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La sentenza M.A.S.: conseguenze di una sovranità incerta.

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Dall’Unione europea

La sentenza M.A.S. della Corte di giustizia e i suoi effetti: continua la

saga Taricco

di Ernesto Lupo

La sentenza della Corte di giustizia nella causa C-42/17, emanata il 5 dicembre 2017, costituisce la prova più evidente della utilità di un colloquio tra il giudice europeo ed i giudici degli Stati membri. Essa è riuscita a sdrammatizzare la situazione reattiva indotta nella cultura giudiziaria nazionale dalla precedente sentenza della stessa Corte dell’8 set-tembre 2015, Taricco. La nostra Corte costituzionale, attraverso la questione di interpreta-zione della sentenza europea (ordinanza n. 24/2017), aveva prospettato l’incompatibilità di detta pronunzia con il principio di legalità dei reati e delle pene. La Corte europea, rispondendo in tempi piuttosto celeri al rinvio pregiudiziale del giudice costituzionale, ha ribadito l’interpretazione che essa aveva dato ai primi due paragrafi dell’art. 325 TFUE, escludendone soltanto l’applicabilità ai reati commessi prima della sentenza Taricco (pari-ficata, sotto tale aspetto, ad uno ius novum) e quindi superando ogni obiezione relativa al requisito della legalità costituito dalla irretroattività della legge penale in malam partem. Nello stesso tempo la Corte europea ha ribadito che il detto principio di legalità opera pienamente anche nel diritto dell’Unione europea, fondandolo sull’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali, sulle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e sulla identità di significato e portata con la garanzia prevista dall’art. 7 della CEDU. Non vi può, quindi, essere contrasto, in linea di principio, tra la legalità penale esistente nel diritto dell’Unione e quella vigente nel diritto italiano, per quanto attiene ai tre «requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile» (§ 51 della sentenza).

Quali gli effetti della recente sentenza della Corte di giustizia? Nell’immediato ogni possibilità di opposizione dei controlimiti alla prima sentenza europea (Taricco) è

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venuta meno. Questa prima sentenza è inefficace rispetto a tutti i reati commessi entro l’8 settembre 2015. Se, come è probabile, i giudizi rimessi dai giudici penali alla Corte costituzionale concernono reati commessi non oltre questa data, il giudice costituzionale potrà limitarsi a tale constatazione e conseguentemente concludere che ogni dubbio di costituzionalità indotto dalla sentenza Taricco del 2015 è divenuto privo di rilevanza, e quindi limitarsi a restituire gli atti ai giudici a quibus. Ma il contrasto con il principio di legalità penale prospettato dalla Corte costituzionale concerneva anche il requisito della determinatezza della legge penale applicabile, requisito che non sarebbe stato rispettato dalla prima sentenza europea Taricco. Su quest’altro aspetto del principio di legalità la Corte non dà una risposta diretta, ma la rimette al giudice nazionale (§ 59). Spetterà alla Corte costituzionale decidere se tale risposta preferirà darla direttamente (come si potrebbe ipotizzare sulla base della sentenza della Corte costituzionale n. 269/2017) ov-vero lasciarla ai giudici penali, compiendo una scelta che potrebbe anche essere soltanto implicita (qualora fosse nel secondo senso).

La comprensione di tale punto richiede che si entri nella interpretazione che la Corte europea ha dato ai primi due paragrafi dell’art. 325 TFUE. Questa interpretazione, rimasta immutata nelle due sentenze, ha riguardato le disposizioni che impongono agli Stati membri di combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante «misure» che sono diverse nei due paragrafi. Nel par. 1 le misure devono essere «dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri». Nel par. 2 le misure devono essere identiche a quelle che gli Stati «adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi nazionali» (c.d. principio di assimilazione). La Corte ha precisato il contenuto del par. 1, affermando che per combattere le frodi «gravi» in modo effettivo e dissuasivo possono essere indispensabili sanzioni penali (§ 39 della prima sen-tenza e § 35 della seconda sensen-tenza). Nel valutare la disciplina italiana della prescrizione dei reati in tema di IVA, la Corte di giustizia l’ha ritenuta idonea a pregiudicare gli ob-blighi derivanti dall’art. 325 TFUE per il fatto che gli artt. 160 e 161 cod. pen. prevedano, come effetto degli atti interruttivi, il prolungamento della prescrizione con il limite asso-luto di un quarto della sua durata iniziale; ma tale pregiudizio è stato ravvisato dal giudice europeo, per quanto attiene al par. 1 dell’art. 325, solo nell’ipotesi in cui la prescrizione trovi applicazione «in un numero considerevole di casi di frode grave».

Con questa interpretazione del par. 1 si attribuisce al giudice la decisione se applicare o meno la disciplina degli effetti giuridici degli atti interruttivi della prescrizione sulla base della valutazione sia della gravità della frode giudicata, sia soprattutto della applicazione della prescrizione «in un numero considerevole di casi». La Corte costituzionale ha già espresso perplessità sul fatto che detta regola «sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria» e tale da raggiungere «la necessaria determinatezza» (§ 5 della ordinanza n. 24). Sin dal primo intervento sulla sentenza Taricco (La primauté del diritto dell’UE e l’or-dinamento penale nazionale, in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2016), ho ritenuto tali perplessità fondate. La recente sentenza europea (§ 59) si esprime chiaramente nel senso che, se il giudice nazionale riterrà la regola Taricco fonte di «una situazione incerta», egli non deve procedere alla disapplicazione delle citate norme del codice penale, pure se esse

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costituiscono una violazione del diritto dell’Unione, per la prevalenza del principio della legalità penale sulla non applicazione anche di norme del Trattato UE.

Va, però, osservato che la valutazione sul rispetto o meno del principio di determina-tezza della regola, affermata dalla sentenza Taricco (e ora ribadita dalla Corte europea), viene espressamente limitata al disposto del par. 1 dell’art. 325, e non anche del par. 2 (che pone il principio di assimilazione). Questa distinzione si desume chiaramente dal citato § 59 della recente sentenza, sia nel suo diretto contenuto (limitato al par. 1), sia nel confronto con il § 58 della precedente sentenza, a cui esso è esplicitamente collegato (che, invece, si riferisce ad ambedue i paragrafi dell’art. 325). Ed in effetti il principio di assimilazione non presenta alcun aspetto di discrezionalità, né nel suo contenuto teorico, né nella sua applicazione alle frodi in materia di IVA. Gli artt. 160 e 161 cod. pen. non prevedono il limite massimo di prolungamento della prescrizione in caso di atti interrut-tivi per l’associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, che tutela interessi finanziari interni. La stessa disciplina può essere applicata all’analogo reato associativo diretto a commettere frodi all’IVA, se si intende prestare osservanza alla regola europea posta dal par. 2 dell’art. 325, che impone la non applicazione della contrastante regola nazionale (v. amplius il mio scritto La sentenza europea Taricco-bis: risolti i problemi per il passato, rimangono aperti i problemi per il futuro, in Diritto penale contemporaneo, n. 12/2017).

La Corte europea concorda con la Corte costituzionale nell’attribuire al legislatore la maggiore colpa della violazione dell’art. 325, riscontrata nella disciplina della prescrizione delle frodi IVA. Per quanto attiene a questa disciplina la Corte di giustizia riconosce che «la Repubblica italiana era libera», alla data dei fatti oggetto del giudizio, di prevedere che il regime della prescrizione dei detti reati «ricadesse […] nel diritto penale sostan-ziale» e fosse perciò «soggetto […] al principio di legalità dei reati e delle pene» (§ 45). La libertà derivava dalla assenza di una disciplina dell’Unione sulla prescrizione dei reati in discorso, pur essendovi una competenza dell’Unione a dettarla, concorrente con quella degli Stati membri (§ 43). È questa la ragione per la quale la Corte europea non ha seguito le conclusioni dell’avvocato generale Bot, che chiedeva la determinazione, nella sentenza, di una disciplina uniforme della prescrizione dei reati di frode IVA.

Ma la situazione, secondo la Corte, è medio tempore mutata perché una «armoniz-zazione è successivamente avvenuta, in modo parziale, con l’adozione della direttiva n. 2017/1371» del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi fi-nanziari dell’Unione mediante il diritto penale. Nella sentenza non si precisa quali siano gli aspetti armonizzati, tenuto conto che l’art. 12 della detta direttiva è, sì, dedicato alla prescrizione, ma nulla prevede in modo diretto sulla natura della prescrizione, al di là del par. 1 che riferisce il termine di prescrizione esclusivamente al compimento di attività processuali. In ogni caso va tenuto presente che la citata direttiva considera «reati gravi contro il sistema comune IVA» soltanto «le azioni o omissioni di carattere intenzionale […] connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e [che] comportino un danno complessivo pari ad almeno 10.000.000 EURO» (art. 2, par. 2, integrato dall’art. 3, par. 2, lettera d). La direttiva deve essere recepita entro il 6 luglio 2019. Il recepimento

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della direttiva costituirà la sede più appropriata per una disciplina della prescrizione che, a prescindere dalla sua natura, sia idonea a non ostacolare la punizione delle frodi gravi considerate dalla direttiva stessa e quindi sia osservante degli obblighi posti allo Stato italiano dall’art. 325 TFUE. Nel frattempo la Repubblica italiana potrà difendersi da eventuali iniziative della Commissione europea dirette a rilevare la violazione del Trat-tato facendo presente che la disciplina della prescrizione dei reati tributari, presa in con-siderazione nelle due sentenze della Corte europea, è stata modificata con un aumento dei relativi termini di un terzo (d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla l. 14 settembre 2011, n. 148), come ricordato già dalla Corte costituzionale (§ 7 della ordinanza n. 24) e, successivamente, con un ampliamento delle ipotesi di sospensione del corso della prescri-zione (l. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 11).

Ma, al di là della futura evoluzione della disciplina delle frodi IVA, la c.d. saga Taricco rimane emblematica non solo delle particolari difficoltà che presenta il primato del di-ritto dell’Unione nel settore della normativa penale (entrato di recente nella competenza diretta dell’Unione), ma anche dell’aiuto fondamentale che al superamento di tali diffi-coltà può apportare un dialogo tra i giudici, che sia idoneo a realizzare progressivamente il non facile equilibrio tra l’uniformità dell’Unione europea e l’identità nazionale degli Stati membri.

Ernesto Lupo è Primo presidente emerito della Corte di cassazione, è stato consigliere del Presidente della Repubblica per gli Affari dell’amministrazione della giustizia.

Adults in the (Deliberation) Room. A comment on M.A.S.

di Daniel Sarmiento

For many years, the Court of Justice of the European Union and national Constitu-tional Courts lived happily ignoring each other. Like neighbours of different naConstitu-tionalities that don’t share a common language and celebrate New Year’s eve on different dates, the supreme judges of Europe played the role of civilised but distant colleagues, living in worlds apart and dealing with very different duties.

However, in the 1980’s a sense of community among Constitutional Courts gra-dually developed. The event that united them seemed to be a competition to find the cleverest way to prove authority vis-à-vis the foreign neighbour sitting in Luxembourg. Controlimiti, Solange, ultra vires, constitutional identity, supremacy/primacy and many other labels flooded the discourse of judges, scholars and baffled external observers, like political scientists, who quickly realised that this was a battle to preserve the enormous powers that Constitutional Courts had been granted in post-war continental Europe. During that time, the Court of Justice of the European Union remained indifferent to the concerns of Constitutional Courts. Despite the provocations coming from Karlsruhe and other quarters, the position of the European court seemed passionless, devoid of all sensitivity or empathy towards its edgy neighbours. Europe’s cold-mindedness seemed to

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reach its hiatus when it refused to hear the Czech Constitutional Court’s submissions in a sensitive preliminary reference procedure raised by the Czech Supreme Court, only to be followed by a blunt ruling in Melloni, blasting the Spanish Constitutional Court’s efforts to preserve higher standards of fundamental rights protection in domestic law. Then the turn came to the German Constitutional Court in the OMT case, and finally, on Decem-ber 2014, the European Court of Human Rights got its fair share of ruthlessness when the Luxembourg court brought to an end the prospect of EU accession to the European Convention of Human Rights.

By 2016, the environment could not have been worse. Despite the diplomatic grins in pictures of official visits, the tension between the Court of Justice of the EU and Constitu-tional Courts had reached its highest peak. No solutions seemed to be in sight, except for the unconditional surrender on the part of the national courts, or an overt recognition by the European court of the limits of primacy of EU law. At a time in which Europe was in the midst in its worst economic and political crisis, the prospect of institutional insurrec-tion among Europe’s top judges loomed large, and it could not have come at a worst time.

But then in 2017 everything seemed to change. Last year we witnessed the first signs of empathy from the Court of Justice, in a noble effort to reconcile and normalise a histo-rically flawed relationship. The signs have not been discreet, quite the contrary. For the very first time, a Constitutional Court requested the Court of Justice to review a previous judgment, only to find a positive reply from Luxembourg. An episode of the kind should not be the source of much interest, for supreme courts change their minds every now and then, sometimes at the request, of another court. But the events in M.A.S., the case that gave the chance to the Court of Justice to play the pipes of peace with Constitutional Courts, are remarkable in their own right.

In its judgment in Taricco, rendered by the Grand Chamber on 8 September 2015, the Court of Justice ruled quite bluntly that short time-limits in Italian law barring cri-minal investigations in cases involving VAT fraud were contrary to EU law. The Court of Justice was protecting the Union’s own resources, but also a recent judgment that had caused havoc among Constitutional Courts: Akerberg Fransson. The case in Taricco was a sort of reverse Akerberg Fransson: did EU law apply when national fundamental rights in areas not harmonized by EU law have the effect of limiting the EU’s own resources? The answer given in Taricco was positive and Italian criminal courts found themselves reopening criminal proceedings that had been time-barred shortly before. The Corte Costituzionale was quick to refer a new case to the Court of Justice in M.A.S., highligh-ting the difficulties that the judgment in Taricco entailed from the optics of fundamental rights. The preliminary reference of the Corte Costituzionale was cleverly construed. It explained that under Italian law (and Strasbourg case-law), time-limitations in criminal proceedings are not a strictly procedural matter, but a substantive issue that has an impact on the criminal liability of the accused. Thus, time-limitations form part of the guaran-tees of every accused under the Constitution. These are not procedural guaranguaran-tees, but substantive ones closely attached to the principle of legality in criminal law. The Court of Justice agreed. Without crying mea culpa, it ruled that the Corte Costituzionale was

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right to approach the issue in substantive terms, particularly when a rule of national law has been declared in breach of EU law. Thus, a delicate balance was struck, confirming the incompatibility of the Italian rule on time-limitations with EU law, but conferring on Italian judges the power to keep the rule in place (until the legislature enacted the necessary measures) in case fundamental rights needed protection. The ruling in Taricco was preserved, but its practical implications were considerably reduced for the sake of fundamental rights protection.

The judgment in the M.A.S. case is a landmark decision on many counts. First, the Corte Costituzionale could have hidden the genuine issues underlying the case, and particularly the contradictions and flaws of the judgment in Taricco, whilst suggesting an alternative route that could have led to a different result. But the Corte chose a different course: it decided to set the issues openly and at the light of day for all to see. If the Court of Justice was to follow the Corte’s proposal, there was no dignified way of amending Taricco. We will never know the genuine reasons underlying the Corte’s approach, but an external observer could wonder if the hostility that had governed relations in the years before was a catalyser of such an explicit attitude from the Italian court. Second, the Corte Costituzionale chose a transparent but non-confrontational strategy. In stark contrast with the German Constitutional Court’s preliminary reference in the OMT case, a hawkish and aggressive reference which even threatened to set aside Luxembourg’s judgment if necessary, the Italian court chose to point at the alternatives in the hands of the Court of Justice, refusing at all times to warn of the consequences of a response in the negative. It is true that this was also the approach of the Spanish Constitutional Court in Melloni, whose order for reference in that case was an example of judicial good-manners among top courts, only to be rejected with a blunt rebuke. But this time the Court of Ju-stice seemed to have learned from past mistakes, and the approach chosen by the Italian court, after witnessing the hostility of others and the reactions from Luxembourg, payed off. Third, M.A.S. has given the Court of Justice the opportunity to refine its case-law on the level of protection of fundamental rights. In Melloni, the Court of Justice stated that in cases completely determined by EU law, national courts have no choice but to comply with the standards of fundamental rights protection set in the Charter. However, in ca-ses in which EU law leaves discretion to the Member State, national judges can choose between national standards or the Charter, unless the latter provides a higher level of protection. In this second case, higher national standards have to give way to the primacy, unity and effectiveness of EU law. This proviso proved, according to many authors, that the margins left to national courts were irrelevant. However, M.A.S. has proved them wrong. What the Court of Justice is stating in its decision is that national courts can keep their higher standards of protection, even if that entails a breach of rules on own resources of the Union. At no point did the Court of Justice raise the fact that such rules on own resources could be relevant to protect the primacy, unity and effectiveness of EU law. Quite the contrary, the Court of Justice seemed happy to ignore the proviso and openly indicated to the Corte Costituzionale that the way forward to fix the ill-conceived outcome of Taricco was by keeping the time-limits intact, at least for the time being.

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Above all, M.A.S. is good proof of how the Court of Justice is starting to realise that fundamental rights are not only institutional tools to enhance its jurisdiction, or to send popular messages to a demanding audience. The Court’s exorbitant protection of privacy in a line of cases such as Digital Rights Ireland, Google Spain, Schrems or Opinion 1/15, have been in stark contrast with very modest and minimalist interpretations of the Char-ter in fields such as immigration. The Court of Justice seemed to be comfortable in pro-viding superprotection to fundamental rights in politically secure terrains, but not much so when the subject-matter led the Court into muddy waters. From the entry into force of the Charter until 2017, the way in which the Court has handled fundamental rights has been inconsistent and, at times, opportunistic. The M.A.S. judgment is proof of a certain recognition by the Court of the costs of having a strong fundamental rights case-law, which will at times fit the Court’s agenda and in others it will not. Assuming a high level of fundamental rights protection entails equivalent levels of protection for all rights. Of course there will always be a margin of appreciation to be taken into account, and which will usually be channelled through a proportionality test, but the standards setting the breach must be equivalent, and not asymmetric depending on the right at stake.

The result of M.A.S. is promising, not only for its content, but also its context. The Court of Justice has finally realised that a genuine dialogue entails the possibility of cor-recting past mistakes. Genuine dialogue also implies the recognition of the other, even as an authoritative interpreter of EU law. To date, the attitude of the Court of Justice was one of selective competence, in which each court was the ultimate authority to interpret its respective legal texts. M.A.S. has proved that the Court of Justice can receive valuable lessons from Constitutional Courts in the interpretation of the Charter of Fundamental Rights of the EU, a text of EU law that is certainly to be interpreted by the Court of Ju-stice, but whose richness and potential can be preserved and exploited if the community of interpreters is enlarged. This community of interpreters has been officially inaugurated and put to work by the M.A.S. judgment.

Daniel Sarmiento è professore di European Union Law nell’Università Complutense di Madrid, è stato referendario presso la Corte di giustizia dell’Unione europea.

La sentenza M.A.S.: conseguenze di una sovranità incerta

di Valeria Marcenò

Una ricostruzione che metta ‘in colonna’ la giurisprudenza nazionale ed europea intorno alla vicenda Taricco e alla compatibilità europea della normativa nazionale in ma-teria di frode fiscale sembra condurre alla conclusione che il dialogo tra le Corti non solo è vivo ma, soprattutto, è fecondo. Alla decisione della Corte di giustizia dell’8 settembre 2015 – che affermava con nettezza il dovere del giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando le disposizioni incompatibili –, la Corte costituzionale ha reagito in modo altrettanto netto, confermando, per l’ordinamento

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giuridico italiano, la natura sostanziale della prescrizione in materia penale (e, dunque, la sua riconducibilità alla tutela garantita dall’art. 25 Cost.); riconoscendo il principio di legalità penale come uno dei principi appartenenti al nucleo immodificabile dell’ordine costituzionale; e affermando la prevalenza della garanzia dei diritti fondamentali rispetto al diritto europeo (ord. n. 24 del 2017). Ciò nonostante, non si è avvalsa (pur potendolo fare, e pur in tal senso sollecitata dalla dottrina) della c.d. dottrina dei contro-limiti: solo nel caso in cui la Corte di giustizia avesse, in ipotesi, confermato il proprio precedente, sarebbe stata costretta ad adempiere a quel dovere, discendente dal suo ruolo di custode della Co-stituzione. La Corte di giustizia, nella decisione del 5 dicembre 2017, ha scongiurato la pos-sibilità che la Corte costituzionale desse seguito a questo suo dovere. Pur ribadite le ragioni poste alla base della precedente decisione, compare nel dispositivo un «a meno che…»: il giudice ha il dovere di disapplicare la normativa nazionale «a meno che una disapplica-zione siffatta comporti una violadisapplica-zione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato», così mostrando di aver tenuto conto delle sollecitazioni pro-venienti dal giudice del rinvio. Il percorso si chiude, dunque, con una decisione dal tono rassicurante: il dialogo ha funzionato, e nessuna paventata guerra ha avuto inizio. Del resto, la stessa Grande Sezione ha avvertito l’esigenza di soffermarsi sul procedimento del rinvio pregiudiziale qualificandolo «strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione», al fine di «assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione nonché la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto» (§§ 22 e 23).

L’ordinanza di rinvio pregiudiziale conteneva tre quesiti d’interpretazione dell’art. 325, par. 1 e 2, TFUE (in realtà, della decisione con cui il giudice del Lussemburgo si era già pronunciato). La Corte di giustizia re-interpreta il proprio precedente alla luce dei primi due, dichiarando assorbito il terzo. Il silenzio calato su questo terzo quesito (quello relativo alla dottrina dei contro-limiti) attenua l’indole rassicurante di questa decisione, non essendo stato affrontato (volutamente, data la sua incidenza sia sul rapporto tra giu-dici nazionali e giudice sovranazionale, sia sul rapporto tra giugiu-dici comuni e giudice co-stituzionale) l’aspetto che più tradisce un problema oggi irrisolto (o, meglio, un problema che oggi riappare in tutta la sua complessità): quello della spettanza della sovranità. Sia la Corte costituzionale, sia la Corte di giustizia, nei loro rispettivi atti, rivendicano la so-vranità dell’ordinamento di cui sono custodi: la prima, attraverso la tutela, anche dinanzi al diritto europeo, dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale (cui appartiene il principio di legalità penale); la seconda, attraverso una specifica distribuzione dei compiti (tra giudice nazionale e legislatore nazionale) in ossequio al prevalente interesse europeo.

Riprendendo quanto già affermato nel diretto precedente, la Corte di giustizia riba-disce che grava sugli Stati membri un «obbligo di risultato» (§ 38): dare piena efficacia ai doveri assunti in conseguenza dell’adesione all’Unione europea e ai suoi trattati (nel caso di specie, all’art. 325 TFUE). Obbligo di risultato cui sono tenuti sia i giudici nazionali, sia il legislatore nazionale, chiamati ciascuno ad assolvere a un compito specifico. Ai primi

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spetta «disapplicare disposizioni interne, in particolare riguardanti la prescrizione, che, nell’ambito di un procedimento relativo a reati gravi in materia di IVA, ostino all’applica-zione di sanzioni effettive e dissuasive per combattere le frodi lesive degli interessi finan-ziari dell’Unione» (§ 39); al secondo, «garantire che il regime nazionale di prescrizione in materia penale non conduca all’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave in materia di IVA o non sia, per gli imputati, più severo nei casi di frode lesivi degli interessi finanziari dello Stato membro interessato rispetto a quelli che ledono gli inte-ressi finanziari dell’Unione» (§ 41). La recente decisione arricchisce la portata di tali com-piti. Il giudice nazionale competente, prima di disapplicare, deve «assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di aver commesso un reato siano rispettati» (§ 46): enfatizzando quanto già affermato, anche se sommessamente, nel suo precedente – ove la disapplicazione era richiesta solo «all’occorrenza» e nel rispetto dei diritti fondamen-tali degli interessati –, il giudice, qualora valuti che la disapplicazione possa comportare «una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determina-zione del regime di prescridetermina-zione applicabile» (§ 59) e, dunque, contrastare con il principio di legalità penale, non è tenuto a conformarsi a tale obbligo; «e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione» (§ 61). Il legislatore nazionale, al momento della prima pro-nuncia libero di prevedere che, nel suo ordinamento giuridico, il regime della prescrizione ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse soggetto, come queste ultime, al principio di legalità penale, è ora tenuto ad armonizzarlo (perlomeno il regime applicabile ai reati in materia di IVA) alla direttiva europea 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’U-nione mediante il diritto penale (§§ 44 e 45).

Se per il passato la decisione del 5 dicembre 2017 sembra aver definito i casi pen-denti (al punto da potersi ipotizzare una pronuncia costituzionale di infondatezza delle questioni di legittimità sottoposte alla Corte costituzionale), altrettanto non può dirsi per il futuro che, al contrario (e a dispetto del preteso intercorso dialogo), sembra rimanere aperto (e, dunque, per certi versi, incerto). Sul versante dell’autorità giudiziaria, la disap-plicazione delle norme nazionali incompatibili con il diritto europeo non opera automa-ticamente, ma è rimessa a una valutazione, caso per caso, da parte dello stesso giudice. Sul versante del legislatore nazionale, si impone la necessità di un adeguamento dell’or-dinamento penale nazionale, almeno nel suo contenuto minimo (essendo lasciata agli Stati membri la possibilità di introdurre misure più stringenti), al sistema introdotto dalla direttiva europea. Il che, da un lato, riporta al centro la legislazione parlamentare nella definizione di ambiti (quali quelli del principio di legalità penale) che sono stati oggetto di una rielaborazione di matrice prevalentemente giurisprudenziale; dall’altro, conduce a un duplice contrapposto esito: aderire alla natura processuale della prescrizione, secondo quanto si deduce dal contenuto della stessa direttiva, in palese contraddizione con quanto finora sostenuto, anche dalla Corte costituzionale; ovvero, incorrere in una possibile pro-cedura d’infrazione per mancato adeguamento.

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Sia la Corte costituzionale che la Corte di giustizia aderiscono all’idea che il principio di legalità penale appartiene – per usare una nostra categorizzazione – a un nucleo di principi intangibile. «Non vi è (…) dubbio che il principio di legalità in materia penale esprima un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non ab-biano in nessun caso portata retroattiva», si legge nella ord. n. 24 del 2017; «appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» (§ 53), ricorda la decisione della Corte di giustizia. Così, almeno da questo punto di vista, il diritto europeo, anche per il tramite della Carta dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, si avvicina al diritto nazionale. Senza che sia esplicitamente evocata, la dottrina dei contro-limiti è, dunque, presente nel dialogo tra le due Corti. Il suo diretto utilizzo (da parte della Corte costitu-zionale, per opporsi al diritto europeo e recuperare così spazi di identità costituzionale; da parte della Corte di giustizia, per affermare il diritto europeo) avrebbe trasformato il dialogo in due monologhi. Il suo utilizzo indiretto, invece, ha consentito che le distanze si riducessero.

Ma, davvero tale coincidenza di vedute comporta un’attenuazione dello stato di crisi dei rapporti inter-ordinamentali e il superamento della dottrina dei contro-limiti? Come si è detto, il dovere di disapplicare la norma nazionale in contrasto con il diritto europeo è condizionato alla valutazione, caso per caso, del giudice comune, chiamato dalla Corte di giustizia – questo è il punto – a verificare che essa, pur corollario del primato del di-ritto europeo, non sia tale da ledere il principio di legalità penale. Il giudice comune non può, pur nel superiore interesse dell’Unione europea, attenuare la tutela dei diritti fonda-mentali garantiti (anche) dal principio di legalità penale. Ma a chi spetta allora eventual-mente far valere i contro-limiti? La Corte costituzionale ha affermato la sua competenza (esclusiva) a sindacare il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (sent. n. 284 del 2007 e ord. n. 24 del 2017); e, di recente (sent. n. 269 del 2017), si è auto-qualificata giudice e custode dei diritti fondamentali, le cui violazioni «postulano la necessità di un [suo] intervento erga omnes […], anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)», cercando così di fronteggiare l’erosione cui il suo ruolo era soggetto, tanto da parte delle giurisdizioni sovranazionali (particolarmente, della Corte di Strasburgo), quanto delle giurisdizioni comuni (attraverso la combinazione tra il dovere di non applicazione della norma interna contraria al diritto europeo e il ricorso al rinvio pregiudiziale). La distribuzione dei com-piti individuata nella recente decisione della Corte di giustizia rischia di insidiare ancora una volta quello stesso ruolo. Davvero la decisione della Corte di giustizia è frutto di un dialogo dagli esiti rassicuranti?

Valeria Marcenò è professoressa di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Torino.

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Contesto politico e immunità di sede del Parlamento europeo

di Paolo Zicchittu

Le decisioni assunte dal Tribunale dell’Unione, il 20 novembre 2017, con riferimento ai casi Petrov (causa T-452/15) e Voigt (causa T-618/15) consentono di riflettere in termini più compiuti sulla peculiare configurazione che le norme relative all’immunità di sede hanno assunto in relazione al Parlamento europeo (PE). Le due sentenze, infatti, chiari-ficano le operazioni di bilanciamento compiute dai giudici di Lussemburgo per contem-perare le esigenze di protezione dei locali e delle pertinenze degli organi rappresentativi con il bisogno, altrettanto avvertito a livello sistemico, di preservare il libero svolgimento del munus parlamentare e di salvaguardare i diritti dei terzi estranei che entrino even-tualmente in contatto con il PE.

La necessità di proteggere il regolare esercizio delle funzioni all’interno delle Assem-blee elettive, impedendo l’accesso non autorizzato da parte di soggetti estranei, che pos-sano turbare lo svolgimento delle attività parlamentari, costituisce una delle prerogative storicamente più risalenti, sviluppatasi, in maniera quasi naturale, a partire dall’esigenza di difendere l’autonomia e l’indipendenza dei Parlamenti moderni. In questa logica, l’im-munità di sede ha regolarmente assegnato agli organi di presidenza di ciascuna Camera particolari poteri di polizia, ritenuti essenziali per disciplinare l’andamento delle sedute. Nella stragrande maggioranza dei sistemi giuridici contemporanei, a cominciare proprio dall’ordinamento italiano, però, la facoltà riservata agli organi interni del Parlamento di irrogare direttamente sanzioni, arrivando anche ad escludere dalle proprie pertinenze coloro i quali si rendano responsabili di manifestazioni che turbino il pacifico svolgimento delle attività camerali, integra, per lo più, una tutela post factum, nel senso che, sul piano logico-giuridico, l’esercizio di tale prerogativa presuppone sempre che un qualche disor-dine abbia già avuto luogo o si stia comunque verificando nel momento in cui le autorità competenti decidono di intervenire per censurare questo o quel comportamento.

Nelle ipotesi in esame, al contrario, la delibera assunta dagli organi di presidenza del PE, successivamente confermata dal Tribunale dell’Unione, mira a tutelare la sede del Parlamento, ancor prima che si siano verificati veri e propri disordini. Le due vicende processuali originano dalla medesima fattispecie: dopo aver presenziato ad un forum politico internazionale, tenutosi a San Pietroburgo, il parlamentare europeo Voigt deci-deva di dar seguito alle risultanze di quel dibattito, indicendo una conferenza stampa a cui avrebbero dovuto partecipare anche alcuni esponenti del partito nazionalista russo Rodina. Onde procedere all’organizzazione di tale incontro, veniva richiesta informal-mente la messa a disposizione di una sala del Parlamento. Successivainformal-mente, in previsione cioè di una seconda riunione di lavoro, legata sempre ai temi già affrontati nel summit tenutosi presso la Federazione russa, lo staff di Voigt faceva domanda alla Direzione Generale Sicurezza del PE affinché procedesse all’accredito di ventuno partecipanti, tra cui figuravano anche cinque cittadini russi appartenenti al Rodina. Tuttavia, in forza delle istruzioni ricevute dal gabinetto del Presidente, veniva rifiutata la concessione delle

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strutture richieste per la conferenza stampa così come negato l’accesso alla riunione di lavoro a tutti gli ospiti russi.

La decisione in questione veniva motivata argomentando che, in ragione del partico-lare contesto in cui, all’epoca dei fatti, si stavano sviluppando le relazioni politiche tra la Federazione russa e l’Unione europea, la presenza in Parlamento di politici russi avrebbe potuto turbare l’ordine, la sicurezza e il buon funzionamento dell’istituzione. Detta deli-bera veniva quindi impugnata sia dai partecipanti esclusi che dallo stesso Voigt.

Per quanto concerne il caso Petrov, gli ospiti russi, chiamati a presenziare agli incon-tri organizzati presso le sale del PE, lamentano una violazione del principio generale di uguaglianza, eccependo ai propri danni una discriminazione fondata, oltre che sulla loro origine etnica e sulla loro nazionalità, soprattutto sulle opinioni politiche da questi espresse in diverse sedi pubbliche. Più in particolare, ritenendo di non costituire alcun rischio per il normale svolgimento delle attività parlamentari, i ricorrenti sostengono che, in assenza di un fondato motivo oggettivo, la decisione impugnata sarebbe stata viziata da sviamento di potere. Secondo gli attori, infatti, sebbene la sicurezza interna del PE integri uno scopo legittimo, in ragione del quale risulta possibile escludere determinati soggetti dai locali dell’istituzione, i reali obiettivi della decisione assunta dagli uffici di presidenza sarebbero riconducibili alla volontà di estromettere dal dibattito politico-parlamentare esponenti partitici, che, in passato, avevano già manifestato idee o convinzioni personali sgradite alla maggioranza dell’Assemblea.

Con riguardo al caso Voigt, invece, il deputato europeo oppone anzitutto una vio-lazione delle sue prerogative. In quest’ottica, il ricorrente sottolinea che, ai sensi del regolamento interno relativo alle riunioni dei gruppi politici, anche i membri non iscritti ad alcuna formazione vantano il diritto a utilizzare le pertinenze del Parlamento per organizzare conferenze stampa, anche invitando soggetti terzi, seppur nei limiti della capacità disponibile e nella misura in cui la messa a disposizione dei locali non presenti un rischio per il normale svolgimento dei lavori. A questo proposito, Voigt rileva come il rifiuto opposto dalla Presidenza di mettere a sua disposizione una sala dell’istituzione gli abbia di fatto impedito di esercitare la propria funzione e di informare adeguatamente i cittadini sul contenuto della propria attività. In secondo luogo, il parlamentare ripropone, in maniera quasi pedissequa, le doglianze avanzate dai ricorrenti nella vicenda Petrov con riguardo alle discriminazioni asseritamente subite dagli ospiti russi in ragione della loro nazionalità, della loro origine etnica e delle opinioni politiche espresse, lamentando anch’egli una lesione del principio di uguaglianza e deducendo un vizio di sviamento di potere, dal momento che, quand’anche si fosse ritenuto che la presenza di alcuni invitati costituisse effettivamente un rischio per l’ordinato svolgimento delle funzioni camerali, sarebbe stato sufficiente escludere solo quei soggetti senza vietare integralmente la riu-nione.

Anche in ragione delle numerose irregolarità procedurali presenti nei ricorsi, il Tri-bunale ha avuto buon gioco nel rigettare tutte le istanze proposte dalle parti, adducendo motivazioni di ordine eminentemente formale, dietro le quali, però, è comunque possibile scorgere ragioni di carattere più marcatamente politico. Confermando integralmente

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l’orientamento assunto dal Parlamento europeo, infatti, i giudici del Kirchberg hanno sancito che l’applicazione delle norme relative all’immunità di sede del PE non si fonda soltanto su elementi concreti, ma, a seconda delle circostanze, può anche basarsi su una valutazione di ordine generale. In effetti, nei casi decisi con le sentenze in commento, il diniego dei locali del Parlamento europeo e l’esclusione di tutti gli invitati russi dalla riu-nione di lavoro è stata legata principalmente alle opinioni politiche e al contegno assunto in precedenza da alcuni dei soggetti sanzionati. Nella prospettiva prescelta dal Tribunale, pertanto, le giustificazioni addotte per esercitare le prerogative riconducibili all’immunità di sede riposano sulla sussistenza di un pericolo del tutto ipotetico, anche perché come base per la propria decisione il collegio adduce sia i rapporti tra alcuni partiti europei di matrice populista e i movimenti nazionalisti russi sia le opinioni espresse da alcuni parte-cipanti al forum di San Pietroburgo, di cui le iniziative organizzate presso le sale del PE avrebbero dovuto costituire la naturale prosecuzione.

Sembra però difficilmente dimostrabile a priori che il contegno precedentemente as-sunto dai politici russi chiamati a partecipare alle attività organizzate da Voigt nei locali dell’Assemblea costituisse, di per sé, un pericolo per l’istituzione o dovesse necessaria-mente trasmodare in disordini tali da richiedere un intervento specifico da parte delle autorità di polizia interna. Per questo, la decisione degli organi di presidenza, poi avallata dal Tribunale, lascia sorgere legittimamente il dubbio che le norme relative all’immunità di sede del Parlamento europeo possano essere utilizzate anche in modo distorsivo per colpire posizioni politiche considerate scomode. Al riguardo, infatti, sarebbe stato certa-mente più coerente con la ratio ispiratrice dell’istituto consentire lo svolgimento della conferenza stampa e della riunione di lavoro, intervenendo tramite il servizio di sicurezza a disposizione della Presidenza soltanto qualora si fossero effettivamente registrati tu-multi o altre forme di provocazione.

Tutto sommato, però, una logica di questo tipo non ha prodotto effetti particolar-mente gravosi nei confronti dei cittadini russi esclusi dai locali del PE, giacché nelle proprie infrastrutture, l’Assemblea non è affatto tenuta a favorire le attività politiche di partiti che operano esclusivamente in un Paese terzo. Assai più delicata appare invece la posizione di Voigt e dei deputati europei in genere, i quali, in virtù di una simile applicazione delle norme di polizia interna, potrebbero vedere sensibilmente ridotte le proprie possibilità di azione, dal momento che l’impiego ex ante dei poteri sanzionatori derivanti dal diritto di casa cela il rischio che un istituto esplicitamente congegnato per proteggere l’integrità e il buon funzionamento delle istituzioni possa subire una torsione di tipo politico.

In altri termini, la facoltà di escludere alcuni soggetti dai locali del PE sulla base di una prognosi astratta potrebbe essere utilizzata per colpire posizioni incompatibili con gli orientamenti prevalenti, fino a conculcare i diritti delle minoranze, le quali vedreb-bero drasticamente ridotte le proprie prerogative a fronte della necessità di scongiurare un pericolo tutt’altro che attuale per i lavori dell’istituzione. Visto e considerato che la presenza in Assemblea di gruppi che patrocinano posizioni impopolari o scarsamente condivise potrebbe sempre creare ipotetici disordini, l’uso preventivo dell’immunità di

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sede arriverebbe quindi a orientare il dibattito in aula, selezionando gli argomenti da trattare tramite la programmatica esclusione di determinati esponenti politici dai locali dell’Assemblea.

Paolo Zicchittu è assegnista di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

The European Commission launches Art. 7 TEU proceedings against

Poland for breach of Rule of Law

di Maciej Taborowski

At the present time, when members of the Freiheitliche Partei Österreichs in Austria are entering government, no EU Member State is even considering bringing sanctions against Austria. How this differs from the year 2000 when Jörg Haider was to join the Austrian government! It is undoubtedly a sign that the political face of Europe is chang-ing and the boundary of what makes European politicians anxious has shifted signifi-cantly. Now, as recently put by Prof. Charles Kupchan in the New York Times, the battle line for Western values runs through Poland. The entry into the Austrian government of persons who in the past had contact with neo-Nazi groups has been overshadowed by the actions of the Polish government. Under the auspices of Jarosław Kaczyński’s party, Law and Justice, steps have been taken for over two years now which strike at the principles of the rule of law: violation of the Polish Constitution, incapacitation of the Constitutional Tribunal (CT), disregard for the decisions of that Tribunal, and a questionable reform of the court system. Herein essentially lies the reason for the triggering of the Art. 7 TEU procedure against Poland, which for the European Union is an event without precedent. On 20.12.2017 the European Commission stated that it had submitted to the Council of the European Union (the Council) a reasoned proposal in accordance with Art. 7 (1) TEU regarding the rule of law in Poland. The Commission thus moves for a declaration by the Council of the existence of a «clear risk of a serious breach» of one of the values referred to in Art. 2 TEU. Such a declaration requires a majority of 4/5 of the votes of the Member States (i.e. 22 out of 27), where the State which is suspected of a breach of values is not taken into account. This State must, however, be heard. Also required is the prior consent of the European Parliament (EP). In addition, the Council may send recom-mendations to the State concerned. The literal wording of Art. 7 (1) TEU suggests that the recommendations should be issued prior to the declaration by the Council of a clear risk of a serious breach of values. The Commission assumes, however, in its reasoned pro-posal, that the Council may first make such declaration and only then issue the pertinent recommendations.

The filing by the Commission of the reasoned proposal under Art. 7 (1) TEU was preceded by over two years of proceedings conducted on the basis of the so-called Rule of Law Framework. This is a communication (having a soft-law character) of the

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Com-mission of March 2014, in which the ComCom-mission specified the manner in which it will prepare for filing the motion on the basis of Art. 7 TEU. The Communication defined the core of the principles which make up the rule of law, availing itself of both the case law of the CJEU and the achievements of the Council of Europe. In the Polish context, of particular importance in this regard will be the requirement of the existence of an independent and effective judicial protection, including protection of fundamental rights. The Commission shaped the course of the proceedings on the basis of the Rule of Law Framework so as to have significant possibilities of a soft influence on the actions of a Member State which is suspected of a breach of the rule of law. With regard to Poland it has availed itself of all three stages of these proceedings. The first, in which it attempted to engage in dialogue and to define the problem in Poland (November 2015), ended with a confidential opinion of the Commission, addressed to Poland, concerning the rule of law (1 June 2016). If a Member State does not duly react to the substance of such an opinion, the Commission may then issue a «Rule of Law Recommendation». Such a recommenda-tion is made public and contains informarecommenda-tion about the appearance of objective evidence of a systemic threat to the rule of law. The Commission has issued as many as four such recommendations against Poland: 2016/1374 (27 July 2016), 2017/146 (21 December 2016), 2017/1520 (26 July 2017) and the Fourth Recommendation (20 December 2017). Following this, the Rule of Law Framework provides for a third stage: monitoring the situ-ation in the Member State. If the measures taken as part of the dialogue engaged in do not bring about the desired effect, the only option left open to the Commission is to file a motion for the initiation of the Art. 7 TEU procedure. Here ends the role of the Com-mission: the further fate of the motion is essentially in the hands of the Member States.

The reasoned proposal for the initiation of Art. 7 (1) TEU proceedings reflects, in principle, the content of the hitherto Rule of Law recommendations addressed to Poland. The Commission could have made use of these without even changing as much as a comma as they had been entirely ignored by the Polish government. These recommen-dations concerned mainly the situation involving the Constitutional Tribunal (CT), as well as regulations concerning the ordinary courts, the Supreme Court, and the National Judicial Council. The Commission emphasized that the legitimacy of the CT is under-mined and there is a lack in the Polish legal system of an independent control of the constitutionality of the law. This is because inter alia the panel of the CT contains three so-called doublers, i.e. judges selected by the current parliamentary majority in the place of positions already occupied by judges selected by the previous parliament. Judgements of the CT concerning this issue of December 2015 were quite simply ignored by the cur-rent parliamentary majority and the President of the Republic of Poland. Doubts have arisen as to whether judgements issued with the participation of the doublers are valid at all. Moreover, to date, a number of judgements of the CT of 2016, which did not suit the government, were quite simply not published. A number of them even disappeared from the official search tool on the CT website. There are also doubts as to the correctness of the selection of the new president of the CT and significant suspicions that at least some of the judgements of the CT are not handed down with observance of sufficient

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objectiv-ity. For example, new standards are being set with regard to the traditional principle of nemo iudex in causa sua. In one case (K 1/17), which concerned the legality of the election of the so-called doublers, the CT did not see anything inappropriate in the fact that the panel which ruled on this matter contained two doublers.

Beginning with recommendation 2017/5320, the Commission also pointed to the threats to the independence of the ordinary judiciary. These reservations concerned a number of issues. Firstly, regulations regarding the influence of the Minister of Justice (who in Poland is at the same time the Attorney General) on the career paths of court assessors, who do not have a sufficient guarantee of independence, although they are to perform the functions of judges. Secondly, the Commission pointed to the powers of the Minister of Justice concerning the removal and appointment of presidents of ordinary courts without any criteria and whilst omitting the hitherto constitutional role of the judges’ self-regulatory body. Such a shaping of the relations between the executive power and senior judges, who also have influence over the work of their junior colleagues, may create room for political pressure. Thirdly, attention has been drawn to the regulations concerning the granting of consent by the Minister of Justice to the further performance of a judge’s function upon reaching retirement age. Not only do the new regulations breach the ban on gender discrimination (men may serve as judges until 65 years of age, 5 years longer than women), but also the possibility of continuing in the profession until 70 years of age is decided by the executive power, according to unclear criteria, without a specific date or any judicial control. This last issue has moreover become also the subject of separate infringement proceedings under Art. 258 TFEU announced by the Com-mission on 20.12.2017 and will be decided by CJEU independently of the Art. 7 TEU procedure.

It should be pointed out that already in recommendation 2017/5320 (p. 22) the Commission expressly pointed out that engaging in measures against the judges of the Supreme Court (SC), including, for example, dismissing or forcing judges of the SC to retire, will trigger Art. 7 (1) TEU. This reservation followed from the statutory solutions then adopted, which interrupted the mandates of the judges of the SC and gave discre-tionary powers to the Minister of Justice, who could allow them to continue to perform their functions. These statutes were however vetoed by the President. The fact that the Commission has deemed that, after all, the red line has been crossed is due to two laws of 8.12.2017, on the National Judiciary Council (NJC) and on the SC, which constitute the subject of the fourth recommendation of the Commission. The new act on the NJC, which is a constitutional body and guards the independence of judges (inter alia in the process of nomination and promotions), provides for an unconstitutional interruption of the mandate of the current members of the NJC. New members-judges of the NJC will be appointed according to new rules, which assign key influence in their nomination to the parliamentary majority, and not to the judges’ self-regulatory body as was previously the case. On the other hand, the new act on the SC provides for a classic court packing. The lowering of the retirement age of judges to 65 years (approx. 37% of SC judges will retire), as well as the increased number of judges at the SC (from approx. 90 to at least 120

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judges, nominated according to the new rules, by the NJC dominated by the parliamen-tary majority), will in a short time lead to a significant change. Also the current president of the SC will lose her position, contrary to the mandate stipulated in the Constitution. While it is true that judges will be able to apply to the President of the Republic of Poland to continue to perform their function, the President can refuse at his complete discretion and without any judicial control whatsoever. Serious reservations are also raised by cham-bers in the SC which are being created entirely from scratch and thus composed of judges nominated by the parliamentary majority. These chambers are to decide, for example, on the validity of elections, including to the EP, or in disciplinary cases involving judges, who are at the same time deprived of some procedural guarantees.

As stated by the Commission, the regulations adopted over the last two years mean that the executive power and legislator may in a systematic manner exert political pres-sure over the exercise of powers, the management and functioning of the judicial system, which gives rise to a serious threat for the independence of the judiciary. This is also confirmed by reports of the Venice Commission. The Polish authorities have negated the entire proceedings to date, and above all have questioned the competence of the Com-mission to carry out actions on the basis of the Rule of Law Framework. It was very sym-bolic that on the same day that the Commission announced the Art. 7 (1) TEU proposal, the Polish President ostentatiously announced publicly that he would sign – without any reservations – the acts which were the subject of the Commission’s motion. From this point of view, it seems that the Commission lost a lot of valuable time in attempting to engage in pointless dialogue. This time was used by the Polish government to implement the controversial regulations. In this light it also seems that the Art. 7 (1) TEU motion is late. A serious and permanent breach of the rule of law already exists in Poland, while the actions taken by the Commission on the basis of the Rule of Law Framework have not achieved their originally intended purpose. This long period of dialogue, and of inac-tion, created the image of the Commission being powerless and Poland being at liberty to disrespect EU values, especially the rule of law.

The entire process of Art. 7 TEU may still last for some time. What is more, in truth it may not bring any improvement at all, particularly now that the stage of political nego-tiations is opening. The navigator of the political negonego-tiations will be the Bulgarian presi-dency. It is no accident that the new Polish Prime Minister chose Hungary and the new Minister for Foreign Affairs chose Bulgaria as their first foreign visit. During this visit, the Minister for Foreign Affairs stated indeed that the CJEU should be involved in the proce-dure under Art. 7 TEU as the only institution which is authorized to determine whether EU rights and standards are being complied with. While there are no legal grounds for this, the statement may indicate one of the lines of argumentation which Poland will want to use, i.e. that the Council is not the body which should decide on these types of breaches of the rule of law. The first debate in the General Affairs Council is not planned until the end of February. The subsequent schedule may vary – it may even go into the second half of 2018. A lot will depend on whether the Council will issue recommendations first, or take a decision immediately as to the merits. It should be remembered that even a

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suc-cessful procedure under Art. 7 (1) will not, in principle, involve any legal consequences (sanctions) for the Member State: this may diminish Poland’s motivation to correct its hitherto actions. Also the second phase of the proceedings in which the European Council may declare «a serious and permanent» breach of the rule of law by Poland may prove unachievable. The requirement of unanimity applies here, and already some time ago Hungary announced its support for Poland. Only such a unanimous declaration of the European Council, with the consent of the EP, would open in the third phase the possibil-ity of a suspension by the Council of Poland in certain rights following from the Treaties. But that is a long way to go.

Taking into account the potentially weak effectiveness of the procedure under Art. 7 TEU, the Commission could successfully avail itself of Art. 258 TFEU, where there is no room for political discretion, particularly now that the CJEU has been concentrating for some time on building a catalogue of principles making up the rule of law in the light of Art. 2 TEU. However, the Commission’s press release of 20.12.2017 leaves no room for illusions: the Commission does not intend, at this point in time, to initiate courageous and precedent-setting proceedings before the CJEU in the fight for the rule of law. In this way, however, the clear impression emerges that the EU has, once again, allowed its values expressed in Art. 2 TEU to be merely set out on paper.

Maciej Taborowski è assistant professor di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Varsavia.

La relazione 2017 dell’European Fiscal Board: un bilancio in

chiaro-scuro del primo anno di attività

di Cristina Fasone

Il 15 novembre 2017 lo European Fiscal Board (EFB) – meno noto, secondo la tra-duzione in italiano, come Comitato indipendente europeo per le finanze pubbliche – ha pubblicato la sua prima relazione annuale, relativa al 2016. Il Comitato, istituito con Decisione (UE) n. 2015/1937 della Commissione del 21 ottobre 2015 e in funzione da ottobre 2016, quando i suoi membri sono stati nominati, può essere inquadrato nella cate-goria delle istituzionali indipendenti di bilancio o fiscal councils di cui da tempo il Fondo Monetario internazionale, l’OCSE e la Banca centrale europea (BCE) raccomandavano l’istituzione anzitutto a livello nazionale. Si tratta di organismi indipendenti dalle auto-rità di bilancio, ma preposti al controllo dei conti pubblici, al fine di garantire il rispetto dei parametri fiscali e macroeconomici e che, a livello dell’Eurozona, hanno trovato un propria specifica disciplina con la riforma della governance economica europea tra il 2011 e il 2013 (si vedano la Direttiva n. 2011/85/UE dell’8 novembre 2011, l’art. 3, par. 2 del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria e il Regolamento (UE) n. 473/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del

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21 maggio 2013). Mentre all’interno e al di fuori dell’area euro, gli Stati Membri hanno istituito gradualmente questi organismi, in misura più o meno rispondente alla normativa europea, e con poteri più o meno incisivi sulle procedure di bilancio e le decisioni ma-croeconomiche (cfr. C. Fasone e D. Fromage, Fiscal Councils: Threat or Opportunity for Democracy in the Post-Crisis Economic and Monetary Union?, in L. Daniele, P. Simone e R. Cisotta (cur.) Democracy in the EMU in the Aftermath of the Crisis, Springer, 2017, pp. 162-178), un fiscal council dell’Unione con caratteristiche comparabili a quelli nazionali mancava del tutto fino alla seconda metà del 2016.

Lo EFB, la cui creazione era stata proposta nel Report dei 5 Presidenti UE del 22 luglio 2015, è stato poi istituito qualche mese dopo con la citata Decisione della Com-missione europea e può essere considerato quale «organo ausiliario» della ComCom-missione anche se da essa indipendente, con funzioni consultive, di valutazione del quadro attuale di bilancio dell’UE e dell’Eurozona, di collaborazione con i fiscal councils nazionali, di indicazione dell’«adeguato orientamento di bilancio per il futuro della zona euro» e di formulazione di proposte per la sua evoluzione (art. 2). Composto da un presidente e da quattro membri nominati per un periodo di tre anni, rinnovabile una sola volta, l’attività del Comitato da un punto di vista strutturale e operativo può considerarsi però solo in via di approssimazione pienamente indipendente dalla Commissione europea. Infatti, i componenti del Comitato, esperti di fama internazionale scelti sulla base delle loro com-petenze ed esperienza in materia di macroeconomia, finanze pubbliche, politica e gestione di bilancio (art. 3, comma 3), sono tutti nominati dalla Commissione, su proposta del suo Presidente: ciò che cambia è chi, di volta in volta, il Presidente della Commissione debba consultare a tal fine. Così, per la nomina del Presidente e di un membro dello EFB, il Pre-sidente della Commissione, per formulare la sua proposta, è tenuto a consultare il vicepre-sidente della Commissione stessa responsabile per l’euro e per il dialogo sociale nonché il commissario per gli affari economici e finanziari; per la proposta sulla nomina dei restanti tre membri, il Presidente della Commissione consulta i consigli nazionali per le finanze pubbliche, la BCE e il gruppo di lavoro «Eurogruppo» (art. 3, comma 2). Non solo, dunque, la nomina è completamente accentrata nella Commissione escludendo qualsiasi ruolo per il Parlamento europeo, laddove, invece, a livello nazionale, la scelta dei componenti dei fi-scal councils sovente coinvolge anche i Parlamenti, ma il segretariato dello EFB fa capo al segretariato generale della Commissione europea (art. 3, comma 7). Pertanto sebbene l’art. 4, comma 1 della Decisione precisi che i membri del Comitato, nello svolgimento delle loro funzioni, «non chiedono né ricevono istruzioni da parte di istituzioni o organi dell’Unione, governi degli Stati membri o altri soggetti pubblici o privati», la sua attività è tuttavia incar-dinata nell’ambito della Commissione ed è finalizzata al supporto informativo e valutativo di questa istituzione. Non si prevede poi neppure un regime delle incompatibilità con la carica di membro del Comitato né una eventuale procedura per la revoca dell’incarico per gravi violazioni dei doveri di ufficio. Per quanto autorevoli siano i membri dello EFB poi effettivamente nominati, anche sulla base delle manifestazioni di interesse pervenute alla Commissione (2016/C 140/04), sembra difficile che il Comitato, per le ragioni esposte, possa agire in piena autonomia dalla Commissione europea.

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Del resto la sua visibilità e il suo prestigio non pare possano essere accresciuti nep-pure dalla collaborazione con le autorità indipendenti di bilancio nazionali, che hanno obiettivi, poteri e funzioni non precisamente coincidenti con quelli del Comitato euro-peo e che già da tempo cooperano efficacemente tra loro nell’ambito dello EU Network of Independent Fiscal Authorities. Neppure la trasparenza delle attività del Comitato è particolarmente elevata, di diritto e di fatto. La Decisione istitutiva della Commissione europea ha fissato solo l’obbligo per il Comitato di pubblicazione di una relazione an-nuale – come quella in commento – «che comprende una sintesi dei pareri e delle va-lutazioni forniti alla Commissione». Si tratta di una previsione di portata assai modesta, a cui soggiace l’idea di un controllo pubblico sulle attività del Comitato che avvenga soltanto con cadenza annuale, anziché assumere carattere continuativo, come è per i fiscal councils nazionali. E, a ben vedere, specie se comparato a questi ultimi, non pare che lo EFB si contraddistingua per tasso di attivismo né per trasparenza. Oltre al report di no-vembre 2017 il Comitato europeo ha pubblicato soltanto una relazione alla Commissione europea sull’Assessment of the prospective fiscal stance appropriate for the euro area, il 20 giugno 2017; entrambi i documenti, peraltro, sono disponibili solo in inglese, a conferma della limitata accessibilità delle informazioni sullo EFB al pubblico più ampio.

Venendo alla relazione annuale sul 2016, questa consta di quattro parti principali: una parte più ricostruttiva e di valutazione ex post dell’attuazione delle regole fiscali europee da parte dei singoli Stati membri, una sezione sulle istituzioni fiscali indipendenti nazionali, una parte valutativa sulla performance dell’area euro nel suo complesso nel 2016 e, infine, propo-ste per l’evoluzione futura della governance economica e fiscale. Tralasciando qui una analisi dettagliata dei contenuti (su cui cfr. P. Dermine e D. Fromage, The European Fiscal Board’s first report and the future of the EU’s fiscal framework, in EU Law Analysis, 29 novembre 2017), si possono però mettere in evidenza gli elementi più salienti. Innanzitutto, il Comitato non ha risparmiato critiche alle scelte talvolta piuttosto discrezionali della Commissione e del Consiglio nell’attuazione del Patto di stabilità e crescita (PSC), con vistose asimmetrie tra Stati membri e accresciuta complessità della governance stessa (considerando incoerenti tra loro le decisioni della Commissione e del Consiglio assunte nei confronti di alcuni Paesi), anche se nel complesso ha apprezzato il bilanciamento a cui si è pervenuti tra flessibilità e rispetto delle regole nonché la capacità di stabilizzare le economie dell’area euro (pp. 4-6).

In secondo luogo, la relazione sottolinea l’importanza dell’introduzione o riforma dei fiscal councils nazionali nell’architettura istituzionale della governance economica e si concentra su due best practices, l’Irish Fiscal Advisory Council, di recente creazione, nel quadro di una delle più gravi crisi finanziarie che l’Irlanda abbia mai sperimentato, e il Netherlands Bureau for Economic Policy Analysis, risalente al 1945, ma recentemente riformato, la cui autorevolezza per l’imparzialità e competenza dei suoi membri ne ha consentito un accrescimento delle competenze rispetto al mandato originario.

Lo EFB si spinge poi ad avanzare alcune proposte per migliorare l’effettività delle au-torità fiscali indipendenti degli Stati membri, tra cui quella di rendere più stringente l’ap-plicazione del principio del comply-and-explain affinché i governi rispondano puntual-mente e pubblicapuntual-mente alle obiezioni sollevate da questi organismi. Qui il rilievo colpisce

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per due ordini di ragioni. Il Comitato europeo auspica infatti una accresciuta accounta-bility dei governi nazionali nei confronti delle autorità fiscali indipendenti proponendo una modifica delle normative degli Stati membri per attribuire carattere tendenzialmente vincolante alle indicazioni dei fiscal councils quando, invece, né la Commissione europea né tantomeno il Consiglio sono tenuti in alcun modo a dare seguito ai pareri dello EFB neppure secondo un principio blando di comply-and-explain, per dar conto di eventuali deviazioni dalle indicazioni fornite. In questo caso rileva la asimmetria di poteri tra fiscal councils nazionali e fiscal council europeo. Inoltre, la proposta del Comitato europeo presenta profili di criticità nella misura in cui prospetta l’introduzione di un potere di emendamento da parte delle autorità fiscali indipendenti degli Stati membri; per essere più precisi, si suggerisce di assegnare a queste autorità il potere di proporre emendamenti di carattere finanziario ai rispettivi Parlamenti ogniqualvolta si individui una violazione delle regole fiscali e di bilancio (p. 39). La proposta, sebbene probabilmente animata dalle buone intenzioni di rafforzare i fiscal councils, appare tuttavia alquanto discutibile se si pensa all’impatto che potrebbe avere sia sulla «politicizzazione» di questi organismi, che sarebbero chiamati ad intervenire direttamente nel policy-making, quando invece trovano nell’indipendenza e nell’imparzialità due loro caratteristiche strutturali e funzio-nali, sia sulle procedure di bilancio e nelle dinamiche della forma di governo. Richiedere che un soggetto terzo rispetto al Parlamento e al Governo possa proporre emendamenti a disegni di legge pare mostrare una limitata conoscenza delle dinamiche costituzionali nazionali, che sarebbe bene, al contrario, non alterare nella direzione indicata dallo EFB per evitare di dare ulteriore fondamento alle accuse di un governo tecnocratico.

La parte più propositiva della Relazione del Comitato europeo rivela però anche i limiti dell’influenza di questo fiscal council. Da un lato, infatti, essa ripropone idee già avanzate dalla Commissione europea in altre sedi; dall’altro, molte delle proposte de-lineate non sembrano aver avuto seguito da parte della Commissione nella Roadmap sull’approfondimento dell’Unione economica e monetaria e nel «pacchetto» a questa collegato del 6 dicembre 2017 (COM (822, 823, 824, 825, 826 e 827) 2017). Così, l’idea di un rafforzamento dello EFB a supporto di un Ministero del Tesoro dell’area euro (p. 63) e di creare una funzione di stabilizzazione dell’Eurozona basata su un sistema europeo di protezione degli investimenti e su un fondo europeo per l’assicurazione contro la di-soccupazione (p. 65) erano già state supportate dalla Commissione nel Reflection Paper sull’approfondimento dell’Unione economica e monetaria del 31 maggio 2017 e dunque non presentano una prospettiva innovativa nel dibattito. Inoltre, le proposte del Comitato sulla semplificazione e sul maggior rigore del quadro delle regole fiscali, sulla creazione di meccanismi di condizionalità rispetto al bilancio europeo, sul collegamento tra il PSC e la procedura per squilibri macroeconomici e sul potenziamento del ruolo dei fiscal councils europeo e nazionali per la valutazione del ricorso alle clausole di flessibilità (p. 52-67) non sono state tenute affatto in conto dalla Commissione nel suo più recente «pacchetto». Cristina Fasone è ricercatrice di Diritto pubblico comparato nell’Università di Roma «LUISS Guido Carli».

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