• Non ci sono risultati.

Screening di molecole con attività di inibizione differenziale a carico dell'enzima umano aldoso reduttasi contenute in alimenti vegetali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Screening di molecole con attività di inibizione differenziale a carico dell'enzima umano aldoso reduttasi contenute in alimenti vegetali"

Copied!
63
0
0

Testo completo

(1)

1

DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA

Corso di Laurea Magistrale

in

BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI

TESI DI LAUREA

“Screening di molecole con attività di inibizione differenziale

a carico dell’enzima umano aldoso reduttasi contenute in

alimenti vegetali”

CANDIDATO RELATORE

Gabriele Marchi Dott. Carlo Sorce

(2)

2

RIASSUNTO

L’aldoso reduttasi (AR) è un enzima NADPH-dipendente che catalizza la prima tappa della via dei polioli, in cui il glucosio è convertito in sorbitolo e quest’ultimo è poi trasformato in fruttosio grazie ad una sorbitolo deidrogenasi NAD-dipendente. L’aumento del flusso attraverso la via dei polioli che si realizza in condizioni di iperglicemia determina svariate alterazioni metaboliche (squilibrio osmotico, diminuzione delle difese antiossidanti, aumento di fenomeni di glicazione), che contribuiscono all’insorgenza delle complicanze diabetiche, quali cataratta, retinopatie, neuropatie periferiche e nefropatie. Di conseguenza AR è considerata un bersaglio per l’azione di farmaci che, inibendo il flusso attraverso la via dei polioli, possano aiutare a contrastare l’insorgenza di tali complicanze. Sono già noti inibitori (ARIs, Aldose Reductase Inhibitors), sia sintetici, sia naturali, che risultano molto potenti e selettivi in vitro, mentre i risultati ottenuti in vivo sono contraddittori, anche per la frequente insorgenza di effetti collaterali. Un fattore che può aver contribuito a tali insuccessi è il coinvolgimento di AR nel metabolismo. Infatti, se da una parte genera danno cellulare agendo sul glucosio ed altri aldosi, AR è al tempo stesso in grado di agire come enzima detossificante, riducendo aldeidi tossiche (come il 4-idrossi-2,3-nonenale, HNE) derivanti dalla perossidazione lipidica, un evento quest’ultimo conseguente allo stress ossidativo e pertanto particolarmente rilevante nel diabete. Inoltre, l’AR svolge altre funzioni importanti, perciò una generalizzata inibizione di questo enzima può risultare molto dannosa. Tuttavia, è stato recentemente dimostrato che è possibile, attraverso l’uso di inibitori cosiddetti “differenziali” (ARDIs, Aldose Reductase Differential Inhibitors), bloccare l’azione di AR nei confronti del glucosio, senza interferire o interferendo limitatamente nell’azione detossificante sull’HNE. Da queste basi ha preso avvio il presente lavoro, volto a isolare e caratterizzare nuove molecole, efficaci come ARDIs, presenti in alimenti di origine vegetale. Le specie e varietà selezionate per il nostro lavoro rappresentano prodotti regionali tipici, per i quali c’è un serio interesse da parte delle aziende produttrici a valorizzarne le caratteristiche nutraceutiche. Sono stati studiati semi secchi della varietà di fagiolo Zolfino (Phaseolus vulgaris L. var. zolfino), coltivati nella zona di Pratomagno (Reggello, FI). Il lavoro è iniziato con la preparazione e il frazionamento di estratti vegetali con lo scopo di individuare ed isolare frazioni a diverso grado di complessità che presentino attività inibitoria differenziale sull’AR. I campioni sono stati estratti con solvente organico e frazionati mediante ulteriori estrazioni in fase liquida o solida e poi mediante diverse tecniche cromatografiche (cromatografia su colonna, HPLC). Le frazioni di volta in volta isolate sono state sottoposte a biosaggio presso l’unità di Biochimica. Grazie a queste attività sono state messe a punto le tecniche di estrazione e. purificazione delle frazioni bioattive e sono state ottenute informazioni preliminari sulle proprietà chimiche delle molecole da caratterizzare: ciò ha permesso ai ricercatori del Dipartimento di Farmacia di giungere all’identificazione di alcuni componenti attivi degli estratti. Alcune molecole appartenenti al gruppo delle saponine sono risultate di particolare interesse come

(3)

3 potenziali ARDIs. La loro ulteriore purificazione e caratterizzazione è tuttora in corso di svolgimento, anche mediante l’utilizzo di standard puri di queste molecole.

(4)

4

INDICE

1. Introduzione Pag. 5

1.1. Aldoso Reduttasi Pag. 5

1.1.1. Struttura e meccanismo d’azione dell’AR Pag. 6

1.1.2. Via dei polioli Pag. 8

1.1.3. Detossificazione cellulare: 4-idrossi-2,3-nonenale Pag. 9

1.2. Gli inibitori dell’AR ed il controllo delle complicanze Pag. 11

del diabete

1.2.1. Inibitori sintetici Pag. 11

1.2.2. Inibitori di origine naturale Pag. 13

1.2.3. Inibitori differenziali dell’aldoso reduttasi (ARDI) Pag. 27

1.2.4. Il fagiolo come possibile fonte di ARDI Pag. 29

2. Scopo del lavoro Pag. 30

3. Materiali e metodi Pag. 31

3.1. Materiali e strumentazioni Pag. 31

3.1.1. Reagenti Pag. 31

3.1.2. Materiale vegetale Pag. 31

3.1.3. Strumentazione Pag. 31

3.2. Metodi Pag. 31

3.2.1. Estrazione e purificazione in HPLC di semi di fagiolo Pag. 31

Zolfino

3.2.2. Analisi dell’attività catalitica dell’AR attraverso saggi Pag. 36

bioenzimatici

4. Risultati Pag. 38

4.1 Identificazione dei potenziali ARDI Pag. 49

5. Discussione e conclusioni Pag. 53

6. Bibliografia Pag. 58

(5)

5

1. INTRODUZIONE

1.1. Aldoso Reduttasi

L’aldoso reduttasi (AR) è un enzima citosolico umano NADPH-dipendente, facente parte della famiglia delle aldo-chetoreduttasi (EC 1.1.1.21), che catalizzano la riduzione di differenti tipologie di aldeidi, sia idrofobiche che idrofiliche.

L’aldoso reduttasi è coinvolta in quella che viene definita come la “via dei polioli”, nella quale il glucosio viene prima ridotto dalla AR a sorbitolo, il quale viene successivamente ossidato a fruttosio da una sorbitolo deidrogenasi NAD+-dipendente [1]. Condizioni di iperglicemia, che inducono un incremento del flusso di glucosio in tale pathway, vengono considerate come possibili cause di danno tissutale attraverso differenti meccanismi:

1) squilibrio osmotico, dovuto all’accumulo di sorbitolo a livello cellulare;

2) squilibrio nello stato redox dei nucleotidi piridinici, che comporta una diminuzione dell’abilità antiossidante delle cellule;

3) incremento del numero dei prodotti del processo di glicazione [2].

Questi processi possono andare ad aggravare le condizioni di salute di un diabetico, causando complicanze come nefropatie, neuropatie periferiche, retinopatie e cataratta, che colpiscono distretti insulina-indipendenti, come per esempio rene, cristallino e nervi periferici [3]. Di conseguenza, AR viene considerata come un enzima target per farmaci inibitori (ARI, aldose reductase inhibitors) che siano in grado di prevenire e controllare l’insorgenza di queste complicanze [4] [1].

Recentemente è stato osservato il coinvolgimento dell’AR in processi infiammatori ed ischemici [5] [4]; sembra inoltre essere sovraespressa in alcune forme di cancro. Tutto ciò ha portato ad un crescente interesse verso i farmaci inibitori dell’AR anche da un punto di vista anti-infiammatorio [1].

Negli ultimi decenni un certo numero di ARI sono stati scoperti e proposti come possibili strumenti terapeutici, ma, nonostante in vitro mostrassero una certa efficacia, il loro utilizzo come antagonisti delle complicanze diabetiche non ha avuto molto successo. Questo risultato probabilmente è dovuto ad una insufficiente biodisponibilità e/o ad una possibile modulazione della suscettibilità dell’AR agli inibitori, dovuta a fenomeni di S-tiolazione [6] [7] [8].

Alcuni ARI sono stati ritirati dal mercato perché, oltre ai problemi sopra citati, hanno mostrato gravi effetti secondari negativi a livello clinico e pre-clinico, dovuti all’inibizione di altre funzioni dell’enzima che risultavano essere positive per la cellula [9]. L’AR infatti, oltre ad essere coinvolta nella via dei polioli, presenta anche la capacità di ridurre aldeidi tossiche, come il 4-idrossi-2,3-nonenale (HNE), uno dei prodotti finali della perossidazione lipidica e, in aggiunta, di ridurre addotti come il glutationil-HNE (GS-HNE): grazie a questa attività l’AR è coinvolta nella risposta cellulare alla cascata del segnale di tipo ossidativo, riducendo il livello di citotossicità cellulare e attivando pathway di tipo pro-infiammatorio [1] [10] [11].

(6)

6 Tutti questi aspetti hanno suscitato seri dubbi sui vantaggi dati da un’inibizione totale dell’enzima: la possibilità di interventi selettivi sull’azione catalitica dell’AR per specifici substrati, come il glucosio, senza inibire l’attività di riduzione di molecole tossiche come l’HNE, sarebbe la soluzione ideale [1].

1.1.1. Struttura e meccanismo d’azione dell’AR

L’AR umana è una proteina monomerica, dal peso molecolare di 35,8 kDa, composta da 316 residui amminoacidici organizzati in una struttura ad α/β barile nella quale 8 foglietti β, disposti in maniera antiparallela, si alternano a 8 α-eliche, disposte in posizione esterna. I foglietti 1 e 6 interagiscono tra loro mediante legami a idrogeno, determinando la struttura a barile. Il sito di legame del substrato si trova in una grande e profonda tasca di forma ellittica, posta all'estremità C-terminale del barile β [7] [8] [12]. Il NADPH invece è legato ad AR in modo insolito: il sito di interazione infatti è più simile a quello delle ossido-reduttasi FAD-dipendenti, piuttosto che delle NAD-dipendenti. Il cofattore viene bloccato e sequestrato da un loop di residui (Gly213 - Ser226) posti tra il foglietto β e l’α-elica 7 dell’α/β barile, chiamato safety belt, ovvero “cintura di sicurezza”. La sua conformazione è tale da suggerire che il legame o il rilascio di NADP/H dipendano dal movimento di questa “cintura” [7] [12]–[14].

Il sito attivo (Fig. 1) può essere diviso in due parti: una porzione più piccola definita “sito di legame

anionico”, che è una regione rigida, costituita dai residui Trp20, Val47, Asp43, Tyr48, His110 e Trp111 ed una regione definita “sito di specificità”, composta dai residui Thr113, Phe115, Phe122, Cys303 e Tyr309 e che mostra caratteristiche di flessibilità ed idrofobicità. È possibile definire un’ulteriore porzione caratterizzata dai residui Val297 e Leu300, che è capace di modificare la sua posizione in relazione all’interazione con determinati ligandi [4] [14] [15] .

(7)

7 Il meccanismo d’azione dell’AR può essere descritto come sequenziale ordinato. Sia il legame, sia il rilascio del cofattore sono associati ad un esteso cambiamento conformazionale del complesso enzima-substrato, comprendente il movimento della safety belt, che va a coprire parzialmente il NADPH che si è legato all’enzima. Si genera così un complesso ternario che quindi evolve a prodotti, rilasciando l’alcool neoformato. L’ultima tappa del ciclo di catalisi riguarda poi un secondo cambio di conformazione della struttura proteica che consente il rilascio del NADP+ [7] [14] [15].

Il meccanismo di reazione (Fig. 2) consiste in un trasferimento stereospecifico del 4-pro-R-idruro del NADPH al carbonio del gruppo carbonilico del substrato, seguito dalla protonazione dell’ossigeno carbonilico del substrato, dove il residuo Tyr48 dell’enzima funge da donatore del protone. Tale funzione è resa possibile dalla presenza nel sito di un residuo Lys77 e di un residuo Asp43, che, abbassando il pK di dissociazione della Tyr48, favoriscono l’attività di catalisi dell’enzima. Il meccanismo d’azione, dimostrato sia grazie ad un approccio cristallografico, sia tramite esperimenti di mutagenesi sito-specifica, prevede, oltre alla funzione del residuo Tyr48, anche l’intervento della His110 che agisce favorendo il corretto orientamento del substrato nel sito attivo [7] [12] [15].

1.1.2. Via dei polioli

L’AR è un enzima ampiamente distribuito in diversi organi e tessuti, e particolarmente abbondante nel rene, organo dal quale è stato per la prima volta isolato e caratterizzato. In quest’organo il ruolo dell’AR è quello di osmoregolatore: infatti, il sorbitolo prodotto non riesce ad attraversare facilmente le membrane cellulari e, di conseguenza, si accumula nel citosol, inducendo il riassorbimento d’acqua [7] [16].

L’AR, come catalizzatore della prima tappa della “via dei polioli” (Fig. 3), mostra in realtà una modesta affinità per il glucosio, così che, in condizioni fisiologiche, questo pathway risulti di

(8)

8 secondaria importanza rispetto alla via glicolitica. In condizioni iperglicemiche, quando le esochinasi glicolitiche (a maggiore affinità per il glucosio) sono saturate, il glucosio è convertito in sorbitolo dall’AR ed accumulato nella cellula. Gli alti livelli di sorbitolo causano un danno da squilibrio osmotico, mentre l’aumento dell’attività della via dei polioli consuma elevate quantità di NADPH, facendo diminuire il rapporto NADPH/NADP+ e abbassando la capacità riducente della cellula [2] [17]. Quindi, le condizioni iperglicemiche diminuiscono la disponibilità di NADPH per l’enzima glutatione reduttasi (NADPH-dipendente), il quale non può più catalizzare la formazione di glutatione ridotto (GSH). La carenza di quest’ultimo impedisce all’enzima glutatione perossidasi di poter ridurre a sua volta specie reattive dell’ossigeno (ROS), diminuendo la capacità antiossidante della cellula e aumentando la sua suscettibilità alle ROS [2] [5] [18].

Altri effetti deleteri derivano dal pathway di conversione del sorbitolo in fruttosio a opera della sorbitolo deidrogenasi: esso provoca un aumento del rapporto NADH/NAD+, con induzione di uno stato di pseudo ipossia, riduzione della sintesi di ossido nitrico (NO) e attivazione di proteine chinasi [7].

Inoltre, l’aumento della concentrazione del fruttosio, che presenta una maggiore capacità glicante rispetto al glucosio, porta alla fruttosilazione dei prodotti finali della glicosilazione avanzata non enzimatica (AGE – Advanced Glycation End-product). Questo processo è noto come reazione di Maillard, in cui, partendo dal fruttosio, si produce una base di Schiff che, tramite il suo gruppo carbonilico libero ridotto, può interagire senza catalisi enzimatica con gruppi amminici di molecole biologiche [3] [19].

L’ubiquitarietà dell’enzima AR e la sua significativa presenza in tessuti non coinvolti nel controllo dell'equilibrio idrico, ci suggeriscono altre possibili funzioni legate alla sua attività reduttasica, oltre a quelle sopra citate [20].

(9)

9 1.1.3. Detossificazione cellulare: 4-idrossi-2,3-nonenale

L’ossidazione degli acidi grassi polinsaturi (PUFAs) della membrana cellulare genera idroperossidi lipidici, da cui si originano aldeidi sature e insature. In condizioni di stress ossidativo si ha una maggiore produzione di questi composti, che risultano potenzialmente pericolosi a causa della loro forte reattività: la loro possibile propagazione in siti diversi da quelli nei quali vengono prodotti può indurre danni in tutta la cellula [11] [21].

Il 4-idrossi-2,3-nonenale (HNE), appartenente alla classe dei 4-idrossi-2-alchenali, è una delle aldeidi più tossiche e reattive prodotte dalla perossidazione degli acidi grassi polinsaturi (ω-6) quali, ad esempio, l’acido arachidonico e l’acido linoleico. L’elevata reattività di questo composto è dovuta alla sua struttura chimica, che lo rende elettrofilo. In particolare, sono fondamentali 3 caratteristiche strutturali: un gruppo aldeidico (CHO), un doppio legame C2 = C3 ed un gruppo ossidrilico (OH) sul C4. Queste caratteristiche permettono alla molecola di formare un sistema coniugato, di essere suscettibile all’attacco nucleofilo e di poter interagire con residui amminoacidici come cisteina, lisina e istidina, producendo composti definiti addotti di Michael (Fig. 4). L’addotto di Michael può successivamente ciclizzare, formando un emiacetale che consentirebbe il possibile cross-linking tra residui di lisina di proteine diverse. Questi addotti hanno effetti tossici sulla cellula, tanto più gravi quanto maggiori sono le dimensioni dell’addotto [10] [22] [23].

Un addotto di Michael è ad esempio il 3-glutationil-4-idrossi-nonanale (GS-HNE), che si forma tramite il legame tra HNE e glutatione, attraverso un attacco nucleofilo dell’anione tiolato (GS-) sul C3 dell’HNE. Una delle principali conseguenze della formazione dell’addotto GS-HNE è la diminuzione di glutatione ridotto (GSH). La diminuzione dei livelli di GSH in risposta ad uno stress ossidativo determina un decremento della formazione di GS-HNE e quindi un aumento dei livelli tossici di HNE non metabolizzato.

In questo contesto si va ad inserire funzionalmente l’AR che, attraverso la propria capacità di agire sia sull’HNE (KM 0.022 mM), sia sul GS-HNE, rivela un secondo pathway in cui è coinvolta, oltre alla

(10)

10 “via dei polioli”, ovvero la detossificazione cellulare (Fig. 5). Infatti l’AR catalizza la riduzione dell’HNE a 1,4-diidrossinonene (DHN), che è meno tossico dell’HNE, poiché è maggiormente solubile e, di conseguenza, più facilmente eliminato dalla cellula. L’AR catalizza, inoltre, la riduzione dell’addotto GS-HNE al corrispondente 3-glutationil-1,4-diidrossinonano (GS-DHN) [11] [24] [25].

In base a quanto visto, tramite l’inibizione dell’AR si otterrebbero benefici per quanto riguarda la “via dei polioli”, ma potrebbero insorgere gravi problemi in seguito al blocco della detossificazione cellulare. Diventa quindi difficoltoso poter individuare molecole inibenti che rendano minimi questi svantaggi [4] [26].

1.2. Gli inibitori dell’AR e il controllo delle complicanze del diabete

Il diabete mellito è un disturbo metabolico cronico e complesso, caratterizzato da iperglicemia cronica ed è una delle sindromi metaboliche più diffuse in tutto il mondo. Ogni anno vi è un incremento del numero dei soggetti colpiti da questa malattia, tanto che si stima che possa raggiungere il 46% dell’intera popolazione mondiale nel 2030 [2] [16]. L'elevato tasso di mortalità è il risultato di complicanze micro- e macro-vascolari che provocano danni irreversibili. In condizioni iperglicemiche croniche aumenta il flusso di glucosio nei tessuti/organi, quindi nelle cellule aumenta la saturazione della via glicolitica, con attivazione di pathway alternativi di segnale delle condizioni di stress [27] [28]. La stimolazione di queste vie di segnale induce un aumento dei livelli di stress ossidativo e attiva processi infiammatori, che comportano il sorgere di complicanze diabetiche. Nei pazienti con diabete mellito, la cataratta diabetica è una delle complicanze più frequenti e una delle cause principali di

(11)

11 cecità in tutto il mondo. I maggiori fattori di rischio associati all’insorgenza della cataratta diabetica sono il prolungarsi delle condizioni diabetiche nei pazienti e la qualità del loro controllo glicemico. Il rigoroso controllo delle variazioni di concentrazione di glucosio permette, attraverso interventi mirati, come la terapia insulinica intensiva, di ridurre il rischio di sviluppare complicanze nei diabetici. Tuttavia risulta difficile mantenere questo tipo di controllo nel lungo periodo, perciò sono stati compiuti notevoli sforzi per trovare nuovi ed efficaci agenti antidiabetici che agiscano attraverso meccanismi specifici che siano indipendenti dal controllo della glicemia [29] [30].

Basandosi sul ruolo dell’AR nello sviluppo della cataratta diabetica in condizioni iperglicemiche, dove AR è iperattiva nella riduzione del glucosio a sorbitolo, l'inibizione di questo enzima rappresenta la strategia migliore per ridurre le probabilità di insorgenza di tale complicazione [31] [32].

1.2.1. Inibitori sintetici

Da tempo si conoscono diversi ARI, che sembravano offrire la possibilità di prevenire o arrestare la progressione di queste complicanze diabetiche nel lungo periodo, senza indurre problemi di ipoglicemia, poiché privi di effetti sul glucosio nel plasma.

Un’ampia varietà di composti di sintesi sono stati identificati in vitro come possibili ARI (Fig. 6). Essi si possono suddividere, a seconda della loro struttura, in quattro classi diverse:

(1) derivati di acidi carbossilici, come Tolrestat e Epalrestat;

(2) immidi cicliche, o spiromidi, come il Sorbinil, una spiroidantoina;

(12)

12 (3) derivati fenolici, con struttura simile al flavonoide naturale quercetina;

(4) derivati del fenilsulfonilnitrometano come lo ZD 5522 [9] [32].

Questi inibitori presentano differenti gruppi funzionali che conferiscono alle molecole l’affinità di legame al sito attivo dell’AR (Fig. 7): a) un gruppo polare (immidi cicliche, acido acetico) che si lega a livello della tasca anionica contenente Tyr48, His110 e Trp111; b) uno o più gruppi planari lipofilici (per esempio il gruppo naftilico nel Tolrestat), che permettono all’inibitore di interagire con la tasca idrofobica del sito attivo dell’enzima [32] [33].

Negli ultimi decenni, la maggior parte dei trial clinici sui composti sintetici sopra elencati ha mostrato purtroppo l’esistenza di

problemi farmacocinetici. Il principale problema degli inibitori di questa classe è la loro biodisponibilità: la maggior parte dei composti sintetici, infatti, ha mostrato limitata efficacia e scarsa penetrazione nei tessuti target, come le fibre nervose o la retina, oltre a manifestare effetti collaterali deleteri.

Gli inibitori derivati da acidi carbossilici (Tolrestat), per esempio, mostrano elevata affinità in vitro per l’AR, ma una ridotta potenza in vivo: questa differenza è probabilmente attribuibile al basso pKa di questi composti, che vengono quindi completamente deprotonati a pH fisiologico, limitando la loro capacità di penetrare la membrana cellulare in quelle condizioni.

Gli inibitori immidici (Sorbinil) invece, mostravano una maggiore capacità di superare la membrana cellulare ed una maggiore potenza inibitoria, però, fin dalle prime settimane di trattamento causavano effetti collaterali come febbre, reazioni cutanee e tossicità epatica, probabilmente dovuti alla possibile conversione del Sorbinil in un intermedio metabolico tossico.

Al momento solo l’Epalrestat è disponibile a livello commerciale, approvato come ARI per il trattamento della neuropatia diabetica: può rallentare la progressione di tale complicazione e fornire un miglioramento dei sintomi correlati, senza l’insorgenza di effetti collaterali dopo somministrazioni a lungo termine. Tuttavia l’Epalrestat attualmente è utilizzato solo in pochi paesi asiatici (come il Giappone e l’India) e la sua efficacia dovrebbe essere ulteriormente verificata con studi a lungo termine che confrontino popolazioni diverse di pazienti [4] [6] [9] [32].

(13)

13 1.2.2. Inibitori di origine naturale

Nonostante la maggior parte degli studi e dei trial clinici sugli ARI si siano focalizzati su composti sintetici, c'è un crescente interesse per quanto riguarda i possibili benefici nell’utilizzo di integratori dietetici, sostanze nutraceutiche o anche medicinali tradizionali come possibili prodotti farmaceutici inibitori di questo enzima, che non presentino tossicità, né inducano altri effetti secondari dannosi. Ad esempio, studi in vitro e su modelli animali hanno evidenziato come si potrebbe prevenire o rallentare la progressione della cataratta diabetica tramite l'utilizzo di molecole, identificate in alimenti naturali come spezie, frutta e verdura, che mostrano effetto inibitorio dell’AR.

Un semplice supplemento di vitamina C nella dieta quotidiana di pazienti diabetici, ad esempio, ha mostrato una diminuzione dell’accumulo di sorbitolo a livello degli eritrociti, oltre ad un aumento nella vasodilatazione endotelio-dipendente.

La maggior parte degli ARI naturali studiati fino ad ora è stata identificata in materiale vegetale: composti come flavonoidi, tannini, fenoli, alcaloidi, terpeni, composti cumarinici e altri composti misti, mostrano un livello significativo di inibizione dell’AR. Di seguito si esaminano brevemente le caratteristiche dei principali gruppi di ARI naturali [31] [33] [34].

1) Flavonoidi

I flavonoidi costituiscono una delle maggiori classi di metaboliti secondari delle piante superiori. Vengono comunemente ingeriti dall’uomo con la dieta di tutti i giorni, tramite alimenti quali frutta e verdura. Tutti i flavonoidi presentano una struttura a triplo anello (Fig. 8) e vengono sintetizzati a partire dall’acido cinammico [35]. Nonostante i flavonoidi non presentino valori nutrizionali, sono capaci di esercitare differenti attività di tipo farmacologico, come attività antiossidanti e di inibizione dell’AR. La letteratura scientifica mostra come un’ampia varietà di flavonoidi presenti un’attività inibitoria molto forte a carico di questo enzima, sia tramite test in vitro, sia in vivo [33].

Studi a livello pre-clinico su modelli animali hanno confermato come i flavonoidi abbiano azione protettiva contro l'opacizzazione del cristallino, probabilmente agendo contemporaneamente su più pathway chiave del processo: la “via dei polioli”, le condizioni di stress ossidativo e la glicazione non enzimatica (produzione di AGE).

Fin dalla metà degli anni '70, numerosi studi si sono incentrati sull’attività d'inibizione dell’AR dei flavonoidi [36].

(14)

14

Le caratteristiche strutturali necessarie per permettere un forte legame tra inibitore flavonoico e sito catalitico dell’AR sono state descritte da Matsuda et al. (2002):

(1) la presenza di un gruppo 7-idrossilico unito ad un gruppo catecolico sull’anello B della struttura;

(2) i gruppi 3-idrossilico e 7-O-glucosilico;

(3) il gruppo catecolico (un gruppo 3', 4'-diidrossilico) che può essere presente, nello specifico, sull’anello B [35] [37].

In base a tale descrizione si può quindi concludere che un incremento nel numero di gruppi idrossilici sull’anello B del flavonoide aumenta il potere inibitorio dei coniugati flavonoidi-glucosidici [38]. L’inibizione dell’AR data da flavonoidi isolati da prodotti naturali è stata testata sia nel cristallino di ratto, sia dell’uomo, utilizzando in primis un composto già conosciuto, la quercetina (Fig. 9), come controllo positivo [39].

Gli inibitori della classe dei flavonoidi, contrariamente agli inibitori della classe dei carbossilati, che presentano natura acidica (e scarsa biodisponibilità), possiedono un valore di pKa più elevato, che è risultato essere un requisito fondamentale per una maggiore biodisponibilità e conseguente migliore farmacocinetica [37] [40].

I flavonoidi naturali rappresentano un possibile agente da poter utilizzare per un “approccio multi-target” nel trattamento della cataratta diabetica, attraverso l’inibizione dell’AR e la riduzione dello stress ossidativo. Inoltre, partendo dal flavonolo quercetina, è stato possibile sviluppare agenti

semi-Fig. 8 Struttura base dei flavonoidi

(15)

15 sintetici, i derivati 4H-1-benzopiran-4-one (Fig. 10), con doppia attività di inibizione aldoso reduttasi/antiossidante [33].

I flavonoidi sono presenti nelle piante principalmente sotto forma di coniugati O-glicosidici, legati a zuccheri come il glucosio, il galattosio, l’arabinosio o il ramnosio. La biodisponibilità è principalmente determinata dal residuo glicosidico presente.

Nel caso dei flavonoidi-O-β-D-glucosidici, l’aglicone può essere rilasciato nell'intestino tenue (Fig.

11) tramite l’azione catalitica di un enzima presente nei villi intestinali, la lattasi florizin-idrolasi

(LPH), oppure può agire un secondo enzima, una β-glucosidasi citosolica: LPH presenta elevata specificità per i flavonoidi monoglucosidici, così, dopo la catalisi, l'aglicone rilasciato può entrare nelle cellule epiteliali dell’intestino tenue mediante diffusione passiva. In alternativa, la β-glucosidasi citosolica può compiere la sua funzione quando il coniugato è entrato all’interno delle cellule epiteliali tramite trasporto attivo mediato da un trasportatore del glucosio GLT1 dipendente dal sodio.

Fig. 10 4H-1-benzopiran-4-one

(16)

16 Tuttavia, non tutti questi coniugati sono substrati dell’LPH. Ad esempio, l’aglicone della quercetina-3-rutinoside (rutina) viene idrolizzato e rilasciato da enzimi batterici intestinali come α-ramnosidasi e β-glucosidasi a livello del basso tratto gastro-intestinale: per questo motivo l’assorbimento della rutina è più rapido di quello della quercetina e la biodisponibilità di quest’ultima è molto più bassa rispetto a quella dei coniugati quercetina-glucosidici [17] [41]. Questo esempio sottolinea il ruolo del tipo di zucchero nel determinare la biodisponibilità dei diversi coniugati glicosidici dei flavonoidi naturali. Prima del passaggio nel flusso sanguigno, gli agliconi vengono metabolizzati formando solfati, glucuronidi e/o metaboliti metilati [40] [42] [43].

Ad oggi, solo alcuni studi hanno esaminato il metodo migliore per veicolare i flavonoidi verso il cristallino: la modalità migliore per la somministrazione risulta essere quella locale a livello del segmento anteriore dell’occhio, che può produrre concentrazioni maggiori di flavonoidi e quindi aumentare l’efficacia. La via orale non mostra la stessa efficacia.

Negli esperimenti ex vivo riportati da Cornish et al. (2002), la quercetina riesce a penetrare nel cristallino: a questo livello, enzimi metabolizzano tale flavonoide in 3'-O-metil-quercetina, riducendone solo in parte l’efficacia contro il progredire dell’opacizzazione. Anche i coniugati quercetina-glucuronidi probabilmente vengono trasportati al cristallino dall’umor acqueo, grazie alla loro presenza nel plasma, dove subiscono un processo di deglucuronidazione (Fig. 12), catalizzato dall’enzima endogeno β-glucuronidasi, presente in molti tessuti e fluidi corporei dell’uomo, tra i quali pure l’umor acqueo ed il cristallino [43] [42].

Seguendo l’assorbimento dei glucuronidi da parte dell’umor acqueo, il cristallino potrebbe quindi essere esposto ai coniugati circolanti e/o all'aglicone singolo, dopo che esso ha subito a livello dell’umor acqueo il processo di deglucuronidazione [42].

Oltre alla quercetina esistono molti altri flavonoidi coniugati in grado di inibire l’AR. Per esempio, studi su estratti di foglie di Myrcia multiflora hanno mostrato la presenza di metaboliti secondari con attività di ARI, come i flavanoni glucosidici myrciacitrina 1/2, il flavonolo glucosidico myrcitrina (Fig. 13) e in particolare la desmantina-1 (Fig. 14), che presenta delle caratteristiche inibitorie potenzialmente pari all’Epalrestat (IC50 = 8,2 x 10

-8

M della desmantina-1 contro IC50 = 7,2

dell’Epalrestat) [33].

(17)

17 Sakai et al. (2001) hanno indagato sull’attività ARI del tè: gli infusi hanno mostrato una potente attività inibitoria, pari a quella dell’Epalrestat, data dalla presenza dell’isoquercitrina, un flavone glicosidico. Kato et al. (2006), seguendo la linea degli studi di Sakai et al. (2001), hanno analizzato l’estratto in acqua calda del rizoma di Zingiber officinalis [44]. Dei 16 composti fenolici isolati, solo 5 mostravano un buon potere inibitorio, come il 2-(4-idrossi-3-metossifenil)etanolo, la cui efficacia d’inibizione era leggermente superiore alla quercetina. Studi sulle strutture chimiche dei componenti hanno rivelato come la lunghezza della catena alchilica e la presenza di un gruppo -OCH3 sul C3

nell’anello aromatico siano essenziali per il riconoscimento ed il legame con l’enzima.

Anche alimenti come le varietà nera e marrone del riso (Oryza sativa L. japonica) contengono composti fenolici che hanno mostrato benefici per la prevenzione delle complicanze diabetiche: queste molecole sono le antocianine nella varietà nera e l’acido ferulico in quella marrone.

Il cardanolo, estratto dai frutti di anacardio (Anacardium occidentale), ha mostrato efficienza nell’inibizione dell’AR nel cristallino di bovino. Altri frutti, di origine tropicale o subtropicale, come il litchi (Litchi chinensis) contengono antocianine, che evidenziano un’elevata attività ARI [33] [41] [45].

2) Alcaloidi

Un altro vasto gruppo di metaboliti secondari delle piante sono gli alcaloidi. Molti di questi prodotti metabolici derivano da amminoacidi ed includono un’enorme serie di composti azotati. Nonostante gli alcaloidi siano di gran lunga i metaboliti secondari biologicamente più attivi, la letteratura che tratta di questi composti come possibili inibitori di AR è abbastanza scarsa [46]. Uno di questi lavori (Seo et al., 2016) tratta l’estrazione e l’isolamento di sette alcaloidi da tuberi di Corydalis ternata (Fig. 15). Tra di essi i composti che mostrano la maggiore attività inibente, sebbene a bassi livelli, sono la

Fig. 14 Desmantine estratte da Myrcia multiflora

(18)

18 tetraidrocoptisina, la coribulbina e l’N-metiltetraidroberbiniodeidrocoridalina (rispettivamente strutture 1, 5 e 7, Fig. 15) [47].

In maniera analoga Lee et al. (2002) hanno caratterizzato, partendo dall’estrazione in metanolo (MeOH) di rami di Coptis japonica, composti con attività inibitoria per AR: quelli principalmente presenti erano isochinolini alcaloidici come la berberina cloridrica e la palmatina ioduro (Fig. 16) [33] [46].

Altri composti presenti in questi campioni, che presentano struttura ricollegabile a quella della berberina e della palmatina, sono per esempio l’aporfina, la benzilisochinolina e la bis-isochinolina. Studi sull’interazione enzima-inibitore mostrano come l’inibizione sembri collegata alla presenza di un anello isochinolinico: tutte presentano infatti nella loro struttura un anello benzochinilidinico. Anche un potente inibitore sintetico dell’aldoso reduttasi, il GPA 1734 (8,9-diidrossi-7-metil-benzo-(b) quinolizium bromide) contiene questo anello.

(19)

19

Inoltre, esiste una differenza tra i diversi alcaloidi sopra elencati, per quanto riguarda i livelli di efficacia inibitoria verso l’AR: composti contenenti anelli bis-isochinolinici, come berberina e palmatina, presentano i maggiori livelli d’inibizione (valori di IC50 pari a circa 5,2 x 10-5

M) rispetto agli altri tipi di alcaloidi (aporfina e benzilisochinolina, con IC50 = 10-4 M). Sembra importante non solo la struttura degli anelli isochinolinici, ma anche lo stato redox di un atomo di azoto presente in questi anelli: la riduzione di tale atomo nella berberina induce la formazione di canadina (tetraidroberberina), con significativa riduzione dell'attività inibitoria di tale composto (IC50 = 4,9 x 10-4 M).

La palmatina ha una struttura simile alla berberina, con uno stesso anello bis-isochinolinico. Tramite studi in vivo su conigli, si è evidenziato anche in essa un’elevata efficacia di inibizione dell’AR a livello del cristallino. Anche per la palmatina, la riduzione dell’anello azotato, che produce tetraidropalmatina, riduce la sua efficacia come ARI [48] [49].

Altra importante caratteristica strutturale di questi alcaloidi deriva dalla presenza di elementi terminali nella struttura dell’anello isochinolinico, che aumentano l’effetto di tali composti.

La berberina presenta, alle due estremità della sua struttura, due differenti motivi che creano sistemi di interazione diversi all’interno del sito catalitico dell’AR e rappresentano elementi fondamentali per l’azione inibente (Fig. 17). Un anello terminale contiene un gruppo diossimetilenico, che, avendo caratteristiche idrofobiche, può interagire con il residuo Trp219 contenuto in una tasca idrofobica del sito attivo. All’estremità opposta, un doppio anello, con al suo interno l’atomo di azoto in forma ridotta, presenta invece due gruppi laterali metossilici di natura polare, che permettono, unitamente all’azoto, il legame con la tasca idrofilica (legante anioni) del sito catalitico, costituita dai residui Tyr48, His110 e Trp111.

(20)

20

La palmatina, rispetto alla berberina, al posto del gruppo diossimetilenico presenta su quell’estremità una seconda coppia di gruppi metossilici, che risulta in un’efficacia inibitoria leggermente minore rispetto alla berberina.

Secondo gli studi effettuati, la berberina possiede diverse attività farmacologiche, come antidiarroiche, antibatteriche, anti-infiammatorie, antitumorali e neuroprotettive (contro malattie come Alzheimer e Corea di Huntington); la somministrazione e l’utilizzo di tale composto induce ulteriori effetti protettivi, in condizioni iperglicemiche, verso le relative complicanze diabetiche: riduce infatti la glicemia a digiuno, il colesterolo totale e i livelli di trigliceridi [46] [48] [50].

3) Terpeni

I terpeni rappresentano un gruppo di prodotti naturali con una grandissima varietà di strutture. Sono sintetizzati dalla via del mevalonato o del metileritritolo fosfato, che producono l’elemento base costitutivo del loro scheletro, l’unità isoprenica a cinque atomi di carbonio (Fig. 18) [41] [51].

(21)

21

A seconda del numero di unità isopreniche si possono distinguere differenti tipi di terpeni. Quelli più semplici fanno parte della sottofamiglia dei terpeni a basso peso molecolare (LMWT). Essi si suddividono ulteriormente in due differenti gruppi, i monoterpeni e i sesquiterpeni: i primi hanno una struttura composta unicamente da due unità isopreniche, mentre i secondi da tre unità.

I LMWT rappresentano la categoria contenente il maggior numero di composti terpenici diversi (circa 25.000): questa diversità strutturale li rende di difficile caratterizzazione generale. A causa della loro struttura con poche unità, sono sostanze molto volatili e lipofiliche; risultano otticamente attive e anche infiammabili. Si trovano principalmente nelle piante vascolari, nonostante occasionalmente si trovino pure in alcuni insetti e organismi più semplici [41].

Altri terpeni, più complessi rispetto ai LMWT, mostrano uno scheletro base formato da 4 unità isopreniche, ossia 20 atomi di carbonio: essi vengono definiti diterpeni. Poco sappiamo sulla loro farmacocinetica e sulla loro tossicologia, anche a causa della loro ampia variabilità strutturale e funzionale e la letteratura non riporta molto sulla loro possibile funzione di ARI [52] [53].

Fujita et al. (1995) hanno riportato che monoterpeni glicosidici come i perillosidi A, B, C e D, estratti da foglie di Perilla frutescens (Fig. 19), mostrano una potente attività inibitoria in vivo a livello del cristallino di ratti, con la A e la C più efficaci della B e della D.

(22)

22

Tra i diterpeni studiati ci sono quelli abietanici, tra i quali i danshenoli A e B, i tanshinoni I e II ed i loro derivati. Essi sono stati estratti da radici e rizomi essicati di Salvia miltiorrhiza (Fig. 20) e, dopo analisi di attività sull’attività enzimatica di AR, si è osservato come essi inibiscano tale enzima a livello del cristallino. Tra questi, il danshenolo è quello che mostra maggiore efficacia inibitoria, simile a quella del farmaco sintetico epalresta [31] [54].

Fig. 19 Composti estratti da Perilla frutescens

(23)

23 Estratti idroalcolici di radici di Salacia oblonga, utilizzata solitamente nella medicina tradizionale ayurvedica in India per curare il diabete e le sue complicanze, hanno evidenziato come i principali componenti attivi siano diterpeni e triterpeni, con un effetto inibitorio molto elevato [33].

I triterpeni differiscono largamente tra loro per la loro struttura chimica. Sono terpeni contenenti sei unità isopreniche, per un totale di 30 atomi di carbonio. Sono sintetizzati a partire da un precursore aciclico, lo squalene, composto da due unità C15 unite tra loro (Fig. 21). Come risultato del processo di ciclizzazione e di ossidazione del precursore, si vanno a formare numerose e diverse molecole triterpeniche. Queste modificazioni possono avvenire in due vie: una via che produce triterpeni tetra- e pentaciclici, mentre l’altra, passando per intermedi quali i cicloartenoli, porta alla sintesi di composti come cucurbitacine o colesterolo, fino a produrre fitosteroli, glicosidi cardiaci e saponine.

I triterpeni più comuni strutturalmente sono gli oleanani pentaciclici, gli ursani, taraxerani, taraxastani, lupani, tetraciclici dammarani e cucurbitali [55].

Un altro gruppo consiste nei nortriterpenoidi, formati a partire da triterpeni tetraciclici attraverso processi di ossidazione e degradazione, che presentano un numero minore dei 30 atomi di carbonio comunemente presenti. Questo gruppo può essere suddiviso ulteriormente in limonoidi (C26) e quassinoidi (C20 o C19).

(24)

24 I triterpeni, specialmente i pentaciclici, rappresentano i metaboliti secondari maggiormente distribuiti nelle piante: si trovano infatti sia a livello delle foglie, sia a livello della corteccia, sia dei frutti e delle radici.

Il potenziale curativo dei triterpeni è veramente molto elevato, anche se poco riconosciuto farmacologicamente. Numerosi studi in vitro ed in vivo hanno rivelato le loro caratteristiche multifunzionali: anti-cancro, antiossidanti, anti-infiammatorie, contro l’aterosclerosi e antivirali. Molti triterpeni naturali mostrano proprietà antidiabetiche, riducendo le complicanze di tale malattia [41] [55] [56].

Tra queste funzioni infatti, è stata verificata l’azione inibitoria, nei confronti dell’AR, di triterpeni come i derivati dei friedelani (kotalagenina-6-acetato) e derivati degli oleanani isomerici (acido maitenfolico ed l’acido 3β, 22α-diidrossiolean-12-en-29-oico), ottenuti dalle radici di Salacia oblonga. Se questi tre composti vengono utilizzati come ARI naturali ad una concentrazione di 100 µM, la percentuale di inibizione enzimatica di tali composti è rispettivamente circa il 48,2%, 54,6% e 75,9% [57] [58].

Nonostante possiedano gli effetti benefici appena descritti, i terpeni riescono a penetrare in maniera difficoltosa attraverso la membrana cellulare, a causa delle loro grandi dimensioni. Tuttavia, esperimenti rivelano come queste sostanze riescano ad entrare nelle cellule, superando anche la barriera emato-encefalica e come si vadano ad accumulare soprattutto nel fegato. Inoltre, una somministrazione cronica di prodotti naturali ricchi di triterpeni aumenta la loro biodisponibilità e il loro accumulo nei tessuti e nella circolazione sanguigna.

La biodisponibilità dei triterpeni può anche essere incrementata durante la loro somministrazione con l’aggiunta di sostanze come le ciclodestrine, che vadano a combinarsi con i triterpeni.

Testando in vivo su topi la tossicità di questi composti, sembra che nemmeno una loro somministrazione cronica anche in notevoli quantità induca tossicità in questi organismi [55] [59].

4) Tannini

Due tipi diversi di tannini (Fig. 22) sono stati identificati in base alla loro struttura chimica:

a) tannini condensati, composti da molti flavonoidi o proantocianidine legati tra loro;

b) tannini idrolizzabili, composti da un nucleo glucosidico (più raramente possono esservi altri monosaccaridi, o anche polioli, al posto del glucosio) con parecchi derivati catechinici legati; sottoclassi di questo gruppo sono i gallotannini e gli ellagitannini [60].

(25)

25

Questi polimeri hanno dimensioni da medie a grandi e sono ampiamente distribuiti, sia negli organismi vegetali, sia nei funghi. I tannini condensati e quelli idrolizzabili hanno molte proprietà in comune, nonostante quelli idrolizzabili siano meno stabili (sono suscettibili all’idrolisi) e siano più tossici. I tannini più piccoli sono solubili in acqua, però man mano che le loro dimensioni aumentano diminuisce la loro solubilità non solo in acqua, ma in ogni solvente.

Generalmente queste sostanze possiedono una struttura che permette di legarsi a differenti proteine; se si tratta di enzimi, questi possono essere disattivati. Il legame con le proteine determina l’effetto astringente dei tannini, soprattutto di quelli idrolizzabili.

I tannini condensati inibiscono, in vitro, un’ampia varietà di enzimi, in linea con la loro abilità di legare le proteine: uno di essi è l’AR. Tuttavia, la loro biodisponibilità è estremamente ridotta, per questo non si conosce quanto sia forte la loro attività a livello sistemico e non specifico, mentre alcuni studi sono stati effettuati sul distretto epidermico ed il tratto gastrointestinale [39] [41] [59] [60]. I tannini tendono a legare o chelare molte altre molecole, oltre alle proteine: si legano per esempio a molecole di alcaloidi, oppure possono chelare ioni bivalenti. Questo può rendere gli agenti legati insolubili ed inattivi, così come succede alle proteine legate. Per questi motivi queste sostanze non vengono mai somministrate contemporaneamente ad altri nutrienti o farmaci, perché potrebbero ridurne l’assorbimento e l’attività.

Nei loro studi, Lee et al. (2008) hanno isolato, da corteccia di Rhus verniciflua, tannini idrolizzabili come il pentagalloil glucosio, molecola con forte attività ARI (Fig. 23) [33].

(26)

26 5) Cumarine

Le cumarine (benzopiran-2-one oppure cromen-2-one) sono composti con struttura ad anello, presenti in prodotti naturali come l’anticoagulante warfarina. Esse mostrano interessanti proprietà farmacologiche: tra di esse, l’effetto inibitorio verso l’AR è stato ritrovato in circa 41 differenti cumarine (Kawannishi et al., 2003).

Gli estratti in acqua calda delle radici di Angelica gigas esibiscono proprietà ARI a livello del cristallino a concentrazioni di 100 µg/L. Tra le sostanze purificate da questa specie vi erano tre tipi diversi di cumarine lineari: decursunolo angelato, decursina e nodakenina. Altri studi sulla stessa pianta sono stati compiuti sugli steli essiccati, da cui sono state ottenute altre 9 cumarine: di esse, isoimperatorina, scopoletina e 3’-idrossixantiletina mostravano una debole attività ARI.

In Artemisia montana sono state identificate 5 cumarine (Fig. 24) che possiedono buona attività inibitoria contro l’AR: umbelliferone, scoparone, scopoletina, esculetina e scopolina (Jung et al., 2011) [33].

Fig. 23 1-2-3-4-6-O-pentagalloil glucosio

(27)

27 6) Altre molecole

I curcuminoidi (Fig. 25), come la curcumina, la demetossicurcumina e la bisdesmetossicurcumina, isolati da Curcuma longa, presentano una struttura base con gruppi orto-idrossilici che conferiscono un’elevata affinità per l’AR. Studi su ratti con indotta cataratta diabetica e su bovini, hanno evidenziato come questi inibitori agiscono sia a livello del cristallino, sia del rene (nel bovino); in quest’ultimo, la curcumina agisce in maniera non competitiva [44] [61] [62].

Nonostante l’abbondante numero di ricerche sui composti di origine naturale, la letteratura scientifica tratta solo parzialmente l’aspetto dell’inibizione dell’AR e non c’è praticamente alcuna informazione sul meccanismo d’azione di queste molecole naturali nei confronti del suddetto enzima.

1.2.3. Inibitori Differenziali dell’Aldoso Reduttasi (ARDI)

Come ricordato in precedenza, il fatto che sia molecole idrofiliche come la gliceraldeide (GAL) o gli L-triosi, sia molecole idrofobiche (come per esempio HNE) possano essere substrati per i quali AR ha affinità simili, suggerisce una bassa selettività da parte dell’enzima, che sembrerebbe disponibile per l’ingresso nel sito attivo di qualsiasi substrato aldeidico. Tuttavia, l’enzima è in grado di discriminare differenti substrati (idrofilici e idrofobici), anche all’interno della stessa classe di molecole. Sia molecole di zuccheri, sia aldeidi idrofobiche, interagiscono con AR con efficacia uguale o simile, suggerendo così che l’interazione di queste molecole con l’enzima possa avvenire secondo meccanismi diversi. La peculiare capacità di AR di agire su substrati sia idrofilici, sia idrofobici, senza essere un enzima permissivo, lascia ipotizzare che si possano individuare degli ARDI in grado di

(28)

28 modulare il funzionamento di AR, inibendone l’attività verso gli aldosi, ma non verso le aldeidi tossiche. Gli ARDI sarebbero quindi gli inibitori ideali, un ottimo strumento per bloccare gli eventi precedentemente descritti, senza interferire sull’abilità detossificante dell’enzima [1].

La possibilità di inibire un enzima in modo differenziale è stata dimostrata mediante analisi cinetiche [63]. Per quanto riguarda l’AR, Del Corso et al. (2013) hanno sperimentato l’efficacia di vari composti nell’inibizione differenziale intra-sito dell’AR. Alcuni di essi sembrano essere dei potenziali ARDI, avendo dimostrato di inibire maggiormente l’attività di riduzione del glucosio e della GAL rispetto alla riduzione dell’HNE. Le molecole testate mostrano caratteristiche inibitorie differenti a seconda della differente struttura chimica e non risulta evidente alcun collegamento tra struttura chimica e capacità di inibizione differenziale dell’AR. Le molecole più interessanti appartenevano al gruppo delle pirazolo(1,5-a)pirimidine (composti 18 e 19, Fig. 26).

Fig. 26 Valutazione dell’inibizione differenziale di possibili

ARDI (da Del Corso et al., 2013; linee verde e rossa = riduzione HNE e GS-HNE, rispettivamente; linee blu e nera = riduzione

(29)

29 Come si può osservare dalla Fig. 26, i composti 18 e 19 mostrano proprietà inibitrici migliori rispetto all’Ari sintetico Sorbinil [1].

1.2.4. Il fagiolo come possibile fonte di ARDI

Le piante sono organismi che possiedono potenzialità biosintetiche straordinariamente ampie, tali da poter essere considerate e anche utilizzate come laboratori naturali per la sintesi di nuove sostanze biologicamente attive. Poiché fra queste sostanze possono essere presenti anche dei potenziali ARDI, risulta importante continuare le ricerche, soprattutto su specie utilizzate nell’alimentazione umana [64]. Il fagiolo (Phaseolus vulgaris L.) è una specie i cui semi sono ricchi di flavonoidi e quindi potrebbero contenere dei potenziali ARDI [65]. Inoltre, il seme del fagiolo è una sorgente assai variegata di molecole, alcune delle quali vengono classificate come sostanze antinutrizionali. Alcuni rappresentanti di questa categoria sono le lectine, le saponine, l’acido fitico e alcuni inibitori enzimatici (di enzimi come la tripsina, la chimotripsina e, l’α-amilasi) [65] [66] [67]. Il fagiolo è una piante erbacea annuale e rappresenta la seconda leguminosa, dopo la soia, più importante al mondo per l’alimentazione umana. Il successo commerciale del fagiolo è dovuto alle caratteristiche nutritive ed alimentari che questa leguminosa offre all’uomo: è un alimento ricco di proteine, minerali (ferro, zinco) e vitamine; inoltre la comunità scientifica ha potuto verificare la presenza di numerose qualità nel fagiolo, che lo renderebbero idoneo per l’utilizzo come possibile cura in numerose patologie dell’uomo. In letteratura è stato mostrato come sia il seme che il baccello presentino caratteristiche ipotensive e ipoglicemizzanti; da studi specifici sui semi di fagiolo sono emerse numerose caratteristiche positive che indurrebbero a pensare che essi possano essere impiegati in trattamenti verso differenti tipologie di disturbi [68] [69].

Il seme di fagiolo contiene una proteina globulare, la faseolina, che agisce come inibitore dell’α-amilasi. Questo enzima, presente a livello pancreatico ed epatico, ha la funzione di idrolizzare l’amido presente nei carboidrati complessi, producendo molecole di glucosio semplice, che entra nel flusso sanguigno aumentando il suo livello glicemico. La faseolina, inibendo l’amilasi e la produzione di glucosio, può essere impiegata oltre che come ipoglicemizzante, anche come integratore per il trattamento dell’obesità [70] [71].

Il fagiolo è uno degli alimenti maggiormente utilizzato nelle pratiche culinarie mediterranee ed europee, presente sulle nostre tavole sotto numerose forme e ricette: per esempio, l’uso più comune è il consumo del seme cotto in acqua, oppure il seme può essere lasciato germogliare ed essere consumato crudo, o essere macinato per la produzione di farina, utile come addensante. I semi possono anche essere tostati ed utilizzati come sostituti al posto dei chicchi di caffè, mentre le foglie possono essere consumate sia crude che cotte [64] [65] [72].

(30)

30

2. SCOPO DEL LAVORO

Come abbiamo visto, l’iperattività dell’AR è responsabile delle complicanze diabetiche, perciò è fondamentale individuare molecole in grado di inibire l’enzima, senza però causare i problemi che sono stati riscontrati in seguito alla somministrazione degli inibitori fin qui conosciuti. Abbiamo anche visto che numerosissime specie vegetali contengono sostanze con attività ARI, anche in specie e in organi che vengono consumati nell’alimentazione umana. Il consumo quotidiano di alimenti comuni nella dieta mediterranea, che posseggano tali componenti inibitori, potrebbe risultare, da un punto di vista nutraceutico e farmacologico, un importante mezzo per la possibile prevenzione o il rallentamento dell’insorgenza di queste complicanze diabetiche.

Da un altro punto di vista, l’identificazione di ARI, ma soprattutto di ARDI, in alimenti vegetali, rappresenta un’importante possibilità per valorizzare tali prodotti e per incrementare la redditività della loro coltivazione.

Questi due aspetti rappresentano gli obbiettivi principali del progetto di ricerca “IDARA”, finanziato dalla Regione Toscana, nell’ambito del quale è stata svolta la presente tesi di laurea magistrale. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di ricercare, attraverso uno screening su estratti in solvente organico, possibili molecole ARDI: come già spiegato, questi inibitori dovrebbero limitare la funzione dell’AR nella “via dei polioli” e il conseguente accumulo di sorbitolo, mentre non dovrebbero ridurre la capacità detossificante dell’AR, che si esprime attraverso la riduzione di HNE e dei suoi coniugati (come il GS-HNE). Il materiale sottoposto a screening è stato un alimento vegetale tipico della Toscana, il fagiolo (Phaseolus vulgaris), appartenente alla varietà “Zolfino”. Esso proveniva da un’azienda della provincia di Firenze, il cui coinvolgimento nel progetto “IDARA” era finalizzato alla possibilità di valorizzare il proprio prodotto da un punto di vista nutraceutico. E’ stato scelto il fagiolo perché, oltre ad essere un prodotto tipico del territorio ed un alimento presente in abbondanza nella nostra dieta, i semi di questa leguminosa sono ricchi di flavonoidi e quindi potrebbero contenere dei potenziali ARDI. Inoltre, come già menzionato, il seme del fagiolo è una sorgente assai variegata di molecole, alcune delle quali vengono classificate come sostanze antinutrizionali.

La ricerca di potenziali ARDI si è svolta attraverso la messa a punto di procedimenti di purificazione e frazionamento di estratti metanolici di semi essiccati. L’efficacia dei vari protocolli analitici sperimentati è stata verificata attraverso un saggio effettuato sulle frazioni purificate, al fine di valutarne l’attività di inibizione differenziale a carico dell’AR. Lo sviluppo di questo lavoro è finalizzato alla produzione di frazioni sufficientemente attive e con un elevato grado di purezza, tali da poter essere sottoposte ad ulteriori analisi, al fine di identificare le molecole bioattive, che potrebbero poi essere riprodotte per via sintetica. Inoltre, la messa a punto del protocollo di purificazione serve come base di partenza per progettare processi di estrazione e purificazione su più larga scala, che possano trovare applicazione in impianti di produzione a fini commerciali.

(31)

31

3. MATERIALI E METODI

3.1. Materiali e strumentazione

3.1.1. Reagenti:

Metanolo (MeOH) e acido acetico (CH3COOH) (Romil, Cambridge, Regno Unito); H2O bisdistillata,

filtrata con filtro 0,22 µm; Sodio fosfato bibasico, Solfato d'ammonio (J.T. Baker, Center Valley, Pennsylvania, Stati Uniti); NADP+, NADPH, D,L-gliceraldeide, EDTA (Sigma Aldrich, Saint Louis, Missouri, Stati Uniti); L-idosio (Carbosynth, Compton, Regno Unito); HNE sintetizzato secondo la procedura descritta da Moschini et al. (2015).

3.1.2. Materiale vegetale:

Fagioli gialli (Phaseolus vulgaris L.), varietà Zolfino, essiccati, ottenuti dall’Azienda agricola “Agostinelli Mario” di Leccio-Reggello (Firenze).

3.1.3. Strumentazione:

Centrifuga Z323K (Hermle, Gosheim, Germania); Filtri da siringa Phenex in PTFE, porosità 0,22 µm e 0,45 µm; Cromatografo HPLC SpectraSystem (Thermo Scientific, Waltham, Massachusetts, Stati Uniti); Colonna Kinetex 5 µ C18 100 Å, 250 x 4,6 mm I.D. core shell (Phenomenex, Torrance, California, Stati Uniti); cartucce Supelco Discovery DSC 18 da 6 mL (Supelco, Bellefonte, Pennsylvania, Stati Uniti); evaporatore rotante Laborota 4000 (Heidolph, Schwabach, Germania); Spettrofotometro Libra S32 (Biochrom, Cambourne, Regno Unito).

3.2. Metodi:

3.2.1. Estrazione e purificazione in HPLC di semi di fagiolo Zolfino:

Tutti i campioni di fagiolo “Zolfino” utilizzati nelle varie procedure sotto descritte erano costituiti da semi secchi (umidità circa 15-20%), conservati a temperatura ambiente per un intervallo di tempo variabile tra 1 e 12 mesi.

(32)

32 Procedimento 1)

Sono stati pesati circa 40 g di semi di Zolfino. Il campione veniva polverizzato con un macinacaffè per circa 2 minuti, evitando il suo surriscaldamento. La polvere veniva poi posta in un beker da 1000 mL con 200 mL di metanolo (MeOH) all’80% + 0,6% di acido acetico (CH3COOH). Il rapporto di

estrazione fissato quindi corrispondeva ad 1:5 peso/volume.

Veniva compiuta una prima estrazione in agitazione, con ancorina magnetica, a 4 °C.

Dopo 5 h: centrifugazione 7000 xg 10 minuti a 4 ºC del campione. Il sovranatante è stato conservato a 4 °C in bottiglia da 500 mL con tappo a vite.

Seconda estrazione: il pellet post-centrifuga veniva riestratto con 200 mL di MeOH 80% + 0,6% CH3COOH, posto in agitazione (con ancorina magnetica) overnight a 4 °C. L’estratto è stato poi

centrifugato a 7000 xg 10 minuti a a 4 ºC. Il supernatante è stato riunito a quello ottenuto dall’estrazione precedente e l’estratto totale è stato filtrato con dischi di carta n. 4, diametro 90 mm (Whatman, Little Chalfont, Regno Unito). Dopo aver misurato il volume del filtrato, esso veniva suddiviso in 4 frazioni: a) 90 mL, corrispondenti a 9,23 g di fagioli, come peso fresco (FW) iniziale, da utilizzare per i saggi sull’estratto grezzo; b) 90 mL, corrispondenti a 9,23 g FW iniziale, da conservare a -20 ºC, per test di verifica della stabilità chimica dell’estratto; c) 110 mL, corrispondenti a 11,28 g FW iniziale per il frazionamento/purificazione mediante HPLC; d) 100 mL (suddivisi in aliquote da 10 mL ciascuna), corrispondenti a 10,26 g FW iniziale da conservare a -80 ºC per eventuali ulteriori saggi o purificazioni cromatografiche.

Dalla frazione c) suddetta veniva prelevata un’aliquota di 4,86 mL (equivalenti a 500 mg di FW), che veniva portata a secco sotto bassa pressione, mediante evaporatore rotante. Il campione era ridisciolto in circa 500 µL di 10% MeOH e 90% di H2O contenente lo 0,1% di CH3COOH e filtrato con filtri per

siringa Phenex. Il campione veniva cromatografato mediante l’HPLC, e suddiviso in 22 frazioni, ciascuna di 2 mL. Le condizioni della run cromatografica erano le seguenti:

- Fase stazionaria: colonna Kinetex C18;

- Fase mobile: flusso costante di 1 mL min-1, 10% solvente B da 0 a 4 minuti, seguito da un gradiente lineare dal 10 al 100% di B in 30 min, al termine del quale veniva mantenuto il 100% di B per 10 min, per una durata totale del run pari a 44 min. Solvente A = H2O

bidistillata + 0,1% CH3COOH; solvente B = MeOH.

- Lunghezza d’onda del detector: 254 nm.

Le 22 frazioni ottenute sono state conservate a -20 ºC e successivamente sottoposte a saggio (entro un tempo massimo di 24 ore).

(33)

33 Procedimento 2)

Allo scopo di migliorare la separazione cromatografica dei composti potenzialmente bioattivi e di ottenere una maggiore ripetibilità dei risultati, veniva modificata la composizione del solvente B dell’HPLC rispetto al Procedimento 1).

Sono stati prelevati 3,5 mL, corrispondenti a 500 mg di FW, dell’aliquota d), che era stata estratta precedentemente e conservata a -80 ºC. Il volume veniva portato a secco come descritto nel Procedimento 1).

Il campione veniva ridisciolto in circa 450 µL di 10% MeOH contenente lo 0,1% di CH3COOH e 90%

H2O contenente lo 0,1% di CH3COOH; successivamente veniva filtrato con filtri Phenex da siringa.

Il campione veniva cromatografato mediante l’HPLC e suddiviso in 22 frazioni, ciascuna di 2 mL. Le condizioni della run erano:

- Fase stazionaria: come il Procedimento 1);

- Fase mobile: flusso costante di 1 mL min-1, 10% solvente B da 0 a 4 min, seguito da un gradiente lineare dal 10% al 100% di B in 30 min, al termine del quale veniva mantenuto il 100% del solvente B per 10 min. Solvente A = H2O bidistillata + 0,6% CH3COOH; Solvente

B = MeOH + 0,6% CH3COOH.

- Lunghezza d’onda del detector: 254 nm.

Le 22 frazioni ottenute sono state conservate a -20 ºC e successivamente sottoposte a saggio (entro un tempo massimo di 24 ore).

Procedimento 3)

Nel tentativo di prevenire la formazione di particolati, a causa della precipitazione di sostanze debolmente polari, veniva modificata la composizione del solvente in cui disciogliere il campione prima dell’HPLC e, conseguentemente, le condizioni della run cromatografica.

Sono stati prelevati 3,5 mL, corrispondenti a 500 mg di FW, dell’aliquota d), che era stata estratta durante il Procedimento 1) e conservata a -80 ºC. Il volume veniva portato a secco sotto bassa pressione e ridisciolto in circa 450 µL di 30% MeOH contenente lo 0,1% di CH3COOH e 70% H2O

contenente lo 0,1% di CH3COOH; successivamente veniva filtrato con filtri Phenex da siringa.

Le nuove condizioni della run che sono state impostate erano: - Fase stazionaria: come il Procedimento 1);

- Fase mobile: flusso costante di 1 mL min-1, 30% di solvente B da 0 a 4 min, seguito da un gradiente lineare dal 30% al 100% di B in 30 min, al termine del quale veniva mantenuto il 100% del solvente B per 10 min. Solvente A = H2O bidistillata + 0,6% CH3COOH; Solvente

B = MeOH + 0,6% CH3COOH.

(34)

34 Le 22 frazioni venivano conservate a -20 ºC prima del saggio (che veniva effettuato entro un tempo massimo di 24 ore).

Procedimento 4)

Al fine di rendere più efficiente la purificazione e la separazione cromatografica delle componenti bioattive, veniva introdotto un passaggio di purificazione e pre-frazionamento mediante cartucce SPE (Solid Phase Extraction) Supelco.

Sono stati pesati circa 5 g FW di semi di Zolfino. Il campione veniva polverizzato con un macinacaffè per circa 2 minuti, evitando il suo surriscaldamento. La polvere veniva poi posta in una bottiglietta Pyrex da 200 mL con 50 mL di metanolo (MeOH) all’80% + 0,6% di acido acetico (CH3COOH). Il

rapporto di estrazione fissato quindi corrispondeva ad 1:10 peso/volume.

Il campione veniva sottoposto a due estrazioni e filtrato con le stesse modalità descritte per il Procedimento 1).

L’estratto, dopo essere stato portato a secco con evaporatore rotante era stato ridisciolto in circa 5 mL di 30% MeOH e 70% di H2O; entrambi i solventi contenevano lo 0,6% di CH3COOH.

A questo punto si procedeva con la purificazione tramite SPE, con l’ausilio di un manifold porta cartucce, collegato ad una pompa da vuoto.

La procedura si svolgeva secondo le seguenti fasi, durante le quali il flusso di solvente era di circa 0,5 mL min-1 e il sorbente della cartuccia veniva sempre mantenuto saturo di solvente:

1) Condizionamento: ciascuna cartuccia era flussata con 5 mL di MeOH + 0,6% CH3COOH, poi con 5

mL di H2O + 0,6% CH3COOH e infine con 5 mL di 30% MeOH + 0,6% CH3COOH.

2) Caricamento del campione: veniva fatto passare il campione attraverso il sorbente della cartuccia, mantenendo comunque quest’ultimo sempre saturo di solvente.

3) Lavaggio: 5 mL di 30% MeOH + 0,6% CH3COOH e successivamente 5 mL di 50% MeOH + 0,6 %

CH3COOH. I due lavaggi venivano raccolti separatamente in tubi di vetro da 10 mL; successivamente,

aliquote di essi venivano sottoposte a saggio.

4) Eluizione: 5 mL di 100% MeOH + 0,6% CH3COOH. In questo caso la raccolta dell’eluato

proseguiva fino a che le cartucce non si fossero svuotate completamente, cioè essiccando il sorbente. Anche questa frazione veniva raccolta in tubi di vetro da 10 mL e una sua aliquota veniva poi sottoposta a saggio.

La maggior parte della frazione di eluato (100% MeOH acidificato) veniva essiccata sotto bassa pressione e disciolta con 500 µL di solvente per l’HPLC (40% MeOH + 0,6% CH3COOH; 60% H2O +

0,6% CH3COOH). La percentuale iniziale di MeOH era più alta rispetto ai procedimenti descritti in

precedenza, perché i composti più polari erano già stati separati mediante i lavaggi delle cartucce SPE. Il campione era poi purificato e frazionato mediante l’HPLC, nelle seguenti condizioni:

(35)

35 - Fase mobile dell’HPLC: flusso costante di 1 mL min-1, 40% solvente B da 0 a 6 minuti, seguito da un gradiente lineare dal 40 al 100% di B in 20 min, al termine del quale veniva mantenuto il 100% di B per 10 min, per una durata totale del run pari a 36 min. Solvente A = H2O bidistillata + 0,6% CH3COOH; solvente B = MeOH + 0,6% CH3COOH. Il leggero

prolungamento della fase iniziale in isocratica (da 4 a 6 min) aveva lo scopo di far compattare maggiormente le molecole meno polari in testa alla colonna. Il gradiente più rapido (20 min, invece dei 30 min precedentemente utilizzati) doveva impedire che le sostanze bioattive, il cui comportamento cromatografico era già stato parzialmente determinato, permanessero in colonna per tempi troppo lunghi.

- Lunghezza d’onda del detector: 254 nm.

Come risultato si ottenevano 18 frazioni totali per run, che venivano conservate a -20 ºC e successivamente sottoposte a saggio (entro un tempo massimo di 24 ore).

Procedimento 5)

Questo protocollo era identico al Procedimento 4) descritto sopra, ma ad esso veniva aggiunto un ulteriore passaggio cromatografico in HPLC. Infatti, grazie alla purificazione mediante SPE, il lavoro si poteva concentrare su un ristretto numero di frazioni a bassa polarità (ottenute dalla cromatografia HPLC fin qui utilizzata). Nel tentativo di purificare più a fondo e di separare le componenti presenti in tali frazioni, queste venivano ulteriormente cromatografate nelle condizioni seguenti:

- Fase stazionaria: Colonna Kinetex C18;

- Fase mobile della seconda HPLC: flusso costante di 1 mL min-1, 55% solvente B da 0 a 4 minuti, seguito da un gradiente lineare dal 55 al 100% di B in 30 min, al termine del quale veniva mantenuto il 100% di B per 10 min, per una durata totale del run pari a 44 min. Solvente A = H2O bidistillata + 0,6% CH3COOH; solvente B = MeOH + 0,6 % CH3COOH.

- Lunghezza d’onda del detector: 254 nm.

La percentuale iniziale di MeOH nella seconda HPLC dunque cresceva dal 40 al 55% per non allungare troppo il tempo di permanenza in colonna delle componenti meno polari (che risultavano essere maggiormente bioattive). Ciò era motivato dal fatto che il gradiente era stato rallentato (30 min, anziché 20), allo scopo di separare le diverse componenti contenute in singole frazioni prodotte dalla prima HPLC.

Le 22 frazioni ottenute sono state conservate a -20 ºC e successivamente sottoposte a saggio (entro un tempo massimo di 24 ore).

Riferimenti

Documenti correlati

Tutti gli altri nomi invece derivano, cioè nascono, dal nome CARTA. Hanno a che fare con il mondo della carta, ma hanno un

Esso d’ora in poi starà nella radura dell’essere lasciando che esso non si sveli mai del tutto, ciò però non presuppone nessuna staticità all’interno di questo rapporto,

scrivendo dopo il prompt di Matlab il nome del file vengono eseguiti i comandi scritti nel file.. I Tutte le variabili usate in uno script sono variabili della sessione

Fonte: Società Italiana di

L’aumento di flusso attraverso la via dei polioli è considerato dannoso per una serie di ragioni: la prima riguarda l'accumulo di sorbitolo all'interno della cellula, che causa

In ogni caso il lavoro di Tobie Nathan, che ci si trovi d’accordo su tutto o no, merita di essere conosciuto e studiato, soprattutto perché egli ha messo in rilievo

➢ se fai la doccia invece del bagno consumi 4 volte meno energia e molta meno acqua: per una doccia di 5 minuti sono necessari fino a 60 litri di acqua, mentre per un bagno 150!!!!.

La percentuale di infezioni in sede di catetere (70,87%) è più elevata rispetto a quella presente in letteratura (20-30%): tale differenza potrebbe essere legata a errori dei