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Responsabilità sociale d'impresa e comunicazione online: le imprese di Pisa, Livorno e Lucca

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Facoltà di Scienze Politiche

Laurea Magistrale in Comunicazione D’Impresa e Politiche Delle Risorse

Umane classe LM59

TESI DI LAUREA

Responsabilità sociale d’impresa e comunicazione

online: le imprese di Pisa, Livorno e Lucca

_________________________________________________________________

Candidato:

Relatore:

Gabriella Di Maio

Andrea Mangani

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2

Questa va a te che hai lottato per me,

per tutte le volte che ho perso la calma

tu mi hai dato un’arma.

Mamma

(3)

3

INDICE

INTRODUZIONE ………5

1. CAPITOLO 1: La corporate Social Responsibility: nozione,

evoluzione e strategie.

1.1. La definizione di Responsabilità Sociale D’Impresa………. 7

1.2. Un’analisi storica della CSR ………... 9

1.3. Le prospettive teoriche della CSR ………. 14

1.4. Implementazione e gestione della responsabilità sociale: Vantaggi e Critiche ……… 16

1.4.1. La reattività sociale delle imprese ………... 18

1.4.2. Dalla filantropia strategica alla CSV………. 19

1.4.3. Le strategie per la sostenibilità……… 22

1.5. I modelli di responsabilità sociale: gli stakeholder e i loro approcci alla CSR ………. 35

1.5.1 Lo stakeholder approach alla CSR………. 41

2. CAPITOLO 2: La comunicazione della CSR: informare e

coinvolgere.

2.1. La comunicazione in responsabilità sociale d’impresa………43

2.2. Cosa comunicare: il contenuto del messaggio……… 44

2.2.1. CSR commitment ……… .45

2.2.2. CSR impact……… 46

2.2.3. CSR motives………47

2.2.4. CSR fit……… 48

2.3 Dove comunicare: canali di messaggio……… 49

2.4 Moderatori dell’efficacia comunicativa………51

2.4.1 La reputazione aziendale………52

2.4.2 Il posizionamento in CSR………54

2.5 Moderatori dell’efficacia comunicativa: le caratteristiche degli stakeholder 2.5.1 Tipi di stakeholder……… 55

(4)

4

2.5.3 L’orientamento ai valori sociali………. 58

2.6 Le strategie di comunicazione della CSR……… 59

2.6.1 La strategia di informazione degli stakeholder………. 60

2.6.2 La strategia di risposta degli stakeholder………. 61

2.6.3 La strategia di coinvolgimento degli stakeholder……… 62

2.7 Gli strumenti di comunicazione della responsabilità sociale 2.7.1 Il bilancio sociale………. 63

2.7.2 Il bilancio ambientale……… 63

2.7.3 ISO 14001………. 64

2.7.4 EMAS………. 64

2.7.5 Codice Etico………. 64

2.7.6 La carta dei valori………. 65

2.7.7 La certificazione Social Accountability 8000……… 66

2.7.8 ISO 26000: la nuova guida di responsabilità sociale……… 68

2.7.9 La certificazione Social Accountability 1000……… 71

3.

CAPITOLO 3: L’impegno nella comunicazione online: il caso

delle province di Pisa, Lucca e Livorno.

3.1 Introduzione, dati e statistiche descrittive ………. 72

3.2 Analisi empirica………. 78

CONCLUSIONI………84

(5)

5

INTRODUZIONE

La responsabilità sociale d’impresa (Corporate Social Responsibility, CSR) è un argomento che negli ultimi decenni è stato oggetto di crescente attenzione da parte di imprese, istituzioni e opinione pubblica in generale. La CSR intende di fatto

massimizzare il contributo delle organizzazioni verso un processo di sviluppo

sostenibile; si tratta di un approccio volontario, che va al di là degli obblighi di legge. Anche se il profitto è sempre stato l’obiettivo principale che ogni impresa si prefigge di raggiungere, nello scenario odierno è cruciale comprendere le conseguenze sociali dell’operato di un’azienda, in quanto si afferma sempre più la visione secondo cui le imprese sono parte costitutiva del contesto sociale, economico e politico in cui sono inserite. Le imprese sono consapevoli che per ottenere un successo commerciale e benefici durevoli, è necessario adottare un atteggiamento “responsabile” nei confronti dei principali portatori di interesse: gli stakeholder, ovvero dipendenti, consumatori, fornitori, mercato, ambiente di riferimento.

L’obiettivo della tesi è approfondire la conoscenza dei meccanismi di comunicazione nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa (CSR), mediante un’analisi dei siti web aziendali di un campione di aziende. Il presente lavoro è suddiviso in tre parti. Il primo capitolo è dedicato alla descrizione della Corporate Social Responsibility, mediante un’analisi concettuale e storico-economica delle principali teorie sviluppate nell’ultimo secolo. L’analisi storica è stata condotta a partire dalle teorie degli anni ‘50, nelle quali il concetto di responsabilità sociale è presentato come una misura correttiva ai “guasti sociali” prodotti da un sistema economico regolato dal mercato.

Successivamente, negli anni ’60, con il boom economico e il cambiamento sociale in atto, il concetto di CSR si affermò soprattutto grazie al contributo di Keith Davis, e divenne un concetto da considerare prioritario rispetto a quello economico: valori come l’uguaglianza di diritti e altri aspetti sociali legati all’impresa avrebbero dovuto

assumere un ruolo centrale nel management. Negli anni ’70 la responsabilità sociale divenne parte dell’agire imprenditoriale, mentre gli anni ’80 diedero luce alla teoria degli stakeholder di Freeman e agli studi di Business Ethics, e per la prima volta in quegli anni si assistette ad una vera e propria integrazione della responsabilità d’impresa. L’excursus storico termina negli anni ‘90, periodo in cui il concetto viene universalmente riconosciuto e sancito nella sua importanza organizzativa; si ha quindi la

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6 nascita di molte iniziative a livello internazionale, come le attività di Global Reporting Initiative e di AccountAbility, diretti alla formulazione di standard internazionali per la rendicontazione della responsabilità sociale. Successivamente il primo capitolo offre una ricostruzione di alcune prospettive interpretative (la teoria neoclassica, la teoria contrattualista e la teoria neo-contrattualista) al fine di cogliere in ognuna di esse le ragioni della CSR attraverso l’analisi della natura, degli obiettivi e delle finalità delle imprese. Un altro tema analizzato è quello inerente alla creazione di valore condiviso: il rispetto degli stakeholder si concretizza infatti nell’esigenza, per l’azienda, di evitare di anteporre il perseguimento dei propri obiettivi al benessere collettivo e al rispetto della comunità in cui essa agisce. Completa il primo capitolo la sezione dedicata alle strategie di implementazione effettiva della responsabilità sociale.

Il secondo capitolo evidenzia l’importanza della comunicazione per la CSR, intesa come un fattore che può influenzare positivamente la reputazione aziendale, evocare la fiducia ed essere un segnale di qualità del prodotto o dell’azienda. Scopo della seconda parte è comprendere che cosa comunicare, ovvero i contenuti del messaggio, lungo quali canali trasmettere il messaggio e quali fattori influenzano l’efficacia comunicativa. Sono poi analizzati i principali strumenti della Corporate Social Responsibilty, tra cui il Bilancio di sostenibilità, il codice etico, il Social AccountAbility 8000 e le norme ISO, attraverso i quali l’azienda riesce a dimostrare all’esterno il proprio impegno a livello ambientale, sociale ed economico.

Il terzo capitolo è dedicato ad una ricerca empirica, che si concentra sulle imprese di Pisa, Lucca e Livorno con un fatturato superiore ai cinque milioni di euro. La ricerca è composta da una prima parte descrittiva contenente per ogni impresa il nome, la nazionalità, il fatturato, i profitti o perdite per l’anno di esercizio 2017, il settore di riferimento, l’eventuale possesso di un sito web, la presenza di comunicazione in responsabilità sociale d’impresa, in che quantità e attraverso quali strumenti. Successivamente, di queste imprese sono stati analizzati i siti web aziendali, quando presenti, per osservare se esse sono impegnate in attività legate alla CSR. In caso affermativo, si è cercato di analizzare con quale intensità l’impresa comunica, sempre mediante le sue pagine web, il proprio impegno in ambito sociale e/o ambientale.

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7

CAPITOLO 1

La Corporate Social Responsibility: nozione, evoluzione e strategie.

1.1 La definizione di Responsabilità Sociale D’Impresa

La responsabilità sociale d’impresa (nella letteratura anglosassone Corporate Social Responsabily CSR), RSI in italiano, è un concetto di non semplice definizione in quanto viene chiarito ed applicato in modo diverso da differenti gruppi di persone. Si potrebbe anche sostenere che la stessa ambiguità del concetto è motivo della sua efficacia, in quanto le persone da decenni hanno riconosciuto l’importanza di discutere questo concetto attraverso il ruolo che ha.

La responsabilità sociale d’impresa viene definita dal Libro Verde della Commissione Europea, un documento che vuole stimolare la riflessione su particolari temi. Il documento del 2000, scaturito dal vertice europeo di Lisbona, aveva l’obiettivo di rendere l’Unione Europea capace di una crescita sostenibile accompagnata da un miglioramento qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale.

L’anno successivo, la commissione delle Comunità Europee presenta a Bruxelles, nel 2001, il Libro Verde1 dal titolo “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” nel quale è definita la Responsabilità Sociale D’Impresa come “Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate.”2

La CSR intende di fatto massimizzare il contributo delle organizzazioni verso un processo di sviluppo sostenibile; si tratta di un approccio volontario, che va al di là degli obblighi imposti dalla legge e che vuole portare l’azienda a ragionare sul suo impatto ambientale e sociale, avendo cura di alcuni particolari aspetti nei quali l’azienda decide di investire.

Il carattere su cui si insiste è la volontarietà dell’interessamento: si fa cioè riferimento ad attività indotte da un “dovere morale” e non dal mero rispetto degli obblighi

1 I libri verdi sono documenti pubblicati dalla Commissione Europea. Essi invitano le parti interessate

(enti e individui) a partecipare ad un processo di consultazione e di dibattito sulla base delle proposte presentate. Talvolta i libri verdi danno origine a sviluppi legislativi che vengono poi presentati nei libri bianchi (EUR-Lex).

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8 giuridici. Essere socialmente responsabile significa, infatti, non solo soddisfare le prescrizioni di legge, ma andare oltre, facendosi attori non soltanto dello sviluppo economico, ma anche di quello sociale.

Si fa viva così la consapevolezza che l’agire dell’impresa non può esaurirsi nella produzione di beni e servizi, ma deve estendersi fino ad includere il soddisfacimento totale dei bisogni di tutti gli attori interessati. Questo perché si afferma sempre più la visione secondo la quale le imprese sono parte costitutiva del contesto sociale, economico e politico in cui sono inserite e al quale devono, in qualche modo, rendere conto. L’attività imprenditoriale non può, quindi, misurarsi attraverso il mero calcolo del valore economico, ma necessita di un’integrazione con gli altri aspetti.

La CSR si configura come l’insieme di tutte quelle responsabilità che l’azienda e la sua direzione hanno nei confronti di vari soggetti influenzati dall’operato aziendale, al fine di favorire la cooperazione per la realizzazione ed un’equa distribuzione del valore creato e per contenere gli effetti negativi sugli stessi. Questo concetto è concorde con la definizione di responsabilità sociale d’impresa di Lorenzo Sacconi: “un modello di governance allargata d’impresa, in base alla quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza di doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder” (Sacconi, 2004).

Un’organizzazione è socialmente responsabile se riesce a conciliare diverse strategie: investire nel reclutamento, nella formazione e gestione delle risorse umane nel rispetto dei principi della parità di trattamento e dei pari diritti; limitare l’impatto delle proprie attività sull’ambiente esterno e adeguare l’impresa alle nuove tecnologie e ai processi produttivi ecosostenibili; investire le proprie risorse per migliorare e salvaguardare le comunità in cui opera; garantire un’integrazione e il rispetto delle problematiche sociali ed ambientali anche nella scelta dei fornitori e partner.

Per questa ragione si stanno diffondendo strumenti di rendicontazione innovativi, integrati ad un bilancio di esercizio in tre dimensioni secondo il triple bottom line, un indicatore triplice della performance imprenditoriale da misurare sulla base di un apporto alla prosperità economica, alla qualità ambientale e al capitale sociale e culturale del Paese in cui opera (Mariano,2005).

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9 Una CSR ben progettata entra nel cuore della società, influenzando le sue pratiche quotidiane e i processi aziendali attraverso la fusione delle responsabilità sociali, ambientali, etiche e filantropiche dell’impresa nelle sue operazioni, processi e strategie aziendali, in collaborazione con le parti interessate. È la volontà di un’organizzazione di essere responsabile degli impatti delle proprie decisioni sull’ambiente e sulla società. In questo contesto alcune azioni particolari, come la filantropia, intesa come un gesto libero e discrezionale di chi dona, riguardano il posizionamento dell’impatto sociale, ambientale ed etico su queste attività.

1.2 Un’analisi storica della CSR

L’estensione del concetto di responsabilità sociale al comportamento delle imprese ha una lunga storia, così come molti sono i contributi offerti dai ricercatori, grazie ai quali è possibile tracciare un quadro sull’evoluzione delle motivazioni che hanno mosso le imprese ad assumere espliciti impegni in materia di CSR (Carroll et al., 1999). Alcuni studi presentano un’importante ricostruzione storica degli studi sulla CSR a partire dalla metà del secolo scorso.

Gli anni Cinquanta e Sessanta evidenziarono la radice macroeconomica del tema; infatti, la CSR viene concepita come elemento complementare e misura correttiva ai “guasti sociali” prodotti da un sistema economico regolato solo dal mercato. Questo concetto era in forte contrapposizione alla laissez-faire economy3 ed ai suoi sostenitori, i

quali incoraggiavano una separazione tra attori politici e attori economici, conferendo ai manager soltanto la responsabilità di massimizzare la ricchezza degli azionisti. Interessanti sono stati alcuni contributi i quali sostenevano fortemente il concetto di CSR negli anni ’50; questi autori avvertirono che la CSR poteva essere usata come una vetrina. Ad esempio, nel suo articolo sull’esplorazione della relazione tra religione e affari, Johnson (1958) discusse la natura dualistica dell’uomo nella teologia cristiana:

3Teoria economica del XVIII secolo che si opponeva a qualsiasi intervento del governo negli affari. Il

principio guida del laissez-faire, un termine che in francese si traduce come “lasciare solo”, è che meno il governo è coinvolto nell’economia, meglio sarà il business e per estensione, la società nel suo insieme. L'economia del Laissez-faire è una parte fondamentale del capitalismo del libero mercato

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10 “l’uomo come angelo potrebbe usare le imprese per servire uno scopo sociale, mentre l’uomo come diavolo potrebbe abusare di potere aziendale e responsabilità. Credere che le loro società servano a uno scopo sociale più ampio potrebbe condurre i manager ad assumere una visione esagerata delle loro capacità, giudizi e contributi all’impresa di cui fanno parte”.

Johnson (1958) descrisse due scenari ipotetici:

- “I dirigenti aziendali possono sottolineare che la loro filosofia “socialmente responsabile” opera a beneficio generale; tuttavia, fondamentalmente tale ideologia può essere un sottile strumento per mantenere il potere economico nelle loro mani estendendo la loro influenza e il potere decisionale in così tante aree non commerciali da diventare dittatori benevoli.”

- Le corporazioni possono donare fondi a istituzioni caritatevoli o educative anche se in realtà stanno semplicemente cercando di comprare la fiducia della comunità.

Johnson anticipò così il termine “greenwashing”4 che entrò nel lessico quasi 50 anni dopo. Un altro lontano contributo considerato rilevante in tema di CSR è da attribuire a Howard Bowen (1953) che nel suo testo Social Responsability of the Businessman dà una definizione di responsabilità sociale riferita al businessman, quale attore individuale e non collettivo riguardante l’impresa; questo attore viene considerato un centro vitale della società e in grado, con le proprie azioni, di condizionare la vita dell’impresa. La definizione di CSR proposta da Bowen è: “l’obbligo del businessman a perseguire quelle politiche, a prendere quelle decisioni o a seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in termini di obiettivi e dei valori della nostra società” (Bowen, 1953). Negli anni Sessanta, periodo di boom economico e cambiamento sociale, si afferma il concetto di CSR, attraverso il contributo di Keith Davis (1960), il quale sosteneva che l’obiettivo della CSR dovesse essere considerato prioritario rispetto a quello economico: valori come l’uguaglianza di diritti dei lavoratori e altri aspetti sociali legati all’impresa avrebbero dovuto assumere un ruolo centrale nel management. Secondo l’autore, nell’esercizio del proprio potere sociale, l’impresa deve rispondere a due principi: la

social power equation (per cui l’impresa diviene responsabile nei confronti di tutti

4 L’Oxford English Dictionary definisce “Greenwash” come: “disinformazione diffusa da

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11 coloro che operano nello stesso contesto) e la iron law of responsability (che stabilisce le modalità e le conseguenze dell’esercizio del potere sociale all’interno degli impegni della CSR).

Negli anni Settanta, con la crisi economica mondiale, il clima di contrapposizione tra libero mercato e impegno sociale vede un primo momento di conciliazione, portando il dibattito su un livello più concreto, relativo ai legami tra CSR e performance finanziarie delle imprese impegnate nel sociale. La CSR diviene parte dell’agire imprenditoriale impegnate nel sociale, in quanto l’integrazione di alcune rivendicazioni sociali risponde all’interesse proprio dell’impresa. In quegli anni si inizia a parlare di modello “illuminato” di management aziendale, che sceglie un impegno nel sociale, in quanto le imprese che non usano le proprie capacità in senso responsabile tenderanno a perdere la propria posizione di dominanza a favore di quelle che si assumeranno qualche responsabilità. Questo cambiamento ha portato al nuovo filone della corporate social

responsiveness5 che indica il maggior interesse del soggetto economico al sociale. Si sviluppano anche gli strumenti operativi ed i processi interni per attuare realmente la responsabilità sociale: tecniche di auditing sociale, nuovi modelli di relazione con gli stakeholder, bilanci sociali e codici di condotta. Sempre in questo periodo a New York venne creato il “Committee for Economic Development and Social Responsibilities of

Business Corporations”6, che rappresenta l’impresa sotto forma di tre cerchi

concentrici: il cerchio interno rappresenta le funzioni economiche di base, quindi crescita, produzione e lavoro; il cerchio intermedio sarebbe stata la rappresentazione della necessità di operare nella consapevolezza di un cambiamento di valori e priorità sociali; il cerchio più esterno avrebbe infine rappresentato le responsabilità che l’azienda avrebbe dovuto assumere per apportare un miglioramento all’ambiente sociale. Inoltre, già dalla metà degli anni Settanta compare nel dibattito scientifico l’approccio della corporate citizenship7, che però trova il suo periodo più fecondo verso

la fine degli anni Ottanta (in una prima fase il termine era utilizzato per identificare la dimensione filantropica, in forza della quale l’impresa si impegna volontariamente nei

5 Corporate Social Responsiveness, ovvero di “sensitività”, di “rispondenza” sociale: l’impresa che vuole

gestire i rapporti con il suo ambiente di riferimento deve sviluppare questa sensibilità a cogliere le istanze che da esso provengono e a mediare i suoi imprescindibili obiettivi con le aspettative degli stakeholder;

6 Il Comitato per lo sviluppo economico del Conference Board (CED) è un'organizzazione non

governativa, non di parte, guidata da imprese pubbliche.

7 Corporate citizenship o cittadinanza aziendale, si riferisce alle responsabilità dell’azienda nei confronti

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12 confronti della collettività attraverso opere di beneficenza e donazioni; vedi Carroll, 1991).

Gli anni Ottanta rappresentano un periodo di profondo interesse verso le matrici micro della CSR grazie al contributo di due filoni della letteratura: la teoria degli stakeholder di Freeman (1984) e gli studi di Business Ethics8. Per la prima volta in quegli anni si

assiste ad una vera integrazione della responsabilità d’impresa, nelle sue diverse dimensioni, con il perseguimento degli obiettivi economico-finanziari dell’impresa e la sensibilizzazione del management aziendale verso gli stakeholder. L’impresa interpreta le aspettative etico-sociali provenienti dall’esterno e attua norme di condotta per soddisfarle, diffondendo inoltre la “cultura sociale” a tutti i livelli dell’organizzazione. La gestione strategica dei rapporti con gli stakeholder spinge l’azienda verso l’assunzione di una responsabilità non limitata soltanto agli shareholder. Tuttavia, seppur la CSR diventi un’opportunità per l’organizzazione per potenziare la sua collocazione nel contesto di riferimento, negli stessi anni emergono posizioni molto scettiche sulla sua efficacia. In particolare Rusconi (2010) evidenzia che: “As a matter

of fact the cultural climate was changing indeed, in the ‘80s a period started that could be considered of “low tension” […]. This was due, to a great extent, to be changing dominant view from a regulated to a stronger free market idea of CSR in the ‘70s and 80’ was on reducing of the tension towards CSR […]. In conclusion, a residual view and a lack of in-depth economical analysis of the ‘80s, another reason being that the “new conservative revolution” questioned the arguments of favorable conservatives”.

Negli anni ‘90 il concetto della CSR viene universalmente riconosciuto e sancito nella sua importanza organizzativa, ed è chiarito che la gestione strategica della leva della responsabilità rappresenti un elemento di vantaggio per le imprese. Sono intervenute anche molte iniziative da parte di organismi internazionali, volte a sostenere cambiamenti nei comportamenti delle imprese a favore della CSR. In questa prospettiva si inseriscono le attività del Global Reporting Initiative (Report di sostenibilità) e di Accountability9, dirette alla formulazione di framework e standard internazionali per la rendicontazione della CSR, con l’obiettivo di promuovere la disclosure d’impresa sulla

8 Per «etica degli affari» (traduzione dall'espressione inglese Business Ethics) si intende l'etica applicata

alle attività economiche (Marcoux, 2008).

9 In italiano tradotto con il termine di “responsabilizzazione”, Il concetto di “accountability” è legato al

rendere conto dell’azione fatta o fatta fare, al rispondere e al rendere conto dei risultati ottenuti, delle cose fatte (fatte bene e fatte male). (www.agendadigitale.eu)

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13 CSR attraverso documenti ufficiali idonei a supportare anche analisi comparative tra aziende diverse per settore e paese. È da segnalare anche la diffusione del pensiero di Carroll (1979) che propone un modello di responsabilità sociale dell’impresa, sotto forma di “piramide” in “A three dimensional conceptual model of social performance”. Il modello è caratterizzato da diversi livelli di priorità che un’impresa dovrebbe considerare nella definizione dei propri comportamenti e nel perseguimento dei propri obiettivi, ponendo la CSR all’interno del quadro globale dello stakeholder management. Nel modello proposto da Carroll, l’impresa risponde a quattro tipi di responsabilità: economica, legale, etica e filantropica. Se i primi due tipi di responsabilità possono definirsi obbligatori, in quanto rispondenti alle logiche di mercato e alla legge, il terzo e quarto livello si inseriscono in un più ampio quadro volontario, “obbligando” le imprese a ripensare il loro ruolo nella società. Le responsabilità etiche individuano impegni che non sono necessariamente codificati in leggi, ma che l’impresa assume nei confronti della collettività coerentemente al rispetto di principi universali (ad esempio, l’impegno sui diritti umani). Il livello più alto di responsabilità si inserisce su specifiche attività filantropiche, a favore di stakeholder che potremmo definire non primari, e si sviluppa nella convinzione che tra azienda e collettività esista un insieme di relazioni intrecciate in modo organico. Si riconosce altresì che tali relazioni possono cambiare nel tempo, e si richiede al management aziendale di dare una risposta effettiva in termini di rimodulazione delle relazioni con i vari soggetti interessati, e dunque garantire una gestione strategica dei rapporti con tutti gli stakeholder. La figura 1.1 riporta la rappresentazione grafica della piramide di Carroll della CRS.

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Figura 1.1, La piramide di Carroll

Negli ultimi anni la responsabilità sociale è divenuta parte integrante della gestione dell’impresa, sia nei suoi meccanismi operativi e funzionali, attraverso l’implementazione dei sistemi di coinvolgimento degli stakeholder, che nei sistemi di rendicontazione e disclosure volontaria, soprattutto attraverso il contributo di Edward Freeman (2008). Le pressioni operate dalle istituzioni e dai gruppi di stakeholder spingono le imprese verso comportamenti reattivi e proattivi per potenziare la loro reputazione, aumentando il loro impegno in CSR. In risposta a tali pressioni, le imprese tendono sempre più ad offrire all’esterno una quantità di informazioni che vanno ben oltre il bilancio d’esercizio, focalizzandosi sulle diverse esigenze che stakeholder primari e secondari presentano nei confronti del management aziendale. Anche l’adesione a standard internazionali di rendicontazione volontaria, di qualità e di rispetto dell’ambiente nei processi produttivi da parte dell’impresa sono intesi quali strumenti di gestione strategica per il successo aziendale. La CSR diventa, quindi, una funzione di

core business ed è usata come importante fattore di legittimità istituzionale.

Dal punto di vista storico, le pratiche commerciali che potrebbero essere definite socialmente responsabili nel ‘900 hanno assunto forme diverse: donazioni filantropiche,

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15 servizi alla comunità e miglioramento del benessere dei dipendenti. Si potrebbe affermare che i primi soggetti che adottarono politiche di CSR, anche se in maniera non sistematica e totalmente consapevole, furono gli amministratori delegati e i dirigenti d’azienda delle grandi compagnie petrolifere ed energetiche, delle società di telecomunicazioni e delle case automobilistiche degli anni ‘20 (Frederick, 2006).

1.3 Le prospettive teoriche della CSR

La trattazione sui principali contributi in materia di CSR si è sviluppata lungo tre prospettive teoriche: la prospettiva neoclassica, neo-contrattualista e relazionale (quest’ultima detta anche dell’economia civile).

Fino alla prima metà degli anni ‘70, dominava la prospettiva neoclassica che individuava la funzione sociale dell’impresa nel mero perseguimento del profitto. I fautori dell’economia neoclassica condividevano il pensiero secondo il quale gli atti con cui viene perseguita una responsabilità sociale d’impresa, oltre la sua principale mission (raggiungimento del profitto), fossero essenzialmente un costo.

Mentre i sostenitori della CSR reputavano che questo onere facesse parte dei doveri dell’impresa e dei vincoli imposti dai mutamenti sociali, gli economisti neoclassici consideravano invece la CSR un rischio per l’efficienza dell’impresa, e quindi un azzardo per il conseguimento della finalità sociale propria: il perseguimento del profitto. La teoria neoclassica è quindi impostata sulla determinazione utilitarista della funzione sociale d’impresa. I riferimenti teorici essenziali sono i due teoremi dell’economia del benessere e la rappresentazione “black box”10 dell’organizzazione orientata al profitto,

dal cui modello deriva l’idea che la responsabilità come finalità sociale consiste nel perseguimento del profitto e le pratiche di CSR siano conseguenza di incentivi derivanti dai mercati principali (beni, lavoro, capitale) all’interno dei quali l’impresa opera. In questa prospettiva, Milton Friedman, noto economista statunitense, affermava: “c’è una sola responsabilità sociale dell’impresa - usare le sue risorse e dedicarsi ad attività volte ad incrementare i profitti a patto che essa rimanga all’interno delle regole del gioco, il

10L’impresa, in questa prospettiva, è talora considerata come una black box che a partire da certi fattori

produttivi (inputs) offre beni e servizi sul mercato (outputs), senza che la sua struttura interna sia ben conoscibile. È definita solo in quanto riceve certi input e genera degli output.

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16 che equivale a sostenere che competa apertamente senza ricorrere all’inganno o alla frode” (Friedman, 1970; 1977). La citazione di Friedman riguarda la legittimità dell’autorità del manager, il quale è un agente fiduciario dell’azionista. Gli azionisti affidano il proprio denaro all’impresa, con il solo scopo di ricavarne un guadagno. Se i manager perdessero di vista il loro principale compito pensando ad impegnarsi in cause sociali, ne deriverebbe un costo accessorio per l’impresa e una variazione dei prezzi a discapito dei consumatori. Il compito di perseguire le cause sociali deve esser lasciato, secondo la teoria neoclassica, alle pubbliche amministrazioni. Oltre questa componente definita libertaria, nell’ambito neoclassico troviamo anche una teoria etico normativa di tipo utilitarista (Sacconi, 1991), e una teoria descrittiva della selezione dei comportamenti nel mercato concorrenziale.

La prospettiva più articolata, detta neo-contrattualista, è quella di Lorenzo Sacconi. Sacconi sintetizza la responsabilità sociale in un processo di governance che promuova il rispetto di un contratto sociale ipotetico, in cui vengono stabilite le allocazioni di diritti e doveri di tutti gli stakeholder. In tale contesto, sono definiti i contributi di ciascuno e le modalità di distribuzione del surplus prodotto dalla collaborazione tra gli agenti.

In seguito alle molteplici forme di coordinamento presenti nel sistema economico è nata la prospettiva dell’economia civile. L’espressione socially provided goods (beni “relazionali”), si basa sul modello di Antoci-Sacco-Vanin e spiega come sia plausibile che lo sviluppo economico, inteso come aumento di beni e di risorse materiali disponibili, possa produrre in realtà trappole di povertà sociale e, a lungo termine, il rallentamento dello sviluppo stesso. L’argomento degli autori è che il benessere individuale dipende in generale anche dalla possibilità degli individui di godere di beni relazionali. Tali beni vengono prodotti grazie all’intervento sociale, in particolare nel momento in cui le motivazioni alla partecipazione sociale non sono neutre, ma dipendono dalla condivisione di una cultura specifica all’interno di un gruppo. Il contributo più importante dell’economia civile al dibattito sulla CSR consiste nell’evidenziare che la sostenibilità di un modello di governo non può riferirsi soltanto a categorie astratte di equità o ad un modello di reputazione, ma deve considerare le modalità con cui una cultura produce, si diffonde e viene socializzata.

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1.4 Implementazione e gestione della responsabilità sociale: Vantaggi e Critiche

Dall'inizio degli anni 2000, la discussione sulla responsabilità sociale delle imprese ha preso quella che potrebbe essere definita una direzione strategica. Non solo i tradizionali sostenitori della CSR, ma anche alcuni ex adepti al credo neoclassico hanno iniziato ad abbracciare gli aspetti positivi, produttivi, innovativi e creatori di valore della responsabilità sociale. Sulla scia di insidiosi scandali societari che vanno da Enron11 nel 2001 a Volkswagen12 nel 2015 e, in particolare, degli eventi che circondano la crisi finanziaria globale del 2008 e oltre, l’assunto di poter contare sulla "mano invisibile"13 del mercato per garantire benefici risultati per la società risulta piuttosto indebolito. Nel 2005 fu dichiarato, in un’inchiesta sull’Economist, che i sostenitori della CSR sembravano aver vinto la "battaglia delle idee", raggiungendo un punto in cui non è più una questione di “se”, ma solo di “come” le società devono impegnarsi nella responsabilità sociale. Queste condizioni sembrerebbero richiedere nuovi, più accomodanti approcci economici alla CSR. È in questo contesto che è emersa la CRS strategica.

Sebbene Baron (2001) sia ritenuto il primo ad aver usato il termine "strategico" riguardante una CSR che crea di valore all'interno della visione dell'impresa basata sulle risorse, la discussione sulla CSR strategica è fiorita grazie al lavoro di Michael Porter, professore della Harvard Business School, e del suo co-autore e partner commerciale Mark Kramer. L'approccio strategico di Porter e Kramer alla CSR e alla CSV (creazione di valore condiviso)14 ha avuto un notevole credito tra leader aziendali e responsabili

11 La Enron Corporation è stata una delle più grandi multinazionali statunitensi, operante nel campo

dell’energia e fallita nel 2001. Nel giro di pochissimo tempo le azioni di Enron passarono da un valore di 86 dollari a 26 centesimi, bruciando circa 130 miliardi di dollari.

12 Il cosiddetto “dieselgate” o scandalo sulle emissioni ha riguardato la scoperta della falsificazione delle

emissioni di vetture muniti di motore diesel venduti negli Stati Uniti D’America e in Europa.

13L’espressione m. i. è utilizzata da Adam Smith nell’ambito dell’analisi del problema del protezionismo

e del libero commercio. Più precisamente, a essa Smith fa riferimento quando spiega che, seguendo le loro preferenze egoistiche, i possessori di capitale preferiscono investire in attività localizzate nel proprio Paese, creando in tal modo benefici a esso e alla società, anche se non era questa la loro

intenzione. Secondo Smith, gli individui sarebbero spinti da una ‘mano invisibile’ a operare in modo da assicurare tali benefici, pur perseguendo null’altro che vantaggi individuali.

14 Creazione del valore condiviso o “shared value” è definito come l’insieme delle politiche e delle

pratiche operative che rafforzano la competitività di un’azienda migliorando nello stesso tempo le condizioni economiche e sociali delle comunità in cui opera. (Porter e Kramer,2011)

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18 delle politiche pubbliche, e il valore condiviso risulta un approccio dominante nell'ambito della responsabilità aziendale. Dunque, è necessario comprendere i punti di forza e i punti deboli del contributo di questi autori, e in che modo esso può essere combinato con altre prospettive. L’elaborazione delle nuove forme della CSR da parte di Porter e Kramer (2002, 2006, 2011) si è evoluta nel corso dei tre articoli essenziali sull'argomento, che hanno condotto al nuovo concetto di creazione di valore condiviso. Etimologicamente, la "strategia" deriva dalla parola greca “stratēgía”, intesa come la scienza dei movimenti di un’armata militare. L'aggettivo strategico indica qualcosa che è progettato per mirare a uno scopo particolare o, in parallelo, qualcosa che è correlato all'identificazione di obiettivi e interessi a lungo termine o generali, e ai mezzi per raggiungerli. Gli scopi, gli obiettivi e gli interessi delle imprese private sono, in una forma o nell'altra, abitualmente centrati sul guadagno economico. Pertanto, quando si parla di strategie nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa, si deve attribuire uno scopo economico, o una qualità, alla stessa responsabilità.

La mentalità strategica ha svolto un ruolo importante nella letteratura sulla CSR per decenni, e oggi non è certamente monopolizzata da Porter e Kramer. Frederick (2006) ha sostenuto che "la CSR, qualunque sia la sua forma, serve interessi e obiettivi aziendali ed è stata pensata per farlo sin dal suo inizio, verso la fine del XX secolo". Il punto di partenza della letteratura classica sulla CSR era quindi il capitalismo liberale e il sistema di libera impresa. L'idea fondamentale era che le imprese all'interno di un tale sistema, oltre alle loro responsabilità economiche, tecniche e legali, avevano l'obbligo di lavorare per il miglioramento sociale, ed era loro interesse farlo in modo volontario. La mentalità strategica si è invece iniziata a diffondere, negli anni Settanta, grazie alla nozione di reattività sociale delle imprese.

1.4.1 La reattività sociale delle imprese

Secondo il lavoro di Frederick (1978), la reattività sociale delle imprese si riferisce all’attitudine delle aziende di rispondere alle pressioni sociali. In contrasto con i principi elusivi e le sfumature filosofiche che spesso caratterizzano il dibattito normativo sulla responsabilità sociale delle imprese, l'interesse sulla reattività indica un approccio più

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19 pragmatico e/o gestionale su come le aziende possono rispondere "a forze tangibili nell'ambiente circostante”. La reattività non dipende dalla coscienza sociale dell'amministratore delegato o dal management, ma guarda a politiche aziendali istituzionalizzate, dando peso alla strategia aziendale in quanto sostituisce la domanda sul perché essere responsabili con proposte su come essere responsabili nel modo più razionale.

Tuttavia, la capacità di risposta sociale delle imprese è stata considerata una sostituzione insoddisfacente delle responsabilità, poiché non fornisce una guida adeguata in termini di valori positivi. La reattività egoistica non è necessariamente sinonimo di comportamento responsabile (altruistico) secondo la prospettiva degli stakeholder o della società. La risposta della letteratura sulla CSR consisteva nel sostenere che la reattività è solo una parte di un contesto più esteso, e deve essere incorporata nella più ampia concezione dei processi di responsività sociale aziendale (CSP). Una visione strategica della responsabilità figura in modo prominente anche nella letteratura sulla gestione degli stakeholder, in quanto promuove la creazione di valore con e per le parti interessate.

1.4.2 Dalla filantropia strategica alla CSV

Porter e Kramer (2014) sostengono che è necessario un nuovo modo di pensare la responsabilità per una corretta combinazione di responsabilità sociale d’impresa e strategia aziendale. Invece di preoccuparci delle prestazioni passate, dovremmo concentrarci sulla creazione di valore in futuro. Il messaggio è che la CSR strategica deve spingersi oltre la capacità di risposta, e dovrebbe essere guidata da preoccupazioni strumentali piuttosto che normative: "l'uso della motivazione del profitto e degli strumenti di strategia aziendale per affrontare i problemi sociali (…) possono contribuire notevolmente sia alla “redenzione” del business che a un mondo migliore" (Porter e Kramer, 2014). Questi autori chiariscono che la CSR strategica non riguarda i valori personali, né il fare del bene. L'idea di base è che il capitalismo può offrire tutti gli strumenti necessari di cui le aziende hanno bisogno per affrontare i problemi sociali nel modo più logico ed efficiente. Porter parla della “capacità di utilizzare il nucleo di potere del sistema capitalista al fine di creare valore condiviso”.

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20 I primi contributi di Porter e Kramer sulla CSR (2002, 2011) possono essere letti come una riconfigurazione neoclassica in tre fasi di questo concetto. Nel primo lavoro del 2002 criticano la definizione ristretta della CSR come filantropia aziendale e sostengono la superiorità della filantropia strategica, ovvero un’offerta aziendale che crea valore per le imprese, per i beneficiari e per la società. Nel 2006 questa idea è stata estesa al campo della generale responsabilità sociale delle imprese, e si è riconosciuto che la responsabilità sociale strategica è superiore agli approcci convenzionali. Porter e Kramer confrontano il loro approccio con le giustificazioni prevalenti per la CSR: obbligo morale, sostenibilità, e reputazione. Tutti questi approcci soffrono della stessa debolezza in quanto si concentrano sulle tensioni (negative) tra imprese e società rispetto alle interdipendenze (positive), e si muovono lungo una logica astratta rispetto ad una operativa. Di conseguenza, le posizioni precedenti non aiutano le aziende a identificare le questioni sociali più importanti, dare loro la priorità e affrontarle direttamente. La CRS strategica, al contrario, serve a dare priorità ai problemi sociali. Lo scopo di dare priorità ai problemi significa "creare un'agenda sociale aziendale esplicita e affermativa" (Porter e Kramer, 2006). Il messaggio è che tale agenda deve rispondere alle aspettative degli stakeholder, ma che una CSR veramente strategica va oltre la capacità di risposta. Benché le aziende debbano comunque lavorare per moderare i danni derivanti dalle loro attività, la CSR deve essere considerata più una sfida operativa di routine, cioè applicata su base quotidiana. La strategia proposta consiste nel trasformare le attività della catena del valore e nell’utilizzare la filantropia strategica come leva per migliorare le aree più importanti del contesto competitivo. Secondo gli autori, mentre la CSR reattiva riguarda "essere un buon cittadino aziendale e affrontare ogni danno sociale creato dall'azienda, la CRS strategica è molto più rigida; si tratta di creare "un piccolo numero di iniziative i cui vantaggi sociali e commerciali sono ampi e distintivi". Anziché vedere la CSR come costo, la responsabilità è considerata un'opportunità e un investimento di cui beneficeranno sia le aziende sia la società nel suo complesso.

In un altro lavoro, Porter e Kramer (2011) fanno un passo in avanti proponendo di utilizzare il CSV (creating shared value) come alternativa concettuale che si smarchi dall'eredità improduttiva della responsabilità sociale d’impresa. Scrivono: "Il nostro campo visivo è stato semplicemente troppo limitato (…). Le aziende non sono riuscite a

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21 cogliere l'importanza del più ampio contesto imprenditoriale che circonda le loro principali operazioni". L’obiettivo delle aziende deve essere ridefinito come creazione di valore condiviso. I due autori definiscono il valore condiviso come "politiche e pratiche operative che migliorano la competitività di un'azienda e al contempo fanno avanzare le condizioni economiche e sociali nelle comunità in cui operano". Vengono delineati tre metodi di base del CSV: rielaborare prodotti e mercati, ridefinire la produttività nella catena del valore e consentire lo sviluppo di cluster locali.

Il punto di partenza per il primo tipo di valore condiviso è "identificare i bisogni, i benefici e i danni della società che sono o potrebbero essere incorporati nei prodotti dell'azienda". La produttività nella catena del valore è correlata a questioni sociali quali risorse naturali e uso dell'acqua, salute e sicurezza e condizioni di lavoro in generale. Lo sviluppo di cluster locali consiste nell'impegnarsi in azioni collettive e collaborative con altri attori per fornire migliori condizioni di contesto (istituzioni, infrastrutture, ecc.), e supportare così il contesto competitivo. Gli autori sostengono che il CSV "presume l'osservanza della legge e degli standard etici, oltre a mitigare i danni causati dalle imprese, ma va ben oltre". Fino ad oggi, il CSV non è stato universalmente apprezzato, ma ha sicuramente guadagnato una posizione predominante all'interno del sottocampo strategico della responsabilità sociale d’impresa.

Ma allora: “Quali sono i vantaggi e gli svantaggi nell’adottare pratiche di responsabilità sociale d’impresa?”

In un'intervista, Porter esprime la sua opinione sulla situazione del moderno dirigente aziendale: “penso che il business sia diventato meno soddisfacente per molti amministratori delegati, molti dipendenti e molti dei laureati di questa [Harvard Business School] e altre business school; molti dei leader con cui interagisco si sentono intrappolati nel sistema così come è definito oggi, e percepiscono orizzonti temporali ridicolmente brevi; penso che si sentano a disagio nei confronti della CSR poiché non ne hanno visto i risultati” (Driver, 2012).

Secondo Porter e Kramer, visto il frequente “fallimento pratico” della CSR, è allora necessario conciliare la competitività e la creazione di valore con i bisogni sociali delle comunità in cui operano le imprese. Mentre la CSR si trasforma frequentemente, la mentalità strategica CSR/CSV è molto più in linea con le competenze chiave, le prospettive strategiche concrete e le sfide delle singole imprese. Il valore condiviso

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22 rappresenta una mentalità orientata verso l'interno, positiva e innovativa, utile ad affrontare i problemi e le esigenze sociali in modi che risultano vantaggiosi per l'azienda. La creazione di valore condiviso non potrà fare a meno di investimenti strategici a medio o lungo termine. Porter e Kramer riconoscono che: “I mercati dei capitali continueranno certamente a spingere le aziende a generare profitti a breve termine, e alcune aziende continueranno sicuramente a fare profitti a scapito delle istanze di natura sociale. Ma tali profitti si dimostreranno spesso di breve durata e le opportunità di sviluppo più importanti andranno perdute” (Porter e Kramer, 2011). Pertanto, la CSV rappresenta un importante passo avanti per business tradizionale, poiché suggerisce una correzione rispetto all'orientamento a breve termine di molti dirigenti aziendali. Non consiste in una trasformazione radicale del sistema capitalistico, ma certamente richiede lo sviluppo di visioni ambiziose tese a modificare lo status quo. La proposta di Porter e Kramer presenta alcune limitazioni e lascia senza risposta alcune domande. Porter e Kramer sostengono che il loro approccio riguarda la sostanza (l'impatto sociale) della CSR, e non tanto lo “stile aziendale”. Dunque, sorprende quanto fortemente essi sottolineino che il CSV può facilitare le imprese ad ottenere il rispetto della società e servire a rimodellare il rapporto tra capitalismo e società. In un'intervista nel 2003, la principale critica di Porter nei confronti della CSR era che essa: “era diventata una religione piena di sacerdoti, in cui non c'è bisogno di prove o di una teoria".

In realtà non è così scontato che la CSR abbia effetti benefici per coloro che l’adottano, in quanto tanti degli elementi positivi che essa potrebbe apportare, come il “miglioramento dell’immagine aziendale”, sono in realtà molto difficili da misurare e i programmi di CSR rappresentano un ingente costo per le aziende.

Inoltre, tra le critiche che sottolineano la frequente inefficacia della CSR vi è la non sicurezza delle azioni concrete che l’azienda compie in materia di responsabilità; molti infatti sostengono che essa sia solo una strategia utilizzata dalle aziende per tutelare i propri interessi oltre che una copertura di facciata per celare comportamenti irresponsabili.

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1.4.4 Le strategie per la sostenibilità

Sicuramente una delle strategie migliori da implementare è quella riguardante la sostenibilità aziendale. Il termine "sostenibilità aziendale" è diventato sempre più diffuso nei consigli di amministrazione e nelle “agende” dei dirigenti d’azienda. In uno studio condotto su 766 CEO, si è concluso "che la sostenibilità è una parola chiave per i CEO di tutto il mondo".

La crescente pressione per rispondere ai problemi del cambiamento climatico, della crisi finanziaria, del degrado ambientale e dell'aumento della disuguaglianza sociale ha accelerato la diffusione della sostenibilità nei documenti aziendali interni, nei siti web aziendali, nelle dichiarazioni degli amministratori delegati e nei report aziendali. In uno studio recente, McKinsey ha concluso che "la scelta per le aziende oggi non è se, ma come, dovrebbero gestire le loro attività di sostenibilità”.

Gli stessi amministratori delegati si impegnano regolarmente a "integrare" la sostenibilità nelle loro operazioni e nella loro cultura, mentre studiosi e professionisti hanno offerto una serie di indicazioni per raggiungere questo obiettivo. Eppure, nonostante la popolarità della sostenibilità, vi è una enorme differenza nel modo in cui le aziende la trattano. Parte di questa variabilità di trattamento è spiegata da una grande ambiguità sul significato effettivo di sostenibilità, poiché il termine è aperto a varie interpretazioni gestionali che si traducono in diverse azioni a livello aziendale. Negli ultimi dieci anni si è assistito a una confluenza dei termini “responsabilità sociale delle imprese” e “sostenibilità”. Di conseguenza, i concetti e gli argomenti proposti sono ugualmente rilevanti per la CSR. Sebbene la sostenibilità abbia originariamente incarnato soltanto questioni ambientali, il termine oggi è spesso sinonimo della combinazione tra indicatori di prestazioni sociali, economici e ambientali con i quali un’impresa viene valutata.

A livello scientifico la descrizione e l’elaborazione del concetto di sostenibilità richiede la considerazione congiunta di più sistemi. Infatti, il “monismo morale” viene rifiutato a favore del pluralismo morale, in cui la sostenibilità abbraccia attivamente un insieme di diritti e sistemi politici, civili, sociali, ecologici ed economici, ognuno dei quali include più elementi. I sistemi ecologici includono sistemi idrici, il sistema climatico, la biodiversità o la riproduzione delle specie. I sistemi economici comprendono il sistema

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24 finanziario globale, l'uguaglianza dei redditi, il libero flusso di beni e servizi. I sistemi sociali riguardano il corretto funzionamento della società civile, bassi tassi di povertà, sistemi educativi o sanitari, giustizia sociale o sistema alimentare. La sostenibilità richiede la padronanza e la comprensione delle interrelazioni di causalità e la previsione dei diversi effetti delle decisioni aziendali sui cicli ecologici e sui modelli di vita socioculturali.

Infine, considerare gli obiettivi sociali, ecologici ed economici in modo interconnesso è insufficiente a meno che essi non siano trattati in maniera paritaria. Il principio di equità sostituisce, con l'uguaglianza, qualsiasi posizione di privilegio concessa a determinati obiettivi, attraverso l'equa distribuzione di risorse, opportunità, bisogni di base e diritti di proprietà.

Quasi tutte le aziende pubbliche e la maggior parte delle società non pubbliche rivendicano il fatto che stanno facendo qualcosa per difendere questi sistemi, minimizzando i danni (più propriamente, le esternalità negative), o individuando le modalità per rafforzarli e migliorarli. Ma poiché c'è una differenza nel modo in cui le aziende rispondono a queste istanze, è importante chiarire le diverse strategie che le aziende possono adottare. Un modo per farlo è considerare quanto questi principi sono incorporati nella strategia di base e nelle operazioni dell'impresa. Di solito si guarda alle scelte strategiche. La strategia di un'azienda può essere determinata utilizzando tre fattori:

- il suo posizionamento nel mercato rispetto alla concorrenza; - le competenze chiave che differenziano l’azienda dai concorrenti;

- la sua cultura di base, che chiarisce ai dipendenti lo scopo sottostante e l’identità dell'organizzazione, supportata da strutture, processi e politiche.

In primo luogo, il posizionamento va oltre il marketing e rappresenta una “proposta di valore” per i consumatori che distingue l'azienda dalla concorrenza. In secondo luogo, la strategia è incentrata su ciò che l'azienda riesce a fare bene e sulle sue competenze chiave, grazie alle quali i concorrenti trovano molto difficile imitarla o trovarne sostituti. Ciò potrebbe includere particolari individui impiegati dall'azienda (ad esempio Steve Jobs in Apple), specifici processi decisionali, prodotti unici, un marchio forte, pratiche di innovazione, proprietà intellettuale, macchinari di grande valore o operazioni a basso costo. Infine, il posizionamento esterno e le competenze interne devono essere

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25 supportati dalla cultura e dall'identità di un'organizzazione che superi le visioni del mondo dei dipendenti fino al punto in cui essi avvertono la rilevanza della strategia aziendale in tutte le loro attività quotidiane. Tenendo presente questi elementi (posizionamento, competenze chiave e cultura aziendale), possiamo, seguendo il lavoro di Rasche, Morsing e Moon (2017), suddividere le aziende sulla base di cinque strategie di sostenibilità.

Denial strategy

Nella prima strategia, denominata di negazione, la sostenibilità e la responsabilità sociale delle imprese sono altamente irrilevanti per la strategia complessiva dell'azienda. Qualsiasi coinvolgimento in questioni sociali o ecologiche è relegato a contributi filantropici che hanno ben poco a che fare con le operazioni fondamentali dell'azienda. Qui lo scopo è spesso quello di combattere qualsiasi pubblicità negativa che potrebbe essere associata alle attività fondamentali dell’impresa. Qualsiasi critica pubblica all’impresa viene sviata, in quanto i manager negano con veemenza qualsiasi illecito o responsabilità attribuito all’azienda.

Ad esempio, per molti anni l'industria del tabacco ha negato qualsiasi responsabilità del legame tra i loro prodotti e varie forme di cancro, nello stesso modo in cui molti attori dell'industria alimentare avevano negato le loro responsabilità per fenomeni di obesità e di altri problemi di salute. La Nike negli anni '90 ha negato le proprie responsabilità in relazione alle istanze su problemi di lavoro nei paesi in via di sviluppo, perché i fornitori che realizzavano i loro prodotti erano entità distinte, e quindi non sotto il loro diretto controllo.

In definitiva, le aziende di questo tipo affermeranno che nulla di ciò che stanno facendo è contro la legge e di conseguenza non stanno facendo niente di sbagliato. La strategia di rifiuto non prevede sostenibilità o CSR nel posizionamento competitivo e, al massimo, l’azienda ricorre a contributi filantropici isolati per suggerire che essa è un “buon cittadino”. In realtà, il successo delle aziende che adottano quest’ultimo approccio è fortemente dipendente da pratiche particolarmente dannose per i sistemi sociali, ecologici ed economici. Sebbene approcci del genere siano sempre più rari, le aziende potrebbero effettivamente adottare questo tipo di posizionamento. Più comune, sempre all’interno della denial strategy, è un posizionamento che si concentra sul

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26 “rifiuto” dei sistemi sociali o ecologici, per cui la negazione della responsabilità è spesso l'unica opzione. Ashley Madison (un sito di incontri online), ad esempio, è un'organizzazione la cui premessa fondamentale si basa su un servizio che molti ritengono “nocivo” per i sistemi sociali. Nel contesto dei principi di sostenibilità, le imprese che adottano una strategia di rifiuto prevedono un numero limitato di sforzi sociali, economici o ecologici, ignorano la complessità di questi problemi e danno a questi sforzi una bassa priorità rispetto ad altri obiettivi aziendali.

Praticamente tutte le aziende, oggi, affermano di prendere in considerazione alcuni obiettivi sociali o ecologici, comprese le aziende che utilizzano una strategia di rifiuto. Ma ciò che in genere guida la scelta del problema da affrontare sono le pubbliche relazioni, piuttosto che un tentativo di rispondere alle complessità che definiscono il problema. Dal punto di vista delle competenze interne, ciò che distingue l'azienda dai suoi concorrenti non ha praticamente nulla a che fare con la sostenibilità. In effetti, la fonte di distinzione di queste aziende consiste in un danno chiave dei sistemi sociali, ecologici ed economici. Se prendiamo in considerazione i produttori di armi o le aziende produttrici di tabacco, tutti hanno sviluppato forti competenze relative ai loro prodotti, che si tratti di innovazione del design, processi di produzione o logistica. Ma ciò che è unico e difficile da imitare in queste organizzazioni sono esattamente gli elementi che comportano un deterioramento del sistema sociale o ambientale. Dal punto di vista culturale, i dipendenti non attribuiscono alcuna rilevanza alla sostenibilità nelle loro operazioni quotidiane e compiono, al massimo, alcuni sforzi filantropici dettati dall’altro. Visti da vicino, i processi interni, gli schemi di incentivo, la valutazione delle prestazioni e l’abilità e la formazione dei dipendenti non hanno praticamente nulla a che fare con la sostenibilità.

Defensive strategy

Nella seconda strategia, le aziende vanno oltre la negazione della responsabilità e ammetono di essere in parte responsabili del danneggiamento di determinati sistemi sociali, economici ed ecologici. A differenza della precedente strategia, in cui le aziende sentono che non è necessario adeguare le operazioni a un nuovo contesto sociale, le aziende qui lavorano per ridurre il loro impatto in modo incrementale.

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27 L'obiettivo generale è qui di continuare il business come al solito, ma con alcuni aggiustamenti minori per rispondere alle forme di regolamentazione futura o alla pressione dei consumatori.

In altre parole, le aziende non sostengono più di non essere responsabili del degrado del sistema, e vogliono quindi mostrare che stanno rispondendo alle pressioni delle parti interessate, in particolare dei consumatori. Una risposta è quella di impegnarsi in attività filantropiche collegabili all'impatto delle loro operazioni. Questo aiuta le imprese a difendere la loro attività perché possono rivendicare il fatto che stanno almeno ridistribuendo parte del profitto a varie organizzazioni che tendono ad arginare alcune esternalità negative. La catena di caffè canadese Tim Hortons si è recentemente mossa in questa direzione. È certamente singolare l'iniziativa dell'azienda di raccogliere fondi per l'educazione alimentare dei bambini, attraverso il Programma Smile Cookie, e allo stesso tempo vendere biscotti ad alto tasso glicemico. È questo un ottimo esempio di come lasciare intatte le attività principali e lanciare iniziative filantropiche per dimostrare che le aziende si preoccupano di alcuni problemi. Anche le compagnie petrolifere e del gas sono state oggetto di grandi critiche per aver reclamizzato il loro impegno ad opporsi ai cambiamenti climatici; tuttavia le stesse compagnie hanno investito molte risorse nel supportare politiche che sostengono le energie rinnovabili, come l'energia eolica e solare. Il Guardian ha riferito che le sovvenzioni della Commissione europea per l'energia pulita sono state in gran parte richieste da BP, Shell, Statoil e Total, e dalle associazioni di categoria che rappresentano le compagnie petrolifere e del gas. Una risposta molto comune nella strategia difensiva è mirare “al frutto appeso in basso”, un'espressione che descrive le iniziative che rappresentano cambiamenti relativamente facili e che allo stesso tempo hanno un valore evidente. Le iniziative più comuni appartenenti a questa categoria riguardano la riduzione dell'energia e del consumo di combustibile nei processi di produzione, la riduzione degli sprechi mediante un aumento dell'efficienza delle risorse, e l’aumento dell’attività di riciclaggio. Le aziende minerarie, ad esempio, hanno iniziato a propagandare il "green mining" per garantire miglioramenti incrementali nell'uso di energia e combustibili insieme a riduzioni di tossicità, emissioni e uso dell'acqua. Al di là della dimensione ecologica, una banca d'investimento potrebbe indicare di aver ridotto la quota di mutui

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28 annunciare una riduzione di zucchero e di sale nei prodotti esistenti del 15%. Con strategie di questo tipo, le aziende sostengono di lavorare per ridurre l'impatto delle loro operazioni, dei loro prodotti e dei loro servizi sui vari sistemi, ma le pratiche produttive e commerciali non cambiano: esse sono semplicemente diventati più efficienti o "meno insostenibili". Internamente, quindi, le competenze di base rimangono legate a pratiche che sono legate al deterioramento del sistema ecologico, ambientale ed economico. Detto questo, alcune aziende potrebbero sviluppare competenze particolari, in quanto le parti interessate possono percepire una determinata azienda come leader nel miglioramento incrementale del proprio impatto. Altre società possono sviluppare competenze associate all'efficienza delle risorse che i concorrenti non sono stati in grado di replicare.

Culturalmente, i dipendenti sono probabilmente inconsapevoli di qualsiasi posizionamento dell’azienda riguardante la sostenibilità e magari inquadrano eventuali incrementi di efficienza in un semplice contesto di “miglioramento” delle pratiche produttive e commerciali. Così, mentre una società può riuscire a crearsi un'immagine responsabile attraverso contributi filantropici, la sua identità interna non riflette alcuna sostenibilità. La valutazione della prestazione complessiva di un’azienda certamente risente degli sforzi di riduzione dei costi associati, ad esempio, a una riduzione dell’impatto ambientale, ma, a tutti i livelli dell'azienda, c'è ben poco in termini di responsabilità verso obiettivi sociali ed ecologici. Dal punto di vista dell'inclusività, dell'interconnessione e dell'equità, le imprese difensive, come quelle della strategia di rifiuto, attribuiscono maggiore importanza ad obiettivi sociali ed ecologici. Ma poiché tali obiettivi sono strettamente connessi alle loro operazioni principali, le imprese difensive mostrano di comprendere meglio, rispetto alle imprese che adottano una strategia di rifiuto, l’interconnessione degli obiettivi sociali ed ecologici con i tradizionali obiettivi economico-finanziari. Ciò detto, agli sforzi filantropici viene una bassa priorità, al di fuori del marketing e delle pubbliche relazioni.

Isolated strategy

La terza tipologia di impresa è quella in cui la sostenibilità inizia a fare un ingresso sostanziale nella strategia e nelle operazioni dell'impresa. Questo in genere implica che un intero reparto o una linea di prodotti siano organizzati tenendo conto della

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29 sostenibilità. Possono emergere elementi di cambiamenti radicali alla sostenibilità, come l'iniziativa di scarpe verdi Nike, in cui i consumatori possono progettare le proprie scarpe utilizzando materiali ecocompatibili. Un altro esempio potrebbe essere l'uso, da parte di un'impresa manifatturiera, di una nuova tecnologia che riduce le emissioni del 90%.

L'importante differenza rispetto alla strategia difensiva è che l'azienda ha iniziato a innovare in modi che hanno rivoluzionato un particolare prodotto o processo, determinando una sostanziale riduzione del degrado sociale, ecologico o economico del sistema, riduzione che va ben oltre semplici miglioramenti incrementali. Nella strategia difensiva, i miglioramenti sono limitati, perché il processo o il prodotto stesso è spesso intrinsecamente insostenibile. Invece, la isolated strategy mette in discussione il progetto fondamentale del prodotto/servizio o del processo, evitando così tale limite. Toyota, ad esempio, ha rivisto una intera parte dei veicoli rimuovendo completamente la necessità di utilizzare un particolare minerale tossico. Il posizionamento di un'impresa sul mercato genera quindi una sorta di contraddizione. Da un lato, una parte delle operazioni o segmento della linea di prodotti rispetta i principi di sostenibilità; d'altra parte, il resto delle operazioni non è sostenibile e continua ad essere oggetto di critiche in quanto tale. Di conseguenza, le aziende che adottano questa strategia non necessariamente dichiarano che il loro posizionamento incarna la sostenibilità, ma si impegnano a farne un elemento centrale della loro strategia, riflettendo su quali risorse destinare agli sforzi per modificare alcune parti dei loro prodotti/servizi e delle loro operazioni. Quando si tenta di distinguere tra strategie difensive e isolate, è necessario esaminare in che misura tali iniziative rappresentano una parte sostanziale dell’attività dell’impresa o invece, come nella strategia difensiva, un mezzo per mascherare la l'insostenibilità delle operazioni tradizionali. In relazione ai vari principi di sostenibilità, il grado di inclusione dei diversi concetti nell’approcciarsi alla sostenibilità rimane invariato rispetto alle precedenti due strategie, ma aumenta la misura in cui l'azienda incorpora l'equità dei sistemi sociali ed ecologici. Tra l'altro, molte aziende adottano questa strategia anche a seguito di un certo numero di soggetti terzi che tendono ad essere attratti dalle iniziative dell'azienda quando questa sperimenta alcune pratiche sostenibili. Internamente, quindi, le aziende che adottano una strategia isolata rivelano competenze isolate, ma altamente redditizie. Ad esempio, esse possono realizzare un

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