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Responsabilita' sociale d'impresa e Pubblica Amministrazione

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CSR:

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Riflessioni, esperienze, incontri da

“Il Salone della CSR e dell’innovazione sociale”

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15 ANNI DI CSR:

QUANTO VALE LA COLLABORAZIONE?

Riflessioni, esperienze, incontri da “Il Salone della CSR e dell’innovazione sociale”

Ottobre 2014

Codice ISBN 978-88-909186-3-6

Il volume è stato stampato nell’ottobre 2014 su carta riciclata certificata Ecolabel e con inchiostri a basso impatto ambientale.

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INDICE

IL SALONE 2014

p. 6 Gruppo promotore, Partner, Comitato scientifico

7 Le principali tappe della CSR e dell’innovazione sociale

10 Nuovi modi di vivere e di consumare (a cura di Carlo Erminero, CE&Co, Gruppo OC&M)

14 La condivisione, “nuova frontiera” della CSR

14 Processi collaborativi: come cambia il rapporto tra i diversi attori nel mercato

15 Partnership e condivisione: come si trasforma il mondo del

lavoro

15 Dalla ricerca di consenso alla partecipazione: come cambia il rapporto con l’ambiente

16 La collaborazione tra soggetti diversi: come si trasforma la cultura

16 Cambiamenti in corso e capacità di adattamento (a cura di Avanzi)

RIFLESSIONI

20 I contributi degli esperti del Comitato scientifico

20 Elio Borgonovi, Rispetto delle regole o rispetto delle persone? 22 Giorgio Fiorentini, Imprese sociali profit a rating sociale (ISPRAS):

attore del sociale reale

27 Giovanni Lombardo, Innovazione e cooperazione. Una

piattaforma per filiere sostenibili di PMI, coop e grandi imprese 30 Anna Meroni, Il design è collaborazione

32 Nicola Misani, La responsabilità sociale facilita la partecipazione

femminile al mercato del lavoro

34 Mario Molteni, Matteo Pedrini, La collaborazione tra Consigli

di Amministrazione e CSR manager per la gestione della sostenibilità delle imprese italiane

38 Paolo Ricci, La fiducia, condizione e conseguenza della

responsabilità sociale

40 Rossella Sobrero, Comunicare emozioni non solo numeri: la

nuova sfida della CSR

42 Enrico Sorano, Responsabilità Sociale d’impresa e Pubblica

Amministrazione

46 Stefano Zamagni, Conoscenza parcellizzata e progettazione

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p. 49 La voce degli studenti

50 Daniela Selloni, Fare CSR progettando servizi collaborativi:

l’esperienza di Cittadini Creativi

51 Yara Al Adib, The Power of Collaboration, Through Design

Thinking

52 Matteo Moltoni, CSR e unconventional: collaborare in modo

creativo

53 Andrea Manera, Natalia La Torre, Lo scenario istituzionale in

materia di CSR

56 Tudor Carstoiu, Giulia Bifano, La sostenibilità parte dal team 58 Il contributo degli studenti dell’Università

di Roma Tor Vergata

58 Irene Litardi, COVISION - Laboratorio sull’impresa sostenibile e

responsabile

59 Andrea Sonaglioni, Luigi Corvo, Fundraising Lab - Risorse e

Progetti per il Terzo Settore

60 Nicola Onano, Summer school - Un approccio mediterraneo alla

Social Innovation

61 Serena Pippi, Umbria Grida Terra - Prove tecniche di comunità 62 Il contributo degli studenti del Master in Social Network

Influence Design del Politecnico di Milano

62 Emilia Iuliano, Crowdsourcing da grande schermo, quando lo

spettatore diventa protagonista

63 Andrea Pagano, Greenwashing e retorica CSR ai tempi del web 2.0 63 Natalia Molchanova, CSR nell’era digitale: guadagnare le menti

per non perdere clienti

ESPERIENZE

65 Il Salone nei territori

67 CSR Gallery: la mostra digitale INCONTRI

108 Il programma culturale 113 I relatori

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Ancora una volta Il Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale si propone come occasione di aggiornamento, confronto, incontro per chi in Italia si occupi di questi temi.

Aggiornamento, con un’offerta di seminari, dibattiti, tavole rotonde, spazi dedicati alla presentazione di libri, saggi, ricerche commentate da esperti; confronto, grazie alle attività di matching tra le organizzazioni presenti; incontro, come occasione per raccogliere idee dai giovani, capire le loro attese, venire coinvolti dai loro progetti e per incontrare chi si occupa di CSR e innovazione sociale in diversi ambiti.

In questa seconda edizione il Gruppo promotore - Università Bocconi, Unioncamere, CSR Manager Network, Alleanza delle Cooperative Italia-ne, Fondazione Sodalitas, Koinètica - ha voluto mettere al centro dell’at-tenzione i processi collaborativi. Il Salone 2014 è quindi dedicato alla comprensione di un fenomeno che stiamo vivendo e che sta cambiando non soltanto il modo di lavorare di molte imprese, ma le nostre stesse vite: come collaborazione e condivisione sono diventate un fattore fondamen-tale per lo sviluppo del mercato. Ma anche come l’innovazione sociale sia indispensabile in un contesto in grande cambiamento in cui “fare rete” è sempre più importante.

La pubblicazione propone quindi una riflessione sui 15 anni della CSR e su quanto l’approccio responsabile ha influito sul comportamento collabo-rativo dei vari attori sociali. Partendo dalla Strategia di Lisbona del 2000 si cerca di tracciare un primo bilancio degli effetti positivi che la CSR ha prodotto sul mercato, nel mondo del lavoro, nell’ambiente e nella cultu-ra. Grazie al cambiamento avvenuto nei rapporti con gli stakeholder, alla spinta all’innovazione, all’energia positiva nella ricerca di soluzioni nuove a problemi antichi, la CSR ha portato risultati utili non solo per l’impresa ma anche per i suoi interlocutori e la società in generale.

Per parlare di processi collaborativi abbiamo scelto 10 parole chiave: col-laborazione, partecipazione, condivisione, interazione, scambio, fiducia, rispetto, impegno, innovazione, trasparenza. Partendo da queste parole i

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membri del Comitato scientifico del Salone hanno proposto una riflessio-ne che vieriflessio-ne presentata riflessio-nella prima parte del volume.

Ma la pubblicazione propone anche contributi diversi: dai risultati di una ricerca realizzata ad hoc per capire come stanno cambiando stili di vita e di consumo, alle riflessioni di alcuni studenti che hanno voluto dire la loro su questi importanti temi.

Infine, una parte della pubblicazione è dedicata alla sintesi dei progetti delle organizzazioni presenti al Salone inseriti nella mostra digitale, al pro-gramma culturale e alle tappe del Salone nei territori.

Il Gruppo promotore

Università Bocconi, CSR Manager Network, Unioncamere, Alleanza delle Cooperative Italiane, Fondazione Sodalitas, Koinètica

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IL SALONE 2014

Gruppo Promotore, Partner, Comitato scientifico

Giunto alla sua seconda edizione, Il Salone della CSR e dell’innovazione

sociale vede confermato il Gruppo promotore: Università Bocconi, CSR

Ma-nager Network, Unioncamere, Alleanza delle Cooperative Italiane, Fonda-zione Sodalitas, Koinètica. Quali Partner istituzionali della manifestaFonda-zione si confermano Enel e CONAI - Consorzio Nazionale Imballaggi.

Il Salone della CSR e dell’innovazione sociale conta inoltre sulla preziosa

collaborazione del Comitato scientifico composto da docenti provenienti da numerose università italiane.

Per l’edizione 2014 il Comitato scientifico è composto da: Leonardo Becchetti - Università di Roma Tor Vergata Elio Borgonovi - Università Bocconi di Milano Mario Calderini - Politecnico di Milano

Matteo Giuliano Caroli - Università LUISS di Roma Giorgio Fiorentini - Università Bocconi di Milano Marco Frey - Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Marisa Galbiati - Politecnico di Milano

Alex Giordano - Università di Salerno e Università IULM di Milano Giovanni Lombardo - Università degli Studi di Genova

Marco Meneguzzo - Università di Roma Tor Vergata Anna Meroni - Politecnico di Milano

Chiara Mio - Università Ca’ Foscari di Venezia Nicola Misani - Università Bocconi di Milano Mario Molteni - Università Cattolica di Milano Matteo Pedrini - Università Cattolica di Milano Francesco Perrini - Università Bocconi di Milano Paolo Ricci - Università degli Studi del Sannio

Gianfranco Rusconi - Università degli Studi di Bergamo Lorenzo Sacconi - Università degli Studi di Trento Rossella Sobrero - Università degli Studi di Milano Enrico Sorano - Università degli Studi di Torino Antonio Tencati - Università degli Studi di Brescia

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Salvio Vicari - Università Bocconi di Milano

Giorgio Vittadini - Università degli Studi di Milano-Bicocca Stefano Zamagni - Università degli Studi di Bologna

Le principali tappe della CSR e dell’innovazione sociale

Tracciare una seppur rapida storia dell’evoluzione della CSR è compito non facile anche perché le interpretazioni sono diverse e gli esempi di quella che definiamo oggi CSR ci portano indietro di molti anni. Soltanto per restare in Italia, si pensi ad Adriano Olivetti, Vittorio Merloni, Ernesto Illy, imprenditori illuminati che hanno dato vita a iniziative ambientali e sociali che oggi definiremmo di CSR. Da sempre quindi esistono impren-ditori che sanno guardare oltre l’ultima riga del bilancio e considerano la propria impresa anche come il frutto di rapporti positivi con tutti i porta-tori di interesse.

In una pubblicazione che ricorda i 15 anni della CSR è utile segnalare quelle che possono essere considerate le tappe principali della sua evolu-zione: documenti e iniziative che hanno stimolato la riflessione e contri-buito a far diventare cultura diffusa quello che un tempo era patrimonio di pochi illuminati imprenditori.

Il punto di partenza è da tutti considerato la Strategia di Lisbona del mar-zo 2000. Accogliendo gli echi del Libro Bianco elaborato nel 1993 dal-la Commissione Europea guidata da Delors, il Consiglio Europeo pone all’Europa l’obiettivo di diventare l’economia della conoscenza più

com-petitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica so-stenibile, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggior coesione sociale. Coerentemente con

questo obiettivo generale, la Strategia di Lisbona indica una serie di rifor-me strutturali da attuare negli ambiti dell’occupazione, dell’innovazione delle riforme economiche e della coesione sociale, riforme che i successivi Consigli Europei si occuperanno di monitorare, specificando e cadenzan-do meglio una serie di obiettivi specifici.

È sempre del 2000 la formalizzazione del Global Compact, iniziativa lan-ciata l’anno precedente dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan in occasione del World Economic Forum di Davos. Con questa iniziativa le Nazioni Unite hanno cercato di identificare un approccio con-diviso alla CSR, basato sul rispetto e la promozione di 10 principi che scaturiscono da 4 grandi temi: il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei lavoratori, la difesa dell’ambiente e la lotta alla corruzione. Le Nazioni Unite hanno inoltre creato più di 80 sedi nazionali del Global Compact,

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con l’obiettivo di dare vita a veri e propri centri propulsori della CSR, in grado anche di valorizzare le buone pratiche esistenti.

Sempre nel 2000 nascono le Linee guida dell’OCSE, un corpo di racco-mandazioni rivolto inizialmente alle imprese multinazionali, con l’obietti-vo di suggerire una condotta responsabile che consentisse di superare le difformità esistenti tra i diversi ordinamenti giuridici. L’OCSE ha nel corso degli anni modificato e ampliato queste raccomandazioni per renderle aderenti ai cambiamenti avvenuti. Oggi il loro campo di applicazione ri-guarda tutti i settori produttivi e si rivolge anche alle PMI.

È però con il Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la

responsa-bilità sociale delle imprese del luglio 2001 che l’Unione Europea avvia un

più ampio dibattito sulla CSR, con il chiaro intento di delinearne una visione condivisa. Nel Libro Verde è presente una prima definizione di CSR:

L’inte-grazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.

Ma è presente anche la declinazione dei campi di applicazione della CSR: quelli relativi alla dimensione interna (dalla gestione delle risorse umane alla sicurezza sul luogo di lavoro) e quelli relativi alla dimensione esterna all’impresa: i rapporti con i fornitori e la comunità, la costruzione di part-nership, la relazione con i consumatori etc. Il Libro Verde sottolinea anche i vantaggi competitivi che derivano dalla CSR: tra gli altri, un ambiente di lavoro più produttivo, la fidelizzazione di dipendenti e clienti, una miglior reputazione etc. Il Libro Verde ha suscitato un ampio dibattito negli altri organismi europei, che è poi sfociato nella creazione del Forum Europeo

per la CSR, un organismo di consultazione pensato come luogo di dialogo e

strumento per la standardizzazione delle pratiche esistenti. Infine, il Comi-tato delle Regioni dell’Unione ha indicato la responsabilità sociale come un tema da integrare in molte politiche e programmi dell’Unione Europea e ha raccomandato di adottare politiche di sostegno finanziario alle imprese per accelerare il processo di sviluppo della CSR.

Nel luglio del 2001 la Commissione Europea adotta la Comunicazione

Promuovere le norme fondamentali del lavoro e migliorare la governance sociale nel contesto della globalizzazione. Accanto al rispetto dei principi

dettati dagli organismi internazionali del lavoro, la Commissione indica una serie di azioni volte a sostenere le buone pratiche e il miglioramen-to della conoscenza del concetmiglioramen-to di responsabilità sociale. In particolare, aumentare lo scambio delle migliori pratiche tra imprese e Stati membri; sostenere le capacità di gestione della CSR; incoraggiare le PMI ad adotta-re strategie di CSR; rafforzaadotta-re la traspaadotta-renza delle pratiche e gli strumenti di CSR; integrare la CSR nelle altre politiche comunitarie; creare un forum plurilaterale a livello comunitario.

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Nel 2002 nasce il Multistakeholder Forum che ha l’obiettivo di migliorare

la conoscenza circa il rapporto tra CSR e lo sviluppo sostenibile, (…) facili-tando lo scambio di esperienze e di buone pratiche, riunendo gli strumen-ti esistenstrumen-ti e le iniziastrumen-tive di CSR, con un’attenzione parstrumen-ticolare alle funzioni specifiche delle PMI, (…) e discutere sulla convenienza di stabilire dei prin-cipi informatori comuni a livello europeo per le pratiche e gli strumenti di CSR. I lavori del Forum, proseguiti per circa due anni, non approdano

però a un risultato concreto, evidenziando anzi una spaccatura tra i vari membri: da un lato le ONG e le organizzazioni sindacali che rivendicava-no, come compito del Forum, quello di fissare standard obbligatori per le imprese e dall’altro il gruppo imprenditoriale che sosteneva che il fare proposte comunitarie andava oltre il mandato ricevuto.

Nel marzo 2006 la Commissione Europea adotta una seconda Comuni-cazione, in cui esprime la scelta di continuare a favorire la volontarietà dell’adozione di pratiche responsabili e promuove una Alleanza europea

per la responsabilità sociale delle imprese. All’Alleanza potranno aderire

imprese di qualsiasi dimensione senza dover adempiere ad alcun obbligo formale. L’obiettivo dell’Alleanza è assicurare una maggior visibilità alle imprese aderenti, riconoscendo loro un ruolo di capofila nella sperimenta-zione delle pratiche responsabili. La Comunicasperimenta-zione indica anche i campi prioritari su cui le imprese dovranno impegnarsi, tra i quali: innovazio-ne, creazione di competenze, pari opportunità, salute e sicurezza, tutela ambientale, coinvolgimento degli stakeholder, governance, trasparenza. Conclude l’elenco il tema oggi al centro dell’attenzione: quello della coo-perazione e della alleanza tra le imprese.

Nel 2011, con l’obiettivo di definire un nuovo approccio strategico alla CSR, la Commissione Europea adotta la nuova Comunicazione Strategia

rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di CSR. Le novità sono

molte e interessanti, a partire dalla nuova definizione di CSR che viene data nel documento: la CSR è la responsabilità delle imprese per il loro

impatto sulla società. Si tratta di una definizione importante, perché

spo-sta l’attenzione dal piano tattico (dare vita a isolate iniziative all’inter-no dell’impresa) al piaall’inter-no strategico: le varie attività di un’organizzazione sono sempre intrecciate tra loro e soltanto uno sguardo globale è capace di governare e di dare conto degli impatti dell’impresa sulla società. Nella Comunicazione viene definito un programma d’azione in 8 punti, che impegna la Commissione a sviluppare una serie di azioni grazie a cui le imprese potranno applicare politiche di CSR esplorando le opportunità per lo sviluppo di prodotti, servizi e modelli innovativi.

Dal 2000 a oggi la CSR ha contribuito al cambiamento nei rapporti tra l’impresa e i suoi stakeholder, ha spinto le organizzazioni a innovare e a innovarsi, ha prodotto un’energia positiva finalizzata a cercare soluzioni

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nuove a problemi antichi. Oggi la CSR si misura con i processi collabo-rativi: dalla co-progettazione alla sharing economy, dal crowdfunding al coworking, al crowdsourcing, dal business p2p allo stakeholder engage-ment. Temi che, insieme a molti altri, sono al centro del programma cul-turale del Salone.

Nuovi modi di vivere e di consumare

Carlo Erminero

Presentazione dei risultati della ricerca realizzata da CE&Co, Gruppo OC&M

1. Lo sviluppo di consumi solidali corrisponde all’affermazione di nuove sensibilità; non è una moda passeggera. Condivisione e sostenibilità entrano in gioco e arricchiscono l’esperienza di consumo con nuovi valori e nuovi significati.

Ogni ricerca nasce da una domanda. La domanda da cui siamo partiti era questa: ci sono generali aspettative di cambiamento nei consumi e negli stili di vita che pongano a fondamento processi collaborativi e di condivisione? Gli esempi sono tanti e molto diversi: i gruppi di acquisto solidali, le nuove modalità di condivisione dell’auto e della casa, il bike sharing, la banca del tempo, gli investimenti etici e il crowdfunding… Gli economisti fino a poco tempo fa manifestavano una certa diffidenza verso la condivisione, considerandola una “imperfezione” del sistema, attri-buibile a particolari anomalie, come l’indivisibilità dei processi o l’esistenza di monopoli naturali, oppure come una fase transitoria che sarebbe stata superata nel percorso di modernizzazione dell’economia e della società. Più recentemente si è data un’altra spiegazione: la crisi economica, la minore disponibilità di spesa per consumi, privati e pubblici, avrebbe costretto molti a elaborare strategie alternative per risparmiare, in attesa di tempi migliori. In questo c’è del vero, come la ricerca ha dimostrato. Ma sbaglieremmo a fermarci qui, ancora suggerendo che si tratti di fe-nomeni temporanei, la risposta a un’emergenza. Sbaglieremmo perché recessione o stagnazione passeranno – così speriamo – ma queste e altre nuove forme di organizzazione dei consumi continueranno a svilupparsi. La ricerca, cominciata con una domanda, è finita con una risposta, e due scoperte inattese. La risposta è molto chiara. Sì, lo sviluppo di processi collaborativi e di condivisione tra pari è riconosciuto e accolto con favore dall’opinione pubblica e sta portando importanti cambiamenti nei con-sumi e negli stili di vita degli italiani.

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hanno motivazioni molto differenziate e complesse. C’entra spesso l’ur-genza di risparmiare o l’attesa di concludere un affare vantaggioso (la motivazione prevalente nel 30% dei casi), ma c’è anche tanta curiosità e la speranza di realizzare esperienze più appaganti. C’è la perdita di interesse per una proprietà che escluda, ma c’è anche il valore cognitivo di “fare la cosa giusta” per sé e per gli altri; e c’è molto altro come ab-biamo scoperto, e assai poco di effimero.

2. Sharing Economy è una definizione forse riduttiva, e comunque comprende tante novità fra loro molto diverse. Per capire meglio conviene un approccio bottom-up: partire dai consumatori stessi e farli ragionare su casi concreti.

Sono stati testati una decina di concept di queste forme di organizza-zione del consumo ispirato a valori di condivisione, solidarietà e soste-nibilità. Per evitare fraintendimenti e risposte di pura compiacenza ogni concetto è stato descritto in termini neutrali, per quanto possibile, quel tanto che era necessario per consentire anche a chi fosse contrario di esprimersi senza problemi. Poi si è chiesto del perché del giudizio su cia-scun concetto, gli aspetti positivi e i rischi, i fastidi o le complicazioni… tutto ciò che poteva suscitare perplessità. Infine si è data una definizione del consumo condiviso e si è chiesto di commentarla, raccogliendo dap-prima le reazioni spontanee e poi i giudizi più meditati che la discussione sui singoli concept aveva facilitato. Un processo di intervista lontano dalla pratica corrente delle ricerche di opinione pubblica, perché creava conoscenza e facilitava la discussione nel suo stesso svolgimento. Tutti, ricercatori e intervistati, alla fine dell’intervista, ne sapevano qual-cosa più di prima. Il metodo giusto per fare ricerca sul cambiamento sociale.

3. Le prime conclusioni della ricerca su queste nuove pratiche di consumo solidale: scarsa penetrazione, salvo eccezioni; conoscenza diffusa ma superficiale, grande interesse e tanta voglia di saperne di più. Chi ne ha fatto esperienza è contento e ne parla volentieri. Con l’idea che “quello è il futuro”.

Quasi tutti sanno che esistono queste nuove forme di organizzazione dei consumi e di accesso a servizi in condivisione. Ne hanno sentito par-lare, ma in realtà la maggioranza ne sa poco, tranne qualche eccezione. Ne sono molto curiosi e vorrebbero saperne di più.

Pochi le hanno provate. I valori più frequenti di trial sono intorno al 5%, con punte molto più alte per gli acquisti a km zero, per gli acquisti di prodotti sfusi, non preconfezionati, e per gli acquisti di oggetti usati (valori di trial tra il 20 e il 40%).

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La lettura delle schede di descrizione dei concetti ha suscitato grande interesse per la nuova offerta. Il gradimento è risultato elevatissimo. Piace molto: 30-49%; molto + abbastanza: 80-90%. La maggioranza dei concetti testati si colloca all’interno di questi valori. Superiori di un terzo a quelli che normalmente si rilevano nelle ricerche commerciali sui nuovi prodotti per i quali si prevede un successo.

Ma c’è di più. Per la generalità dei concetti testati, anche se le differen-ze individuali sono molto forti, vale l’equivalenza: “interessanti per me personalmente” (dal 20 al 60%) e al tempo stesso “utili per il Paese e il benessere comune” (dal 30 al 50%).

La forte componente di novità deriva dalla percezione che alla base di queste proposte sta un cambiamento nelle relazioni sociali. Un cambia-mento inatteso e in una certa misura sorprendente. Per tutti (90%) è un argomento importante e se ne parla volentieri perché c’è la promessa di nuove esperienze, fondata sull’affermazione di nuovi valori.

Per chi le ha fatte, le prime esperienze sono state positive. L’esistenza di una forte componente di “passaparola” e di “advocacy” conferma le conclusioni raggiunte in altre ricerche che recentemente si sono occupa-te di “sharing economy” e di consumi sosoccupa-tenibili: il punto di svolta della diffusione prelude a uno sviluppo accelerato.

Ci siamo? Sì, la rivoluzione dei consumi è sotto i nostri occhi. La cri-si economica (in Europa) e la facilità delle interconnescri-sioni di rete (nel mondo) sono condizioni abilitanti. Ma il motore della rivoluzione sta nella diffusione di una tendenza a riconoscere che le soluzioni dei nostri problemi (e anche delle nostre paure) stanno nella capacità di immagi-nare e realizzare forme di innovazione sociale.

4. Gli attori del cambiamento sociale sono tanti, chiunque lo può diventare. Ma il successo delle nuove idee, se si creano le condizioni abilitanti, dipenderà dalla risposta di una nuova categoria di cittadini/consumatori: i “promotori” dell’innovazione sociale. Vediamo chi sono e perché.

Ci siamo proposti di misurare la desiderabilità dell’innovazione so-ciale congiunta all’idea che l’innovazione soso-ciale si possa realizza-re partendo dal basso, con l’adozione di comportamenti individuali esemplari, con la disponibilità ad impegnarsi per realizzarla. Abbia-mo individuato una trentina di variabili predittive, testate e validate su un campione di popolazione. Infine abbiamo estratto i fattori e isolato il quarto superiore, quelli che in maggior grado condividevano queste posizioni.

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Ecco i promotori dell’innovazione sociale. Un segmento importante della società italiana da cui dipenderà la diffusione delle pratiche di consumo solidale e di sharing economy di cui stiamo parlando. Il profilo sociode-mografico di questo segmento non mostra forti concentrazioni. Li tro-viamo in ugual misura al Nord come al Sud, tra gli uomini e le donne. Un po’ più presenti (piccole differenze nell’ordine di 5 punti percentuali) nei grandi centri e fra i laureati. Qualche differenza anche per età, sebbene i più forti innovatori si trovino nella fascia di età fra 30 e 40 anni. Non possiamo dire nulla dei più anziani, perché il nostro campione si ferma-va a 65 anni. Anche l’appartenenza politica non spiega molto. In tutti i partiti troviamo proporzioni molto simili di innovatori.

Questa apparente indeterminatezza si spiega con la varietà dei valori e degli atteggiamenti che sostengono la propensione all’innovazione sociale “bottom-up”. Fra i fattori considerati quattro sono risultati im-portanti:

1. Tenacia

2. Opinion leadership 3. Creatività

4. Civismo e solidarietà

I soggetti che mostrano punteggi elevati su almeno due di questi fattori hanno una elevata probabilità (85%) di far parte del segmento dei pro-motori dell’innovazione sociale. Le coppie di fattori all’opera sono molto diverse, perché la correlazione fra i fattori è bassa.

5. I “Promotori dell’innovazione sociale” possono diventare un nuovo importante target per le imprese che puntano a creare una nuova offerta facendo leva sulla disponibilità degli utenti a condividerne produzione e fruizione con i loro pari e con l’impresa stessa. Ma il marketing della sharing economy dovrà adottare nuove pratiche.

La scoperta è interessante perché suggerisce alle imprese un utile cri-terio di segmentazione della clientela per nuove proposte che facciano leva sulla “sharing economy”:

• il successo della nuova proposta sarà decretato dal segmento dei “Pro-motori dell’innovazione sociale”. La probabilità di adozione di questo segmento è più che doppia rispetto al resto della popolazione. Inoltre da questo segmento dipenderanno in gran parte passaparola e racco-mandazione

• la molteplicità dei fattori che determinano la propensione ad aderire a proposte di consumo solidale e sostenibile (sono quattro e molto diversi fra loro) lascia spazio alla scelta di “posizionamenti” alternativi

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e all’ingresso in mercati anche se fossero già presidiati da uno o due concorrenti importanti

• il segmento degli innovatori sociali è target appropriato per la creazio-ne di nuovi servizi e per testare i nuovi progetti. E in tante attività di servizio sappiamo quanto ve ne sia bisogno.

L’innovazione sociale fa bene alla società. Ma fa bene anche alle imprese? Sicuramente sì. Ma in una prospettiva in cui “la produzione diventa servi-zio e il consumo diventa esperienza”, come diceva Enzo Rullani nel 2007. Occorre quindi accettare la conseguenza che produttore e consumatore, impresa e cittadino, “non possono appartenere a mondi diversi e distanti (… ) Bisogna creare un legame abbastanza forte da consentire l’esplorazio-ne congiunta dello spazio delle possibilità”. Uno spazio che, aggiungiamo oggi, appare molto grande e promettente.

La condivisione: “Nuova Frontiera” della CSR

Collaborare, condividere, partecipare, cooperare: molti verbi e concetti che rinviano al tema dei processi collaborativi e che servono per declinarlo e raccontarlo in tutte le sue sfumature.

Se per ogni organizzazione le relazioni sono sempre più importanti, il tema dei processi collaborativi apre una nuova frontiera della CSR, la cui conseguenza forse più interessante è l’innovazione, vero pilastro della competitività. Come si sa, infatti, l’innovazione nasce essenzialmente dal Capitale Intangibile che ha nella capacità di relazione il suo fondamento. Condivisione e collaborazio-ne con gli stakeholder possono quindi essere considerati una chiave di volta che aiuta ad aprire nuove strade nel modo di essere e di fare impresa. Il Salone 2014, dedicato a questi processi, propone 4 possibili percorsi per chi voglia esplorare questa nuova frontiera della CSR: il mercato, il lavoro, l’ambiente e la cultura. Nell’ultima parte di questa pubblicazione vengono ricordati gli eventi articolati nei diversi percorsi.

Processi collaborativi: come cambia il rapporto tra i diversi attori nel mercato

Confronto, scambio, disponibilità e capacità di coprogettazione: sono questi oggi i temi più dibattuti e anche quelli più praticati dalle imprese che sanno guardare lontano.

Negli eventi di questo percorso si approfondiranno diversi argomenti: per esempio, i vantaggi che grandi imprese trovano nel sostegno di start up che sanno innovare processi e prodotti; le forme di crowdsourcing, grazie a cui è possibile chiedere in rete la collaborazione per la soluzione di spe-cifici problemi; i rapporti collaborativi tra i membri di una stessa filiera, che

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portano a una riduzione complessiva delle emissioni nell’ambiente e a un innalzamento della qualità dei prodotti etc. Oppure i rapporti collaborativi tra pubblico e privato, che nel rispetto della correttezza e della traspa-renza possono nascere tra organizzazioni che decidono di partecipare a finanziamenti di progetti pubblici per poterne godere benefici.

Ma si discuterà anche di come i processi collaborativi stanno modificando i rapporti tra imprese for profit e organizzazioni non profit. Oggi la strada che si sta percorrendo abbandona la semplice erogazione di un contribu-to economico per realizzare progetti in modo congiuncontribu-to, condividendo obiettivi e nell’ottica di un paritetico rispetto delle competenze.

Partnership e condivisione: come si trasforma il mondo del lavoro Anche il modo del lavoro sta attraversando un profondo cambiamento. E, anche qui, il motore si chiama condivisione, cooperazione o con ogni altro termine che fa riferimento alla partnership.

Fenomeni di condivisione che possono essere profondi, come nelle forme di jobsharing in cui due lavoratori si impegnano ad adempiere solidalmen-te a un’unica e identica obbligazione lavorativa. Una forma di lavoro che può diventare preziosa quando si debba governare in modo responsabile la crisi di un’impresa, ma che può contribuire anche a una condivisione fa-miliare di un posto di lavoro. Ma esistono anche altre forme di condivisio-ne: per esempio, il coworking, una modalità di lavoro che si è sviluppata a partire dall’uso di spazi comuni, ma che poi si è trasformata in un vero e proprio stile lavorativo basato su confronti e incontri da cui possono na-scere nuove occasioni di lavoro. Perché conoscersi e parlarsi porta nuove sinergie e migliora la possibilità di scambio. Un modo di lavorare che offre anche vantaggi economici, perché non è necessario affittare un ufficio, ma è possibile affittare anche soltanto una scrivania, una sala riunioni, un servizio di segreteria.

Oggi i processi di lavoro si sono modificati anche grazie ai social media, luoghi di condivisione per eccellenza e strumenti di promozione per an-tiche e nuove attività. Proprio grazie alla rete stanno infatti emergendo nuove figure professionali.

Dalla ricerca di consenso alla partecipazione: come cambia il rapporto con l’ambiente

L’ambiente, da alcuni chiamato lo stakeholder silenzioso, si sta facendo sentire in modo preoccupante. I cambiamenti climatici, per esempio, sono una evidenza diffusa che coinvolge istituzioni, cittadini e imprese. Di fron-te all’esigenza di preservare questo bene comune, sono molfron-te le iniziative di condivisione che possono essere e che sono messe in atto. Da quelle che coniugano risparmio e rispetto per l’ambiente e nascono dalla volontà dell’impresa e dalla partecipazione dei dipendenti a quelle che si fondano sulla partecipazione dei cittadini.

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Ma anche progetti e programmi per la riduzione delle emissioni di CO2, messi in atto dall’UE che mirano allo sviluppo delle tecnologie smart e alla riqualificazione del patrimonio urbano e dell’edilizia residenziale; il sostegno fornito alle start-up che centrano la propria attività sullo svilup-po di soluzioni per la green-economy; iniziative che svilup-pongono al centro dell’attenzione sia la possibilità di riciclo e di riuso dei materiali di scarto delle filiere attraverso forme di eco-design, sia la riduzione dello spreco e la gestione delle eccedenze. Un fenomeno recente e in forte sviluppo è quello del miglioramento del verde urbano e del territorio locale, re-alizzato attraverso piantumazioni sostenute dalle imprese che vogliono compensare le proprie emissioni di CO2. Una serie di temi collaborativi che portano in molti casi anche alla nascita di nuove imprese.

La collaborazione tra soggetti diversi: come si trasforma la cultura L’arte e la cultura non sono soltanto ambiti d’intervento in cui realizzare azioni di CSR, ma asset intangibili, capaci di influenzare il sistema di valori dell’impresa e di stimolare comportamenti socialmente responsabili. La cultura oggi è una scelta strategica per molte imprese perché con-tribuisce a rafforzare la reputazione, a sviluppare attività di marketing relazionale, a creare nuove e qualificate opportunità di comunicazione sui media. Ma i rapporti di collaborazione tra vari soggetti a favore della cultura non si esauriscono nel fornire un sostegno economico a iniziative pubbliche. Ci sono, ad esempio, gli interventi delle imprese nella scuola per contribuire allo sviluppo di specifiche competenze, l’offerta di stage a ragazzi e a ragazze che frequentano istituti del territorio etc.

Sono in crescita le attività di CSR rivolte al territorio su cui l’impresa opera: un trend che sottolinea quanto le aziende stiano cercando di migliora-re il loro community footprint (l’indicatomigliora-re cmigliora-reato per misuramigliora-re l’impatto sociale ed economico delle attività di business di un’impresa su persone, comunità e territorio, economia locale).

E da questo punto di vista gli interventi di partnership culturale tra l’im-presa e i diversi stakeholder stanno diventando sempre più importanti.

Cambiamenti in corso e capacità di adattamento

a cura di Avanzi

Le pratiche di economia collaborativa stanno modificando il modo in cui molti beni e servizi vengono fruiti. In alcuni casi, hanno inventato nuovi bisogni e creato mercati che prima non esistevano. Secondo molti osser-vatori, siamo di fronte ai primi segni di una rivoluzione. Di questi cam-biamenti si è detto e scritto molto. Il fenomeno è stato osservato in tutte le sue sfaccettature. Ma l’aspetto a oggi forse ancora poco investigato è quello legato all’influenza che sta esercitando sui tipici modelli di business

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capitalistici. Da un lato, è evidente che le imprese “tradizionali” non po-tranno non tener conto delle trasformazioni in corso. Tuttavia, la doman-da interessante è: le imprese riusciranno a comprendere, digerire e quindi far propri questi modelli alternativi o invece, proprio perché tali, essi sono incompatibili con le logiche tipiche del business come siamo stati abituati a vederlo e quindi, in ultima analisi, rappresentano una minaccia? Non c’è dubbio sul fatto che molti dei più affermati esperimenti di eco-nomia collaborativa siano nati e si siano diffusi proprio in quanto en-fatizzavano l’aspetto di “alternatività” rispetto al sistema dei prodotti e dei servizi offerti dalle imprese. Il loro tratto distintivo, infatti, è la disintermediazione, resa possibile dalle tecnologie digitali: se posso tro-vare direttamente risposta ai miei bisogni, scambiando con soggetti a me simili, non ho più bisogno di agenzie, fornitori, mediatori. Posso fare da solo – o meglio, posso mettermi in relazione con altri e quindi fare a meno dei servizi delle imprese che prima gestivano oligopolisticamente la mia domanda. Col social lending, non servono le banche; col couch

surfing, non servono più alberghi e agenzia di viaggio; e così via. In

pratica, viene messo in discussione il ruolo di quelle imprese che in un determinato settore si sono guadagnate una posizione e che da questa traggono una rendita.

Da questo punto di vista, la sharing economy può apparire come un mo-dello partecipativo e anticapitalista. Naturalmente, è tutto da dimostrare che il modello di Uber (solo per fare un esempio) sia più democratico di quello dei tassisti – ma certamente dà l’impressione di scardinare un siste-ma chiuso e autoreferenziale e di offrire nuove possibilità di scelta. Essa, infatti, secondo una delle sue definizioni più accettate, è “il complesso di pratiche e modelli che, attraverso la tecnologia e la comunità di pari, con-sentono a persone e aziende di condividere l’accesso a prodotti, servizi, esperienze”.

Le pratiche di sharing economy, come obiettivo esplicito o come conse-guenza indiretta, producono risparmi economici, riduzione delle ester-nalità e dei costi ambientali e sociali, maggiori opportunità di accesso a beni e servizi, flessibilità di utilizzo, oltre a benefici di carattere emotivo e relazionale. Tutti questi elementi positivi ne stanno appunto facendo un fenomeno significativo, ancora più profondo di quanto non dicano i semplici numeri, proprio perché esce da una logica quantitativa, ab-bracciando un approccio qualitativo. Ma anche limitandosi a guardare i numeri, il social lending produce un giro di affari di 5 miliardi di dollari, il car sharing di 3,3 miliardi di dollari solo negli USA, il couch surfing è oggi praticato da 3 milioni di persone in quasi tutti i Paesi del mondo, il mercato dei beni affittati tra privati vale più di 26 miliardi di dollari

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e ogni mese sono 2,2 milioni le persone che utilizzano servizi di bike

sharing.

E siamo solo all’inizio: secondo la rivista Forbes, la crescita del giro d’affari connesso a servizi di sharing economy è stimata al 25% l’anno. In una situazione economica stagnante, possono le imprese tradizionali permet-tersi di ignorare un simile fenomeno? E se, come appare ovvio, non pos-sono farlo, come è più opportuno reagire?

Nel settore automobilistico, molti operatori hanno compreso che è tempo di passare dalla logica della proprietà a quella dell’accesso al servizio: un cittadino non necessariamente deve possedere un’auto-mobile per muoversi; può anche condividerne una di proprietà di un terzo e servirsene quando gli occorre. Ecco allora che Peugeot, BMW, General Motors, Daimler creano i servizi MU, DriveNow, Relay Rides, Car2Go. In altri ambiti, Google investe per introdurre la possibilità di condividere beni tra le persone del proprio network; Walmart sta va-lutando di chiedere ai propri clienti di trasformarsi in corrieri per la consegna degli ordini fatti online; Zipcar, operatore pioniere dei servizi di car sharing, è stato acquistato da Avis, la multinazionale dell’auto-noleggio; eBay si è inventato una partnership con Patagonia creando un marchio di distribuzione di giacche, felpe, scarpe e altri oggetti di seconda mano.

Oltre a difendersi dalle conseguenze di un cambiamento inesorabile, queste imprese sembrano aver compreso che l’economia della colla-borazione consente di valorizzare una risorsa fondamentale, quale il capitale relazionale. Non solo esso è un elemento di fidelizzazione del-la clientedel-la, ma soprattutto un’opportunità di generazione di nuove soluzioni.

Proprio nella capacità di costruire relazioni sta il legame con i temi della responsabilità sociale d’impresa. Essa si fonda proprio sull’ascolto e dialogo con gli stakeholder, al fine di incorporare nelle strategie e nelle pratiche or-ganizzative le loro legittime aspettative. Ma che cos’è tutto questo, se non creazione e mantenimento di capitale relazionale?

La sharing economy può rappresentare dunque un’occasione di crescita per grandi e piccole imprese italiane, attraverso partnership tra organiz-zazioni tradizionali e piattaforme collaborative, aumentando la capacità di collaborare e riducendo costi e impatti, non solo ambientali, generati dai consumi economici tradizionali. Si tratta per le imprese di identificare nuovi prodotti e servizi, o di ottimizzare gli esistenti, mettendo asset sot-toutilizzati a disposizione di bisogni (sociali) insoddisfatti in una logica di condivisione e di partenariato.

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Per essere credibili, in questa nuova dimensione, le grandi imprese hanno l’opportunità di rilanciare un valore chiave nel rapporto con i cittadini/ utenti: la fiducia. È proprio su questo che si basa il rapporto collaborativo: la fiducia è la moneta di scambio intangibile che alimenta l’economia collaborativa. La reputazione di un’organizzazione è un capitale da cui dipende l’appartenenza a una comunità. Abbiamo già trasformato da un pezzo l’economia dell’immagine nell’economia della credibilità. Per que-sto, l’affermarsi in modo strutturato di sistemi collaborativi è oggi un’im-portante occasione per un rilancio forte dei temi di sostenibilità d’impresa.

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RIFLESSIONI

I contributi degli esperti del Comitato scientifico

Una serie di riflessioni offerte dai membri del Comitato scientifico par-tendo, in alcuni casi dalle parole della sharing economy: collaborazione, partecipazione, condivisione, interazione, scambio, fiducia, rispetto, im-pegno, innovazione, trasparenza.

Rispetto delle regole o rispetto delle persone?

Elio Borgonovi, Università Bocconi

elio.borgonovi@unibocconi.it

Il dibattito che è in essere da almeno 10-15 anni, anche se si è accentuato dopo la crisi scoppiata nel 2007, sulla ricerca di un nuovo modello eco-nomico, di una nuova cultura di management e di nuove strategie per le aziende, ha posto l’accento in gran parte sul rispetto delle regole.

Molte analisi riferite al nostro Paese, e in generale ai paesi dell’Europa mediterranea, considerano il mancato rispetto delle regole come una, se non la maggior causa del lento sviluppo e delle difficoltà economiche nel confronto con i Paesi del centro-nord Europa, con gli USA, il Giappone e gli altri paesi in rapido sviluppo. L’evoluzione della stessa concezione di CSR e più recentemente di CSV, considera centrale il tema del rispetto del-le regodel-le di trasparenza e accountability verso tutti gli stakeholder. Questo approccio tuttavia appare parziale e limitato. Molti studiosi e opinionisti (non solo economisti, sociologi e politologi) auspicano da anni riforme strutturali che sono inoltre suggerite (quando non imposte in modo espli-cito o impliespli-cito) da UE, BCE, FMI e da vari organismi internazionali con “lettere di agosto”, rapporti, documenti ufficiali o ufficiosi, interviste sui quotidiani e altri strumenti di comunicazione.

Tutti però dimenticano una cosa molto semplice, ossia che le riforme strutturali richiederebbero anche un ripensamento, questo sì strutturale, delle teorie sulle quali si sono basate le politiche economiche di almeno due decenni. Come ha dichiarato uno dei più seguiti policy maker eu-ropei, che si preferisce non citare, “gli strumenti di politica economica,

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compresi quelli di governo della moneta e del credito che conoscevamo si sono dimostrati inefficaci per affrontare la crisi sistemica”. Al riguardo na-sce spontanea una domanda: se le teorie e gli strumenti conosciuti si sono dimostrati inefficaci, perché si continuano a elaborare e proporre le stesse politiche, non importa se di austerità (come in Europa) o di immissione di liquidità nel sistema (come negli USA, UK e Giappone)? Una possibile risposta consiste nel segnalare che forse studiosi, policy maker, finanzieri, imprenditori, manager, hanno perso la capacità di ritornare all’origine. Il “ritorno al futuro” dovrebbe perciò significare innanzitutto rispetto per la funzione dell’economia e delle sue relazioni fondamentali. L’economia viene definita come “attività che, tramite il miglior utilizzo di risorse li-mitate, risponde ai bisogni delle persone”. Di conseguenza, quando il ri-spetto delle regole non consente di aumentare la capacità di rispondere ai bisogni delle persone, si dovrebbe concludere che si è in presenza di una dissociazione tra fini naturali e strutturali dell’economia e conseguenze effettive delle scelte degli operatori economici. Ciò accade ogni volta che l’attività di “intermediazione” non consente di aumentare l’utilità reale per i consumatori finali ma produce solo un accumulo di ricchezza da par-te di chi sfrutta la propria posizione per par-tenere bassi i prezzi dei produttori (si vedano i prezzi di acquisto di molti beni dell’agricoltura) e di elevare i prezzi finali per i consumatori. Chi, tramite le teorie sulla catena del valore, estrae il massimo valore per sé, minimizzando il valore per gli altri soggetti della catena, formalmente rispetta le regole ma sostanzialmente non rispetta le persone.

Il fenomeno dell’intermediazione, che “genera o aumenta solo il valore monetario o virtuale dei beni aggiungendo poco o nulla al valore reale”, è aumentato in misura esponenziale con l’economia della finanza che crea “valori virtuali” senza contribuire all’espansione dell’economia reale, ossia di beni e servizi utili per le persone. La funzione originaria della mo-neta, del credito e della finanza è quella di rendere più flessibili i processi di produzione, distribuzione e consumo della ricchezza e di anticipare investimenti in grado di generare ulteriore ricchezza. Ma se i “merca-ti finanziari” invece di rispondere a questa esigenza sono governa“merca-ti da un numero assai limitato di grandi investitori (non importa se individui o cosiddetti investitori istituzionali) che condizionano le politiche di Stati e addirittura di intere aree geoeconomiche, appare legittima quella che potrebbe essere considerata “l’obiezione di coscienza con riguardo al ri-spetto delle regole”.

Molti affermano che la frontiera avanzata della CSR è quella che incor-pora tale approccio nella strategia aziendale e che prevede una strategia governata dalla cultura secondo cui il valore viene creato e distribuito con-giuntamente da diversi stakeholder. Si potrebbe dire che esiste uno stadio

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ulteriore, quello secondo cui chi sceglie una determinata attività economica dovrebbe sempre domandarsi quale potrebbe essere l’effetto “finale” delle proprie scelte sulle persone indipendentemente dal fatto che siano consu-matori, lavoratori, risparmiatori. In un sistema economico che si è stratifica-to secondo logiche e regole tra loro non coordinate e non coerenti, sempre più spesso accade che il rispetto di tutte le regole tramite cui si trasmettono gli impulsi di certe decisioni comporti un risultato finale negativo.

Infine, è appena il caso di ricordare che le leggi dell’economia non sono certo uguali a quelle della chimica, della fisica e in generale delle scienze naturali ma rappresentano regole che guidano le relazioni tra persone. Si tratta perciò di regole che sono definite da persone sulla base delle proprie concezioni antropologiche, filosofiche, religiose, sociali. Inoltre, le regole influenzano in-dubbiamente i comportamenti, ma ciò non accade in modo deterministico o secondo principi probabilistici, in quanto le persone rispettano, non rispetta-no, rispettano solo in parte le regole in rapporto ai propri valori e alle proprie esperienze. Quindi, ancora una volta occorre domandarsi se il ripensamento strutturale non debba significare più che rispetto delle regole, ricostruzione e rispetto dei valori umani e di civiltà che devono stare alla base della con-vivenza in una società che vuol dirsi progredita, democratica, inclusiva e si potrebbero aggiungere tanti altri aggettivi. Al riguardo mi piace ricordare quanto mi ha detto alcuni mesi fa un collega: “Ho analizzato le mission dei codici etici di tutte le società quotate in borsa e ho trovato tutti sostantivi meno uno, coerenza”. Se vogliamo essere coerenti, occorre dire che si avrà una CSR piena e completa quando ritorneremo a rendere centrale il concetto di rispetto della persona, che è più ampio e quindi include anche quello di rispetto delle regole ma non si esaurisce in esso.

Elio Borgonovi - Professore Ordinario di Economia e Management delle

Ammini-strazioni Pubbliche e Presidente del Cergas (Centro di Ricerca sulla Gestione dell’As-sistenza sanitaria e Servizi Sociali) dell’Università Bocconi. Dagli inizi degli anni ’70 si è occupato di temi di bilancio sociale e di indicatori sociali, tema che ha poi ripreso in termini più organici e sistematici, a partire da metà degli anni ’90 quando ha svolto presso l’Università Bocconi il ruolo di Coordinatore di un gruppo interdisciplinare di docenti sul tema della responsabilità sociale.

Imprese sociali profit a rating sociale (ISPRAS): attore del sociale reale

Giorgio Fiorentini, Università Bocconi

giorgio.fiorentini@sdabocconi.it

L’innovazione concettuale è che anche le imprese profit possano essere considerate sociali qualora ovviamente abbiano raggiunto un livello di

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at-tività sociale che non sia solo di tipo estetico e ornamentale. Le imprese sociali profit a rating sociale hanno una formula imprenditoriale di equilibrio economico-sociale di successo, che supera l’antinomia fra asset economico e sociale. Riprendendo anche alcuni concetti olivettiani “finalizzati a crea-re un’impcrea-resa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo” e a

realizzare “l’industria sociale autonoma”,1 in una logica di bene comune

la cui proprietà era condivisa fra lavoratori, enti territoriali, imprenditori, si auspicava “non solo di abolire quelle che si sarebbero poi dette le rendite parassitarie”, ma di ridurre gli stessi profitti, quei superprofitti [...] che esal-tavano la distanza tra le classi sociali”.2

IMPRESE SOCIALI

IMPRESE SOCIALI NON PROFIT

DI SISTEMA IMPRESE SOCIALI NON PROFIT EX LEGE (ibridi) IMPRESE SOCIALI PROFIT A RATING SOCIALE

In sintesi oltre alle imprese sociali non profit “di sistema”, alle imprese so-ciali non profit “ex lege” possiamo annoverare, nel concetto di imprese sociali, anche le imprese sociali PROFIT a rating sociale.

Da ormai diversi anni le imprese sociali profit a rating sociale sono oggetto di attenzione da parte dei mercati finanziari; in un primo tempo per il tra-mite della finanza responsabile (detta anche finanza etica) ma ora anche da parte della finanza tradizionale e non aggettivata. Questo sviluppo ha fatto sì che diverse tipologie di investitori, istituzionali e retail, abbiano iniziato a orientare i propri investimenti sulla base di indicazioni etiche, oltre che, ovviamente, finanziarie. Con sempre maggiore frequenza gli investitori, nel corso dei processi decisionali di asset allocation, prendono in considerazio-ne gli impatti socio-ambientali delle imprese e la loro capacità di produrre esternalità positive e negative per le persone e per l’ambiente: tali fattori vanno così a integrare le valutazioni di carattere puramente finanziario nel corso delle scelte di acquisto o vendita di un titolo.

Questa esigenza informativa da parte degli investitori deriva da diversi fat-tori: tra questi riveste un’ampia rilevanza la necessità di allocare una certa eticità morale ai propri investimenti e accertare che questi ultimi non sup-portino società che operano in “settori controversi” come, per esempio, quello delle armi, del gioco d’azzardo o del tabacco etc. Le imprese sociali profit a rating sociale non godono di alcun vantaggio fiscale; se volessero fruire di vantaggi fiscali dovrebbero abbandonare la formula profit e diven-tare imprese sociali non profit “di sistema” (da escludere, considerando

1 F. NOVARA, R. ROZZI, R. GARRUCCIO (a cura), Uomini e lavoro alla Olivetti, B.Mondadori, 2005,

pag. 21-25.

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l’esigenza di redditività degli shareholder) oppure imprese sociali non profit “ex lege” con le modifiche della proposta Bobba-Lepri (se saranno accetta-te) inerenti il d.lgs.155/06.

Le imprese sociali profit a rating sociale sono valutate da un analista ESG che, per dare informazioni dettagliate e precise, deve basare il proprio la-voro di ricerca su un ampio numero di fonti dalle quali trarre informazioni. Il documento più importante per l’analista ESG è il bilancio sociale, che è il principale strumento utilizzato dalle imprese per comunicare gli impatti ambientali e sociali derivanti, direttamente o indirettamente, dalle proprie attività produttive. In particolare, la rendicontazione sociale è funzionale a valutare quanto il comportamento dell’impresa profit sia più o meno teso al soddisfacimento delle legittime attese, non solo economiche, di tutti gli stakeholder coinvolti dall’operato aziendale. Lo strumento va quindi a colmare i limiti delle forme tradizionali di reporting, le quali difficilmen-te possono cogliere le caratdifficilmen-teristiche legadifficilmen-te al profilo socio-ambientale aziendale.

Insieme al bilancio sociale, l’analista ESG considera tutti i documenti societari, come il bilancio d’esercizio, la relazione di corporate

gover-nance e la relazione sulla remunerazione: l’analisi viene estesa anche

ai documenti dei precedenti esercizi. Nel corso della propria attività di ricerca, l’analisi ESG non si basa solo su fonti aziendali ma deve con-centrarsi anche su informazioni raccolte da soggetti terzi: svolgono un ruolo di particolare rilevanza, in questo ambito, le opinioni dei gruppi di pressione esterni e dei portatori di interesse delle imprese profit ana-lizzate, come ONG, associazioni ambientaliste, rappresentanze sindacali e istituzioni internazionali. È importante considerare tali fonti esterne all’azienda per avere un quadro preciso degli accadimenti avvenuti, in particolare in caso dell’emergere di controversie. I criteri che possono definire il rating di una impresa sociale profit sono proposti o gestiti da società di rating che comunicano al cliente la totalità dei criteri di analisi, positivi e negativi, a disposizione: il cliente poi, in base alla propria attivi-tà, sensibilità e identiattivi-tà, sceglierà i criteri più opportuni e coerenti con le proprie esigenze. È importante quindi che il cliente abbia perfettamente coscienza dei criteri considerati e che questi siano comunicati in modo assolutamente trasparente.

Criteri di valutazione del rating sociale

Un’impresa sociale profit a rating sociale potrà essere così definita, e come tale accreditata, se vengono presidiate le varie aree di analisi con le relative tematiche prese in considerazione per ciascuno dei modelli di analisi indivi-duati in precedenza.

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criteri tradizionalmente considerati sono i seguenti: • ambientale

attività controverse: coinvolgimento nei settori dell’energia nucleare, dei

pesticidi, degli OGM, petrolifero e minerario

episodi controversi: accuse o sanzioni per danni ambientali e

inquinamen-to • sociale

attività controverse: coinvolgimento nei settori delle armi convenzionali e

non (es. mine antiuomo), del gioco d’azzardo, del tabacco, degli alcolici e della pornografia

episodi controversi: accuse o sanzioni per violazioni dei diritti umani

(lavo-ro forzato, lavo(lavo-ro minorile) e dei lavoratori • governance

episodi controversi: accuse o sanzioni per corruzione e frode.

Nel contesto della seconda metodologia individuata e cioè analisi di tipo “positivo”, i criteri tradizionalmente considerati nell’assegnazione di un rating socio-ambientale sono i seguenti:

• ambientale

performance di processo: consumi e scarichi idrici, emissioni in atmosfera,

consumi energetici, gestione e produzione di rifiuti, approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili

performance di prodotto: sviluppo di prodotti a impatto ambientale

posi-tivo, innovazione ambientale

sistemi di gestione: certificazioni ambientali, monitoraggio ambientale,

rapporti con le associazioni ambientaliste • sociale

dipendenti: pari opportunità, salute e sicurezza, formazione, politiche

occupazionali e sindacali, politiche retributive, strumenti di conciliazione vita-lavoro e di welfare aziendale, soddisfazione percepita

clienti: qualità e sicurezza dei prodotti, politiche di pricing, gestione dei

re-clami, soddisfazione percepita, rapporti con le associazioni dei consumatori

fornitori: tempestività dei pagamenti, selezione e monitoraggio

socio-am-bientale

comunità locali: attività filantropiche, supporto a progetti sociali,

campa-gne di cause related marketing, rapporti con le ONG • governance

indipendenza e trasparenza dei processi decisionali: numero di

ammini-stratori indipendenti in Consiglio di amministrazione e all’interno dei Co-mitati interni; separazione tra Presidente e Amministratore Delegato,

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qua-lità del rapporto con gli azionisti; piani di remunerazione del management

sistemi di gestione: controllo interno e gestione dei rischi; trasparenza

fi-scale; politiche anti-corruzione; contributi a partiti politici; attività di lob-bying; gestione dei conflitti di interesse.

Ovviamente il modello di analisi scelto può variare da diversi punti di vista in base alle caratteristiche qualitative e quantitative della metodologia offerta dalla società di analisi socio-ambientale.

In primis, ciascuna area di analisi può essere valutata in modo diverso: ad

esempio, la vasta tematica del rispetto delle pari opportunità in azienda ha diverse sfaccettature e può essere quantificata numericamente in base al livello di presenza femminile nel Consiglio di amministrazione o in base alla disparità remunerativa tra uomini e donne all’interno del medesimo livello gerarchico, oppure ancora in base alla qualità degli strumenti di conciliazio-ne vita-lavoro a disposizioconciliazio-ne dei dipendenti.

Può variare, inoltre, il livello di severità applicato dall’analista: ad esempio, un modello di rating potrebbe considerare soddisfacente un ammontare di investimenti in efficienza energetica da parte della società analizzata di 20.000 euro l’anno, mentre un secondo potrebbe ritenerlo non elevato o addirittura insufficiente (ovviamente è necessario decidere quale percentua-le minima di investimenti si deve effettuare rispetto al valore di produzione). Un modello, inoltre, potrebbe ritenere grave una sanzione amministrativa derivante da un’accusa di corruzione superiore a 100.000 euro, mentre un altro potrebbe ritenerla non eccessivamente controversa.

I criteri, inoltre, possono essere calcolati in modo diverso anche dal punto di vista dei modelli statistici applicati, tramite l’assegnazione di punteggi percentuali (da 0% a 100%) o assoluti (ad esempio da 0 a 10 o da -30 a +30). Varia, inoltre, anche il metodo di ponderazione applicato sia tra i diversi criteri, sia tra le tre aree di analisi individuate in precedenza: alcuni clienti possono scegliere, ad esempio, una ponderazione del 33,3% per tutte e tre le aree di analisi, mentre altri potrebbero considerare un’area più importante delle altre, assegnando quindi un livello del 50% a quest’ultima e del 25% alle altre due.

Nell’ambito di tutte le questioni qualitative e di carattere statistico, rivesto-no grande importanza la sensibilità circa la severità da applicare al modello: è quindi fondamentale, in tale fase, l’accompagnamento della società di rating, di modo da avvicinare il servizio quanto più possibile ai suoi bisogni e supportare il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Gli approcci che caratterizzano l’analisi socio-ambientale e di governance, oltre alle diversità a livello metodologico e statistico, hanno un range di flessibilità relativa alla scelta della soglia di accettabilità: è infatti a

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discrezio-ne dell’investitore scegliere il livello minimo di punteggio ESG considerato come sufficiente per certificare l’eticità dell’impresa analizzata. Ipotizzando una metodologia di calcolo che preveda l’assegnazione di un punteggio en-tro il range 0-100%, è infatti possibile che alcuni investitori, che applicano livelli di severità diversi tra di loro, possano scegliere soglie minime differen-ti. Ci possono essere quindi investitori che valutano accettabile un punteg-gio al di sopra del 50% e altri che invece ritengono necessario investire solo in imprese che ottengono, ad esempio, almeno un rating dell’80%.

Tale discrezionalità aggiunge complessità all’analisi socio-ambientale, che potrebbe essere quindi percepita dall’esterno come soggettiva e autorefe-renziale, ma comunque struttura, in modo inequivocabile, un trend minimo e accettabile per la concettualizzazione stabile dell’impresa sociale profit a rating sociale. Certamente sarebbe auspicabile, da questo punto di vista, la creazione di uno standard qualitativo e quantitativo condiviso in modo ampio e diffuso (e gestito da una entità terza non profit), che determini e fissi alcuni requisiti minimi, soddisfatti i quali un’impresa possa essere consi-derata come “responsabile” e definibile come impresa sociale. In mancanza di ciò, ma assumendo l’orientamento stabile al sociale da parte del profit, è necessario insistere con il perfezionamento dei modelli di analisi ESG, con l’obiettivo di rendere gli stessi maggiormente comparabili tra di loro e indicativi dell’effettiva responsabilità sociale dell’impresa valutata. La ten-tazione di non riconoscere come impresa sociale profit l’impresa che non abbia raggiunto la perfezione modellistica di tale orientamento aprirebbe la strada alla solita e facile via d’uscita per non incentivare questa indispen-sabile formula imprenditoriale e continuare a perpetuare la logica del per-fezionismo, spesso e artatamente adottato per giustificare l’immobilismo.

Giorgio Fiorentini - Docente di Management delle imprese sociali non profit e profit Università Bocconi. Direttore scientifico del Master universitario in Management delle Aziende Non Profit, Cooperative e Impresa Sociale della SDABOCCONI; responsabile area Imprese Sociali e Non profit del Cergas (Centro di Ricerca sulla Gestione dell’As-sistenza sanitaria e Servizi Sociali) di cui è stato tra i fondatori.

Innovazione e cooperazione. Una piattaforma per filiere sostenibili di PMI, coop e grandi imprese

Giovanni Lombardo, Università degli Studi di Genova

giovanni.lombardo@unige.it

Nella storia, un fattore che ha contribuito a migliorare il tenore di vita delle persone è costituito principalmente dall’innovazione. Innovare conferisce alle organizzazioni una forza motrice che, grazie alla realizzazione di nuo-ve idee, tecnologie e prodotti, consente rivoluzioni industriali, crescita e spesso un miglioramento del benessere. Ne sono un esempio le imprese

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americane che hanno reagito alla globalizzazione e alla concorrenza cinese: l’industria USA mantiene tassi di crescita costanti e dal ’70 a oggi ha rad-doppiato la propria produzione. Si tratta tuttavia della produzione di beni di alto livello, non destinati al consumo, quali aeroplani, macchinari industriali, apparecchiature mediche d’avanguardia, e non di attività manifatturiere e produzione di beni di consumo comuni. Grazie al progresso tecnologico le fabbriche americane oggi risultano più efficienti rispetto al passato e per produrre la medesima quantità di beni impiegano meno manodopera. Uno studio recente di Bloom, Drava e Van Reenen ci aiuta a comprendere anche che il mantenimento di alti tassi di produzione industriale USA si è reso possibile grazie all’aumento degli scambi commerciali con i Paesi in via di sviluppo: la concorrenza, infatti, ha impresso una accelerazione nel ritmo di aggiornamento tecnologico delle imprese tradizionali. Le imprese esposte alla concorrenza cinese che hanno reagito aggiornando la propria tecnolo-gia con nuovi computer, investimenti in ricerca e sviluppo, creazione di nuo-vi brevetti e renuo-visione delle strategie gestionali hanno cavalcato le minacce esterne, giungendo a un incremento della produttività. Parallelamente le imprese con processi tecnologicamente poco avanzati, minore capacità di innovazione, minori investimenti nell’informatizzazione sono giunte spesso alla chiusura e i lavoratori non qualificati sono stati via via emarginati a discapito dei laureati.

Nei Paesi occidentali la produzione manifatturiera locale resta limitata; il successo si mantiene soltanto se un bene viene percepito come qualcosa di speciale, diverso dalla massa (strategia di differenziazione). È il caso della American Apparel: con una enorme fabbrica d’abbigliamento in Norda-merica e 5000 addetti a Los Angeles, sottolinea che i dipendenti vengono pagati decorosamente e che la produzione è 100% USA. Il suo successo tra giovani consumatori istruiti e attenti alla moda deriva dal fatto che la produzione e confezionamento in USA sono un’eccezione. Il sovrapprezzo copre i più elevati costi di produzione, ma se tutti i concorrenti tornassero a produrre in USA verrebbe meno il concetto di differenziazione, il premium

price e il vantaggio competitivo. I Paesi in via di sviluppo hanno conosciuto

stagioni di successo in quanto inclini a una maggiore flessibilità. Molta ma-nodopera, infatti, evita riprogrammazioni onerose di macchinari e le perso-ne sono le “macchiperso-ne” più efficaci perso-nei cambiamenti repentini dei piani di produzione.

Come riproporre oggi innovazione nei Paesi occidentali e come mantenere posti di lavoro? È proprio nel settore dell’innovazione che gli impieghi si stanno moltiplicando. Nel settore tessile e nelle produzioni tradizionali i po-sti di lavoro sono in decremento, relegati al mero design e marketing, ma il design e la progettazione innovativa, lo studio di nuovi mezzi di locomo-zione ibridi, l’efficientamento energetico e i sistemi di immagazzinamento dell’energia, le tecnologie “green” e le produzioni sostenibili dal punto di

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vista socio-ambientale sono invece sempre più richiesti dalle grandi impre-se; sia per motivi di risparmio di costi di materie ed energia, sia per diffe-renziarsi e reagire alla concorrenza dei Paesi meno sviluppati e più flessibili. In Italia, a oggi, la flessibilità si è ricercata con la micro e piccola dimensione, contratti precari, assenza deliberata di strategie di crescita, con conseguen-te perdita dei collegamenti con il comparto degli appalti e i finanziamenti europei. Come ricorda il recente saggio di E. Moretti, La nuova

geogra-fia del lavoro, “per rimanere piccoli non bisogna investire in innovazione”.

Questa scelta ha portato a un invecchiamento del panorama industriale e alla dismissione di settori strategici. Olivetti e la tecnologia informatica ceduta all’estero costituisce un segno eclatante, ma anche la perdita del-le industrie farmaceutiche, in un periodo in cui in Italia è esponenziadel-le la crescita degli anziani, è indicativa. Da questi presupposti, nasce l’esigenza di costruire strumenti che possano diffondere tra i giovani imprenditori ita-liani un anelito verso l’innovazione. Ne è un esempio la piattaforma inter-regionale-interministeriale sulla responsabilità sociale delle organizzazioni, finanziata dal Ministero dello Sviluppo Economico, contenente un’ampia sezione di aree, azioni e indicatori di innovazione che possono legare me-glio microPMI alle filiere delle grandi imprese. L’innovazione, d’altronde, non consiste solamente in brevetti e invenzioni tecnologiche, ma anche in innovazione sociale, di processo, organizzativa, di marketing, catalitica, di rottura (disruptive), incrementale, radicale. Questo strumento consente alle grandi imprese di accreditare i propri fornitori innovativi e, nel contempo, sostenibili. Le micro e PMI hanno del pari a disposizione un tool gratuito, che spiega quali aree, azioni e indicatori monitorare nella propria catena del valore, verso un vantaggio competitivo difendibile e duraturo. Le coo-perative, il Terzo Settore e il non-profit possono riorganizzare i loro servizi più strategicamente, per entrare nell’alveo dei fornitori delle imprese profit, in ambito di welfare aziendale, politiche di genere, ma anche ricerca e pro-duzione sostenibile. Le filiere innovative e sostenibili, quindi, sono forse un po’ più vicine.

Riferimenti bibliografici

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McGraw-Hill, Milano, 2013.

E. MORETTI, La nuova geografia del lavoro, Mondadori, Milano, 2013. Giovanni Lombardo - Docente di Responsabilità Sociale delle Imprese (corso di Etica economica, Università di Genova), assegnista in Ingegneria gestionale, PhD in

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