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L'OSSERVAZIONE SOCIALE E FALLOW-UP DI CASI IN AFFIDO FAMILIARE ALLA LUCE DELLA TEORIA DELL'ATTACCAMENTO.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE SOCIALI

DEL SERVIZIO SOCIALE

L’OSSERVAZIONE SOCIALE E FOLLOW-UP DI CASI

IN AFFIDO FAMILIARE, ALLA LUCE DELLA TEORIA

DELL’ATTACCAMENTO “

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INDICE

INTRODUZIONE ……… pag. 1

CAPITOLO I

1.1 La Teoria dell'Attaccamento ………...…….,,.…….. pag. 3 1.2 La Teoria dell'Attaccamento: i concetti e la nascita ……..… pag. 6 1.3 Attaccamento: origine ed evoluzione ………....….…... pag. 10 1.4 I modelli di attaccamento: il contributo di Mary Ainswort . . pag. 13 1.5 Cosa sono i Modelli Operativi Interni ……….. pag. 19

CAPITOLO II

2.1 Affido familiare e famiglie affidatarie …….….………...…. pag. 23 2.2 L'Attaccamento e le comunità di minore ….…...………….. pag, 27 2.3 L'adozione e l’Attaccamento ……… pag. 43

CAPITOLO III

3.1 I casi ……….………...………….. pag. 74

CONCLUSIONI ………. .…....… ……...pag. 91

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INTRODUZIONE

L'elaborato si pone l'obiettivo di capire se è possibile ricostruire l'attaccamento di un bambino che ha subito abusi e maltrattamenti e, per questo, allontanato dalla sua famiglia d'origine. Per i bambini che non possono crescere nella loro famiglia, l'affido e l'adozione sono interventi radicali. La coppia genitoriale che prenderà con sé il bambino dovrà creare un ambiente sociale, emotivo e relazionale più efficace e sano possibile. Per i bambini, le cui esperienze della genitorialità e della famiglia non sono sempre state adeguate è importante poter essere collocati in ambienti accoglienti e di qualità. I bambini che hanno subito abusi o maltrattamenti metteranno a dura prova le famiglie affidatarie o adottive, portando con sé i vecchi stili di attaccamento. I genitori adottivi o le famiglie affidatarie dovranno essere capaci di creare un contesto nuovo per il bambino dove questo possa crescere nel migliore dei modi possibili. Riconducendo tutto alla teoria dell'attaccamento, possiamo vedere che i nuovi caregiver possono offrire una nuova base sicura per il bambino che ha sviluppato nel passato un attaccamento insicuro o magari disorganizzato.

In un contesto “sano”,un bambino che ha subito maltrattamenti e che ha sviluppato un attaccamento disorganizzato, potrà essere incoraggiato ad esplorare il mondo circostante, ad essere sicuro ed emotivamente disponibile.

E' possibile ricostruire l'attaccamento dopo aver subito un trauma? Potrebbero esserci dei fattori che favoriscono questa ricostruzione? (in quale età fare allontanamento? Che tipo di maltrattamento è stato subito?). L'attaccamento può essere ricostruito dagli operatori che

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ruotano intorno al bambino e che gli danno dei modelli “sani” a cui rifarsi?

La prima parte della tesi analizza la teoria dell'attaccamento e le sue origini. Tratta del processo di formazione dell'attaccamento e delle diversità che caratterizzano i modelli di attaccamento sicuro e insicuro. L’elaborato analizza la teoria dell’attaccamento e gli studi di Bowlby e Mary Ainsworth. Bowlby parte dal modello etologico, in quanto riteneva necessario, per lo studio del legame madre- bambino, l’osservazione diretta del comportamento naturale. Inoltre l’approccio etologico presta attenzione all’interazione e alla reciprocità allargando la prospettiva sia al contesto naturale, che alla storia evolutiva della specie. Con Mary Ainsworth analizzo la Strange Situation, quindi i possibili tipi di attaccamento sviluppati. In ultimo analizzo i MOI, i modelli operativi interni, ovvero il sistema di rappresentazioni che l’individuo ha delle proprie esperienze di attaccamento. Segue un capitolo in cui descrivo l'affido e le famiglie affidatarie. Partendo da delle ricerche mi chiedo se è possibile ricostruire l’attaccamento in una comunità di Minori, quali sono le buone e le cattive prassi.

Nella prima parte della tesi cercherò di analizzare anche l’attaccamento nell’adozione.

Nell’ultima parte della mia tesi ho cercato di fare delle mie osservazioni, partendo da casi di un Centro Affidi della Regione Toscana.

Con l’aiuto del Centro Affidi e delle Assistenti sociali del Comune ho cercato cinque casi in cui si potesse ipotizzare, che il bambino in affidamento avesse ricostruito un attaccamento con i genitori affidatari.

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1.1 LA TEORIA DELL'ATTACCAMENTO

La teoria dell’attaccamento continua a ispirare studi e riflessioni, nell’ambito della psicologia evolutiva, degli studi psicoanalitici e delle scienze umane. John Bowlby formulò tale teoria a partire dal 1969; nel tracciarne le linee fondamentali , egli prese spunto dalla psicologia dello sviluppo, dalla psicoanalisi e dall’ etologia; essa trova la sua effettiva origine in una comune osservazione quotidiana: i bambini provano sentimenti di angoscia e manifestano protesta nelle situazioni in cui si trovano ad essere separati dalla madre, anche in presenza di persone che si prendono cura di loro. Dal momento che tale risposta sembra essere universalmente diffusa, Bowlby ne dedusse che l’esistenza del legame di attaccamento tra il bambino e la madre ed il mantenimento di esso in presenza di una separazione siano interpretabili in chiave evoluzionistica: in altri termini, il sistema comportamentale di attaccamento, che prevede manifestazioni quali il succhiare, il piangere, l’aggrapparsi, il seguire, sembra essersi evoluto per proteggere i piccoli dai pericoli, tenendoli a stretto contatto con la figura di accudimento. Nel bambino sarebbe presente una meta prefissata consistente nel mantenere la madre vicina e disponibile; solo in tale condizione il bambino manifesta interesse nell’esplorazione dell’ambiente circostante e nello stabilire contatti con le altre persone. Ciò avviene in quanto la madre funge da “base sicura” per il suo bambino e la sua abilità nello svolgere tale ruolo consente al piccolo di cominciare a conoscere il mondo e quindi ad apprendere. La teoria di Bowlby ripresa e integrata da Mary Ainsworth, ha focalizzato l’attenzione sulla prima infanzia e sul primo anno di vita, ma ha sottolineato le implicazioni sulla vita futura del soggetto, in età adulta e persino senile, derivanti dal tipo di attaccamento sviluppato nei primi mesi. In ambito psicoanalitico, appaiono interessanti

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gli sviluppi teorici ed empirici della teoria dell’attaccamento, soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. In particolare, interessanti sono stati i contributi di Mary Main, che hanno fornito un valido contributo alla comprensione dell’attaccamento adulto. La teoria dell’attaccamento attribuisce importanza alla relazione, sicché deve essere considerata una teoria dello sviluppo affettivo e sociale marcatamente relazionale. La sua portata riguarda l’analisi di modalità relazionali di reazione. Infatti, Bowlby ha sostenuto che lo sviluppo di una personalità equilibrata nell’adulto, discende in gran parte dalla raggiunta consapevolezza del proprio mondo affettivo e dalla formazione, mantenimento e rottura dei legami affettivi. Naturalmente, il comportamento di attaccamento nell’adulto sarà più complesso di quello del bambino, in quanto in esso svolgono un ruolo anche le esperienze relazionali affrontate nel corso della vita, sia nell’ambito familiare, che sociale. Tuttavia, vi sono stati sviluppi teorici fondati sulla ricerca di legami più stretti tra sistema comportamentale di attaccamento infantile e relazione affettiva tra partner adulti. Al riguardo occorre fare riferimento al concetto di modelli operativi interni (MOI), quali fattori permanenti nello sviluppo delle relazioni sociali di un soggetto, dall’infanzia all’adolescenza, da quest’ultima all’età adulta e senile. Come evidenziato da Nino Dazzi e Alessandra De Coro, l’evoluzione degli studi sull’attaccamento ha preso due principali linee di sviluppo: la prima, si è diretta ad indagare la relazione tra l’atipicità di alcuni comportamenti di attaccamento nell’infanzia e la comparsa di disturbi precoci; la seconda, ha focalizzato l’attenzione sulle “rappresentazioni delle relazioni” primarie di attaccamento come fattori di rischio o protettivi per la futura comparsa di psicopatologie1. La teoria dell’attaccamento sembra essere, tra le altre teorie dello sviluppo, quella più ricca di implicazioni, essendo

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una teoria eminentemente relazionale, che consente di valutare gli effetti delle prime interazioni significative sullo sviluppo della personalità adulta e delle abilità interpersonali. Ciò in un momento storico in cui sempre maggiore è la consapevolezza dell’importanza di approcci orientati alla prevenzione primaria delle patologie; di quelle psicologiche in particolare. Ebbene, l’approccio teorico eclettico e le implicazioni sulla qualità della vita dei soggetti adulti e delle relazioni di coppia, fanno della teoria dell’attaccamento una base di partenza per la comprensione di alcune problematiche dei soggetti in età evolutiva, ma anche i rapporti di coppia. La teoria bowlbiana può essere, a ragione, considerata una teoria interdisciplinare, coinvolgendo costrutti teorici e problematiche condivise dalla psicologia dello sviluppo, dalla psicologia sociale, dalla neuropsichiatria infantile, dall’epistemologia genetica, ma anche dalla sociologia e dalla psicoanalisi. Tra i contributi più rilevanti allo sviluppo della teoria bowlbiana, vi è quello di Mary Ainsworth; la quale, con l’individuazione di una situazione sperimentale, ha potuto classificare dei modelli di attaccamento, che rimandano ad altrettanti stili di accudimento genitoriale2.

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1.2 LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO: I CONCETTI E LA NASCITA

Nell’elaborare la teoria dell’attaccamento, Bowlby ha subito l’influenza di vari altri ambiti di studio e scuole psicologiche. Tra i filoni di studio, vi è quello focalizzato sugli effetti di una prolungata istituzionalizzazione o di una deprivazione delle cure materne sui bambini. Ispirandosi a tali studi, in particolare a quelli di Anna Freud e René Spitz, Bowlby focalizzò il suo interesse sul disagio che un bambino manifesta durante la lontananza dal genitore. Egli notò che «l’intensità della reazione del bambino è proporzionale alla durata delle separazioni […] e l’elemento determinante per la sofferenza del bambino è la variabile presenza/assenza di una figura di attaccamento»3 . Bowlby, inoltre, contestò a Freud l’errore di aver anteposto una pulsione primaria, basata su bisogni orali e fisici, ad una pulsione, supposta secondaria, finalizzata al legame affettivo. Ma il piacere di trovarsi con altri non deriva dal fatto che se ne riceve nutrimento. Bowlby pone la ricerca di legame affettivo come motivazione primaria, basandosi sui risultati della ricerca condotta da Harlow, con dei cuccioli di scimmia, che ha mostrato come il bisogno di rassicurazione e protezione, mediato dal contatto fisico, sia indipendente dal nutrimento4. Inoltre, rispetto a Freud, Bowlby ripose maggiore attenzione alle esperienze infantili narrate dai pazienti, rimanendo consapevole della loro elaborazione personale. Egli infatti considerava le storie narrate dai pazienti come mediate dai sistemi di rappresentazione dell’esperienza: i modelli operativi interni. Ma, gli eventi narrati dai pazienti, sebbene distorti sul piano percettivo e

3 S.Pallini ., Recenti prospettive nella teoria dell’attaccamento, Aracne, Roma 2004, pp. 15-16. Queste

prime osservazioni sono confluite nell’opera, Bowlby J., Cure materne e salute mentale del fanciullo, Editrice Universitaria, Firenze 1969

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cognitivo, erano da ritenersi reali. Bolwby propose di considerare l’assetto psicologico infantile sulla base della relazione con chi accudisce il bambino. Diviene essenziale, quindi, l’osservazione del bambino nelle sue relazioni reali con la madre. Inoltre, per Bowlby, i bambini che si sviluppano in modo sano, cercano aiuto e protezione nei momenti di difficoltà, così come sono in grado di esplorare con fiducia. La ricerca di aiuto, lungi dall’essere sintomo di regressione, è la risposta fisiologica al vissuto di vulnerabilità. Nella teoria di Bowlby inoltre, si postula la possibilità di differenti percorsi di sviluppo. La teoria di Bowlby ha legami anche con la teoria dell’elaborazione dell’informazione, dalla quale mutuò il concetto di retroazione o feedback. Egli postulò che il legame di attaccamento fosse la risultante di un innato e preciso sistema di schemi comportamentali, che si sviluppano nei primi mesi di vita e hanno l’effetto di mantenere il bambino in stretta vicinanza con la figura materna. La teoria motivazionale di Bowlby si fonda proprio sul concetto di retroazione, in quanto suppone che alla base del comportamento vi sia un sistema di regolazione dell’azione in base ai risultati, a partire dai piani originari che guidano il comportamento. Il comportamento di attaccamento è organizzato e regolato in base alla valutazione delle circostanze. Il «comportamento di attaccamento è corretto secondo lo scopo: si attiva in circostanze di percezione di debolezza e di pericolo, in assenza della figura di attaccamento e cessa con la vicinanza di quest’ultima»5 . Bowlby attinse anche al modello etologico, in quanto riteneva necessario, per lo studio del legame madre-bambino, l’osservazione diretta del comportamento naturale. Inoltre, l’approccio etologico prestava molta attenzione all’interazione e alla reciprocità, allargando la prospettiva, sia al contesto naturale, che alla storia

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evolutiva della specie. A Bowlby interessava l’analisi del comportamento istintivo che porta i piccoli a cercare la vicinanza con la madre, nelle sue componenti specie-specifiche. Il comportamento d’attaccamento presenta uno schema simile in tutti i bambini e sequenze d’azioni invarianti. Ma negli uomini le sequenze di azioni non sono organizzate in catene causali prefissate.

La sopravvivenza della specie è il criterio in base al quale valutare lo stato d’adattamento di un sistema ed è il risultato finale di un comportamento. Il comportamento di attaccamento ha la funzione filogenetica di assicurare la protezione dai predatori. Quanto più sono vulnerabili i piccoli di una specie, tanto più è radicato il comportamento di attaccamento. I piccoli della specie umana permangono per molti anni in uno stato di dipendenza dagli adulti ed in loro il comportamento di attaccamento ha come risultato filogenetico la protezione dai predatori. Un contributo fondamentale, sull’attaccamento negli animali, deriva da Lorenz e dalle sue osservazioni sull’imprinting. Lorenz aveva scoperto una focalizzazione dell’attaccamento su di una figura particolare, tipica di molte specie d’uccelli, che si verificava nel periodo di sensibilità. Durante tale periodo, il piccolo impara a seguire e a cercare la vicinanza di un dato stimolo. Le osservazioni etologiche supportano l’idea che i piccoli umani hanno una predisposizione biologica a tenersi vicini agli adulti. Tale ricerca di vicinanza ha un vantaggio evolutivo, per la sopravvivenza della specie.

La propensione ad instaurare legami emotivi con particolari individui come componente innata della natura umana, già presente «nel neonato e persistente nella vita adulta, fino all’età senile. Durante l’adolescenza e la vita adulta questi legami persistono, ma sono completati da nuovi legami. Le relazioni di attaccamento sussistono in sé stesse a prescindere

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dalle componenti sessuali»6 . Inoltre Bowlby considera «la capacità di stabilire legami emozionali intimi con altri individui, una fondamentale componente della personalità e della salute mentale7.

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J. Bowlby ., Una base sicura, 1988; trad. it. Cortina, Milano 1989, p. 136.

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1.3 L’ATTACCAMENTO: ORIGINE ED EVOLUZIONE

Il comportamento di attaccamento è costituito da «qualsiasi forma di comportamento volto a ricercare attivamente la vicinanza di un altro individuo preferito e ad interagirvi, allo scopo di suscitarne le cure»8. La figura di attaccamento fornisce una base sicura da cui il bambino comincia ad esplorare. I noti studi della Anderson in un parco di Londra, hanno confermato tale ipotesi, rilevando come, «tra i due e i tre anni, i bambini si allontanavano dalla madre fino a circa 60 metri, ma se la perdevano di vista interrompevano il comportamento di esplorazione e si mettevano a piangere»9.

Nella coppia madre-bambino si crea un equilibrio dinamico di avvicinamento/allontanamento, senza mai superare una certa distanza, attraverso la regolazione di quattro tipi di comportamento: 1) il comportamento d’attaccamento del bambino; 2) il comportamento esplorativo, a partire da una base sicura; 3) il comportamento protettivo materno; 4) il comportamento materno antitetico.

L’attivazione dell’esplorazione può inibire l’attivazione dell’attaccamento. Inoltre, l’attivazione dell’attaccamento è mediato: a) da condizioni di vulnerabilità del bambino; b) dall’assenza della madre; c) da altre condizioni ambientali allarmanti o di frustrazione nel rapporto con altri adulti. I sistemi di attaccamento si attivano soltanto in determinate condizioni.

Bowlby ha sottolineato come anche gli esseri umani siano dotati di meccanismi scatenanti innati. Le caratteristiche fisiche del neonato inducono protezione negli adulti: il pianto del bambino, ad es., scatena la

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S.Pallini., Recenti prospettive nella teoria dell’attaccamento, Aracne, Roma 2004, p. 30.

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risposta d’accudimento. Nell’ontogenesi dell’attaccamento, Bowlby distingue quattro fasi:

1) orientamento e segnali senza distinzione della persona (fino alle 12 settimane);

2) orientamento e segnali diretti verso una o più persone distinte dalle altre (fino a 6 mesi);

3) orientamento verso una figura con segnali e ricerca attiva di vicinanza;

4) formazione di un rapporto reciproco corretto secondo lo scopo10 . Nella prima fase, di grande immaturità neuro-fisiologico, il neonato dispone di un corredo comportamentale caratterizzato da azioni che diventeranno parte del comportamento di attaccamento, quali il pianto per segnalare il bisogno di cure, il balbettio e il sorriso per esprimere soddisfazione.

Nella seconda fase, il bambino manifesta una preferenza per una figura di attaccamento. In seguito, il bambino distingue i familiari dagli estranei e manifesta paura dell’estraneo. Inoltre, comincia a mettere in atto una ricerca attiva di vicinanza e a formarsi un primo modello di relazione con la madre.

Gradualmente l’organizzazione cognitiva del bambino diviene tale da consentire un primo sviluppo dei modelli interiorizzati di relazione. Il bambino tenta le prime esplorazioni, utilizzando la figura d’attaccamento come base.

Una volta stabilizzatosi il comportamento di attaccamento, il bambino reagisce con pianti e protesta quando è lasciato ad estranei ed è preoccupato per l’assenza della figura di accudimento. Solo il pronto ritorno di questa lo tranquillizza. Con l’acquisizione del linguaggio, il

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bambino comincia a comprendere i sentimenti del caregiver. Con la crescita, gli episodi di angoscia all’allontanarsi della madre tendono a diminuire d’intensità. Verso i tre anni il bambino sicuro acquisisce tolleranza all’assenza della madre e una maggiore fiducia nel suo ritorno, che consente di aumentare il tempo di separazione e la distanza fisica dalla figura di attaccamento. I bambini con un attaccamento sicuro mostreranno già nei primi anni un atteggiamento socievole e a sei anni, in ambiente scolare, avranno una notevole capacità di collaborare con i compagni, avranno una maggiore capacità di comportamenti prosociali11. Entrando nell’adolescenza le persone con «un attaccamento sicuro possono allontanarsi dalla figura d’attaccamento anche per mesi, ma una base sicura, rimane indispensabile per il corretto funzionamento della personalità»12. Per Bowlby il bambino, mediante l’interiorizzazione delle immagini relative alla relazione col genitore, comincia ad elaborare delle rappresentazioni delle qualità del genitore. Sicché, nell’apparato psichico del bambino la relazione d’attaccamento si struttura e influenzerà le successive esperienze di attaccamento e di legame affettivo, oltre che la sua futura personalità adulta. Infatti, ogni volta che una persona è affaticata o malata, manifesta un comportamento d’attaccamento nei confronti un’altra ritenuta in grado di fornire aiuto adeguato .

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Cfr. A.M Asprea., G. Villone Betocchi ., Studi e ricerche sul comportamento prosociale, Liguori editore, Napoli 1993.

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1.4 I MODELLI DI ATTACCAMENTO: IL CONTRIBUTO DI MARY AINSWORTH

Mary Ainsworth dagli anni Cinquanta partecipò alle ricerche sull’attaccamento, conducendo delle indagini osservazionali, che si svolsero, in Uganda, nel 1954, mediante osservazioni naturalistiche e colloqui con le madri e, in seguito, a Baltimora dove condusse uno studio di un anno sulle interazioni madre-bambino. In seguito, per uno studio più sistematico del comportamento di separazione e ricongiungimento, strutturò una situazione di laboratorio, la Strange Situation, in cui un «bambino di circa un anno, in un ambiente estraneo, viveva una breve separazione dalla madre. Con tale metodologia potevano essere osservate le reazioni […] d’attaccamento, della madre e del bambino»13 . La Strange Situation crea una situazione non familiare, estranea, consentendo l’analisi dell’attaccamento attraverso la deprivazione della presenza della madre. È parte della situazione anche un estraneo. La strange situation è strutturata in 8 episodi della durata di circa tre minuti:

• Il caregiver è inattivo e il bambino è libero di esplorare;

• una persona adulta entra nella stanza, si siede, parla con il caregiver, poi si rivolge al bambino cercando di coinvolgerlo;

• il caregiver esce;

• l'adulto estraneo e il bambino restano insieme;

• il caregiver ritorna e l'estraneo se ne va. Il caregiver ristabilisce l'equilibrio emotivo del bambino ed esce nuovamente;

• il bambino viene lasciato solo;

• l'estraneo torna;

• torna il caregiver e l'estraneo se ne va.

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O. Oasi , D. Cavagna (a cura di), Percorsi di psicologia dinamica, Franco Angeli, Milano 2004, p. 136.

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Nelle Strange Situations, su 23 bambini solo 10 reagirono secondo le aspettative, essi furono classificati nel modello di attaccamento sicuro. Tale modello è quello più frequentemente osservato nei bambini. Nella modalità di attaccamento sicuro, il bambino gioca liberamente in presenza della madre, esplora attivamente l’ambiente nuovo, allontanandosi da lei. Se la madre è presente, con l’estraneo tende ad essere socievole. Quando la madre si allontana dal bambino e lo lascia solo o con l’estraneo, il comportamento di attaccamento viene subito attivato: il bambino smette di esplorare l’ambiente e ricerca la sua vicinanza protestando. Al suo ritorno le corre incontro ed è subito rassicurato dalla sua presenza e torna a giocare. Un secondo modello di attaccamento è stato denominato “evitante”, perché il comportamento del bambino è organizzato nell’evitare la figura di attaccamento e per concentrare l’attenzione sul gioco e sull’ambiente. Il comportamento esplorativo è però rigido e spesso sembra rivolgersi più volentieri all’estraneo, che alla madre. A sua volta la madre emette pochi segnali interattivi e sembra favorire la concentrazione sull’ambiente. Quando è solo, non protesta e quando ritorna la madre, evita ogni contatto con lei. Un terzo modello di attaccamento è stato denominato resistente/ambivalente. I bambini appaiono meno sicuri degli altri nell’esplorazione autonoma dell’ambiente in presenza della madre e tendono a restare vicino a lei e a diffidare dell’estraneo. L’attenzione del bambino sembra focalizzarsi solo sulla madre, che non riesce ad offrirgli un contenimento emotivo. Quando resta solo con un estraneo, protesta come i bambini sicuri, ma al contrario di questi non appare rassicurato dal ritorno della madre. È importante il “contenimento materno”, ossia «la capacità di contenere le emozioni penose del bambino e di rispondergli empaticamente» . La madre ideale avrà la capacità di riflettere come in uno specchio l’angoscia del bambino, entrando in

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risonanza emotiva con lui14. Padroneggiando il disagio riesce a non essere sopraffatta dalla difficoltà emotiva del figlio, come può accadere in una madre ansiosa che può assumere un atteggiamento spaventato/spaventante. Main e Solomon(1986) analizzarono più di 200 bambini considerati inclassificabili e giunsero alla conclusione che tali soggetti non avevano una strategia coerente nei comportamenti di separazione e di riunione al genitore, ma presentavano dei comportamenti disorganizzati, disorientati e non direzionati. Negli episodi di separazione, ad es., non strillavano cercando il genitore, ma quando il genitore rientrava nella stanza se ne allontanavano. Fu allora individuata una quarta tipologia di attaccamento, definito “disorientato/disorganizzato”. La disorganizzazione «è riferibile ad una contraddizione nell’intenzione o nell’assenza di intenzionalità. Mentre il disorientamento si segnala in comportamenti privi di orientamento nell’ambiente, ad es., un impietrirsi del bambino con un’espressione stupefatta (freezing)». L’attaccamento disorganizzato non deriverebbe da una caratteristica innata del bambino. Infatti, dei bambini che erano disorganizzati con un genitore non lo erano con l’altro: «in uno studio del 1987, venne riscontrato che questa categoria era correlata al maltrattamento dei genitori». I comportamenti che indicano disorientamento sono simili allo stato alterato di coscienza, tipico dello stato ipnoide, con un immobilizzarsi stupefatto del bambino, definito freezing. Ma lo stato alterato di coscienza può essere evidenziato anche da un rallentamento, o dalla presenza di stereotipie, come il dondolio ritmico o il cantilenare. I comportamenti del genitore appaiono altrettanto disorganizzati e l’impressione che l’osservatore ha del genitore è di una grande difficoltà a decifrarne i contenuti emotivi,

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Ainsworth, M.D.S, Bleahr,M.C., Whaters,E Wall,S Patterns of attachment: A psycological study of the Strange Situation. Hillsdale, N.J Erlbaum. 1978.

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perché mescolati e confondenti. Anche nella relazione d’attaccamento adulto disorganizzata/disorientata è possibile osservare una disorganizzazione dei comportamenti, mancanza di coerenza e assenza di una strategia relazionale.

Possiamo vedere come si formano diversi modelli di attaccamento sicuro e insicuro in base alle esperienze di accudimento. Secondo Mary Ainsworth ( Ainswort et al., 1978) ci sono diverse dimensioni che possono essere associate ai vari tipi di attaccamento e queste sono: la disponibilità, l'accettazione, la sensibilità, la cooperazione. Ogni caregiver dovrà essere in grado di costruire queste dimensioni per poter dare un attaccamento sicuro al proprio figlio, oppure, dovrà essere capace di saperle ricostruire e mantenerle nel tempo in caso di affidamento o adozione.

L'essere disponibili, è essenziale per poter ridurre le ansie e le angosce del bambino. Il caregiver dovrà essere accessibile e disponibile, quando il bambino cercherà cura e protezione. Il caregiver è una base sicura da cui partire per esplorare e giocare, il bambino sa che può contare su di lui in caso di bisogno. Accettare il bambino, significa valorizzarlo nella sua globalità, capire che ogni persona è speciale e unica, puntare sulle caratteristiche del bambino e non guardare ai difetti. Creare così l'autostima. Rispondere in modo sensibile, ovvero, il caregiver deve essere capace di ascoltare i bisogni del bambino, anche quest'ultimo è una persona con una mente e dei sentimenti. Un bravo caregiver dà un nome alle emozioni provate dal bambino.

Accudimento collaborativo: i bambini hanno bisogno di sentirsi efficaci Se usiamo queste dimensioni per capire come i bambini fin da piccoli sviluppano strategie per sentirsi sicuri, allora possiamo capire i diversi modelli di attaccamento.

L'attaccamento sicuro infatti si sviluppa quando il bambino si sente accudito con sensibilità, quando ha un caregiver disponibile e si sente

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accettato per come è e valorizzato. Cresce quindi in modo autonomo e con una forte autostima, è un bambino capace di gestire i propri pensieri e riconoscere le proprie emozioni, capace di essere autonomo e realizzarsi al di fuori della famiglia.

Evitante: quando il caregiver ha difficoltà a rispondere con sensibilità alle richieste del bambino, ai suoi bisogni, quando minimizza le sensazioni e mantiene il controllo sulla relazione in modo invadente e insensibile, il bambino si chiude nei propri sentimenti.

Ambivalente: quando il caregiver risponde alle richieste del bambino in modo intermittente e imprevedibile, il bambino ha difficoltà a fidarsi di lui. A volte trova l'accudimento richiesto, ma tante altre il caregiver non risponde nel modo richiesto.

Disorganizzato: il caregiver è rifiutante, mette paura, il bambino si sente imprigionato. Il neonato non ha una strategia difensiva e questo porta a paura e ansia. Con il tempo riesce a passare da un'assenza di strategia, che porta a comportamenti disorganizzati, a forme di controllo, per consentire a sé stesso di provare un certo grado di sicurezza. Ansia e paura riaffiorano nei momenti di stress.

Un aspetto che si deve tenere bene a mente è che non si deve fare una distinzione tra attaccamento “forte” o “debole”, ma tra sicuro e insicuro. Perché bambini con attaccamento disorganizzato, che hanno subito maltrattamenti dalle loro famiglie d'origine o abusi, mantengono ancora legami potenti con i loro genitori abusati. Le relazioni di attaccamento sia sicure che non si sono sviluppate nel contesto della forte spinta primaria a cercare protezione, accudimento e prossimità, benché le strategie di comportamento siano diverse, la forza della relazione non è un indicatore significativo dell'impatto dello sviluppo del bambino o del valore del rapporto stesso. Il pericolo è che se usiamo il termine “attaccamento forte” non riusciamo ad avere chiara la reale relazione tra

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il bambino e la sua famiglia d'origine, magari chiedendo più incontri protetti o chiedendo addirittura un ricongiungimento con essa.

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1.5 COSA SONO I MODELLI OPERATIVI INTERNI

Nel corso dello sviluppo infantile, il bambino interiorizza le esperienze di attaccamento che vive, costruendo un modello rappresentativo di sé, che riflette l’immagine che i genitori hanno di lui e il modello della relazione. Un ruolo determinante, ai fini dello sviluppo delle relazioni interpersonali e di tutti i legami affettivi della nostra vita, riveste «il sistema di rappresentazioni che l’individuo ha delle prime esperienze d’attaccamento. Tali sistemi sono stati definiti da Bowlby come modelli operativi interni15» . Lungo il corso della vita, per pianificare il comportamento d’attaccamento l’individuo ricorrerà a modelli operativi interni costituiti dalle rappresentazioni sia del soggetto che della figura di attaccamento. In particolare, ogni qualvolta il soggetto dovrà confrontarsi con esperienze di relazione e con emozioni di legame, confronterà i nuovi dati con le precedenti esperienze e tenderà ad attribuire ad essi un significato coerente alle strutture di significato possedute. I modelli operativi interni si sviluppano in modo complementare: se la figura d’attaccamento riconosce i bisogni di protezione e autonomia del bambino, quest’ultimo svilupperà una fiducia in se stesso come degno di considerazione. Tali modelli, frutto di relazioni sicure o insicure d’attaccamento, tenderanno a conservarsi e ad operare, a livello inconscio, per tutta la vita, andando a rappresentare il punto di riferimento interno per percepire, interpretare ed attribuire significato alle relazioni interpersonali e legami affettivi. Quanto più tali modelli, derivanti da categorie semantiche e memorie autobiografiche, saranno frutto di relazioni sicure, tanto più l’individuo tenderà ad avere un atteggiamento di sicurezza e di apertura nei successivi rapporti.

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Nell’infanzia i modelli operativi interni delle relazioni possono essere modificati, in risposta a cambiamenti nelle esperienze concrete. Nello stadio delle operazioni formali o astratte (11-15 anni circa) è possibile che essi si modifichino. Qualora si formino dei modelli operativi interni, su di sé e sulla relazione d’attaccamento, in rapporto ad esperienze d’attaccamento insicuro, tali schemi guideranno aspettative su di sé e sulla relazione cariche di angoscia e di negatività e che, come tali, potranno essere fonte di psicopatologia. Peraltro, il modello operativo relativo all’attaccamento non riflette un’immagine obiettiva del genitore, quanto la rappresentazione che il bambino ha di tali esperienze, che saranno anche frutto dei commenti del genitore su di esse e della possibilità/capacità del bambino di riflessione su tali modalità di reazione del genitore alle sue richieste di attaccamento. Solo la sopraggiunta possibilità di riflessione critica sui propri sistemi di rappresentazione e di conquista di nuove possibilità di attribuzione di significati, permette una loro revisione critica. Infine, con il concetto di MOI, Bowlby stabilisce una continuità tra le prime esperienze d’attaccamento e la formazione dell’identità. Tali rappresentazioni precoci influenzeranno infatti la visione di sé come capace o meno di porsi in relazione, come amabile e degno di considerazione o all’opposto come privo di valore e di attrattiva, tutti aspetti che costituiscono elementi dell’identità. In definitiva, i modelli operativi interni non influenzano soltanto la percezione, ma anche l’interpretazione degli eventi. Infatti, i MOI non sono altro che significati attribuiti a memorie di relazione.

La memoria è molto importante nei MOI, perché quest'ultimi implicano processi difensivi che influenzano il modo in cui l'individuo percepisce e ricorda le proprie esperienze16. I ricordi e le esperienze

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passate influenzano i modelli operativi interni, e a loro volta quest'ultimi influenzano il modo in cui le esperienze passate vengono ricordate. Aver avuto un accudimento sensibile o trascurante porta ad avere delle aspettative circa la disponibilità e il supporto da parte degli adulti, ma tali aspettative influenzano anche le aspettative del bambino circa gli eventi futuri. La mente umana ha più facilità a cercare e trovare conferme alle proprie aspettative riguardanti il prossimo, per poi metterle negli archivi, piuttosto che usare nuove informazioni. Questa è la sfida delle famiglie affidatarie, creare pensieri nuovi e positivi in grado di sostituire le esperienze negative già immagazzinate. Ci sono tre tipi di memoria che danno senso alle esperienze di attaccamento. La prima è la memoria procedurale, data dalle esperienze di tipo non verbale e che nasce nella fase preverbale di vita del bambino. . Ci sono semplici ricordi come: :usare il cucchiaio, sentirsi sicuri, amati o sentirsi trattati con durezza, provare paura. Questi ricordi esistono ad un livello inconscio, ma possono essere innescati da un odore o un suono particolare. Nell'affidamento e nell'adozione è importante conoscere l'esistenza di questi ricordi perché spesso i bambini non sanno spiegare i loro comportamenti. Ciò non avviene perché il bambino non vuole parlare di quello che è successo in passato, ma semplicemente perché non riesce a collegare la sensazione provata al ricordo. La famiglia affidataria o i genitori adottivi possono aiutare il bambino nella connessione.

Altri ricordi formano la memoria autobiografica, ovvero la parte di vita di cui siamo maggiormente consapevoli. All'interno di questa troviamo sia una memoria episodica, avvenimenti, episodi importanti, sia una semantica, che consiste nel ricordo sia del linguaggio utilizzato per definire se stessi e gli altri sia i messaggi che sono stati memorizzati, per lo più quelli provenienti dagli altri significativi, per esempio “ mio padre mi diceva che ero uno stupido”.

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I ricordi dei bambini accolti in famiglie affidatarie o adottive sono spesso negativi, pensano di essere “cattivi”, questi messaggi devono essere riconvertiti in messaggi positivi.

Tutti i bambini usano i ricordi positivi e negativi per costruire modelli che possano dare un senso alle esperienze, ma quelli affidati e adottati hanno bisogno di aiuto per gestire i loro ricordi e ricostruire un immagine di sé realistica.

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CAPITOLO II

2.1 AFFIDO FAMILIARE E FAMIGLIE AFFIDATARIE

L’istituto dell’affidamento dei minori in Italia è disciplinato giuridicamente dalla Legge 4 maggio 1983, n.184 “ Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, recentemente modificata dalla Legge 28 marzo 2001 n.149”Diritto del minore ad una famiglia”. Il principio alla base di tali normative è il diritto di ogni minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia e, in caso di grave impossibilità temporanea di questa, all’assolvimento delle proprie funzioni, il diritto a essere accolto da un’altra famiglia al fine di ricevere il sostegno, la guida e l’affetto necessari per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico, attraverso l’istituto giuridico dell’affidamento familiare. Per quanto concerne la durata, la legge n.149/2001 ha introdotto un termine massimo di ventiquattro mesi, prorogabile «qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore17» , ma «l’analisi delle statistiche dimostra tuttavia che nella maggioranza dei casi nel nostro Paese l’affidamento (…) dura ben più del termine di ventiquattro mesi stabilito dalla legge: gli ultimi dati pubblicati (…) indicano in quattro anni la durata media dell’affidamento familiare non di tipo intrafamiliare» (Long, 2008, pp. 87- 88). 1 Art. 4, comma 5, Legge 4 maggio 1983, n. 184, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori. 13 La legislazione vigente prevede inoltre due forme di affidamento familiare:

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• Affidamento consensuale, che si pone come intervento di sostegno al minore e alla sua famiglia d’origine, attuato dal servizio sociale territoriale, in accordo con chi esercita la potestà genitoriale e in accordo con il minore che abbia un’età superiore ai dodici anni, e qualora lo si ritenga opportuno, anche di età inferiore. «Il provvedimento viene reso esecutivo da un decreto del giudice tutelare del luogo» (Garelli, 2000, p. 11).

• Affidamento giudiziale, «decretato dal Tribunale per i Minorenni che, accertata l’esistenza di un pregiudizio nei confronti del minore, ne stabilisce l’affidamento al servizio sociale per il suo collocamento presso un’altra famiglia» (Rebellato, Pianca, 2011, pp. 251- 252). È predisposto coattivamente anche contro il volere di chi esercita la potestà genitoriale, per porre rimedio alle situazioni di carenza di cure materiali e affettive e/o all’incapacità del genitore di provvedere al figlio o in caso di condotta pregiudizievole dei genitori nei confronti del minore e in tutte le situazioni nelle quali vi è l’impossibilità per il minore di permanere temporaneamente nella sua famiglia perché tale permanenza potrebbe gravemente bloccare lo sviluppo della sua personalità, a causa di relazioni interpersonali distorte, carenti o gravemente conflittuali.

L'affidamento può essere diurno o part-time ( quando è limitato ad alcune ore durante il giorno), oppure residenziale( quando il minore va a vivere, per un periodo di tempo, presso la famiglia affidataria, pur mantenendo, di norma, rapporti e incontri con la propria famiglia/ naturale.

L'affidamento decorre dall'accordo formale tra i servizi socio-assistenziali, la famiglia naturale e la famiglia affidataria ritenuta idonea o in base a quanto disposto dall'Autorità Giudiziaria.

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L'affidamento può cessare quando la situazione di temporanea difficoltà viene risolta dalla famiglia, da sola o con l'aiuto dei servizi, oppure in tutti i casi in cui la sue prosecuzione rechi danno al minore. L'affidamento, dunque, può essere residenziale, quindi ci deve essere una famiglia affidataria ritenuta idonea dal Centro Affidi che accolga il minore. La L. 149/2001 ha voluto elencare vari tipi di famiglie e realtà che possono accogliere un minore temporaneamente allontanato dal nucleo familiare: affidamento a coppie possibilmente con figli,che almeno da tre anni non abbiano manifestato intenzione di separarsi, affidamento a coppie anche senza figli, affidamento a singoli e a comunità di tipo familiare.

Il modello familiare di tipo affidatario richiama alcuni valori, come: l'accoglienza, la disponibilità, ma non possiamo ridurre tutto a questo. Essere una famiglia affidataria significa entrare in dinamiche relazionali molto complicate e richiede una lettura, comprensione articolata su livelli diversi di intervento che possono consentire di valutare globalmente, nel breve e lungo periodo, possibili sinergie e interazioni tra fattori di rischio e processi di coping18 e protezione19.

Le famiglie affidatarie devono saper affrontare il conflitto, una dimensione imprescindibile e inevitabile. Sarà opportuno operare nella direzione del suo riconoscimento e nell'intervento nei diversi livelli in cui si presenta, sia esso interno agli individui, in particolare nelle dinamiche intra-ruolo. La famiglia affidataria deve rielaborare il vissuto

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Coping:in psicoterapia cognitiva e psichiatria indica l'insieme dei meccanismi psicologici adattivi messi in atto da un individuo per fronteggiare le situazioni potenzialmente stressanti o pericolose per il normale funzionamento psichico o per il suo benessere.

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dei bambini, deve sapere quale parte della loro storia va mantenuta e quale va rinegoziata.

Devono essere delle famiglie in grado di attuare lo “scaffolding20”, devono essere una guida per questi bambini, un'impalcatura su cui poter contare.

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Scaffolding:l termine viene utilizzato in psicologia e pedagogia per indicare l'aiuto dato da una persona ad un'altra per svolgere un compito. Il termine deriva dalla parola ingle “scaffold” che, letteralmente, indica "impalcatura" o "ponteggio". Ci si riferisce alle impalcature di tipo edilizio, di o di legno, o di acciaio che consentono agli operai di svolgere lavori di costruzione o ristrutturazione

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2.2 L’ATTACCAMENTO E LE COMUNITA’ DI MINORI

La comunità per minori. E' possibile ricostruire un attaccamento all'interno di una comunità?

La legge 149/2001 sull'affidamento e l'adozione che integra la precedente 184/1983, regola le modalità di affidamento dei minori alle comunità così come alle famiglie e ai singoli, mentre la legge regionale si occupa dell'autorizzazione al funzionamento e dell'accreditamento. La comunità per minori sottende un insieme variegato e articolato di modi di vivere il quotidiano (comunità educativa, casa famiglia, comunità di tipo familiare, creati da un gruppo di persone ( educatori, volontari, bambini, ragazzi allontanati dalle loro famiglie o da altre comunità per un certo periodo della loro vita). La scelta di vivere all'interno di queste comunità è per alcuni una scelta volontaria, mentre, per i bambini, è obbligata, dal momento che c'è un provvedimento dell'Autorità Giudiziaria.

Fino a quando il Giudice del Tribunale di Minorenni non stabilirà una collocazione diversa, la comunità, sarà la casa del bambino, sarà il posto dove questo crescerà, giocherà, andrà a scuola e condividerà con gli altri momenti della sua vita. Ma gli operatori che ruolo hanno nella sua crescita?

La famiglia non è solo quella dove si nasce. Etimologicamente, questa è definita come un luogo dove vengono svolte le funzioni necessarie alla vita e soddisfatti i bisogni fondamentali di protezione e nutrimento. Nella comunità convivono diversi minori che non decidono di stare insieme, possono non avere affinità, ma possono comunque sviluppare legami tra di loro. Inoltre proprio in queste comunità è l'estraneo, il non familiare ad essere designato e incaricato dalla società a ripristinare il funzionamento relazionale, cognitivo e affettivo

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danneggiato proprio dal conosciuto e dal familiare. Attraverso la protezione del bambino danneggiato all'interno della sua famiglia, l'estraneo acquisisce lo status di familiare/conosciuto e affidabile e si ascrive in quelle relazioni significative in grado di modificare traiettorie evolutive inevitabilmente dirette verso il disagio e al disturbo psicopatologico21.

Compito della comunità è quello di creare relazioni supportive e riparative, creando così, un ambiente terapeutico.

Attraverso “ l'altro significativo”, la comunità diventa il luogo dove estranei possono diventare importanti nella crescita del bambino dandogli modelli di riferimento e diventando per quest'ultimo delle figure familiari e genitoriali.

Gli educatori sono chiamati a svolgere quotidianamente compiti di cura, in letteratura, questo, può essere tradotto con il concetto di

scaffolding ma anche tutornig. Entrambi indicano l’attività di guida di un

adulto competente ad un partner meno capace. Questi due concetti sono fondamentali nella relazione con il bambino, perché attraverso di essi quest'ultimo riuscirà a comprendere il mondo e sé stesso, affidandosi alla guida dell'adulto.

Nella comunità ogni momento è terapeutico e finalizzato ad accompagnare il bambino/ragazzo nella crescita, nella scoperta degli spazi, nella cura di sé e nelle relazioni con gli altri. La comunità dovrà essere capace di contenere ansie e paure e sarà terapeutica quando saprà adattarsi alle fasi evolutive dei minori che ospita.

La comunità per minori, così come le famiglie affidatarie seguono questi ragazzi con storie difficili, hanno una funzione genitoriale, conoscono il loro passato e cosa desiderano dal futuro, possiamo quindi

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immaginare che tutte queste persone sono incisive nel cambiamento, là dove avviene, della vita del bambino.

A questo proposito possiamo vedere la ricerca fatta su un gruppo di operatori di comunità e di bambini inseriti in questa. La ricerca è stata svolta da Cassiba Rosalinda, Coppola Gabriele, Costantino Elisabetta nel 201222.

Gli studi fatti sui minori inseriti in comunità ha evidenziato una forte incidenza di disturbi dell'attaccamento ( Bowlby, 1969,1973,1980). E' necessario dare al bambino sostegno, un senso di cura continuo, affinché si crei un legame e possa sentirsi al sicuro.

Quando un bambino perde i propri genitori o viene allontanato, perde il senso di essere legato ad un altro significativo. L'assenza o l'interruzione del rapporto con la figura di attaccamento crea importanti rischi per gli esiti dello sviluppo futuri. Infatti, i bambini che hanno subito una separazione precoce dalle figure di attaccamento vanno incontro, di frequente, a uno sviluppo disfunzionale, laddove non siano riusciti a trovare una figura alternativa o sostitutiva su cui fare affidamento. L’analisi delle caratteristiche dei modelli di attaccamento presenti nei bambini cresciuti in comunità ha evidenziato diversi aspetti disfunzionali del loro funzionamento. Un’alta percentuale di minori, ad esempio, manifesta comportamenti di attaccamento in maniera indiscriminata, rivolgendo la richiesta di supporto e di cure a qualsiasi adulto presente; nello stesso tempo, però, appare evidente la difficoltà di questi minori a stabilire relazioni significative con una figura di riferimento specifica, quale può essere un operatore o uno degli adulti che li accudiscono, con i quali invece hanno rapporti oppositivi (Hodges

22

R. Cassiba, Coppola G., Costantino E. “ L'intervento con video-feedback in comunità: un'esperienza di formazione con gli operatori”. Psicologia clinica dello sviluppo Fascicolo1, Aprile 2012. Il Mulino- Rivisteweb.

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e Tizard, 1989; Zeanah, Smyke, Koga, Carlson, 2005). Il persistere di modelli di attaccamento disfunzionali nei bambini inseriti in comunità anche dopo qualche anno dal loro inserimento mette in luce due aspetti diversi ma complementari: da un lato i modelli di attaccamento insicuri riflettono l’inadeguatezza delle cure ricevute dal minore nella propria famiglia d’origine oppure possono essere dovute alla separazione dalla famiglia; dall’altro, invece, mettono in luce come la vita in comunità non sia riuscita a cambiare i modelli relazionali disfunzionali. Se in passato un risultato simile poteva essere attribuito all’inadeguatezza delle cure che i bambini ricevevano all’interno degli istituti per minori, dove si poteva assistere anche a situazioni di maltrattamento e violenza (Rutter e Eras Team, 1998), oggi, dove questi episodi sono denunciati e avvengono sempre più controlli, va verificato quanto l’organizzazione stessa delle strutture di accoglienza possa costituire un fattore di rischio per specifici aspetti dello sviluppo dei minori in esse ospitati. Dagli studi più recenti condotti in tale direzione emerge, infatti, come l’organizzazione della maggior parte delle comunità per minori non soddisfi i requisiti necessari affinché sia possibile, per il bambino, ristrutturare i propri modelli operativi interni: il continuo turn-over dei caregiver, la necessità per questi ultimi di prendersi cura contemporaneamente di più minori, la mancanza di una figura di riferimento costante in anni cruciali per le acquisizioni dello sviluppo emotivo e sociale (Cicchetti, Toth e Lynch, 1995; Zeanah, Smyke, Koga, Carlson, BEIP Group, 2005) e l’enfasi posta sulla funzione «educativa» della comunità in senso stretto, sembrano essere i fattori maggiormente responsabili della presenza massiccia di modelli di attaccamento di tipo insicuro fra i bambini istituzionalizzati, indipendentemente dal tipo di struttura di accoglienza, dalla qualità della stessa e dal tempo che i minori vi hanno trascorso (Cassibba e Costantini, 2003; Rutter, 2000; Rutter, Colvert, Kreppner, Beckett, Castle, Groothues, Hawkins,

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O’Connor, Stevens e Sonuga-Barke, 2007). Gli autori non considerano l'esperienza della comunità come negativa, o come fattore di rischio per lo sviluppo psicologico del bambino, ma si concentrano sulla qualità delle esperienze che il bambino fa all’ interno della comunità (Smyke, Koga, Johnson, Fox, Marshall, Nelson, Zeanah, BEIP Group, 2007). Solo in questo modo sarà possibile spiegare come mai i bambini accolti in comunità possono andare incontro a esiti evolutivi differenti, per arrivare, poi, a riconoscere la necessità di sostenere la costruzione di una buona relazione affettiva tra bambino ed educatore. Uno degli obiettivi che l’inserimento del minore in comunità dovrebbe raggiungere è, infatti, quello di aiutarlo a «smantellare» eventuali modelli relazionali disfunzionali e a costruire relazioni più idonee a promuovere il suo sviluppo affettivo, emotivo, cognitivo e sociale. La ricerca descrive un’esperienza di formazione condotta dalle Autrici su un gruppo di educatori di comunità. Scopo delle attività proposte agli educatori è stato quello di promuovere lo sviluppo di relazioni di attaccamento più sicure tra gli operatori e i bambini affidati alle loro cure, così da poter considerare la comunità non come una mera esperienza di «passaggio» da una famiglia ad un’altra, o di «attesa» di ricongiungimento con la famiglia di origine quanto, piuttosto, un fattore protettivo in grado di offrire ai bambini una base sicura per affrontare efficacemente il rientro nel nucleo familiare di origine o l’accoglienza in una nuova famiglia. Tale risultato può essere garantito, dalla disponibilità dell’educatore a proporsi, all’interno della comunità, come una figura di attaccamento, lasciandosi coinvolgere emotivamente nella relazione coi minori, garantendo una presenza assidua e costante nella vita quotidiana del bambino, e assicurando a questi il sostegno fisico ed emotivo di cui ha bisogno. Se queste condizioni vengono soddisfatte, la comunità può diventare un ambiente «globalmente terapeutico» (Bettelheim, 1950; Emiliani e Bastianoni, 1993), che offre al bambino la possibilità di

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sperimentare modelli relazionali alternativi a quelli già interiorizzati. Agli operatori non sono state date solamente conoscenze teoriche su come facilitare la strutturazione di legami di attaccamento sicuri con i bambini a loro affidati, ma le autrici hanno voluto sperimentare una tipologia di formazione che li coinvolgesse al massimo portandoli a riflettere sui loro vissuti e sui comportamenti adottati nella relazione con gli ospiti della comunità. A tal fine, hanno utilizzato un intervento clinico basato sull’attaccamento, il VIPP (Cassibba e van IJzendoorn, 2005; Cassibba, Coppola e Costantino, 2007; Juffer, BakermansKronenburg e van IJzendoorn, 2008), nato per promuovere le capacità genitoriali delle madri, ma facilmente utilizzabile, con modifiche minime, anche nel contesto della comunità.

Descrizione del VIPP e le modifiche ad esso apportate per adattarlo al contesto della comunità per minori.

Il Video-feedback to promote Posivite Parenting (VIPP) . L’intervento VIPP è stato sviluppato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Leiden, in Olanda (Juffer et al., 2008; per una descrizione dell’intervento in italiano, cfr. Cassibba e van IJzendoorn 2005; Cassibba et al., 2007). Esso prevede 5 incontri con la diade adulto-bambino, a casa della diade, intervallati da 2-3 settimane l’uno dall’altro; ciascun incontro è caratterizzato dalla trattazione di tematiche predefinite e dall’utilizzo di tecniche specifiche. Scopo dell’intervento è quello di promuovere la sensibilità del caregiver ai segnali del bambino, al fine di facilitare la strutturazione di un legame di attaccamento sicuro. Come è ampiamente testimoniato dalla letteratura (Ainsworth, Blehar, Waters e Wall, 1978; Biringen, Matheny, Bretherton, Renouf e Sherman, 2000), infatti, la sensibilità genitoriale, intesa come capacità di leggere i segnali del bambino e di rispondervi in maniera adeguata e contingente (Ainsworth et al., 1978), costituisce un importante predittore della qualità della relazione di attaccamento che il bambino stabilisce con un

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particolare caregiver. A partire dal protocollo originario del VIPP, negli anni più recenti sono state sviluppate alcune varianti utili al trattamento di situazioni di rischio diverse per la sicurezza dell’attaccamento infantile; tra le varie applicazioni, due sono particolarmente utili in questa sede. La prima prevede, oltre al lavoro sulla relazione tra il caregiver e il bambino, la discussione sulle rappresentazioni mentali del caregiver relative alle proprie esperienze passate di attaccamento. Le rappresentazioni mentali delle relazioni affettive che l’individuo si è costruito a partire dalle esperienze infantili avute con i propri genitori, contribuiscono, infatti, a regolare il suo comportamento, le sue aspettative e le sue emozioni all’interno delle relazioni presenti (Main, Kaplan e Cassidy, 1985; van IJzendoorn, 1995; Hesse, 1999). In altri termini, le rappresentazioni mentali del caregiver guidano il modo in cui questi legge, interpreta e risponde ai segnali del bambino (per una rassegna meta-analitica, cfr. Van IJzendoorn, 1995). L’altra tipologia, associa ai feedback sul comportamento interattivo del caregiver un approccio psico-educativo, finalizzato a promuovere l’utilizzo, da parte dell’adulto, di alcune tecniche di disciplina sensibile. Tale variante prende spunto dalla teoria della coercizione (Patterson, 1976, 1982; van Zeijl, Mesman, van IJzendoorn, Bakermans-Kranenburg, Juffer, Stolk, Koot e Alink, 2006), secondo la quale i comportamenti genitoriali inconsistenti tendono a rinforzare i comportamenti infantili negativi, dando luogo a sequenze interattive particolari. In altri termini, se il bambino mette in atto un comportamento coercitivo nei confronti del caregiver (ad esempio, non vuole ubbidire a una regola, oppure pretende di avere qualcosa che non può ottenere in quel momento) e il caregiver interviene insistendo sull’impossibilità di accontentare il bambino, tale comportamento può avere come effetto una esasperazione del comportamento negativo del bambino, il quale è probabile che inizi a piangere, a gridare e a manifestare comportamenti distruttivi. Può

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succedere, allora, che il caregiver, a sua volta, continui a insistere perdendo la pazienza, manifestando reazioni negative e provocando, in definitiva, una esasperazione del comportamento infantile e l’innesco di una escalation di emozionalità negativa. A questo punto, i comportamenti del bambino potranno risultare così ingestibili agli occhi del caregiver da portarlo a desistere e a cedere alla richiesta del bambino, consentendo a quest’ultimo di ottenere ciò che desiderava. Questo pattern di interazione fa sì che i comportamenti negativi del bambino vengano rinforzati poiché, sebbene con grande difficoltà, hanno sortito un effetto positivo. Secondo Patterson (1982), comportamenti disciplinari inconsistenti e disfunzionali da parte del caregiver e che attivano il pattern sopra descritto, associati all’assenza di rinforzi positivi nel caso in cui il bambino si comporti bene, sono all’origine dei problemi di esternalizzazione dei bambini. Il programma di intervento VIPP prevede che l’adulto e il bambino siano videoregistrati, per un breve intervallo di tempo che può variare dai 10 ai 30 minuti, durante le normali situazioni di vita quotidiana (ad esempio, mentre giocano insieme, mentre il bambino mangia). Nel periodo di tempo che intercorre tra una sessione e l’altra dell’intervento, l’intervistatore visiona il filmato e prepara i suoi commenti sul comportamento del bambino o sulle reazioni del caregiver ad esso, così come appaiono nel filmato. È bene che l’intervistatore annoti su un blocco sia l’episodio da commentare (facendo riferimento al tempo indicato dal timer), sia i commenti da proporre. Nella visita successiva, l’intervener rivede l’intero filmato con il genitore, soffermandosi a commentare i frammenti e gli episodi precedentemente selezionati. Durante le prime sessioni di video-feedback, l’attenzione è rivolta prevalentemente ai segnali di esplorazione e di attaccamento (ad esempio, il piacere manifestato dal bambino durante la manipolazione dei giochi, i suoi comportamenti di ricerca dell’adulto, siano essi verbali che non, quali, ad esempio, lo

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sguardo, il vocalizzo, l’offerta di un giocattolo o una esclamazione verbale). Per sensibilizzare l’adulto alla comprensione del significato di questi comportamenti, si usa la tecnica dello «speaking for the baby» (Carter, Osofsky e Hann, 1991) che consiste nel verbalizzare, utilizzando eventualmente l’uso della prima persona, il significato del comportamento infantile (piacere di esplorazione, ricerca di attaccamento) e delle emozioni ad esso associate. Nelle sessioni di intervento successive, l’attenzione si sposterà progressivamente dal bambino alla relazione tra questi e l’adulto, così i feedback non riguarderanno esclusivamente il significato del comportamento infantile, ma anche l’adeguatezza delle risposte del caregiver. Ci si soffermerà, infatti, sulle cosiddette «sensitivity chains» (Bakermans-Kranenburg, Juffer e Van IJzendoorn, 1998), ossia le sequenze interattive caratterizzate da un segnale del bambino, seguito da una risposta dell’adulto a cui poi segue una reazione del bambino. Focalizzando l’attenzione sul terzo anello della catena, e cioè sul significato del comportamento infantile in risposta all’intervento adulto, si procede sia a rinforzare le sequenze interattive armoniose in cui l’adulto ha saputo rispondere in maniera sensibile al bambino, sia a stimolare la riflessione su possibili comportamenti alternativi a quello adottato, nel caso in cui il comportamento dell’adulto non appaia congruente al segnale del bambino. Oltre a fornire feedback sui pattern interattivi, qualora l’intervento sia utilizzato anche per promuovere la disciplina sensibile (SD), esso prevede l’illustrazione al caregiver di strategie per educare alla disciplina alternative alle modalità già adottate e rivelatesi inefficaci: tra queste, particolare risalto è dato all’induzione, che consiste nell’accompagnare l’imposizione di una regola o di un divieto con una spiegazione rivolta al bambino che ne evidenzi l’utilità. L’adulto è invitato a fornire spiegazioni al proprio comportamento anche quando il bambino è ancora piccolo, in modo tale che questa strategia possa

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diventare un’abitudine stabile, che si rivelerà utile quando aumenterà il livello di comprensione del piccolo. Fornire spiegazioni al bambino implica necessariamente l’aver chiarito, a se stessi, il motivo per cui si impone una regola; l’intervistatore, in altre parole, stimolerà il genitore a riflettere accuratamente sulle regole che questi decide di imporre, suggerendogli di insistere soltanto su quelle in cui crede veramente, e di abbandonare pretese e aspettative troppo elevate o irrealistiche per l’età o le capacità del bambino. Altre tecniche proposte e discusse durante le sessioni dell’intervento riguardano il ricorso alla distrazione, che consiste nel rendere attraente agli occhi del bambino l’alternativa comportamentale proposta; il differimento della gratificazione («se ti comporti bene, dopo potrai giocarci»); l’uso dei complimenti, anche per piccoli sforzi fatti dal bambino che hanno avuto esiti positivi; il ricorso alla contrattazione col bambino della regola e, quando sembra difficile imporla, la scelta di dargli la sensazione di essere lui a decidere (ad esempio, se il bambino non vuole andare a dormire, affidargli il compito e la responsabilità di contare fino a 10 e, quindi, di spegnere autonomamente la luce). Infine, l’uso del time-out può essere un’utile strategia per interrompere cicli negativi tra il caregiver e il bambino: al piccolo viene imposta una pausa di riflessione (nella sua stanza o in un ambiente lontano dall’educatore), corrispondente a tanti minuti quanti sono i suoi anni, che consenta a entrambi i partner di recuperare la calma, di regolare le proprie emozioni negative e di riprendere l’interazione con propositi positivi. La tecnica della discussione delle proprie esperienze passate, che in una sessione di intervento segue, solitamente, la fase di videofeedback, si propone, infine, di favorire una ristrutturazione degli stati mentali di tipo insicuro, che dovrebbe ripercuotersi positivamente sulle capacità di accudimento del genitore. I momenti di discussione iniziano prendendo spunto da materiale-stimolo appositamente predisposto, che aiuta il genitore a confrontarsi con

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tematiche specifiche relative alle proprie esperienze di separazione, ai rapporti con la propria famiglia di origine e ad eventuali modifiche in essi intervenute; il genitore, inoltre, viene aiutato a individuare eventuali elementi di continuità e di discontinuità tra le esperienze fatte coi propri genitori e la relazione corrente coi propri figli. Il VIPP è stato quindi utilizzato con un gruppo di operatori di comunità.

La possibilità di proporre il VIPP come esperienza di formazione degli operatori è strettamente legata alle caratteristiche stesse dell’intervento. Trattandosi, infatti, di un intervento breve, esso può essere utilizzato agilmente anche all’interno di un programma di formazione che può contare su risorse limitate sia di tempo sia finanziarie. L’esperienza che descrivono le autrici, infatti, si è conclusa in soli cinque incontri, ciascuno della durata di una giornata lavorativa. Il primo incontro è stato di natura teorica, essendo finalizzato a presentare i principi cardine della teoria di attaccamento; la maggior parte degli operatori presenti (5 su 8), infatti, pur avendo sentito parlare in diverse occasioni di legami di attaccamento, non era a conoscenza del significato di termini quali: «base sicura», «modelli operativi», «stili di attaccamento» e «sensibilità materna», utili per comprendere le finalità e le tecniche utilizzate dal VIPP. È stato, inoltre, presentato l’intervento VIPP, spiegandone i presupposti teorici e illustrandone i possibili adattamenti a seconda degli obiettivi da raggiungere e delle caratteristiche delle diadi a cui è indirizzato. Agli operatori è stata data, quindi, la consegna di preparare, in vista dell’incontro successivo, un breve filmato da utilizzare per l’apprendimento della tecnica di video-feedback. Il secondo incontro si è focalizzato su due importanti obiettivi: consentire agli operatori di familiarizzare con la tecnica del video-feedback e pervenire, attraverso le discussioni di gruppo su materiale-stimolo proposto dall’intervistatore e riferito alle esperienze passate dei partecipanti, al passaggio graduale da un primo richiamo alla memoria di episodi dei primi anni di vita al

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