlare "come sè stessi" ai fan e agli amici (2012 p. 5).

Si è creata una condizione sociale che Terri Senft chiama "strange familiarity" (Senft 2008) per rifarsi al sociologo Stanley Milgram (1992 cit. in Senft 2008 p. 6), che usò il termine "familiar strangers" per riferirsi a persone che si conoscono solo di vista ma non conoscono il loro nome (come le persone dello stesso quartiere che prendono il treno insieme ogni mattina).

Inoltre, facendo una distinzione tra il concetto di fama e quello di celebrità, la Senft mette a fuoco un altro aspetto.

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La celebrità riguarda la personalità o la persona; la fama è il processo di diffusione del nome e delle caratteristiche della persona. La cultura contemporanea ha portato a un cambiamento del concetto di fama creando "una fama svuotata di contenuti", che non necessita di particolari caratteristiche per svilupparsi (2011, p. 468).

Le celebrità di oggi agiscono, quindi, come merci, in quanto vendono le loro personalità al pubblico.

1.6.4 Tom Marshall

Altra interessante chiave di lettura per fare una esauriente analisi della nuova cultura della celebrità è quella fornita dal sociologo David Marshall.

Egli ritiene che le celebrità sono state e continuano ad essere uno strumento pedagogico e specificamente un aiuto pedagogico per la definizione del Sè.

Per gran parte del ventesimo secolo, le celebrità servivano come fari del mondo pubblico (attraverso la mediazione di film, radio, musica popolare e televisione) non avendo la gente comune altro modo per sentirsi "parte di qualcosa" permettevano di poter guardare sè stessi in relazione a qualcosa (2006 p. 635).

Le celebrità, inoltre, insegnavano alle generazioni a essere consumatori e a utilizzare la cultura del consumatore per "creare" sè stessi.

Diversi studi di marketing hanno evidenziato come all'individuo doveva essere insegnato a consumare e a riconoscere il valore del consumo a proprio vantaggio (ad esempio, Leiss et al. 2005 cit. in Marshal 2010 p. 36) e erano le celebrità a insegnare a comprare, essendo esse fulcro dei meccanismi pubblicitari capitalistici.

Le celebrità, quindi, presentavano al consumatore un "sè ideale" a cui si contrapponeva poi il sè che veniva fuori dal gossip, attraverso il quale si spiegava la personalità del vip al di fuori dello schermo, trasformandoli in figure riconoscibili e familiari, che rilevavano una parte delle loro esperienze private per aumentare la connessione affettiva con un pubblico.

Il gossip ha infatti sempre rappresentato una forma di coesione sociale, un mezzo con il quale l'adesione al gruppo viene attuata e recuperata producendo forme di esclusione e inclusione (Gluckman 1963 cit. in Marshall 2010 p. 37).

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Secondo Marshall il gossip va letto in relazione a 2 livelli: le informazioni presenti su tabloid, giornali o programmi televisivi strutturali e altamente mediati e la valutazione personale che sposta l'altamente mediato nelle dimensioni interpersonali dell'interscambio quotidiano. Rispetto a questo ultimo aspetto i nuovi mezzi di comunicazione e in primis i social network hanno portato dei cambiamenti. Con i social network, infatti, è la celebrità stessa a auto-produrre e auto-rinegoziare continuamente il proprio sè essendo sotto costante e continua sorveglianza di giornalismo e fans.

La sfera pubblica nell'epoca dei media rappresentazionali (tv e giornali), invece, era molto più centralizzata e manipolata e l'attenzione verso la costruzione del proprio sè era molto minore.

Marshall scrive: «Qualcosa è cambiato nell'era dei media sociali e della cultura rappresentativa, e vale la pena esplorare quello che sembra essere un'allargamento del sfera pubblica» (2010 p. 37), quello che Turner ha definito "demotic turn". I media sono sempre più attratti dalla quotidianità e da un ordinario che diventa straordinario e gli spettatori sono sempre più attratti da questa nuova forma di docudrama.

Attraverso i siti di social network, quindi, le celebrità hanno la possibilità di esporre ulteriormente la propria vita quotidiana e ordinaria che tanto piace al pubblico. Il sé pubblico diventa quindi un'estensione del proprio sè privato e reale e, essendo indispensabile per la manutenzione della propria identità e reputazione, viene infatti costantemente aggiornato e modificato.

Richiede quindi un impegno che in passato era almeno parzialmente gestito dalla stampa ma che ora inserisce la celebrità stessa nel flusso interpersonale della comunicazione.

Per concludere questo concetto, quindi, secondo Marshall viene meno quel sistema di filtraggio dei media che permetteva di organizzare e gerarchizzare ciò che era più importante e significativo, rendendo invece importante "tutto" e creando una "straordinaria quotidianità". I social promuovono la possibilità di «parlare di argomenti talvolta molto intimi e personali, ma in modo molto pubblico» (Marshall 2006 p. 628)

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Altro aspetto che Marshall approfondisce è il cambiamento riguardante il rapporto tra le persone comuni e la personalità pubblica.

Quando si parla di celebrità bisogna infatti fare riferimento ai concetti di individualismo e di identità che sempre di più caratterizzano la nostra società. In una società individualistica la celebrità crea un'identità che provoca un processo di identificazione da parte di un pubblico. Marshall sostiene: «Lo status di celebrità opera al centro della cultura in quanto risiede nelle nuove concezioni dell'individualità che sono il fondamento ideologico della cultura occidentale» (Marshall 1997 cit. in Marshall 2006 p. 636).

Questo è stato rafforzato con l'aumento dell'ideologia neoliberale, che mette la personalità autarchica in prima linea.

Il potere della celebrità, infatti, sta proprio nella capacità di incarnare un pubblico e di mettere in atto un processo di "investimento affettivo" da parte di esso (Marshall 1997 cit. in Marshall 2006 p. 635).

La fama va considerata, quindi, un processo in divenire e in continua trasformazione che oggi cambia le sue fonti.

Oggi più che prima secondo Marshall trova le sue origine nelle popolazione e non più nelle industrie di intrattenimento e spettacolo.

Le celebrità altro non sono che simboli del potere del pubblico e del suo peso economico. Il potere del pubblico a sua volta è rappresentato dalle celebrità e dalla loro capacità di sfruttare quel pubblico a favore dell'industria di sè stessi.

Per di più, i vecchi sistemi multimediali, televisione, radio, stampa o cinema erano progettati per "trasmettere uno a molti" aiutando il pubblico a concentrarsi su personaggi particolari che li rappresentano culturalmente, politicamente e socialmente, i nuovi media basati su un'ingegneria "molti a molti" hanno cambiato le cose, Internet infatti permette il movimento delle informazioni in tutte le direzioni in contrasto con la struttura delle tecnologie broadcast di one-to-many.

Il vecchio regime traducibile con "rappresentazionale" in cui la celebrità, appunto, rappresentava una cultura, un'ideologia o un'idea politica viene sostituito da un regime basato sulla soggettività dove l'utente e il produttore sono fusi (Brun 2005 cit. in Marshall 2006 p. 638) eliminando così la mediazione del regime broadcast.

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Viene meno la mediazione di riviste o programmi di intrattenimento per scoprire la "persona reale" e autentica fuori dalla dimensione pubblica, moltiplicando le "fonti del sè" per la celebrità stessa che auto-crea sè stessa negoziandola continuamente in relazione al suo pubblico.

Le celebrità diventano dei "brand" continuamente rielaborati e riformati in termini di valore e utilità da parte del pubblico e degli utenti.

Tuttavia, come lo stesso Marshall sottolinea più volte è chiaro tutto questo ma meno chiaro è il perchè.

1.6.5 Alice Marwick e danah boyd

La sociologa Alice Marwick è considerata tra i massimi esperti dell'argomento e, insieme a danah boyh, ha compiuto diverse ricerche che meglio hanno delineato la nuova cultura delle celebrities e la nascita delle micro celebrità della Senft, che altro non sono che esempi di personal branding.

La sociologa infatti ha delineato un quadro riassuntivo di come è cambiato il concetto di celebrità negli ultimi anni riprendendo anche ricerche e analisi di altri autori che aiutano a delineare una storia della "celebrities culture".

Schickel ha affermato che non c'era nessuna celebrità fino all'inizio del XX secolo (2000 cit. in Marwick 2015 p. 2) ma gli storici e gli studiosi hanno invece dimostrato che celebrità e fama hanno coesistito da secoli (Barry 2008 cit. in Marwick 2015 p. 2). Molti storici personaggi importanti hanno usato ciò che potrebbero essere considerati come i primi "media" di massa, come la letteratura, i monumenti o i ritratti, per solidificare strategicamente il proprio stato sociale. Alessandro Magno, per esempio, ha coltivata un'immagine di sè stesso come dio e erede di un trono immortale, e ingaggiò storici, bardi e poeti per diffondere questo mito per tutto il suo impero (Braudy 1986 cit. in Marwick 2008 p. 4).

La popolarità della pellicola e della radio nei primi anni del XX secolo ha poi richiesto contenuti costantemente aggiornati, che a sua volta hanno aumentato i nomi, i volti e le voci presenti nei media, aumentando il numero di persone conosciute.

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cambiamenti importantissimi del concetto di celebrità passando da un'idea unilaterale e di massa a un approccio più multimediale.

Con i reality show infatti è iniziato quel processo che trasforma contemporaneamente persone ordinarie in celebrità (Marwick 2015 p. 1).

Secondo la Marwick, quindi, mentre la fama è esistita da secoli, il concetto stesso di celebrità è inestricabilmente legato ai media, quindi così come i media cambiano, così cambia anche la celebrità.

Il passaggio contemporaneo dalla semplice trasmissione alla partecipazione nei media e la popolarità delle tecnologie dei social media tra i giovani hanno contribuito a due grandi cambiamenti nella cultura della celebrità.

In primo luogo, le celebrità "tradizionali" hanno abbracciato i social media per creare rapporti diretti e non mediati con i fan, o almeno l'illusione di questi. Tali interazioni possono essere molto potenti per i fan sfegatati, aumentando ulteriormente i legami emotivi tra una celebrità e il suo pubblico.

In secondo luogo, i social media hanno portato alla nascita delle micro-celebrità, una tecnica di auto-presentazione in cui le persone comuni diventano persone pubbliche (Marwick and boyd 2011 p. 127).

Questo ha portato a una nuova definizione di celebrità come un insieme di pratiche e tecniche di auto-presentazione e di personal branding.

La celebrità (nel senso italiano di fama) diventa qualcosa che una persona fa, piuttosto che qualcosa che una persona è.

Secondo le autrici, "celebrity" nell'era dei social media diventa, perciò, una gamma di tecniche e strategie che possono essere eseguite da chiunque con un dispositivo mobile, una tavoletta o un computer portatile.

Sta avvenendo quello che viene detto essere un nuovo processo di mediazione, che si riferisce proprio alla nuova comunicazione attraverso la tecnologia dei media. La mediazione suggerisce che anche le dimensioni più intime della vita, come la soggettività individuale e le relazioni interpersonali, vengono ora attivamente modificate e infiltrate dai media (Livingstone 2009 cit. in Marwick 2015 p. 3). Riprendendo Driessens (che verrà analizzato più nel dettaglio in seguito) la Marwick suggerisce che la celebrità descrive, quindi, non solo i modi in cui la vita sociale e

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