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Guarda I diritti fondamentali comunitari fra trattato costituzionale e costituzioni nazionali | Studi Urbinati, A - Scienze giuridiche, politiche ed economiche

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I DIRITTI FONDAMENTALI COMUNITARI FRA TRATTATO COSTITUZIONALE E COSTITUZIONI NAZIONALI

Ordinario di Diritto Pubblico Comparato Facoltà di Scienze politiche – Università della Calabria *

SOMMARIO

1. La Carta europea dei diritti: un documento politico che diviene testo giuridico. 2.

Co-stituzione o processo costituente?. 3. Il ‘Trattato che istituisce una CoCo-stituzione per l’Euro-pa’: Trattato o Costituzione?. 4. Realtà, prospettive e limiti nella formazione e nella (pre-sente) evoluzione del diritto costituzionale comune europeo. 5. Trattato costituzionale e di-ritti sociali comunitari. 6. I didi-ritti fondamentali fra nuove positivizzazioni comunitarie e incerte protezioni giurisdizionali.

1. La Carta europea dei diritti: un documento politico che diviene testo

giuridico

Le più recenti evoluzioni conosciute dal diritto dell’Unione europea si prestano, come è noto, a più livelli di indagine. Quello relativo ai rappor-ti fra Trattato cosrappor-tituzionale e Cosrappor-tituzioni nazionali, indubbiamente, ne costituisce uno fra i più rilevanti, se non quello maggiormente di rilievo, interrogandosi sulla centrale questione se il TC sia o meno destinato a modificare i rapporti attuali fra diritto comunitario e diritti costituzionali nazionali.

Affronteremo questo tema limitatamente alle problematiche poste a partire dalla incorporazione della Carta dei diritti fondamentali all’inter-no del TC e dei relativi riflessi sui costituzionalismi nazionali. A tal fine, ci interrogheremo sulla stessa questione della necessarietà di procedure di legittimazione costituenti alla base delle pretesa della ‘supremazia’ del di-ritto comunitario sulle costituzioni nazionali, ancorché questo non signifi-chi disconoscimento formale della primazia del primo sui secondi. Allo stato, infatti, in accordo con la migliore dottrina, deve dirsi che il diritto

* Relazione al Convegno “La Costituzione della nuova Unione Europea”, organizza-to dall’Istituorganizza-to di Diritorganizza-to Pubblico, della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, l’11 marzo 2005.

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dell’U.E. può vantare sulla ricognizione da parte del TC dei valori condi-visi fra stati/popoli europei, la cui armonizzazione non potrà che conti-nuare ancora a fondarsi sul ruolo del giudice comunitario, alla ricerca delle ragioni e delle forme per assicurare la convivenza fra più livelli co-stituzionali, in una parola, come osserva Valerio Onida, una ‘armonia fra diversi’.

Nella ricognizione del problema non possiamo che partire da Nizza, salvo poi a ricostruire, sia pure in modo essenziale, la giurisprudenza pre-toria della Corte di Giustizia in materia di diritti fondamentali a partire dai primi anni Sessanta.

Se dunque l’analisi può farsi partire dalla solenne proclamazione dei diritti fondamentali nella Carta di Nizza, non pare potersi affermare che le soluzioni accolte in tale documento (ricognitivo di giurisprudenze e di carte internazionali) possano ritenersi comparabili alla tutela dei diritti fondamentali per come accolta nelle maggioritarie esperienze costituzio-nali europee. Ciò soprattutto se si considera il regime giuridico previsto per i diritti politici e i diritti sociali comunitari, per come definiti – questi ultimi – sia nella Carta di Nizza che nella Convenzione di Roma e nelle Carte sociali (sottoscritte dalla gran parte degli stati membri dell’Unione europea, ancorché dalla incerta forza giuridica).

Tuttavia, deve anche aggiungersi che, pur in assenza della piena vi-genza dei diritti fondamentali comunitari (che avverrà solo con la ratifica e la vigenza del ‘Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa’, ai sensi dell’art. IV-447 TC), nella presente fase, la disciplina di tali diritti costituisce già una importante apertura al tema del bilanciamento fra va-lori economicistici e vava-lori sociali dell’ordinamento comunitario origina-rio.

Questi ultimi, così, registrano una novità particolarmente significativa, almeno sotto il profilo simbolico, presentandosi come contenuto fonda-mentale del ‘patrimonio costituzionale comune’ europeo (A. Pizzorusso). D’altronde, la stessa dottrina che è stata impegnata validamente nel sostenere le ragioni della necessarietà della ‘Carta dei diritti’ in sede di Convenzione, non omette di ricordare come lo stesso art. 136 TCE (vers. cons.) – ove si prevede che la Comunità e gli Stati membri si impegnano a ‘tenere presenti’ i diritti sociali nel perseguimento degli obiettivi di po-litica sociale definiti nella medesima disposizione – esclude “tassativamen-te dalle compe“tassativamen-tenze comunitarie le ma“tassativamen-terie delle retribuzioni, del diritto di associazione, del diritto di sciopero, ecc.” (A. Manzella, S. Rodotà).

Uno dei problemi di maggior rilievo in materia, ampiamente appro-fondito in dottrina e nella stessa giurisprudenza nazionale e comunitaria,

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è dato dalla definizione della posizione della Carta europea dei diritti nel-l’ambito della gerarchia delle fonti di diritto comunitario (M. Cartabia; P. Caretti).

Benché la volontà della Commissione, del Parlamento Europeo e di alcuni Stati (tra cui l’Italia) fosse quella di un inserimento della ‘Carta’ nel corpus dei trattati comunitari, e benché anche l’organo costituito per la sua redazione abbia lavorato sul presupposto della sua efficacia vinco-lante, il Consiglio europeo, a Nizza, si era limitato a ‘proclamare’ solen-nemente la Carta dei diritti fondamentali, senza assumerne l’integrazione/ incorporazione nei trattati comunitari. Il Consiglio di Colonia (3/4 giu-gno 1999), nelle sue conclusioni, aveva precisato, in proposito che, solo dopo la proclamazione comune della ‘Carta’ ad opera del Parlamento eu-ropeo, del Consiglio e della Commissione, si sarebbe potuto “esaminare se, ed eventualmente in quale modo, la ‘Carta’ possa essere integrata nei trattati”.

Allo stato, pertanto, pur non avendo natura giuridica ed efficacia vin-colante, bisognerà cogliere – nelle more della piena vigenza del Trattato costituzionale (d’ora in poi TC), ai sensi dell’art. IV-447.2 – quale ruolo è stato riservato alla ‘Carta’ nella prassi applicativa (A. Celotto; M. Carta-bia; C. Di Turi).

Se, infatti, in quest’ultima, e soprattutto nella giurisprudenza della Corte comunitaria, potessero individuarsi concrete modalità applicative, la ‘Carta’ – a mò di Bill of rights del costituzionalismo comunitario – rap-presenterebbe un passo significativo verso una futura Costituzione sovra-nazionale europea, rendendo più chiara l’esigenza di ripensare se non a forme di statualità compiute, almeno ad un nuovo e peculiare costituzio-nalismo inclusivo della relativa legittimazione costituzionale (L.S. Rossi).

In diversa ipotesi, il rischio sarebbe quello che la ‘Carta’ resti una dichiarazione d’intenti o di diritti non cogenti, di cui è ricca la storia del-le organizzazioni internazionali, che spiega in modo semplificato diritti, del resto già riconosciuti in tutti gli Stati della Unione europea, potendo, al massimo, costituire “un immediato ausilio interpretativo per ‘rafforza-re’ conclusioni raggiungibili comunque su altre basi” (A. Pace).

Tuttavia, è da rilevare che la ‘Carta’, quale ‘ricognizione’ di un comu-ne ‘patrimonio costituzionale europeo’, ha già iniziato a costituire un im-portante punto di riferimento, soprattutto in sede giurisdizionale, ancor-ché ciò non possa affermarsi per la giurisprudenza della Corte di Giu-stizia delle Comunità europee. Si può ricordare, a tal fine, la decisone accolta nella causa BECTU vs. Secretary of State for Trade and Industry (Causa C-173/99), nella quale si da piena conferma della natura di diritto

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sociale con riferimento al diritto alle ferie annuali retribuite, quando af-fermava e ciò appunto sulla base della Carta che “racchiude enunciazioni in gran parte come ricognitive di diritti già altrove sanciti”. In preceden-za, uno specifico riferimento alla Carta dei diritti era stato fatto dal Tri-bunal Constitucional spagnolo (STC 292/2000, del 30 novembre 2000), che, in data addirittura antecedente alla proclamazione della ‘Carta’ stes-sa, al punto 8 della motivazione, aveva garantito il diritto al trattamento dei dati personali fondandolo, anche in questo caso, sulle previsioni della Carta. La stessa Corte costituzionale italiana, nell’iter argomentativo di una sua recente sentenza (Corte cost., sent. n. 135/2002) in tema di li-bertà di domicilio, ha fatto ricorso alla ‘Carta’ con un ragionamento ad adiuvandum, sottolineando che “l’ipotizzata restrizione della tipologia delle interferenze della pubblica autorità nella libertà domiciliare non tro-verebbe riscontro né nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti del-l’uomo e delle libertà fondamentali (art. 8), né del Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 17), né, infine, nella Carta dei diritti fonda-mentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000 (artt. 7 e 52), qui richiamata – ancorché priva di efficacia giuridica – per il suo carattere espressivo di princìpi comuni agli ordinamenti europei” (punto 2.1 del considerato in diritto). In precedenza, un ‘richiamo’ alla Carta dei diritti era stato fatto, in una sua ordinanza, dalla Corte di appello di Roma, che, in un suo considerando, si richiamava alla Carta dei diritti, rispetto alla quale si sosteneva che, “anche se non ancora inserita nei trattati, è ormai considerata pienamente operante come punto di riferi-mento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei”.

Benché tale orientamento non sia ancora seguito dalla Corte di Giu-stizia delle Comunità europee, che in merito si attiene ad un prudente self-restraint (superato, tuttavia, dal Tribunale di primo grado, almeno in due pronunce: causa T-54/99 del 30 gennaio 2002 e causa T-177-01 del 3 maggio 2002), secondo parte della dottrina, esso offre il vantaggio di consentire una fissazione chiara e definitiva dei diritti fondamentali, assi-curandone l’indivisibilità (fra diritti civili, economici e sociali) e l’inscindi-bilità rispetto ai valori e alla pregressa esperienza comunitaria, in maniera tale da permettere di stabilizzare un processo, a volte tumultuoso, che ha permesso al giudice comunitario di travalicare i limiti dei trattati e di spingersi oltre mediante un procedimento d’interpretazione indubbia-mente ‘progressivo’.

È pur vero però che, in astratto, una fissazione rigida dei diritti fon-damentali potrebbe rischiare di comportare una riduzione di tutela, in

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quanto limitata a quanto espressamente stabilito nella ‘Carta’ e che altri hanno osservato che la ‘Carta’ si riduce ad una elencazione di diritti, sen-za nessuna previsione di doveri o quantomeno di limiti all’esercizio degli stessi (ad es., nel caso del diritto di proprietà e di iniziativa economica, non è stato previsto il limite della ‘funzione sociale’, necessario a legitti-mare gli interventi legislativi di conformazione dei diritti medesimi a fina-lità sociali).

A fronte di tale orientamento, tuttavia, non manca chi si richiami alle origini per così dire giusnaturalistiche dei diritti nell’ambito del costitu-zionalismo europeo come anche in quello americano. In tale contesto, i diritti costituiscono un acquis consolidato “che limita e relativizza qualsia-si sovranità... esqualsia-si sono per così dire l’antisovrano” (V. Onida), ed ecco perché “scrivere una carta europea dei diritti significa (e ha significato) non tanto redigere un testo su cui dovesse esprimersi una volontà legi-slativa, ma trovare e raccogliere, nel secolare ‘deposito’ della tradizione costituzionale – fatta di carte, di testi, ma anche e soprattutto di giuri-sprudenza, sia essa dei giudici nazionali o comunitari o della Corte di Strasburgo – ciò che vi è di essenziale e di comune: un’opera, appunto, prevalentemente ricognitiva” (V. Onida).

Le disposizioni della ‘Carta’, nella previsione accolta a Nizza, hanno un ambito di applicazione limitato agli atti delle Istituzioni e degli Orga-ni dell’UOrga-nione e agli atti degli Stati membri che danno attuazione al di-ritto dell’Unione, così come previsto espressamente all’art. 51, par. 1, del-la stessa ‘Carta’, mentre il par. 2 deldel-la medesima disposizione afferma che la ‘Carta’ non introduce nuove competenze per l’Unione, né apporta mo-difiche ai compiti definiti dai Trattati.

Il nuovo testo, peraltro, non richiede modifiche delle costituzioni de-gli Stati membri, né (naturalmente) si sostituisce ad esse, limitandosi a proporre una sistemazione (visibilità) che offre uno spazio comune di ritti, un denominatore comune fra tradizioni giuridiche e sensibilità di-verse, diventando, in tal modo, premessa di una (quasi) compiuta ‘cittadi-nanza europea’ (M. Cartabia; S. Gambino; V. Lippolis).

In ogni caso, la ‘Carta’ ha già oggi una sua valenza, a testimoniare quel sentimento comune europeo che è costituito di diritti e di importan-ti conquiste civili e a manifestare quello che è il carattere profondo di una Europa, non solo economica ma sempre più aperta alla ricerca di ‘tradizioni costituzionali comuni’ che possano costituire l’ethos condiviso dei diversi popoli europei riunificati giuridicamente attraverso le istituzio-ni comuistituzio-nitarie.

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conseguenza il problema della sua collocazione nell’ambito della gerar-chia delle fonti comunitarie), pertanto, è rinviato ad una fase successiva (ed è appunto oggetto di disciplina nel Trattato costituzionale, di cui si dirà in seguito).

In relazione al connesso profilo riguardante l’ambito di applicazione della ‘Carta’, è stato osservato che alcune disposizioni della stessa sem-brerebbero disciplinare materie di più ampio respiro rispetto al nucleo delimitato delle competenze dell’Unione. Era stata, a tal fine, predisposta una ‘clausola orizzontale’, secondo la quale la ‘Carta’ non ha la finalità di modificare le competenze dell’Unione, in quanto una siffatta innovazione potrebbe essere introdotta solo attraverso l’attivazione dell’apposito iter procedimentale di revisione dei trattati.

In conclusione, appare certo come il presente sforzo di positivizzare le ‘tradizioni costituzionali comuni’ dei Paesi membri dell’Unione euro-pea in materia di diritti fondamentali consegni alla Carta euroeuro-pea dei di-ritti fondamentali un evidente ruolo di ‘ponte fra passato e futuro dell’Eu-ropa’. Non appare dubbio, così, che l’Europa si lascia alle spalle un com-plesso ordinamento giuridico pensato soprattutto per le merci e i capitali, e si profila all’orizzonte (più o meno vicino, più o meno chiaro) una Eu-ropa dei cittadini e dei diritti. Una EuEu-ropa che potrà attrarre le sensibili-tà e le culture dei popoli europei, molto più di quanto non ha potuto e saputo fare l’Europa dei mercati (e dei mercanti).

In tale nuovo scenario, importanti scelte di fondo riguardano il conte-nuto, l’estensione, le garanzie giurisdizionali dei singoli diritti intesi non come mere questioni tecnico-redazionali ma nel loro significato assiologi-co-oggettivo (A. Ruggeri). Esse hanno un primario carattere politico, pro-ponendosi, perfino, come momento fondativo di un ordinamento demo-cratico-costituzionale (quasi) pienamente compiuto e, pertanto, autorefe-renziale.

Secondo parte della dottrina (A. Baldassarre) – le cui argomentazioni, tuttavia, in assenza di un compiuto procedimento costituente (che segna l’impervia via delle assemblee costituenti ovvero quella, più domestica, del referendum confermativo o meglio ancora della recezione del trattato con legge costituzionale), non riteniamo di poter condividere (salvo a considerarle come espressione di un mero ‘fatto’ costituzionale o, meglio ancora, come espressione di un costituzionalismo consuetudinario, ormai pienamente riconosciuto dagli stessi Stati membri dell’Unione europea) –, la Carta dei diritti, in tal senso, potrebbe trasformare la stessa fonte di legittimazione dell’ordinamento europeo, che passerebbe in tal modo dal-la volontà degli Stati membri a queldal-la dell’Unione.

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Pur dovendo prendere atto della evidenza della effettività osservabile, oltre che nel processo (A. Spadaro), nella (pienamente conseguita e rico-nosciuta) normatività costituzionale europea, in senso diverso, a noi pare doversi sottolineare che la incorporazione della Carta dei diritti all’inter-no dei trattati comunitari deve affrontarsi anche con riferimento alle pro-blematiche costituzionali poste dalla legittimazione costituzionale del (nuovo) ordinamento costituzionale comunitario, come appunto il diritto comunitario si presenterà al giudice comunitario ma anche a quelli ordi-nari e costituzionali dei singoli Paesi dell’Unione europea.

Analogo percorso argomentativo, peraltro, può seguirsi, in via genera-le, anche per le transizioni costituzionali o per l’instaurazione di nuovi ordinamenti costituzionali (S. Gambino), ancorché tale orientamento sia contrastato da chi osserva come non sia affatto scontato ai fini della le-gittimazione dei nuovi ordinamenti costituzionali – sia per le transizioni europee del secondo dopoguerra sia per quelle della transizione post-co-munista degli anni Novanta – il ricorso ad assemblee costituenti, e do-vendosi, per questo, sottolineare come “negli stati membri dell’Unione, il potere costituente si è estrinsecato in una pluralità di forme, il cui ten-denziale quid comune è costituito dalla deliberazione dell’atto da parte di un’assemblea parlamentare, non importa se appositamente costituita, e dalla successiva approvazione con referendum popolare” (C. Pinelli).

2. Costituzione o processo costituente?

Come si può cogliere, dunque, la questione rinvia espressamente alla peculiare natura del processo costituente comunitario in corso, che l’inte-grazione della ‘Carta’ nei trattati comunitari accentuerebbe e in qualche modo definirebbe in modo sostantivo.

La questione, in altri termini, rinvia al tema (mitico?) del potere co-stituente (A. Barbera). Essa spinge ad interrogarsi se il ‘Trattato costitu-zionale’ comunitario, nel portare a completamento un (ricercato, positivo e risalente) processo di costruzione comunitaria, non debba inquadrarsi come espressivo di una oramai compiuta ‘discontinuità’ costituzionale, e come tale “non sanabile, dal punto di vista dell’ordine costituzionale or-mai travolto, per il mero fatto dell’utilizzo di questo o quello strumento comunque espressivo di potere costituito (e non appunto costituente)” (A. Ruggeri). In altri termini, si ripropone la questione centrale “se il nuovo Trattato costituzionale si ponga, per natura giuridica ed effetti, al fianco (o al posto) dei vecchi trattati ovvero se non sia ad essi

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accostabi-le... il che è come dire se possa, esso pure, farsi riportare sotto la ‘co-pertura’ dell’art. 11, nel segno della continuità, ovvero se debordi irrepa-rabilmente dall’alveo tracciato nella Carta del 1948, siccome appunto fat-tore di discontinuità” (A. Ruggeri).

A partire dall’apparente natura quasi-costituzionale (e dall’autodefini-zione come tale) che il nuovo Trattato assume (soprattutto) in ragione della incorporazione della ‘Carta’, tale approccio, dunque, argomenta nel senso dell’avvenuta discontinuità rispetto alla previgente formazione del diritto comunitario per via di ‘trattati non costituzionali’, sottolinenando che la ‘forza simbolica’ di tale scelta sarebbe tale da assicurare piena le-gittimazione alla “nascita in via consuetudinaria di una nuova norma di riconoscimento della Costituzione europea”.

Rispetto a tale (pur autorevole) orientamento dottrinario, tuttavia, si deve osservare come continuino a non trovare risposte quelle censure che insistono sulla precarietà, sul deficit costituzionale, di un simile processo costituente, nell’ambito costituzionale europeo, quasi ovunque caratteriz-zato dalla rigidità delle costituzioni e garantito da sistemi di giustizia co-stituzionale.

La Convenzione ha indubbiamente spostato in avanti la frontiera del-l’integrazione comunitaria attraverso i diritti e di ciò, naturalmente, deve prendersi atto da parte della stessa dottrina costituzionale più riottosa ri-spetto alle forme fin qui seguite, debitrici a loro volta della cultura e del-le connesse fdel-lessibilità proprie del diritto pattizio connotante l’approccio internazionalitico. Tuttavia, rimane “la debolezza del riferimento alla con-creta interazione politica, in altri termini dei diritti politici dei cittadini” (S. Dellavalle); pertanto, rimane tuttora posto il dubbio “che il fine non sia stato conseguito in modo soddisfacente e che anzi la retorica unitaria altro non sia che un paravento dietro al quale nascondere la mancanza di una reale democratizzazione delle istituzioni” (S. Dellavalle).

Che di Costituzione vera e proprio non si tratti, in verità, costituisce ormai orientamento comune condiviso nella dottrina, ivi compreso in quella componente della stessa che sottolinea come “l’attuale stadio evo-lutivo dell’Unione non è paragonabile a quello in cui si trovavano gli Sta-ti all’epoca della fondazione cosSta-tituzionale” (C. Pinelli). Che si tratSta-ti di un processo costituente atipico, in senso descrittivo (per usare una for-mula usata da G. U. Rescigno nell’analisi delle transizioni costituzionali del secondo dopo-guerra), volto a consolidare una evoluzione della inte-grazione comunitaria pare parimenti condiviso, almeno a partire dal Trat-tato di Maastricht in poi. È indubbio infatti come, a partire dal novellato TC, intere parti della Costituzione italiana (e degli altri Paesi membri

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dell’UE) registrino significative influenze e di ciò non potranno che aversi riscontri nella giurisprudenza comunitaria ma anche nella espansione del-le funzioni giurisdizionali degli stessi giudici nazionali (ordinari e costitu-zionali) in sede di applicazione nel diritto interno della novellata normati-va comunitaria (primaria e secondaria).

Le disposizioni degli artt. I-5, I-6, II-111 e II-113, in particolare, per come autorevolmente letti di recente, consentono tre principali conclusio-ne. Nella prima si afferma che il principio che deve guidare l’interprete della indagine relativa ai rapporti fra TC e Costituzioni nazionali rimane quello della “suddivisione dei rispettivi ambiti di operatività in base ad un principio di competenza, rimanendo ciascun ordinamento fondato e orientato su una propria Carta costituzionale”. Nella ipotesi di intreccio e sovrapposizione fra discipline dei diversi ordinamenti il TC gode di su-premazia e prevalenza sulle costituzioni nazionali; tale susu-premazia, tutta-via, allorché tocca l’ambito dei principi e dei diritti fondamentali dei sin-goli ordinamenti costituzionali nazionali, lascia l’ultima parola alle costi-tuzioni nazionali e per esse ai relativi giudici costituzionali, in una sorta di “primato invertito” (M. Cartabia).

Rimane comunque aperta, nella fase attuale, la questione relativa alle ulteriori fasi, necessarie, ai fini di un più compiuto e perfezionato pro-cesso di integrazione comunitaria.

In tale direzione muovono argomentazioni a favore a) del referendum come “elemento aggiuntivo essenziale al perfezionamento dell’atto in cor-so” (G. De Minico), b) di “un riallineamento della nostra Costituzione del 1948 a quanto il processo di integrazione europeo ha già prodotto e a quanto ancor più produrrà in futuro, abbandonando la strada sin qui se-guita di abbandonare questo riallineamento a quell’unica disposizione contenuta nell’art. 11, che è norma idonea a consentire, a certe condizio-ni, cessioni di sovranità, ma del tutto inidonea a riconformare quegli aspetti del disegno costituzionale originario più esposti agli effetti che quelle cessioni hanno prodotto” (P. Caretti) – in ciò collocandosi sulla scia di altre esperienze europee come quella francese, tedesca, spagnola e portoghese – ed infine c) opinioni volte a sostenere la necessità di spin-gersi oltre, optando “per la ratifica e il recepimento del Trattato costitu-zionale europeo con legge costitucostitu-zionale... (che) consentirebbe di forma-lizzare l’eguale dignità delle costituzioni nazionali e della Costituzione eu-ropea, facilitando l’interpretazione armonizzatrice da parte dei giudici, necessaria in un sistema che intende ispirarsi al multilevel constitutiona-lism” (M. Cartabia).

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concludere che la riorganizzazione dei trattati, perseguito mediante abro-gazione di quelli precedenti e la loro riformulazione in un unico Trattato che ne assicuri una migliore leggibilità, non costituiscono di per sé argo-mento o indice risolutivi a favore di una loro trasformazione in un testo (formalmente) costituzionale.

In realtà, a ben cogliere, argomenti in favore di tale trasformazione erano già presenti sia nella giurisprudenza di alcune corti costituzionali europee, come quella tedesca – secondo la quale i trattati comunitari co-stituirebbero in qualche modo la Costituzione di questo ordinamento (sentt. del 18 ottobre 1967 e del 9 giugno 1971), “in quanto le regole giuridiche sancite dalle istituzioni comunitarie... costituiscono un ordine giuridico proprio che non deriva né dal diritto internazionale pubblico né dal diritto nazionale degli stati membri” – sia nella stessa affermazione pretoria del giudice comunitario che, unitamente all’affermazione del pri-mato e della diretta applicabilità del diritto comunitario, e sulla base del controllo giurisdizionale previsto nello stesso Trattato, conclude per la qualificazione dell’ordinamento comunitario come “carta costituzionale di base” (sent. Les Verts c/ Parlement européen, 22 aprile 1986), o come “carta costituzionale di una comunità di diritto” (Parere 1/91, Espace éco-nomique européen, 14 dicembre 1991).

Tuttavia, tali affermazioni, fondate sulla ‘analogia’ fra le disposizioni dei trattati e quella delle costituzioni nazionali, pur incontestabili, non appaiono risolutive ai fini della individuazione dei profili distintivi fra le due tipologie di atti, di tal che, in definitiva, “solo l’esistenza di un aspet-to formale di costituzione – un ordine giuridico auaspet-tonomo dotaaspet-to di un proprio controllo giurisdizionale – imporrebbe la questione della costitu-zionalizzazione del trattato” (Ch. Franck). Tale aspetto formale non rice-verebbe risposta finché un altro elemento formale di costituzione non sia previsto, quello appunto del potere costituente.

Sotto questo profilo, non risultano convincenti né risolutive le argo-mentazioni di un orientamento diffuso che si sofferma a sottolineare quanto, in realtà, nessuno nega in dottrina – l’esistenza cioè di un ordina-mento autonomo, quello comunitario – che produce effetti giuridici sugli ordinamenti interni dei Paesi membri; tali effetti sono pienamente rico-nosciuti negli ordinamenti interni e come tali fatti valere (A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri). Ma può dirsi che questo faccia perdere ogni distinzione fra ‘trattato’ e ‘costituzione’, come pure taluno assume?

A rischio di inscriversi in un orientamento dottrinario (che appare) conservatore (di risalenti categorie e connesse certezze giuridiche), così,

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pare necessario sottolineare come una Costituzione – in quanto atto giu-ridico fondativo di un ordinamento giugiu-ridico primario e di quest’ultimo costituente parte integrante fondamentale nella sua componente di inner law – non possa che procedere da una volontà costituente.

Lungo questo percorso analitico, indubbiamente, sono da superare ri-salenti rigidità di tipo procedurale delle categorie dogmatiche, come quelle di assumere come fondativo di nuovi ordinamenti costituzionali il solo pronunciamento di tale volontà mediante assemblee costituenti, ido-neamente costituite allo scopo. A tanto muove non tanto e non solo il riconoscimento delle peculiarità storiche delle assemblee costituenti delle fasi post-belliche quanto la considerazione che anche prima di tale perio-do evolutivo del costituzionalismo contemporaneo, in quello originario ri-sultava prevalente una natura ‘flessibile’ delle costituzioni rigide moderne (A. Pace).

Rimane in ogni caso che un pronunciamento costituente alla base di un nuovo ordinamento costituzionale, che garantisca al contempo anche una nuova gerarchia fra gli ordinamenti nazionali e quello comunitario, risulta necessario al fine di risolvere tutte le possibili antinomie che una mancata legittimazione di tale gerarchia comunque presenterebbe. D’altra parte, in quali disposizioni del Trattato costituzionale è possibile ricono-scere al Parlamento europeo una forza propria, costituente e/o di ‘revi-sione costituzionale’, tale da imporsi sulle ‘Alte Parti contraenti’ (che sono appunto i governi nazionali, e solo indirettamente i Parlamenti na-zionali)? Anche sotto questo profilo, pertanto, deve osservarsi come la mera elezione a suffragio universale del Parlamento europeo e la naturale (pretesa) competenza costituente dello stesso non costituisce argomento risolutivo ai fini della garanzia di esercizio da parte dello stesso di un potere costituente. Il Parlamento europeo, nella concreta realtà, esercita i soli poteri che ‘i signori dei trattati’ gli riconoscono.

L’argomento risolutivo in tale ottica ritorna, in tal modo, a riproporsi come necessarietà di una legittimazione costituente da parte dei popoli europei, che si esprimono sia attraverso i parlamenti nazionali, sia attra-verso i propri eletti nel Parlamento europeo sia, nella fase individuata come veramente costitutiva del nuovo costituzionalismo europeo, attra-verso modalità diretta dei cittadini dei paesi membri.

Ma, come si è già sottolineato, l’ipotesi di un referendum europeo, che è pregno di evocazioni costituenti, non è stato ancora ritenuto, alme-no in questa fase, necessario (né concretamente praticabile). Al pari della nozione di cittadinanza europea, esso è ancora destinato a fungere da “premessa ideologica”, volta a sostenere “una tensione crescente a

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sele-zionare valori e idee comuni ad un popolo di Europa in senso stretto (che) si va affiancando alla consapevolezza della identità nazionale” (G. De Minico).

Anche sotto questo profilo, non può che sottolinearsi nuovamente come l’orizzonte costituente, con buona pace delle opinioni in senso con-trario, sia mancato anche nella ulteriore, attuale ed importante, fase di sviluppo della integrazione comunitaria. I problemi non sarebbero certo mancati in assenza di una disciplina comunitaria in materia e di soggetti legittimati ad indirlo a livello comunitario. Rimane così il solo orizzonte nazionale; tuttavia, lo svolgimento di referendum nazionali non potrebbe certo surrogare l’atteso effetto legittimante “della funzione nominalmente costituente esercitata dal binomio Convenzione-CIG, (potendo unicamen-te inunicamen-tervenire) sul piano degli strumenti impiegati da ciascuno Stato per immettere il diritto comunitario all’interno del proprio ordinamento” (G. Allegri).

Per tornare alle tesi già richiamate in precedenza, pertanto, e salvo a convenire (come non si ritiene di poter fare in presenza di istituzioni na-zionali pienamente operanti nell’ambito della garanzia costituzionale dei diritti fondamentali), l’orientamento che pare più convincente e argomen-tato è quello che porta a sottolineare come i lavori della Convenzione avrebbero concretizzato poco più che una riorganizzazione normativa dei trattati delle Comunità e dell’Unione europea. “Ciò non toglie, infatti, – come è stato bene osservato – che continuiamo ad avere a che fare con un testo che è oggettivamente impossibile chiamare Costituzione, perché una Costituzione è tale non solo per il fatto di avere questo genere di contenuti, ma anche e soprattutto perché rappresenta il risultato di un processo che nasce, dal popolo, con l’intenzione di essere un processo costituente, con una legittimazione, quella del titolare della sovranità, che non può dare adito a dubbi, con una forza conformante dirompente, proprio perché basata sulla volontà del demos. In altri termini, per poter affermare che un determinato testo normativo è una Costituzione, e, nel caso di specie, è la Costituzione europea, è necessario che esso sia elabo-rato ad opera di un’Assemblea costituente europea, eletta a suffragio uni-versale diretto da un popolo europeo che si dovrebbe caratterizzare per un idem sentire che, ad oggi, non è dato rintracciare” (F. Salmoni).

Seguendo un orientamento già autorevolmente argomentato dalla mi-gliore dottrina costituzionale italiana (G. Zagrebelsky; U. De Siervo; A. Pizzorusso; V. Onida) e straniera (O. De Schutter; L. Favoreu), può sot-tolinearsi, così, che il tema dei rapporti fra diritti e Costituzioni nel nuo-vo ordinamento comunitario – e con esso il tema della ‘giustiziabilità’ dei

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diritti accolti nella Carta di Nizza (e ora nel Trattato costituzionale) – non ha ancora trovato soluzioni pienamente soddisfacenti.

Si pensi in tal senso alle problematiche costituzionali sollevate dagli artt. 51 e 52 della Carta di Nizza e non ancora pienamente risolte dal nuovo Trattato costituzionale, ivi considerando le integrazioni apportate all’art. 52, nonché il ruolo assegnato alle ‘Spiegazioni’ del Presidium della Convenzione sulla interpretazione della ‘Carta’. Ciò ha portato autorevole dottrina, come è noto, ad interrogarsi sulla necessità di dar vita ad una sorta di “super-Corte europea per regolare i problemi, una specie di tri-bunale dei conflitti costituzionali europei con il compito di armonizzare i cataloghi e le giurisprudenze delle diverse Corti” (U. De Siervo).

Ma ciò che maggiormente rileva di tale rapporto, con peculiare riferi-mento alla garanzia delle posizioni giuridiche soggettive costituzionalmen-te garanticostituzionalmen-te, in passato solo rinviato con la nota giurisprudenza sui ‘con-trolimiti’, pare da individuare nella necessità (costituzionale ma anche po-litica) di una “riforma costituzionale sia a livello europeo che a livello nazionale” (U. De Siervo), non potendosi continuare ad ipotizzare/prati-care un processo di integrazione comunitaria, che diviene in itinere (qua-si fattualmente) processo di costituzionalizzazione comunitaria piena, in assenza di una legittimazione democratica adeguatamente rappresentativa, come solo le procedure costituenti possono assicurare, e attenta “a pro-gettare un sistema di garanzie davvero funzionale” (U. De Siervo).

In una lucida analisi sulle ‘sorti’ dei ‘controlimiti’ nell’ottica della po-sitivizzazione dell’art. II-53 nel TC, A. Celotto e T. Groppi hanno bene sottolineano tutti i paradossi della giurisprudenza costituzionale in mate-ria (sia di quella nazionale che delle altre corti costituzionali europee). Da una parte, infatti, “i ‘controlimiti’ sono da intendere come rigurgito di orgoglio nazionale (...soprattutto in ragione della considerazione se-condo cui è ormai chiaro come) l’intervento del diritto comunitario non costituisca un attentato agli ordinamenti costituzionali nazionali, bensì, piuttosto, uno strumento di notevole potenzialità per dare sviluppo a principi a valori presenti nelle Costituzioni, ma spesso negletti o dimenti-cati” (§ 4). Dall’altra, è da sottolineare “la inutilità di questi indirizzi, in quanto nessuno Stato ha avuto il ‘coraggio’ davvero di dichiarare la pre-valenza di un ‘controlimite’ sulle norme comunitarie (§ 4) ... il diritto comunitario (infatti) ‘aggira’ le garanzie poste a tutela della rigidità delle Costituzioni, grazie ai principi di primauté e di efficacia diretta, che non possono non valere anche rispetto alle norme di rango costituzionale”, come il caso Kreil ha bene dimostrato. Ne segue una considerazione nel-la quale si sottolinea come “i controlimiti si avviano a divenire non più il

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rigido muro di confine fra ordinamenti, ma il punto di snodo, la cerniera nei rapporti fra UE e Stati membri... Una UE che tende alla formazione di un vero Stato unitario di tipo federale non può non consentire che i singoli Stati membri, soprattutto in materia di diritti, non applichino le proprie disposizioni che riconoscono livelli di protezione più elevati, al pari di quanto avviene tradizionalmente negli Stati federali... (in questa ottica, pertanto) i ‘controlimiti’ acquistano una propria legittimazione, quale forma dinamica di prevalenza del diritto nazionale, rispetto al caso concreto; la primauté assume contenuti nuovi e differenti, ammettendo deroghe a livello nazionale” (§ 4) (F. Salmoni).

Al momento, queste ultime risultano assenti nella previsione comuni-taria de jure condendo, la quale si limita “ad affermare libertà e diritti, allorché il moderno costituzionalismo esige quanto meno che nelle dissizioni di garanzia si predeterminino anche le categorie dei limiti che po-tranno essere successivamente sviluppate dal legislatore alle situazioni soggettive di vantaggio. Analogamente assai importante nel moderno co-stituzionalismo appare l’esatta predeterminazione dei casi nei quali l’eser-cizio dei poteri limitativi delle libertà sarà riservato alle sole autorità giu-risdizionali piuttosto che alle autorità amministrative. Il rischio conse-guente è che tutta una serie di importanti libertà possono essere in concreto garantite assai meno che nel nostro ordinamento” (F. Salmoni).

3. Il ‘Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa’: Trattato o

Costituzione?

Le considerazioni che saranno di seguito sviluppate si incentrano, senza presunzione di completezza, sull’analisi (soprattutto alla luce dei trattati comunitari e della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee) di alcune delle problematiche relative ai rapporti fra processo di integrazione comunitaria, affermazione del primato del diritto comunitario e garanzie assicurate ai diritti fondamentali nelle costituzioni nazionali. Il processo di integrazione comunitaria, come si è ricordato, si caratterizza tuttora come un processo denso di ambiguità, soprattutto se considerato rispetto alle tecniche seguite dal costituzionalismo originario, e da quello contemporaneo, per la fondazione della sovranità degli Stati e la legittimazione democratica di nuovi ordinamenti costituzionali.

La riflessione sul tema impone, pertanto, una previa analisi che con-senta un inquadramento – sia pure essenziale e problematico – delle sue tematiche evolutive. Innanzitutto, è da osservare come un simile processo

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di integrazione sovranazionale fra ordinamenti nazionali si accompagni ad una contestuale crisi (di forma e di contenuti, ma anche di categorie in-terpretative) degli Stati nazionali, il cui rapporto con le classiche catego-rie del territorio, del popolo e della sovranità veniva, per questo, assiolo-gicamente inquadrato come Stato-Nazione e declinato nella specificità, esclusività, di ogni singola esperienza nazionale. Sono ormai disponibili ampi dati materiali (normativi, dottrinari e giurisprudenziali) per affron-tare tale inquadramento utilizzando nozioni aperte alle più attuali rico-struzioni teorico-dogmatiche, tuttora senza un consenso definitivamente conseguito in dottrina.

La questione coinvolge la stessa questione teorica della natura giuridi-ca del ‘Trattato che istituisce una Costituzione per l’Unione’ e del relativo inquadramento nella tipologia dei trattati o in quella, ben diversa, delle costituzioni.

La risposta a tali interrogativi teorico-dogmatici, naturalmente non scevri di conseguenze per il tema oggetto di analisi, vede tuttora la dot-trina, come si è già in parte osservato, incerta e articolata su posizioni notevolmente differenziate. In un primo orientamento, infatti, ritroviamo approcci che, nell’analisi del processo di integrazione comunitario, e so-prattutto nella disciplina comunitaria del ‘riconoscimento’ e della prote-zione dei diritti fondamentali, sottolineano l’esigenza che lo stesso si pie-ghi alle regole del ‘costituzionalismo rigido’ e alle procedure stringenti del potere costituente (e dovremmo aggiungere a quelle della giustizia co-stituzionale). Tali temi sono stati sostanzialmente elusi dal dibattito che ha accompagnato l’adozione del ‘Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa’ (anche perché nessun mandato era stato previ-sto, in tal senso, a Laeken).

Rispetto a tale profilo, la legittimazione costituzionale comunitaria deve inquadrarsi nel contesto della evoluzione registrata nell’ambito delle categorie del diritto pubblico europeo, da ciò facendosi partire una ri-flessione generale preliminare secondo cui “... non stiamo lavorando nel vuoto e che la materia di cui trattiamo ha una sua insopprimibile e speci-fica densità di ordine storico... che è quel particolare tipo storico di di-ritto pubblico che si è affermato in Europa negli ultimi due secoli, in una parola dopo la Rivoluzione francese” (M. Fioravanti). Si nega, cioé, che si possa procedere ad un “approdo progressivo alla ‘Costituzione’ (euro-pea)” senza abbandonare “definitivamente e completamente l’origine del Trattato, ovvero un intero politico non dimentico delle parti che lo com-pongono, e che anzi presuppone la loro permanente esistenza” (M. Fio-ravanti).

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L’approdo più recente del processo di integrazione europea, così, – pur registrando un processo che è di indubbia discontinuità con la fase precedente, soprattutto quando si consideri la ‘faticosa marcia’ dei diritti sociali fondamentali della ‘Carta di Nizza’ ora definitivamente incorporati all’interno del Trattato costituzionale – lascia tuttora aperto il problema di un non superato deficit costituzionale, che potrebbe trovare soluzione, pertanto, solo ricorrendo alle più garantistiche procedure costituenti clas-siche o, almeno, ad “una deliberazione popolare sulla Costituzione euro-pea... con apposite deliberazioni da tenere lo stesso giorno, con regole comuni, elaborate a livello europeo” (M. Fioravanti).

A sottolineare tale deficit costituzionale, e pertanto la natura giuridica di trattato, sotto cui occorre continuare ad inquadrare il più recente (e avanzato) esito del processo comunitario, sovviene la corretta sottolinea-tura secondo la quale il ‘Trattato costituzionale’ non può aspirare a defi-nirsi ‘Costituzione’, in ragione del fatto che esso difetta tuttora di un ele-mento coessenziale delle costituzioni, quello dei princìpi costituzionali, posti alla base del processo di attuazione comunitaria e di interpretazione da parte del giudice comunitario (o di altro giudice comunitario cui si volesse riconoscere in futuro l’esercizio di una simile, necessaria, funzio-ne).

Come è stato bene sottolineato, infatti, molti elementi del costituzio-nalismo sono previsti, e fra essi rilevano indubbiamente i diritti fonda-mentali, “ma complesivamente il salto che non si compie è quello dai princìpi generali del diritto dell’Unione ai princìpi costituzionali, ovvero nel testo non si ha l’emancipazione di un nucleo forte di princìpi co-stituzionali direttamente fondato sulla Costituzione stessa, e non più sui meccanismi noti del diritto comunitario” (M. Fioravanti). Si osserva, sot-to tale profilo, come il Trattasot-to costituzionale, oltre ai richiamati diritti fondamentali, si limita a disciplinare soltanto ‘valori’ (I.2) e ‘obiettivi’ (I.3).

Di null’altro, pertanto, può parlarsi, con riferimento alla più recente evoluzione in materia, che di un trattato. Se proprio si volesse accogliere il nomen juris proprio delle costituzioni, al massimo si tratterebbe di una “Costituzione ottriata”, come bene sottolinea A. Pizzorusso, ma anche tale approccio non appare risolutivo nel farsi carico delle problematiche poste, nella presente fase di evoluzione del processo costituzionale euro-peo, rispetto al rapporto fra ordinamenti costituzionali nazionali e quello comunitario.

A fonte di tale approccio – strettamente adesivo alle categorie dog-matiche classiche del costituzionalismo moderno – si colloca un altro

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orientamento del tutto aperto al “valore innovativo dell’agnizione costitu-zionale, della rivelazione di un ordinamento costituzionale nascosto” (A. Manzella), che – sulla base della ‘natura speciale’ del trattato in conside-razione – già si interroga sugli effetti abrogativi di un simile ordinamento rispetto alle costituzioni nazionali, assumendo una conferma della natura costituzionale dello stesso nella nuova previsione del diritto di recesso volontario (I.60).

Secondo tale lettura del processo, l’unificazione politica europea non segue le strade già note al costituzionalismo classico ma quelle (radical-mente nuove nelle forme) della legittimazione dei cittadini “che agiscano attraverso i diritti (e perfino contro i propri Stati)” (A. Manzella) e della legittimazione assicurata attraverso i rappresentanti eletti degli Stati all’in-terno delle constituencies europee, “emerge(ndo) dunque dal progetto un persuasivo tentativo per giungere, attraverso convergenti percorsi, all’uni-tà ordinamentale e politica della Unione, su cui basare la nuova-vecchia Costituzione europea” (A. Manzella).

Se si parte dalla esperienza costituzionale del Novecento, come ter-tium comparationis, saremmo in presenza, così, di una perdita di signifi-catività, più o meno rilevante, delle più ricorrenti categorie analitiche fin qui utilizzate nell’indagine giuspubblicistica, che si può cogliere, al con-tempo, oltre che come crisi dello Stato-Nazione, anche come crisi dello Stato sociale e dello Stato dei partiti, che hanno costituito, almeno per mezzo secolo, categorie interpretative del costituzionalismo ampiamente ricorrenti nell’analisi dottrinaria. Il dibattito, pertanto, deve inquadrare tale approccio nell’ambito delle modalità conosciute dagli ordinamenti costituzionali per guidare il cambiamento costituzionale.

Quest’ultimo tema, come si è già ricordato, appare, in assoluto, fra quelli maggiormente trascurati, o esplicitamente svalorizzati, da parte di un’ampia dottrina costituzionale. Nel sottolineare l’originalità del proces-so di integrazione comunitaria e la natura peculiare dell’ordinamento co-munitario (nel suo dinamico sviluppo), una viepiù crescente area della dottrina gius-pubblicistica pare sempre più disponibile, in modo poco comprensibile, a sottovalutare (quasi fino a prescinderne) la prescrittività delle regole costituzionali in tema di revisione costituzionale e i limiti, soprattutto impliciti, alla revisione costituzionale. Una sottovalutazione – quest’ultima – che ha come presupposto e come conseguenza la scarsa considerazione teorica delle esigenze della rigidità costituzionale nel suo rapportarsi all’integrazione comunitaria.

Più correttamente, tale problematica appare affrontata e risolta in al-tri ordinamenti, come quello spagnolo, francese, portoghese e tedesco,

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nei quali si procede alla contestuale revisione costituzionale quando si re-cepiscono trattati le cui norme (o solo parte di esse) risultino eventual-mente in contrasto con il dettato costituzionale.

4. Realtà, prospettive e limiti nella formazione e nella (presente)

evolu-zione del diritto costituzionale comune europeo

Accostandoci più da vicino al tema ora oggetto di analisi, così, si deve sottolineare come la ratifica del Trattato sottoscritto a Maastricht (il 7 luglio 1992) e il Trattato di Amsterdam (in vigore dal maggio 1999) costituiscano una tappa fondamentale nella evoluzione del diritto costitu-zionale europeo e, al contempo, una nuova fase nel processo di consoli-damento di una Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa (artt. I.1 e I-2 TC).

L’Unione europea – per la prima volta in modo tanto solenne (art. 6 TUE, vers. cons., ora art. I-9 TC) – s’impegna a rispettare “i diritti fon-damentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salva-guardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali... e quali risulta-no dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto comunitario”.

Con le scelte fin qui operate e con le altre che sono in itinere di per-fezionamento normativo, i governi e i parlamenti europei hanno, dunque, avviato una trasformazione sostanziale del diritto comunitario nella dire-zione della formadire-zione (sia pure ancora incompiuta) di un diritto costitu-zionale comune europeo (M. Scudiero. S. Gambino), assicurando la forza propria del dato normativo positivo ad una giurisprudenza comunitaria che aveva già pienamente conseguito una simile tutela.

In tale quadro evolutivo, i parlamenti europei sono sempre più rap-portati all’esigenza di assicurare, con le opportune misure costituzionali, il processo di modificazione delle proprie costituzioni per armonizzarle con i princìpi appena evocati. Molti Stati hanno già proceduto alle ne-cessarie revisioni costituzionali; gli altri saranno chiamati (prima o poi) a farlo. La dottrina costituzionale e in particolare quella comparatistica di-spongono ormai di ampio materiale su cui esercitare la propria ricerca nell’analisi delle opportunità ma anche dei vincoli costituzionali al pro-cesso di integrazione comunitaria, nonché delle vie seguite (e da seguire), certo non di poco influenti sugli esiti finali del processo, solo che si pensi – oltre alle problematiche già richiamate di una costruzione eminente-mente giurisprudenziale di tale diritto – alla combinazione della via

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par-lamentare e referendaria e all’impatto che necessariamente esse avranno nella formazione di un’opinione pubblica e ancora di più di una vera e propria coscienza costituzionale comunitaria, in una parola, di uno “spiri-to comunitario”.

Le soluzioni seguite sono variegate. Può ricordarsi, ad esempio, come il ‘ritardo’ di alcuni Paesi in materia di integrazione comunitaria – come la Francia – sia stato ampiamente colmato con tutta una serie di atti sia positivi (trattati, accordi), sia giurisprudenziali sia, infine, di revisione co-stituzionale. L’allineamento del Paese appena richiamato alle posizioni giuridiche degli altri Stati membri dell’UE può dirsi conseguito (Conseil constitutionnel, 2004-505 DC). La scelta seguita, con l’art. 88.1 Cost., in-fatti, è stata la medesima seguita dalla Germania (art. 23 LFB), dalla Spa-gna (art. 95, 96 e 10.2 Cost.) e dal Portogallo (art. 7.6 Cost.): una scelta che si può ritenere rispettosa della sovranità nazionale ma inquadrabile, al contempo, come un segnale esplicito e senza incertezze verso l’inte-grazione europea.

Alcuni problemi, tuttavia, permangono. Le Carte costituzionali, ben-ché revisionate, non possono tutto; restano limiti alla cessione della so-vranità (in materia di princìpi supremi e di diritti fondamentali); in una parola, rimane confermato che la Costituzione s’impone al diritto comu-nitario in materia di diritti fondamentali e di princìpi costituzionali. Né convincono pienamente sul punto gli orientamenti dell’autorevole dot-trina che, nell’argomentare l’esistenza di una (pressoché compiuta) Costituzione europea, ricorda come, in base ai princìpi sanciti dalla Corte di Giustizia in tema di primato sul diritto interno (benché non previ-sti formalmente dai trattati iprevi-stitutivi della CEE), fin dai primi anni Ses-santa (sent. Van Gend c/Amministrazione delle Finanze olandese, Costa c/ENEL), i trattati e i regolamenti comunitari siano dotati di diretta ap-plicazione, producendo una deroga al diritto interno e resistendo alle stessi leggi di rango costituzionale.

Pertanto, all’interrogativo se esista una Costituzione europea, o a quello, in assenza di Costituzione formale, di chi, in breve, rilasci il ‘visto d’ingresso’ alle norme comunitarie, se l’apposita norma legittimante delle varie costituzioni nazionali od ormai l’Unione europea, per forza costitu-zionale propria (A. Barbera), si potrebbe allora rispondere che tale sog-getto è indubbiamente l’Unione europea, ma a condizione di sottolineare che tale ‘autorizzazione’ conosce dei limiti inderogabili, quelli appunto di princìpi supremi degli ordinamenti nazionali, che non certo un giudice può rimuovere ma solo un procedimento, una decisione costituente, che rinvii ai popoli-sovrani dell’Europa.

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La risoluzione di tali problematiche di legittimazione costituzionale, dunque, non può avvenire che ricorrendo al (‘pur problematico’ nelle forme del suo esercizio) potere costituente originario. Come si deve os-servare, infatti, non è appropriatamente di deficit democratico che può correttamente parlarsi quando si affrontano le tematiche dei rapporti fra Costituzione nazionale e diritto comunitario quanto piuttosto di deficit costituzionale, che risulta solo superabile con il rinvio ai soggetti che uni-camente possono risolvere tale deficit di legittimazione costituzionale: i popoli europei, sovrani decisori della Costituzione europea.

È pur vero, sotto tale profilo, che i conflitti fra gli ordinamenti – na-zionali e comunitario – sono molto più paventati che effettivi. In tale contesto, i giudici nazionali sono chiamati a conciliare regole costituzio-nali e diritto comunitario, assicurando la primazia e la diretta applicabili-tà del diritto comunitario (regolamenti comunitari ma anche direttive self-executing) ma, al contempo, azionando, nel caso si renda necessario, il sindacato delle leggi di recezione dei trattati, almeno rispetto ai profili riguardati dal giudizio in corso. Omologo percorso dovrà seguire la giuri-sprudenza della Corte di Giustizia a sostegno del primato del diritto co-munitario su quello degli Stati membri dell’Unione.

La giurisprudenza costituzionale italiana in tema di contrasto fra nor-me comunitarie e princìpi supremi dell’ordinanor-mento costituzionale (in particolare nella sent. n. 232/1989), partendo dall’orientamento nel quale (Sent. n. 183/1973, caso Frontini e n. 170/1984, caso Granital), con la sanzione del principio della diretta applicabilità e del primato delle nor-me comunitarie, si limita ad ipotizzare l’incostituzionalità delle legge di esecuzione del Trattato (sentenze Frontini n. 183/1973 e Granital n. 170/1984), rinvia ad un controllo di costituzionalità che si estende a qualsiasi norma del Trattato per come è interpretata e applicata dalle isti-tuzioni comunitarie. La Corte, in tal senso, “non intende più soltanto svolgere un controllo, necessariamente di carattere eccezionale, sul rispet-to delle condizioni di costituzionalità dell’adesione dell’Italia alla Comu-nità europea, ma si riserva la possibilità di svolgere un ordinario con-trollo di legittimità costituzionale del diritto comunitario, anche se in ri-ferimento ai soli princìpi e diritti fondamentali della Costituzione... vale a dire quei princìpi che la Corte stessa, con giurisprudenza ormai costante, considera incommensurabili rispetto alle altre norme costituzionali” (M. Cartabia).

D’altra parte, la previsione, nel Trattato dell’UE, della disposizione sulle ‘tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri’, come vedremo meglio in seguito, non può che fondare (sia prima che dopo il recente

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TC) princìpi generali del diritto a cui la Corte di Giustizia deve attenersi nella propria giurisdizione, facendo sì che, in conclusione, i timori di ve-dere violata la Costituzione da parte del diritto comunitario dovrebbero scemare di molto, quasi fino a scomparire.

Circa il ruolo che la Corte di Giustizia potrà ulteriormente svolgere nella (recente) recezione nel ‘Trattato costituzionale’ della Carta europea dei diritti, ad ulteriore sviluppo delle forme di tutela dei diritti fonda-mentali e nello stesso consolidamento del diritto costituzionale comune europeo avremo modo di ritornare in seguito, sia pure in modo necessa-riamente essenziale. Rimane del tutto aperta, comunque, la questione del-la giustiziabilità degli atti del diritto comunitario derivato, che in Italia ha trovato soluzione sulla debole base dell’art. 11 Cost., nella parte in cui autorizza la immissione di norme in contrasto con la Costituzione, sog-gette, tuttavia, al sindacato della Corte costituzionale (mentre questa stra-da, ad esempio, rimane impercorribile per l’ordinamento francese, attesa la natura del controllo a priori svolto dal Conseil contitutionnel). Una questione, quest’ultima, che suggerisce, in modo più convincente, un più esplicito rispetto del principio di democraticità mediante una previa revi-sione e un adattamento delle costituzioni nazionali (comunque nel rispet-to dei relativi limiti impliciti ed espliciti) al fine di stabilire la possibilità di un controllo a priori degli atti comunitari diversi dai trattati in senso stretto, nonché, ovviamente, di questi ultimi.

Le Corti costituzionali, in questo scenario, sono chiamate, molto più di quanto avviene attualmente, a marcare i limiti dello sviluppo del di-ritto comunitario, provocando una presa di coscienza più netta del fatto che, di volta in volta, è necessario rivedere la Costituzione se si vuole far progredire l’integrazione comunitaria. “La Costituzione europea non può progredire senza periodiche revisioni delle costituzioni nazionali” (L. Fa-voreu) (cfr., in tal senso, la recente decisione del Conseil constitutionnel (Déc 19 nov. 2004, n. 2004-505 DC).

La Francia e alcuni pochi altri Paesi europei (Germania, Spagna, ma anche Portogallo), hanno avviato un proficuo percorso costituzionale in tale direzione. L’Italia aveva affrontato tale questione nell’art. 61 del testo di revisione costituzionale proposto dalla Commissione bicamerale (Com-missione D’Alema), ma il fallimento dell’intera proposta di revisione ha fatto rinviare ad un futuro indefinito una più organica riconsiderazione del problema, con la non irrilevante conseguenza che è dato assistere, da una parte, a vere e proprie declamazioni retoriche di tipo ‘europeistico’ circa la esigenza di spingere oltre il processo di integrazione comunitaria e, dall’altra, disporre ancora a tal fine di disposizioni costituzionali

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pensa-te dai costituenti per dirimere le controversie inpensa-ternazionali e concorrere ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, che solo mediante una ‘forzatura’ interpretativa hanno potuto essere utilizzate per legittimare la stipula del Trattato di Roma (e di quelli che successivamente lo hanno integrato e modificato).

5. Trattato costituzionale e diritti sociali comunitari

Sia pure con una gradualità che è chiamata a farsi carico delle diffe-renziate modalità di tutela dei diritti nelle costituzioni nazionali, a livello comunitario è dato ormai registrare (tale affermazione avrà piena effet-tualità solo a seguito della ratifica e della entrata in vigore del Trattato costituzionale ai sensi dell’art. IV-447 TC, le cui previsioni in tema di diritti fondamentali saranno in seguito meglio approfondite) una positi-vizzazione costituzionale dei diritti fondamentali classici, mentre si regi-strano tuttora ritardi nel pieno riconoscimento dei cataloghi dei diritti politici (G. Ferrara) e sociali previsti nelle costituzioni europee (M. Lu-ciani), la cui “minorità comunitaria”, rispetto ai modelli costituzionali na-zionali (soprattutto italiano, spagnolo e tedesco), risulta confermata dalla disciplina dell’art. 136 TCE (vers. cons.) (ora art. III-209 TC).

Secondo tale disposizione, infatti, “la Comunità e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali definiti nella Carta so-ciale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunita-ria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivo la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condi-zioni di vita e di lavoro... una protezione sociale adeguata, il dialogo so-ciale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupa-zionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione”; al II co., tuttavia, si aggiunge che, nella realizzazione di un simile complesso obiet-tivo, sia la Comunità che gli Stati membri attuano misure compatibili con la diversità delle prassi nazionali e idonee a farsi carico “della necessità di mantenere la competitività dell’economia della Comunità”. D’altra parte, la giurisprudenza comunitaria aveva già offerto un chiaro riscontro di tale bilanciamento fra esigenze economiche e diritto alla contrattazione collet-tiva, nel caso Albany International BV (Causa C-67/96, del 21 settembre 1999).

Il quadro normativo comunitario in materia di diritti sociali solleva molteplici perplessità, sia per quanto riguarda la disciplina positiva di tali (peculiari) situazioni giuridiche, sia per quanto riguarda l’effettiva loro

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‘giustiziabilità’. Tale preoccupazione, peraltro, appare condivisa dalla stes-sa dottrina che ha partecipato ai lavori della Convenzione incaricata di redigere il progetto della ‘Carta europea dei diritti’, benché da parte di tale dottrina si faccia osservare che la ratio che ha guidato i lavori della Convenzione non poteva che ispirarsi ad un necessario ‘compromesso co-stituzionale’ (S. Rodotà).

Le previsioni dell’art. 20 della ‘Carta’ (uguaglianza davanti alla legge) (ora art. II-80 TC), infatti, se paragonate con la ricchezza normativa del I e del II comma dell’art. 3 della Costituzione, appaiono operare un arre-tramento di almeno due secoli del dibattito e delle tutele assicurate dal costituzionalismo moderno e contemporaneo (G. Azzariti). Le problema-tiche dell’armonizzazione fra ordinamenti (costituzioni nazionali e Unione europea) sono, ancora una volta, rinviate ad un futuro indefinito, preve-dendosi da parte della Carta dei diritti, all’art. 53 (ora art. II-113 TC), una (evidentemente) necessaria clausola di salvaguardia dei diritti per come sono costituzionalmente e internazionalmente protetti.

Pertanto, come è stato bene sottolineato, la disciplina comunitaria dei diritti sociali, se non contrasta, di certo non corrisponde, nel fondo, con la loro concezione negli ordinamenti costituzionali nazionali a base socia-le (fra cui certamente l’Italia, la Spagna e la Germania), nei quali “i di-ritti sociali sono immaginati come una condizione a priori dell’azione dei pubblici poteri e gli interessi sociali ad essi connessi come semplici re-flexinteresse” (M. Luciani).

Ciò che rileva di tali diritti nell’azione e per la realizzazione delle fi-nalità dell’ordinamento comunitario è, dunque, la loro strumentalità (si direbbe, perfino, la loro ‘funzionalizzazione’) alle esigenze dello sviluppo economico e alle esigenze di competitività proprie del mercato comune europeo. In una simile ottica, i diritti sociali – nell’ambito più generale della politica sociale comunitaria, disciplinata nel nuovo Cap. I del Tit. XI del Trattato CE (art. 136-145), e nella reiterata sottolineatura (ora an-che nel Trattato costituzionale, art. III-219) an-che il loro riconoscimento costituzionale non modifica l’assetto delle competenze comunitarie – si trasformano in meri parametri di legittimità normativa di questa ultima, assumendo per questo non più una validità in sé, bensì la natura di diritti complementari alle libertà economiche, riservandosene il relativo ricono-scimento e la tutela al solo ambito interno degli Stati membri, mentre l’intervento normativo e giurisprudenziale europeo rimane esterno e su-bordinato alle tutele assicurate dalle legislazioni e dalle giurisdizioni degli Stati membri.

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comuni-tario, assumono una natura di diritti ‘residuali’ e strumentali agli obiettivi economici del mercato unico europeo. La normativa comunitaria in ma-teria sociale, in tal senso, si limiterebbe a disciplinare mere disposizioni programmatiche, prevedendo poco più che semplici ‘obiettivi’. In altri termini, mancherebbero veri e propri contenuti prescrittivi per le istitu-zioni comunitarie nel dare attuazione alle stesse se non nell’ottica della più volte richiamata ‘funzionalità sociale’ del mercato economico, nel senso della già sottolineata idoneità ad assicurare la “competitività della economia della Comunità”.

La Corte di Giustizia, come si è ricordato, ha fatto proprio tale indi-rizzo, quando, dopo un primo orientamento nel quale assume l’esistenza di limiti ai diritti fondamentali nella sola materia dei diritti economici (sent. 14 maggio 1974, Nold, causa 4/73; sent. 13 dicembre 1979, Hauer, causa 44/79), ha sancito che “i diritti fondamentali riconosciuti dalla Cor-te non risultano... essere prerogative assoluCor-te e devono essere considerati in relazione alla funzione da essi svolta nella società. È pertanto possibile operare restrizioni all’esercizio di detti diritti, in particolare nell’ambito di una organizzazione comune di mercato, purché dette restrizioni ri-spondano effettivamente a finalità d’interesse generale perseguite dalla Comunità e non si risolvano, considerato lo scopo perseguito, in un in-tervento sproporzionato e inammissibile che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti” (Wachauf, sent. 13 luglio 1989, causa 5/88).

La natura giuridica imprecisa e incerta di tali disposizioni pare, dun-que, unicamente superabile con la loro (innovata) positivizzazione in un più compiuto ‘catalogo’ di diritti sociali, all’interno di una rivisitata ‘Car-ta dei diritti’, su cui le istituzioni europee e la dottrina vanno discutendo negli ultimi anni (conoscendo, tuttavia, forti resistenze di alcuni Paesi membri, fra cui soprattutto la Gran Bretagna). Evidentemente, l’adegua-tezza di una simile Carta dei diritti sociali è funzione delle scelte politi-che e costituzionali sul futuro dello Stato sociale in Europa; ciò soprat-tutto se si considerano le esigenze integratrici alla base del recente allar-gamento del parterre europeo a dieci nuovi stati membri.

In definitiva, dunque, il futuro dei diritti sociali nel processo di co-struzione comunitaria non pare ulteriormente affidabile alla sola giuri-sprudenza pretoria della Corte di Giustizia e ai relativi, sempre possibili, conflitti con le giurisdizioni costituzionali nazionali, dovendosi prevedere una loro positivizzazione normativa capace di farsi carico – in modo più convinto (certo e garantito) rispetto al regime giuridico vigente e a quello de jure condendo – delle più avanzate ‘tradizioni costituzionali comuni’ in questa materia. Solo a partire da una disciplina comunitaria capace di

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conformarsi al più avanzato patrimonio costituzionale europeo in materia di diritti e di giustizia sociale, potranno ritenersi risolte le problematiche poste dall’esercizio dello stesso diritto alla tutela giudiziaria effettiva in tale ambito (principio, peraltro, affermato come fondamentale dalla Corte di Giustizia) sia con riferimento ai diritti c.d. negativi, sia e soprattutto ai diritti a prestazioni da parte dei pubblici poteri comunitari.

A partire da tale disciplina positiva, potrà conoscersi una limitazione della giurisprudenza comunitaria, nel senso che la Corte di Giustizia si vedrebbe legittimata nella sua interpretazione, fin qui orientata alla realiz-zazione delle finalità del mercato unico in ossequio ai valori di base ac-colti nei trattati comunitari originari, ad aprirsi ad una lettura delle di-sposizioni del Trattato capace di assicurare la garanzia dei diritti per sé considerati.

Tuttavia, tale orientamento che, nel fondo fa proprie le conclusioni cui era pervenuto il Rapporto del Comitato Simitis, nel suo farsi promo-tore di un forte invito alla Convenzione incaricata di redigere la ‘Carta’ ad operare “una ricomposizione dei valori fondamentali del modello so-ciale europeo nel nome della unità e delle complementarietà dei diritti di prima, seconda e terza generazione” (S. Giubboni), non intende affatto sottovalutare il significato importante delle scelte operate dalla ‘Carta’ in materia di diritti sociali, significativamente disciplinati, in parte, al titolo III (Uguaglianza) per quanto concerne i diritti sociali incondizionati (di-vieto di discriminazione), e in parte al titolo IV (Solidarietà) per quanto concerne sia i diritti sociali c.d. incondizionati che quelli c.d. condizio-nati.

Una parte di tali disposizioni riguarda il diritto del lavoro (ma non il diritto al lavoro) (art. II-75 TC), concretizzandosi in previsioni volte a garantire il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nel-l’ambito dell’impresa (art. II-87 TC), il diritto alla negoziazione e alle azioni collettive (art. II-88 TC), il diritto di accesso ai servizi di colloca-mento (art. II-89 TC), la tutela in caso di licenziacolloca-mento ingiustificato (art. II-90 TC), le condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 22-91 TC), il divieto di lavoro minorili e la protezione dei giovani sul lavoro (art. II-92 TC). Altre disposizioni riguardano invece, sia pure con diversa modalità di protezione, la vita familiare e professionale (art. II-93 TC), la sicurezza e l’assistenza sociale (art. II-94 TC), la protezione della salute (art. II-95 TC), l’accesso ai servizi di interesse economico generale (art. II-96 TC), la tutela dell’ambiente (art. II-97 TC) e la protezione dei consumatori (art. II-98 TC).

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determina il “transito simbolico dall’integrazione attraverso il mercato a quella attraverso i diritti” (S. Giubboni). In tale nuovo ambito normativo, i diritti sociali, sia pure con modalità e contenuti assolutamente non com-parabili alle più avanzate discipline costituzionali europee, risultano disci-plinati in modo non differenziato rispetto agli altri diritti fondamentali e alle libertà economiche comunitarie, condividendone ormai la natura pie-namente costituzionale e concorrendo a ripensare funditus il concetto di cittadinanza comunitaria “a partire dalla sua capacità di effettiva inclusio-ne sociale” (S. Giubboni). Rimainclusio-ne confermato, in ogni caso, che tale ri-costruzione rischia di restare astratta in assenza di una compiuta vigenza del TC, pur non negandosi il valore di moral suasion che simili disposi-zioni della ‘Carta’ avrebbero comunque per il giudice e le istitudisposi-zioni co-munitarie nel loro complesso.

6. I diritti fondamentali fra nuove positivizzazioni comunitarie e incerte

protezioni giurisdizionali

Se l’incorporazione nel TC della Carta dei diritti fondamentali del-l’U.E., cioè la ‘scrittura’ di questi ultimi in un ampio (benché ancora incompleto) catalogo – che riepiloga, positivizza e rende visibile la giu-risprudenza del giudice di Lussemburgo (C. Pinelli; G. Tesauro; A. Adinolfi; G. Gaja; P. Pescatore; P. Mengozzi; F. Cocozza) e di quello di Strasburgo e alla cui formazione hanno contribuito le tradizioni costitu-zionali comuni agli stati membri per come lette dal giudice comunitario – non consente ancora di poter essere assunta quale espressione di una piena costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, indubbiamen-te essa incide in modo rilevanindubbiamen-te nel ‘processo di costituzionalizzazione’ dello stesso, costituendone momento decisivo (M. Cartabia; G. Zagre-belsky).

Con la positivizzazione comunitaria dei diritti fondamentali può affer-marsi, infatti, che alla previgente funzione di mero limite all’adozione di atti comunitari in eventuale loro violazione si accompagna, ora, una di tipo positivo, quella di costituire uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, capace di guidare lo stesso esercizio da parte delle istituzioni comunitarie delle competenze loro riconosciute (O. De Schutter).

Così, se gli stessi hanno svolto fin qui una funzione per così dire stru-mentale, in ragione delle esigenze connesse ai progressi della costruzione del mercato comune europeo, il loro inserimento all’interno del TC ne disvela una nuova vocazione, capace di assicurare maggiore linfa e smalto

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