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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA
DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia
LE FRATTURE DEL FEMORE DISTALE NELL’ANZIANO: STUDIO
EPIDEMIOLOGICO RETROSPETTIVO DI UN DECENNIO
Relatore:
Chiar.mo Prof. Stefano MARCHETTI
Candidato:
Marco DELLA SANTINA
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SOMMARIO
RIASSUNTO ... 4
1.
INTRODUZIONE ... 6
IL PAZIENTE FRAGILE ... 7 Definizione di fragilità ... 7Eziopatogenesi della fragilità ... 15
Misurare la fragilità ... 16
Fragilità e chirurgia ... 17
FRATTURE DA FRAGILITÀ ... 18
Definizione di frattura da fragilità ... 18
Osteoporosi ... 18
Epidemiologia delle fratture da fragilità ... 23
Correlazione tra fratture da fragilità e fenotipo fragile ... 27
ANATOMIA DEL FEMORE ... 31
Corpo del femore... 32
Epifisi prossimale ... 32
Epifisi distale53 ... 32
Articolazione del ginocchio ... 34
LE FRATTURE DEL FEMORE DISTALE ... 43
Epidemiologia ... 43
Classificazione delle fratture del femore distale ... 45
Classificazione AO/OTA delle fratture del femore distale1 ... 45
Gestione delle fratture del femore distale ... 50
2.
SCOPO DELLA TESI ... 62
OBIETTIVI ... 63
PROGETTO DI LAVORO ... 64
3.
MATERIALI E METODI ... 65
RICERCA DEI PAZIENTI ... 66
CLASSIFICAZIONE DELLE FRATTURE ... 67
QUESTIONARI DI VALUTAZIONE ... 68
MICROSOFT EXCEL... 72
3 CASISTICA ... 74 CLASSI DI ETÀ ... 76 I QUESTIONARI SF-12 E WOMAC ... 80 COMORBIDITÀ ... 81 FRAGILITÀ ... 83
RICERCA DI CORRELAZIONE TRA VARIABILI ... 84
Indice di correlazione di Pearson ... 84
Coefficiente di determinazione ... 85
Le variabili prese in esame ... 85
5.
DISCUSSIONE ... 91
6.
CONCLUSIONI ... 96
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Riassunto
In Europa l’incidenza delle fratture del femore distale è dieci volte inferiore rispetto a quella delle fratture del femore prossimale. Il 72% delle fratture del femore riguardano la regione prossimale, il 22% la diafisi e solo il 6% sono localizzate a livello del femore distale. Le fratture del femore distale sono conseguenti sia a traumi ad alta energia, sia a traumi a bassa energia. I traumi ad alta energia, come incidenti con mezzi motorizzati, sport e investimenti pedonali, più frequentemente interessano uomini di età compresa tra 15 e 50 anni, mentre i traumi a bassa energia come le cadute in casa, causano fratture del femore distale prevalentemente in donne di età superiore ai 50 anni. In questo secondo caso le fratture del femore distale sarebbero legate ad una condizione di osteopenia.1
Le fratture del femore distale, nei pazienti al di sopra dei 65 anni, nella maggior parte dei casi sono da fragilità.
Ogni anno, nel mondo, sono stimate più di 8,9 milioni di fratture osteoporotiche e, approssimativamente, un terzo di queste si ritrovano in Europa, equivalenti a circa 3,5 milioni all’anno.
Le fratture da fragilità possono instaurarsi nel contesto di un paziente definito “fragile”, ma la presenza simultanea delle due condizioni non è sempre riscontrabile.
Nel 2010 il costo della gestione dell’osteoporosi è stato stimato a 37 miliardi di euro, il 66% di questo è destinato al trattamento delle fratture. Le fratture dell’anca richiedono circa il 54% di questa spesa, il 5% per le fratture vertebrali, il 2% per quelle dell’avambraccio e il 39% per fratture in altre sedi2, tra le quali ritroviamo anche il femore distale in 24esima posizione3.
Il trattamento standard consiste nella riduzione cruenta e nell’osteosintesi della frattura.
. La fissazione interna del femore distale è difficoltosa ed è stata associata ad un alto rischio di complicanze4, la gestione operativa si è mossa verso metodi minimamente invasivi per ridurre il danno ai tessuti molli. Attualmente, le tecniche principali includono l’utilizzo di chiodi femorali retrogradi, utilizzo di piastre inserite per via percutanea e il sistema di stabilizzazione a ridotta invasività4.
5 Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di disegnare uno studio epidemiologico retrospettivo, partendo da una casistica rappresentata dai pazienti trattati chirurgicamente per frattura di femore distale presso l’U.O. di Ortopedia e traumatologia I di Pisa, volto a definire il trend delle fratture del femore distale negli anni e a ricercare una eventuale correlazione tra l’età dei pazienti, o il numero di comorbidità di questi, con la durata della degenza o con il tempo di attesa tra la diagnosi e l’intervento. I questionari SF-12 e WOMAC sono degli strumenti che permettono di valutare rispettivamente la qualità di vita del paziente ed il dolore o la funzione del ginocchio dopo l’intervento. I punteggi ottenuti dalla loro somministrazione sono stati confrontati con sia con i tempi di degenza, sia con i tempi di attesa prima dell’intervento.
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Il paziente fragile
La popolazione geriatrica sta aumentando rapidamente. In Italia, gli over 65 costituiscono più del 18% della popolazione, mentre il 4% è costituito dagli over 80. La prevalenza delle condizioni mediche croniche è aumentata e la medicina riabilitativa ha iniziato a giocare un importante ruolo nella diagnosi e nel trattamento delle patologie croniche5.
Definizione di fragilità
La fragilità può essere pensata come un decremento delle riserve fisiologiche a livello di più organi e sistemi.6
Campbell definisce la fragilità come “una condizione o una sindrome che è dovuta ad una riduzione multi sistemica nelle capacità di riserva, nella misura in cui si arriva molto vicini, od oltre, la soglia dello scompenso clinico sintomatico”. Come conseguenza la persona fragile è a rischio di disabilità e morte a seguito della esposizione a stress esterni minori.7
Una consensus conference sulla fragilità definì alcuni importanti punti:
1) La necessità di inquadrare la fragilità all’interno di un contesto clinico 2) La necessità di avere un chiaro contesto concettuale
3) La fragilità è una sindrome clinica 4) La fragilità non è una disabilità
5) La fragilità incrementa la vulnerabilità fino al punto che minimi stress possono alterazioni funzionali
6) La fragilità potrebbe essere reversibile o migliorabile attraverso interventi mirati
7) È obbligatorio per i medici individuare la fragilità il prima possibile 8) È vantaggioso prendersi cura della fragilità all’interno della comunità
La stessa consensus conference, che si è trovata d’accordo sui precedenti punti citati, ha trovato difficoltà ad individuare una singola definizione di fragilità che
8 potesse soddisfare tutti gli esperti. Questo potrebbe essere stato in parte dovuto alla eterogeneità dei membri della consensus conference stessa8.
Nel 2012 si riunì una seconda consensus conference con lo scopo di riuscire ad ottenere una definizione operativa di fragilità. Il maggior risultato ottenuto da questo gruppo è stato quello di accettare, ed essere d’accordo, sulla distinzione tra la fragilità e una sindrome medica più specifica: la fragilità fisica8.
Nell’anno 2013, infine, si è tenuta una Consensus Conference su questo tema, alla quale hanno partecipato società ed esperti del campo sia europei che statunitensi.
Il Paziente fragile è stato definito come un soggetto in una condizione vulnerabile, caratterizzata da un aumentato rischio di prognosi sfavorevole e/o mortalità quando esposto a eventi stressogeni9.
Nel corso degli ultimi anni è aumentato sempre più l’interesse medico nei confronti del concetto di fragilità, con numerosi tentativi di definire al meglio questa condizione, studiarne l’eziopatogenesi e sviluppare criteri diagnostici utili ad individuare i Pazienti fragili, con risvolti importanti sulla prognosi, la mortalità e il grado di indipendenza sociale di questi individui. In Europa questi sforzi sono stati particolarmente attivi, anche perché i Pazienti fragili sono grandi utilizzatori di risorse ospedaliere, infermieristiche domiciliari e sociali: un intervento precoce, con lo scopo di rallentare il processo di decadimento, può migliorare la qualità della vita di questi soggetti e ridurre i costi dell’assistenza8.
La fragilità è sia fisica che psicologica, o una combinazione di entrambe, ed è una condizione che può migliorare o peggiorare nel tempo. Nel tempo sono diventati popolari due approcci per definire la fragilità fisica. Il modello del deficit si basa sul sommare insieme un numero di disfunzioni e condizioni per creare il Fraility Index. Il secondo modello, originariamente definito come un fenotipo specifico costituito da una costellazione di 5 possibili componenti (perdita di peso, esaurimento, debolezza, riduzione della velocità di movimento e ridotta attività fisica), che definiscono e sottolineano uno stato fisiologico di alterazione multisistemica ed energetica. Entrambe queste definizioni sono attualmente utilizzate per definire una fragilità ed uno stato di pre-fragilità, ossia una condizione compresa tra la non-fragilità e la fragilità.
L’invecchiamento predispone alla fragilità, ma non tutti gli anziani sono considerabili fragili10.
9 La consensus conference del 2013, oltre a definire il paziente fragile, ha fornito alcune importanti raccomandazioni riguardanti la fragilità:
1) La fragilità fisica viene definita come una vera sindrome medica con molteplici cause, caratterizzata da diminuzione della forza, della resistenza, da una riduzione delle funzioni fisiologiche che aumenta la vulnerabilità dell’individuo verso lo sviluppo di una aumentata dipendenza funzionale e/o aumentata mortalità. Inoltre, l’individuo fragile potrebbe essere un individuo disabile ma non tutte le persone con disabilità sono fragili.
Sebbene la sarcopenia potrebbe essere una componente della fragilità, i membri di questo gruppo si trovarono d’accordo nel considerare la fragilità una condizione molto più varia rispetto alla sarcopenia presa da sola.
Il gruppo si trovò anche d’accordo sul fatto che esistono numerosi validi modelli di fragilità e che la diagnosi definitiva della stessa dovrebbe essere fatta usando i criteri base di questi modelli validati.
La fragilità fisica, inoltre, differisce dalla condizione in cui un paziente ha comorbidità multiple, questa condizione di multimorbidità è molto più frequente nella popolazione, è infatti presente in 3 persone su 4 al di sopra dei 65 anni e in 1 persona su 4 al di sotto dei 65 anni.
La fragilità fisica si concentra su specifiche aree per la quali può essere sviluppato un trattamento generale, mentre la gestione della condizione di multimorbidità si concentra sulle singole condizioni in maniera separata, sebbene, entrambe richiedano una gestione e valutazione multidimensionale. È stato inoltre proposto un più ampio concetto di fragilità, visto come uno stato di aumentata vulnerabilità dovuto ad un indebolimento in molteplici sistemi che potrebbero portare ad una diminuita abilità a rispondere a eventi stressogeni lievi, e che comprende la multimorbidità e le disfunzioni del sistema nervoso centrale, rappresentate da problematiche cognitive ed affettive.
2) Così come sono state impiegate molte energie per indagare la fisiopatologia della “sindrome fragilità”, molti altri studi sono stati condotti per definirla dal punto di vista clinico: sono stati proposti vari criteri diagnostici e indici. Tra i
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Figura 1 - Indice FRAIL.
Da Morley JE et al. Frailty consensus: a call to action. Journal of the American Medical Directors Association. 2013
più popolari troviamo l’indice FRAIL11 (Fig. 1), che identifica il Paziente fragile se sono presenti almeno 3 condizioni tra astenia, riduzione della resistenza all’esercizio fisico quotidiano e aerobico, presenza di più di 5 patologie, perdita di più del 5% del peso corporeo negli ultimi 6 mesi.
L’indice FRAIL permette di ottenere un punteggio che va da 0 a 5. Il punteggio di 0 definisce un soggetto con uno stato di salute forte, il punteggio di 1-2 definisce la condizione di pre-fragilità, il punteggio di 3-5 invece definisce la condizione di fragilità.
Per quanto riguarda il quarto punto, cioè le malattie, viene attribuito un punteggio di 1 quando risultano essere presenti almeno 5 malattie su un totale di 11. Queste comprendono Ipertensione arteriosa, diabete, cancro, malattie respiratorie croniche, infarto acuto del miocardio, scompenso cardiaco, angina pectoris, asma, artrite, ictus e malattia renale.
Un altro indice utilizzato è il Clinical Frailty Scale12, un modello basato sull’individuazione di condizioni particolari e deficit nel Paziente come grado di dipendenza, mobilità, demenza e altri (Fig. 2).
11 La Fried’s Scale13, o modello fenotipico, definisce invece un Paziente come fragile se presenta almeno 5 condizioni (perdita di peso, astenia, debolezza, rallentamento, riduzione dell’attività fisica).
Il Cardiovascular Health Study Frailty Screening Scale14, riprendendo i 5 criteri della Fried’s Scale, definisce un Paziente come fragile se ne presenta almeno 3 (Fig. 3).
3) La fragilità fisica è una condizione gestibile. Esistono numerose cause che portano a sviluppare la fragilità fisica, e molte di queste possono essere
Figura 3 - Cardiovascular Health Study Frailty Screening Scale.
Da Morley JE et al. Frailty consensus: a call to action. Journal of the American Medical Directors Association. 2013
Figura 2 - Clinical Frailty Scale.
12 utilizzate come bersagli per lo sviluppo futuro di specifici interventi mirati. Nonostante questo, il gruppo si trovò d’accordo che al momento, solo 4 possibili interventi hanno una effettiva efficacia nel trattamento della fragilità:
• Esercizio fisico (aerobico e di resistenza). Un anno di esercizio fisico di resistenza in pazienti che sono andati incontro a fratture dell’anca riduce l’ospedalizzazione e la necessità di cure post-operatorie. L’esercizio fisico previene e riduce la progressione della fragilità e la comparsa di eventuali disabilità. Da 45 a 60 minuti di esercizio fisico al giorno, 3 volte a settimana, hanno effetti positivi sul paziente fragile. esercizi di gruppo e fatti singolarmente a casa riducono la probabilità di cadute. L’esercizio fisico incrementa la performance relativa alla capacità di camminare più velocemente, alzarsi dalla sedia, salire le scale, avere un maggiore equilibrio, e diminuisce la depressione e la paura di cadere8.
• Adeguato apporto calorico e proteico. La perdita di peso è uno dei componenti maggiori della sindrome da fragilità. Un adeguato apporto calorico porta ad un aumento di peso che riduce la mortalità e le possibili complicanze. Il corretto apporto calorico e proteico migliora l’outcome in pazienti affetti da malattie respiratorie croniche. Il corretto apporto proteico favorisce l’incremento di massa muscolare, la forza di presa e riduce le complicanze8.
• Adeguato apporto di vitamina D. il corretto apporto di vitamina D è stato dimostrato essere capace di ridurre le cadute, le fratture dell’anca e la mortalità, inoltre sembra aumentare la funzione muscolare8.
• Riduzione del numero di farmaci assunti dal paziente8.
Ci sono altre cause di fragilità che possono essere individuate in specifici individui e il trattamento della fragilità dovrebbe includere anche una gestione di queste singole patologie. Tra queste ricordiamo la depressione, i problemi della vista e dell’udito, il diabete mellito, lo scompenso cardiaco congestizio e il declino cognitivo8.
13 4) Tutte le persone al di sopra dei 70 anni dovrebbero essere sottoposte a
screening per la fragilità8.
Come già esposto, la portata del problema fragilità è notevole: i risultati di una recente systematic review riportano una prevalenza variabile dal 4 al 17% (media 9.9%) nella fascia di popolazione ultra sessantacinquenne statunitense.
Il sesso femminile conta quasi il doppio dei casi rispetto al sesso maschile (9.6% vs 5.2% rispettivamente)15. Un altro studio riporta simili risultati, evidenziando anche un aumento progressivo della fragilità con l’aumentare dell’età: dal 3.9% nella fascia 65-74 anni, fino al 25% negli ultra ottantacinquenni16.
Per quanto riguarda l’Europa, uno studio condotto sulla popolazione iscritta nel registro Survey of Health, Aging and Retirement in Europe (SHARE) nel 2004, ha riscontrato una prevalenza di soggetti fragili oscillante tra il 3.9% della Svizzera, al 21% della Spagna nella fascia di età superiore a 65 anni. In Italia la prevalenza si attestava intorno al 14,3%17 (Fig. 4).
14 La fragilità è correlata allo sviluppo e alla progressione di molte malattie età correlate come l’osteoporosi e le relative fratture, le infezioni che sono favorite dalla malnutrizione, e la sarcopenia che è causa di cadute e dipendenze funzionali. La fragilità è probabilmente il processo base che determina le manifestazioni cliniche che costituiscono le sindromi geriatriche10.
C’è una forte connessione tra i cambiamenti biologici che sono alla base dell’invecchiamento e lo sviluppo di malattie correlate con l’età, e questa connessione potrebbe essere proprio lo sviluppo della sindrome da fragilità. La sindrome da fragilità è caratterizzata da cambiamenti clinicamente evidenti che possono condurre anche a conseguenze catastrofiche 18.
La storia naturale della fragilità mostra che questa, più comunemente, progredisce verso uno stato di maggiore fragilità piuttosto che verso uno stato di minore fragilità. Nonostante questo, anche senza interventi, alcuni individui diventano “meno fragili”. Queste transizioni tra differenti “gradi di fragilità” suggeriscono il fatto che interventi mirati a ridurre lo stato di fragilità potrebbero essere efficaci 19.
Figura 4 - Percentuale di ultrasessantacinquenni senza disabilità classificati come fragili e pre-fragili in Europa. Dati 2004.
Da Santos-Eggimann B. e al. Prevalence of frailty in middle-aged and older community-dwelling Europeans living in 10 countries. The journals of gerontology Series A, Biological sciences and medical sciences. 2009
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Eziopatogenesi della fragilità
La fragilità è una sindrome medica distinta e clinicamente identificabile, è un concetto affascinante, nonostante le difficoltà nel fornire una esatta definizione del termine. Le cause della fragilità sono complesse e devono essere accettate su una base multidimensionale dove entrano in gioco fattori genetici, biologici, fisici, fisiologici, sociali ed ambientali9.
Negli ultimi anni si sono accumulati molti studi sulla patogenesi della “sindrome fragilità”. Una descrizione dettagliata delle ipotesi patogenetiche esula comunque dallo scopo di questa trattazione, per cui se ne faranno solo alcuni cenni.
E’ emerso il ruolo di un quadro di infiammazione sistemica cronica e di attivazione immunitaria, oltre ad essere state riscontrate alterazioni a livello di vari organi ed apparati, come il sistema muscoloscheletrico e quello endocrino. L’infiammazione cronica sembra essere un meccanismo chiave che contribuisce alla fragilità sia direttamente che indirettamente20 (Fig. 5).
L’associazione tra fragilità ed elevati livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie (per esempio IL-6), proteina C reattiva e altre molecole è stata osservata in molti recenti studi20. Diversamente da una fisiologica risposta infiammatoria acuta, di breve durata e culminante con l’eliminazione della causa iniziale di infiammazione (per esempio un’infezione), nella “sindrome fragilità” sussiste un quadro di infiammazione cronica non osservabile in individui non fragili della stessa età21.
Figura 5 – Modello eziopatogenetico della fragilità
Da Chen X, Mao G, Leng SX. Frailty syndrome: an overview. Clinical interventions in aging 2014; 9: 433-41
16 Recenti studi hanno dimostrato anche un’associazione tra fragilità e attivazione immunitaria, con aumentati livelli circolanti di leucociti anche se al di sotto dei limiti della norma22, e variazioni quantitative di specifiche sottopopolazioni20.
I meccanismi che contribuiscono a questa attivazione immunitaria e infiammatoria rimangono ancora da chiarire: una possibilità è data dalla presenza di un’infezione cronica o persistente da Cytomegalovirus, in quanto alcuni studi hanno associato la positività agli anticorpi di tipo IgG anti-CMV alla condizione di fragilità20.
Il quadro di infiammazione cronica può contribuire alla fragilità direttamente o agendo sulle sue componenti principali. Può agire alterando il funzionamento del sistema endocrino: è stata osservata una relazione positiva tra fragilità e ridotti livelli di DHEAS, IGF-1, vitamina D e ormoni sessuali. Può contribuire a un quadro di disregolazione nutrizionale, anemia, patologia cardiovascolare. Inoltre l’infiammazione cronica può alterare il sistema muscoloscheletrico, diminuendo la massa, la resistenza e la potenza muscolare e rallentando la performance motoria. L’alterazione caratteristica a questo livello è chiamata sarcopenia, e consiste nella perdita della massa e della forza muscolare che può comparire rapidamente dopo l’età di 50 anni20.
Le principali cause di questo fenomeno potrebbero essere la perdita per apoptosi delle cellule muscolari o la carenza di rinnovamento del compartimento staminale21.
La riduzione del tono e della prestazione muscolare possono anche aumentare il rischio di cadute nell’anziano. L’attività muscolare ha poi un ruolo ben noto nel garantire la salute ossea: la sua diminuzione porta alla riduzione dell’esercizio fisico e alla comparsa di osteopenia e osteoporosi20. Osteoporosi e cadute contribuiscono a determinare l’elevato rischio di fratture da fragilità nell’anziano.
Va comunque sottolineato che rimane ancora molto da indagare riguardo alla complessa eziologia multifattoriale della fragilità20.
Misurare la fragilità
Gli strumenti in grado di misurare la fragilità sono sia i sistemi di punteggio che sono basati su diversi aspetti delle capacità fisiche, cognitive o funzionali14,23-26, sia singole misure surrogate di fragilità che invece sono basate sulla valutazione dello stato funzionale27-29
17 Cambiamenti in alcuni parametri funzionali e biologici potrebbero essere dei buoni candidati per predire e misurare la fragilità. La sarcopenia è un’importante causa di fragilità, quindi gli strumenti che la misurano, direttamente (MRI) o indirettamente (misure antropometriche, BMI), potrebbero anche contribuire a predire la fragilità stessa. Ci sono poi i parametri infiammatori, come l’IL-6, che rappresenta uno stato pro-infiammatorio, la PCR che può essere usata come surrogato se la funzione epatica è normale, il TNF il cui ruolo rimane da essere chiarito nel contesto della fragilità. Abbiamo anche i parametri lipidici, neuroendocrini e nutrizionali. È chiaro che il miglior modo di predire e misurare la fragilità è una valutazione multidimensionale visto che la fragilità non è una sindrome con una singola causa 18.
Fragilità e chirurgia
L’importanza della “sindrome fragilità” ha importanti conseguenze anche in campo chirurgico. Negli ultimi venti anni il numero di soggetti anziani che si sono sottoposti a procedure chirurgiche è aumentato più velocemente di quanto non sia accaduto nella popolazione generale. Questo fenomeno è da riferirsi ai miglioramenti nelle tecniche chirurgiche e anestesiologiche con riduzione dei tassi di morbidità e mortalità, e al cambiamento delle aspettative dei Pazienti30. Nonostante i progressi, però, la popolazione chirurgica anziana va comunque incontro a un maggior numero di eventi avversi nel post-operatorio, specialmente di carattere medico, rispetto ai Pazienti più giovani30.
All’aumento dell’età media dei Pazienti chirurgici si somma il problema fragilità.
I Pazienti fragili rappresentano secondo alcuni studi tra il 4.1% e il 50.3% del totale di coloro che si sottopongono a chirurgia. Questo ampio range è dovuto alle difficoltà di definizione e misurazione della fragilità e alle variazioni nelle popolazioni considerate.
Altri studi hanno portato a ridurre questo range, rilevando una prevalenza oscillante tra il 41.8% e il 50.3%, percentuali molto elevate se paragonate a quelle riguardanti la popolazione generale e che suggeriscono la particolare vulnerabilità di questi Pazienti e l’impatto del fenomeno nelle sale operatorie30.
18 L’identificazione della fragilità nel Paziente chirurgico inizia a essere considerata un importante fattore prognostico per gli esiti post-operatori. E’ stata osservata un’associazione positiva tra morbidità e mortalità a 30 giorni e riscontro pre-operatorio di fragilità, evidente se il rischio chirurgico relativo è più basso31. Recentemente è emerso il ruolo della fragilità come fattore di rischio indipendente per le problematiche post operatorie.32,33
Fratture da fragilità
Definizione di frattura da fragilità
Le fratture da fragilità sono considerate una delle maggiori cause di morbidità e mortalità in tutto il Mondo. Ogni frattura che si verifica per un trauma di lieve entità (esempio emblematico è la caduta da stazione eretta) o comunque esercitante una forza normalmente non in grado di provocare danno in un soggetto sano, è da considerare frattura da fragilità, indipendentemente dal segmento osseo colpito34.
La condizione fondamentale che predispone a questo tipo di eventi è l’osteoporosi.
Osteoporosi
Definizione di osteoporosi
Nel 1994 la World Health Organisation (WHO) ha usato la misurazione della densità minerale ossea (BMD), ottenuta mediante DXA, per definire l’osteoporosi come una condizione clinica in cui il BMD è minore a 2,5 deviazioni standard (SD) rispetto alla media giovanile35.
Il sottogruppo di donne con osteoporosi che avevano anche una o più fratture da fragilità venivano giudicate come affette da osteoporosi severa.
L’osteopenia era definita come un BMD tra 1 e 2,5 SD al di sotto la media normale giovanile36
19 Epidemiologia dell’osteoporosi
Uno studio condotto nel 2010 ha stimato che circa 22 milioni di donne e 5.5 milioni di uomini siano affetti da osteoporosi in Europa37 (Fig. 6). Questi dati, e il fatto che l’osteoporosi sia una patologia sostanzialmente asintomatica fino a che non provoca una frattura da fragilità, giustificano l’appellativo di “epidemia silenziosa”34. Si stima che l’osteoporosi ogni anno causi oltre 9 milioni di nuove fratture da fragilità nel Mondo, oltre 3.5 milioni in Europa e oltre 460.000 in Italia37.
Fisiopatologia dell’osteoporosi
Il tessuto osseo, come qualsiasi altro tessuto, organo o apparato, è destinato a invecchiare. Con il passare degli anni si assiste fisiologicamente a una riduzione progressiva della quantità e della qualità dell’osso. Per comprendere la causa di questo impoverimento strutturale, va ricordato che il tessuto osseo è un tessuto vivo sottoposto a un processo di continuo rimodellamento. Una volta formatosi, il tessuto osseo si rinnova costantemente in tutto l'arco della vita attraverso processi di
Figura 6 – La distribuzione della prevalenza dell’osteoporosi in Europa e nelle 5 nazioni con la popolazione più numerosa nel 2010
Da Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, et al. Osteoporosis in the European Union: medical management,
epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA)
20 distruzione e di ricostruzione. Al termine della crescita staturale e al raggiungimento del picco di massa ossea (tra i 20 e i 30 anni), il rimodellamento costituisce per tutto il periodo della vita adulta lo strumento attraverso il quale la massa ossea stessa viene regolata34. A questa regolazione contribuiscono non solo stimoli locali bioumorali e meccanici (come quelli esercitati dalla gravità e dall’esercizio fisico), ma anche fattori sistemici. Tra questi troviamo ormoni, citochine, fattori di crescita e altre molecole: ne sono esempi il paratormone, la vitamina D, la calcitonina, il GH, IGF-1, i glucocorticoidi, gli ormoni tiroidei e sessuali38.
Il processo di rimodellamento serve a riparare le continue microscopiche lesioni a cui va incontro l'osso nel corso della vita, con il fine di mantenere lo scheletro in buone condizioni e in grado di sopportare le continue sollecitazioni meccaniche quotidiane. Il rimodellamento osseo è un processo integrato di riassorbimento e successiva neoformazione di tessuto. Tale processo avviene in particolari sedi definite "Unità Multicellulari di Base" (BMU), e l'entità del rimodellamento dipende dal numero di BMU attivate che sono indipendenti e localizzate sulla superficie dell'osso in tutto lo scheletro. All'interno di ciascuna BMU il processo di rimodellamento è operato dagli osteoclasti, con funzione di riassorbimento, e dagli osteoblasti, che sono deputati alla formazione di nuovo tessuto osseo34.
Circa il 90% della superficie ossea è normalmente inattiva, rivestita da un sottile strato di cellule quiescenti (lining cells). In risposta a segnali fisiologici si verifica un reclutamento e una maturazione degli osteoclasti che riassorbono osso scavando delle cavità. Uno dei principali meccanismi cellulari alla base dell'attivazione dell'osteoclastogenesi è l’interazione tra il recettore RANK e il suo ligando RANKL. Il RANKL è espresso sulla superficie cellulare degli osteoblasti e delle cellule stromali e svolge la funzione di stimolare direttamente la differenziazione dei precursori cellulari degli osteoclasti in osteoclasti maturi. Questa attivazione è mediata dal recettore RANK localizzato sulla membrana cellulare dei precursori degli osteoclasti e degli osteoblasti. Esistono anche regolatori negativi come l'osteoprotegerina, che è in grado di modulare negativamente il segnale RANK/RANKL: questo conduce ad apoptosi degli osteoclasti e dei loro precursori34 (Fig. 7)
21 Il corretto bilancio tra perdita e neoformazione ossea dipende dall’equilibrio tra azione osteoclastica e osteoblastica. Nel corso della vita si possono creare condizioni in cui la quota di tessuto osseo riassorbito è maggiore della quantità di tessuto osseo neoformato. La persistenza di piccole deficienze di tessuto osseo alla fine di ogni ciclo di rimodellamento causa la perdita di massa ossea, caratteristica, per esempio, dell'invecchiamento e della menopausa. Non solo vi è perdita di osso conseguente a ciascun ciclo di rimodellamento, ma l'aumentato numero e l'aumentata profondità dei siti di rimodellamento comporta una maggiore sensibilità dell'osso alla frattura.
Questo elevato turnover osseo, caratterizzato da una maggiore attività osteoclastica, causa un progressivo assottigliamento delle trabecole ossee e una graduale perdita delle connessioni fra le stesse, rendendo l’osso inidoneo a sopportare le sollecitazioni derivanti dal carico fisiologico ed esponendolo a un rischio di frattura maggiore34.
L’instaurarsi di una condizione di osteoporosi dipende da due fattori essenziali: la massa ossea caratteristica dell’individuo alla maturità, in gran parte geneticamente determinata, e la velocità con cui si verifica la perdita di massa ossea con l’avanzare dell’età39.
Figura 7 – Regolazione del processo di rimodellamento osseo
22 La perdita di massa ossea legata all'invecchiamento è un processo inevitabile, tuttavia l'osteoporosi può comparire anche precocemente per la concomitante presenza di diversi fattori di rischio34.
Molti fattori di rischio accelerano la fisiologica riduzione di massa ossea dopo il raggiungimento del picco: questi includono fattori comportamentali come insufficiente esercizio fisico, fumo ed eccesso di alcool, inadeguato apporto alimentare di calcio e vitamina D (oltre all’esposizione solare che tende a ridursi nell’anziano), ma anche fattori costituzionali come un basso peso corporeo e un’alta statura. A questi si possono sommare fattori patologici come condizioni di ipogonadismo (ad esempio menopausa precoce), artrite reumatoide, iperparatiroidismo, sindromi gastrointestinali da malassorbimento (celiachia, patologie pancreatiche), insufficienze d’organo (renale, epatica). Anche diversi farmaci possono accelerare la perdita di massa ossea e predisporre all’osteoporosi: in primis i glucocorticoidi, ma anche chemioterapici, immunosoppressori, antidepressivi, litio, inibitori di pompa protonica e molti altri38.
Alla luce di questi elementi l’osteoporosi può essere distinta in primitiva e secondaria, secondo la classificazione di Riggs. La forma primitiva comprende rare forme giovanili di osteoporosi idiopatica e le nettamente più frequenti forme di osteoporosi involutiva dell’adulto (tipo 1 per l’osteoporosi post-menopausale, tipo 2 per quella senile senza distinzioni di sesso, tipo 3 per una forma associata ad aumento della funzione paratiroidea). L’osteoporosi secondaria, invece, è provocata da molte patologie sottostanti o trattamenti quali quelli esemplificati sopra40.
23
Epidemiologia delle fratture da fragilità
Ogni anno, nel mondo, sono stimate più di 8,9 milioni di fratture osteoporotiche e, approssimativamente, un terzo di queste si ritrovano in Europa, equivalenti a circa 3,5 milioni all’anno. Una review sulla analisi dell’impatto clinico ed economico delle fratture osteoporotiche in 27 paesi europei nel 2010, ha dimostrato che circa 2/3 di queste colpivano le donne e l’incidenza aumentava con l’avanzare dell’età. Le più comuni fratture erano l’anca (18%), l’avambraccio (16%), le vertebre (15%), e altre sedi (51%) (Fig. 8). 2
Geograficamente, l’incidenza delle fratture varia ampiamente tra i paesi europei. Rispetto ad altre regioni del mondo, l’Europa ha uno dei più alti tassi di frattura dell’anca, con un apparente gradiente nord-sud, e la maggior parte dei paesi sono classificati a rischio elevato o moderato. Le cause di questa ampia variabilità sono sconosciute ma più probabilmente sono fattori ambientali piuttosto che genetici. Si ipotizza che i fattori socioeconomici siano quelli più importanti nello spiegare questa variabilità, ma anche altri fattori sembrano coinvolti, come l’esposizione alla luce
Figura 8 – Incidenza delle fratture in Europa nel 2010 suddivise per tipo e per nazione
Da Kanis JA, Cooper C, Rizzoli R, et al. Identification and management of patients at increased risk of osteoporotic fracture: outcomes of an ESCEO expert consensus meeting.
24 solare, la diversa assunzione di calcio, i diversi livelli di attività fisica, il basso indice di massa corporea, le variabili caratteristiche antropometriche e la razza.2
La gestione dell’osteoporosi è associata anche ad un’elevata spesa in termini economici, con un’ampia variabilità tra i diversi paesi (Fig. 9).
Nel 2010 il costo della gestione dell’osteoporosi è stato stimato a 37 miliardi di euro. Nonostante questo, solo il 5% di questo è destinato ad investimenti nella prevenzione farmacologica, mentre il 66% al trattamento delle fratture e il 29% per le cure a lungo termine. Circa il 54% di questa spesa è destinato alle fratture dell’anca, il 5% per le fratture vertebrali, il 2% per quelle dell’avambraccio e il 39% per fratture in altre sedi.2.
Il numero di disabilità per anni di vita (DALYs) attribuibili a disordini muscoloscheletrici è aumentato del 17,7% tra il 2005 e il 2013 41
Il “Low back pain” si colloca in cima alla classifica, il “neck pain” al quarto posto, “altri disturbi muscoloscheletrici” al decimo, e “l’osteoartrite al tredicesimo posto nel ranking della WHO delle cause di disabilità nel mondo nel 2013, con le fratture da osteoporosi che giocano il ruolo principale nel “low back pain” e nella categoria di “altri disturbi muscoloscheletrici”41
Figura 9 –variabilità di spesa tra le diverse nazioni per la gestione delle fratture osteoporotiche.
Da Kanis JA, Cooper C, Rizzoli R, et al. Identification and management of patients at increased risk of osteoporotic fracture: outcomes of an ESCEO expert consensus meeting.
25 È evidente che le fratture osteoporotiche sono un enorme peso che grava sulla società in tutto il mondo. È ben conosciuto il fatto che l’osteoporosi è una malattia silente fino alla comparsa della frattura. La percezione del paziente del rischio di frattura è spesso sottostimata42,43, così l’inizio di una prevenzione primaria è veramente rilevante sulla salute. Non sorprende perciò che una prevenzione secondaria (identificando individui per il trattamento sulla base della comparsa di una frattura a seguito di un trauma lieve), è l’approccio più spesso utilizzato come punto di partenza per la prevenzione delle fratture da fragilità. Nonostante questo, qualunque approccio viene preso per ridurre il rischio di frattura, è molto importante collocarlo all’interno del contesto dei fattori locali, come il background del rischio di frattura nella popolazione in esame, patterns prevalenti e fattori di rischio, investimenti e propensione dei sistemi sanitari a pagare per i trattamenti44.
La definizione di osteoporosi della WHO, come abbiamo precedentemente detto, è basata sulla misura del BMD tramite la DXA; è dimostrato che il rischio di frattura cresce di circa il doppio per ogni diminuzione nel BMD45.
In anni recenti è stato visto che un basso BMD dovrebbe essere considerate come un rischio di fratture da fragilità piuttosto che come patologia in se. Inoltre, altre caratteristiche indipendenti dal BMD, come la geometria e le proprietà microscopiche della architettura dell’osso, e fattori di rischio clinici individuali, chiaramente contribuiscono al rischio di frattura. Nuove tecniche, che includono la tomografia computerizzata quantitativa periferica (pQCT) e HR-pQCT, possono fornire un dettaglio maggiore sulle caratteristiche della struttura ossea. Nonostante questo, il loro utilizzo clinico pratico è limitato dal costo e dalla disponibilità degli strumenti, è limitato anche dalla mancanza di dati di riferimento nella popolazione e una evidenza della loro superiorità rispetto alla tradizionale densitometria minerale ossea in termini di stratificazione del rischio44.
La probabilità di frattura da fragilità può essere ottenuta usando il WHO Fracture Risk Assessment Tool, FRAX® (Fig. 10), che integra il peso dei singoli fattori di rischio clinici per le fratture, con o senza la valutazione del BMD, per fornire la probabilità a 10 anni di frattura dell’anca o di una frattura osteoporotica maggiore (MOF) come anca, omero o frattura clinica vertebrale.
Il FRAX® stato sviluppato su un ampio numero di popolazioni nel mondo. Sono disponibili due ulteriori calcolatori sviluppati da una singolo gruppo: l’Australian
26 Garvan Fracture Risk Calculator e QFracture (in questo caso il BMD non viene preso in considerazione)46.
Gli anziani hanno un rischio di frattura maggiore rispetto ai soggetti più giovani. Le donne hanno un rischio di frattura maggiore rispetto agli uomini. Il rischio di frattura è più alto nei pazienti con un BMD più basso. Il rischio di frattura è più elevato nei pazienti che vanno più facilmente incontro a cadute e in quelli che hanno subito precedenti fratture a seguito di traumi a bassa energia.
La presenza di precedenti fratture in siti differenti è un ben documentato fattore di rischio per fratture future, e questo rischio è più alto immediatamente dopo la frattura e progressivamente si riduce nel tempo. Inoltre, la presenza di precedenti fratture continua ad essere un importante predittore per rischio di frattura per dieci anni
Figura 10 – Immagine della pagina web di FRAX® che mostra gli imput che devono essere forniti per il calcolo del rischio di frattura (versione statunitense)
27 successivi, a parità di età, valore di BMD, e di altri fattori clinici di rischio compresi nel FRAX®.2
Correlazione tra fratture da fragilità e fenotipo fragile
Come abbiamo già detto la fragilità è una sindrome geriatrica ben riconosciuta che si caratterizza per una perdita di funzione, una perdita della riserva fisiologica, un’aumentata vulnerabilità verso determinate patologie ed un aumento della mortalità. La fragilità è inoltre associata ad un declino cognitivo, ad una multimorbidità, ad un’alterazione dello stato funzionale, ad un aumentato rischio di cadute e fratture, ad un peggior outcome a seguito di ricoveri ed interventi chirurgici e ad un’aumentata ospedalizzazione. Oltretutto la fragilità è strettamente associata a modificazioni della composizione corporea, è associata alla presenza di osteoporosi e ha una patogenesi che potrebbe sovrapporsi a quella della sarcopenia47.
La prevalenza dell’osteoporosi è alta nei pazienti che vanno incontro a cadute e aumenta in presenza dei markers della fragilità (cadute frequenti, sarcopenia, mobilità limitata e perdita di peso), che sono fattori di rischio sia per l’osteoporosi che per le cadute. Nonostante questo, serviranno ulteriori studi per determinare meglio come la fragilità possa essere inserita nella valutazione del rischio di fratture, la quale si basa sulla misurazione del BMD e sull’utilizzo del FRAX®48.
In uno studio del 2015 condotto nella popolazione anziana in Taiwan, è stata ritrovata una forte associazione tra fragilità e basso BMD, in misure effettuate sia a livello della colonna vertebrale lombare che a livello dell’anca in pazienti anziani. Un importante rischio per la salute nel paziente fragile sono le cadute e le relative fratture da fragilità. In questo studio i soggetti fragili più frequentemente erano andati incontro a cadute e più frequentemente avevano l’osteoporosi, così come la sarcopenia e una storia di fratture dell’anca. Gli autori di questo studio, quindi, hanno tratto le seguenti conclusioni:
1) La fragilità è strettamente associata ad una più bassa densità minerale ossea (BMD);
28 3) La fragilità è strettamente associata ad una storia recente di cadute e fratture
dell’anca;
4) Questi fattori definiscono un forte rischio per questi pazienti di andare incontro a ulteriori fratture da fragilità e risultati clinici sfavorevoli;
perciò, un programma di intervento sulla fragilità dovrebbe comprendere un approccio integrato sia sull’osso che sulla massa muscolare, così come sulla prevenzione del rischio di cadute. 47
Un punto fondamentale che cerca di spiegare, dal punto di vista eziopatogenetico, la correlazione tra paziente fragile ed osteoporosi, e quindi la correlazione tra fragilità e aumentato rischio di fratture da fragilità, è che la maggior parte dei pazienti fragili sono anche sarcopenici (Fig. 11).30
La sarcopenia è una sindrome caratterizzata da una progressiva e generalizzata perdita della massa muscolare scheletrica e della forza con aumentato rischio di problematiche come la disabilità fisica, scarsa qualità della vita e aumentata mortalità. Per la diagnosi di sarcopenia la EWGSOP raccomanda l’utilizzo sai della perdita della massa muscolare, che la riduzione della funzione del muscolo stesso
Figura 11 – Viene mostrata la sovrapposizione tra la fragilità e altre sindromi geriatriche Da Partridge JS, Harari D, Dhesi JK. Frailty in the older surgical patient: a review
29 (forza e performance). La sarcopenia è stata messa in evidenza con altre sindromi associate ad una aumentata perdita della massa muscolare, quali la cachessia, la fragilità e l’obesità sarcopenica. I parametri della sarcopenia sono la ridotta massa muscolare e la riduzione della sua funzione. Le variabili che possono essere misurate sono la massa, la forza e la performance fisica (Fig. 12). 49
La sarcopenia e l’osteoporosi sono due condizioni associate con l’invecchiamento, con fattori di rischio simili che includono la genetica, le funzioni endocrine, e i fattori meccanici. Inoltre, l’osso e il muscolo interagiscono strettamente l’uno con l’altro, non solo anatomicamente, ma anche chimicamente e metabolicamente.50 (Fig. 13).
Durante l’ultima decade si è progressivamente rafforzato il concetto che l’osso e il muscolo siano dei tessuti che interagiscono tra loro. Questa interazione non riguarda solo il fatto che questi tessuti sono anatomicamente adiacenti tra loro, e non riguarda solamente la loro interazione meccanica. In questa prospettiva, l’unità “osso-muscolo”, potrebbe essere un sito privilegiato in cui si realizzano scambi tra I due tessuti, attraverso sistemi di comunicazione sia paracrini che endocrini, in grado di coordinare il loro sviluppo e di adattare la loro risposta al carico e alle lesione alle quali possono andare incontro. Questo si realizza per tutta la vita dell’individuo, dagli stadi embrionali fino alla sua morte.51
Figura 12 – Metodi di misura della massa muscolare, della forza e della funzione muscolare nella pratica clinica e nell’ambito della ricerca.
Da Cruz-Jentoft AJ, Baeyens JP, et al., Sarcopenia: European consensus on definition and diagnosis: Report of the European WorkingGroup on Sarcopenia in Older People.
30 L’infiltrazione del tessuto adiposo, un fenomeno osservato durante la perdita di tessuto osseo e muscolare con l’invecchiamento, è molto più frequente e molto più severa in soggetti sarcopenici ed osteoporotici. Clinicamente, quando un individuo soffre di entrambe le condizioni, ha risultati clinici peggiori, come cadute, fratture, perdita di funzione, fragilità e incremento della mortalità, generando un’importante causa di elevati costi socio-economici. Perciò, è stato suggerito che quando la perdita della densità minerale ossea è sincrona al decremento della massa muscolare e della forza e della funzione muscolare, questo permette la diagnosi di osteosarcopenia, la quale può essere prevenuta e trattata. È essenziale che l’approccio alla prevenzione delle fratture, inclusa la gestione del paziente dopo la frattura, comprende la valutazione e il trattamento sia dell’osteoporosi che della sarcopenia. Questo è di particolare importanza nelle persone anziane, dove la combinazione di osteopenia/osteoporosi e sarcopenia è stata proposta come capace di definire un sottogruppo di individui più fragili, che hanno un più alto rischio di ricovero, cadute e fratture. 50
Figura 13 – Interazioni tra muscolo ed osso
Da Edwards MH, Dennison EM, Aihie Sayer A, Fielding R, Cooper C. Osteoporosis and sarcopenia in older age.
31
Anatomia del femore
Il femore è l’osso più voluminoso del corpo e forma lo scheletro delle coscia. Prossimalmente è articolato con l’acetabolo dell’osso dell’anca , distalmente con la tibia e la patella. Il femore è formato da un corpo e da due estremità: prossimale e distale (Fig. 14)52.
Fig. 14 – Osso del femore.
Da Giuseppe Anastasi ed al. Trattato di anatomia umana - Volume primo. Copyright 2006 Edi.Ermes s.r.l. Milano; Cap. 3 pp. 229-43.
32
Corpo del femore
Il corpo del femore presenta una convessità anteriore e ha una sezione prismatica triangolare in cui si possono descrivere una faccia anteriore, una faccia postreolaterale, e una posteromediale. Le facce sono lisce e separate da tre margini: laterale, mediale e posteriore; i primi due sono smussi mentre quello posteriore è rugoso ed è detto linea aspra52.
Epifisi prossimale
L’estremità prossimale del femore presenta la testa del femore che si articola con l’osso dell’anca. La testa termina in corrispondenza di un segmento cilindrico appiattito, il collo anatomico del femore. Alla base del collo sono visibili due grossi rilievi: il grande trocantere e il piccolo trocantere, uniti, anteriormente, dalla linea
intertrocanterica, posteriormente, dalla cresta intertrocanterica. Subito distalmente
al piccolo trocantere si trova il collo chirurgico del femore che corrisponde al limite tra diafisi ed epifisi52.
Epifisi distale
53Anatomia macroscopica
Il femore alla sua estremità inferiore o distale si ingrossa sia nel senso trasversale, sia in quello antero-posteriore, formando così una massa voluminosa di forma irregolarmente cubica, larga da 60 a 65 mm, e spessa da 50 a 55. Inoltre esso si incurva dall’avanti all’indietro, così che l’asse longitudinale del corpo dell’osso, prolungato in basso, divide l’estremità inferiore in due parti diseguali, di cui la posteriore ha dimensioni sempre più notevoli di quella anteriore.
L’estremità inferiore, vista di fronte, presenta dapprima una superficie articolare a forma di puleggia, la troclea femorale, facies patellaris, la quale risulta formata, come tutte le troclee, da due faccette, mediale e laterale, inclinate una verso l’altra, che terminano in un solco antero-posteriore o gola della puleggia; la faccetta laterale è più larga della mediale. Alla parte inferiore dell’osso, le due faccette, fino allora contigue, si separano e la gola della puleggia è sostituita da un’ampia incisura, che divide così l’estremità inferiore del femore in due porzioni situate ai lati, dette
condili, da qui il nome di incisura o fossetta intercondiloidea. I due condili si
33 Il condilo mediale è meno spesso di quello laterale, ma si proietta in dentro molto più che non il condilo laterale in fuori. Quest’ultimo, infatti, si allontana ben poco dalla direzione del corpo dell’osso, e discende meno in basso che non il mediale.
In ciascun condilo si considerano sei facce: una superiore che fa corpo con l’osso; una inferiore, una anteriore, una posteriore, le ultime tre sono articolari e disposte a semicerchio per scorrere sul piano della tibia; una mediana (rispetto all’asse del femore), che fa parte dello spazio intercondiloideo e dà inserzione ai legamenti crociati, i quali producono delle impronte, ben evidenti, quella del legamento posteriore alla parte anteriore della faccia mediana del condilo mediale, quella del legamento anteriore alla parte posteriore della faccia mediana del condilo laterale; per ultimo, una faccia laterale o cutanea, quasi superficiale, che si sente in modo ben distinto sotto i tegumenti.
La faccia cutanea del condilo mediale presenta alla sua parte media una grossa eminenza non ben limitata, detta tuberosità mediale o epicondilo mediale, sulla quale si inserisce il legamento mediale dell’articolazione del ginocchio; superiormente ed alquanto indietro di questa tuberosità si nota un tubercolo di forma piramidale, detto
tubercolo del grande adduttore, situato all’estremità del ramo di biforcazione
mediale della linea aspra, il quale serve d’inserzione, come indica il suo nome, al fascio inferiore del grande adduttore. Indietro ed inferiormente a questo tubercolo si trova una piccola fossetta per l’inserzione del muscolo gemello mediale.
La faccia cutanea del condilo laterale presenta una grossa sporgenza che è la
tuberosità laterale o epicondilo laterale, destinata all’inserzione del legamento
laterale dell’articolazione del ginocchio. Immediatamente dietro a questa tuberosità, vi sono due fossette ben distinte, poste una sopra all’altra: nella superiore si inserisce il muscolo gemello laterale; l’inferiore, di maggiori dimensioni, riveste il più delle volte la forma di una doccia profonda, obliqua in basso ed in avanti, e dà inserzione al muscolo popliteo.
L’estremità inferiore o distale del femore presenta ancora a considerare due regioni l’una in avanti, l’altra indietro.
In avanti, la troclea è sormontata da una superficie leggermente incavata, la
cavità sopratrocleare, che accoglie la rotula nei movimenti di estensione della
34 In dietro e superiormente all’incisura intercondiloidea si estende la porzione più larga dello spazio popliteo, prodotta dall’allontanamento dei due rami di biforcazione della linea aspra. Nella porzione inferiore e mediale del triangolo popliteo, a 15 mm circa al di sopra del margine laterale del condilo mediale, si vede frequentemente, ma non sempre, il tubercolo sopracondiloideo mediale di GRUBER, che dà inserzione ai fasci medi del muscolo gemello mediale. Di fronte alla suddetta eminenza ossea, un po’ sopra il condilo laterale, si trova talora il tubercolo sopracondiloideo laterale, che serve di inserzione a qualche fascio del muscolo gemello laterale. Il tubercolo sovracondiloideo laterale è relativamente meno sviluppato e meno frequente che non il tubercolo sopracondiloideo mediale. La cavità sopratrocleare, la porzione inferiore del triangolo popliteo, l’incisura intercondiloidea e le facce cutanee dei condili sono crivellate da orifizi vascolari, alcuni dei quali hanno delle considerevoli dimensioni.
Anatomia microscopica
La struttura generale del femore è analoga a quella di tutte le ossa lunghe. Le epifisi sono composte da masse di tessuto spugnoso circondate da uno strato più o meno spesso di tessuto compatto. Del resto, nelle epifisi femorali, come in tutte le altre, la direzione delle trabecole ossee non è disposta a caso, ma è sempre mirabilmente regolata per resistere alle pressioni o trazioni esterne.
L’epifisi distale del femore è, come la prossimale, costituita da un sottile guscio di tessuto compatto avvolgente una massa centrale di tessuto spugnoso. Le trabecole che la costituiscono hanno la maggior parte una direzione verticale, come le forze che esse hanno a sopportare: esse sono, naturalmente, tanto più brevi quanto sono più periferiche, tanto più lunghe quanto più sono prossime all’asse dell’osso. A queste trabecole verticali si aggiungono, a livello della superficie articolare, delle trabecole a direzione orizzontale.
Articolazione del ginocchio
Anatomia dell’articolazione del ginocchio52
L’articolazione del ginocchio è la più ampia e complessa del corpo che unisce lo scheletro della coscia a quello della gamba contribuendo sia alla statica che alla
35 deambulazione. È un ginglimo angolare o troclea a cui partecipano il femore con i
condili e la faccia patellare, la tibia con la faccia articolare superiore e la patella con
la faccia articolare (Fig. 15).
La troclea femorale è costituita dalla superficie convessa dei condili che, in avanti, convergono nella faccia patellare. Posteriormente, i condili divergono e sono separati dalla fossa intercondiloidea. La faccia articolare superiore della tibia corrisponde alle due cavità glenoidee dei condili tibiali separate dall’eminenza intercondiloidea. La patella è posta superiormente alla tibia, cui è fissata dal legamento patellare, ed è situata anteriormente all’estremità distale del femore con il
Fig. 15 – Articolazione del ginocchio
Da Giuseppe Anastasi ed al. Trattato di anatomia umana - Volume primo. Copyright 2006 Edi.Ermes s.r.l. Milano; Cap. 3 pp. 229-43.
36 quale si articola. Poiché le cavità glenoidee della tibia sono più piane rispetto ai condili femorali, tra le superfici articolari sono interposti due menischi fibrocartilaginei che hanno il compito di rendere concordanti le superfici stesse.
Il menisco laterale ha la forma di un cerchio quasi completo e si interrompe medialmente per inserirsi con le estremità all’eminenza intercondiloidea; a questo livello il menisco aderisce anche ai legamenti crociati anteriore e posteriore. Dal menisco laterale originano due fasci, i legamenti meniscofemorali anteriore e posteriore che lo uniscono al condilo femorale mediale. La parte periferica del menisco aderisce anche al legamento collaterale fibulare.
Il menisco mediale ha forma di semiluna ed è più ampio di quello laterale, con le sue estremità si inserisce alle aree intercondiloidee anteriore e posteriore.
Le estremità anteriori dei due menischi sono unite dal legamento trasverso del ginocchio.
I mezzi di unione dell’articolazione del ginocchio sono rappresentati dalla capsula articolare e da numerosi legamenti di rinforzo.
La capsula fibrosa si fissa come un manicotto ad alcuni millimetri dei capi articolari, anteriormente si inserisce sopra la faccia patellare, lateralmente e medialmente, sotto agli epicondili, posteriormente, sopra ai condili e nella fossa intercondiloidea. Sulla tibia, si fissa subito al di sotto del margine della cartilagine articolare. Posteriormente e ai lati, la capsula è piuttosto tesa e densa mentre anteriormente, dove si fissa al contorno della patella, più lassa.
La membrana sinoviale riveste internamente la membrana fibrosa e si fissa sul contorno della cartilagine articolare; a livello dei menischi si interrompe e si sdoppia per l’adesione degli stessi alla membrana fibrosa. La membrana sinoviale si porta superiormente tra il femore e il muscolo quadricipite femorale formando la borsa
sovrapatellare. Posteriormente la sinoviale circonda, con concavità posteriore, i
legamenti crociati che sono quindi intracapsulari ma al di fuori della cavità articolare. Altre borse sinoviali, non comunicanti con la cavità articolare, sono presenti tra la cute e la patella, borsa prepatellare, e più in basso, tra il legamento patellare e la tibia, borsa infrapatellare profonda. Sopra quest’ultima borsa è presente il corpo
adiposo infrapatellare.
Numerosi legamenti rinforzano la membrana fibrosa anteriormente, ai lati e posteriormente.
37 Il legamento patellare è un robusto cordone fibroso appiattito che unisce il margine inferiore della patella alla tuberosità tibiale. È la continuazione in basso del tendine del muscolo quadricipite femorale in cui la patella è inserita come osso sesamoide.
Il legamento collaterale tibiale è una larga lamina che originata dall’epicondilo mediale del femore, si inserisce sulla faccia mediale della tibia aderendo alla capsula articolare e al menisco mediale.
Il legamento collaterale fibulare è una larga lamina che, origina dall’epicondilo laterale del femore e si inserisce sulla testa della fibula senza aderire alla capsula articolare.
Il legamento popliteo obliquo corrisponde all’espansione del muscolo semimembranoso sulla faccia posteriore della capsula.
Il legamento popliteo arcuato, dall’estremità laterale del legamento precedente, si porta in basso incrociando il tendine del muscolo popliteo per terminare sulla testa della fibula.
I legamenti crociati sono due robusti cordoni fibrosi che rappresentano i mezzi di unione più importanti tra il femore e la tibia. Si incrociano all’interno della fossa intercondiloidea del femore, all’interno della capsula ma all’esterno della cavità articolare; originano dalle aree intercondiloidee anteriore e posteriore e si inseriscono alla faccia interna dei condili. Il legamento crociato anteriore origina dall’area intercondiloidea anteriore della tibia e si inserisce alla faccia mediale del condilo laterale del femore. Il legamento crociato posteriore è più robusto di quello anteriore ed è teso tra l’area intercondiloidea posteriore della tibia e la faccia laterale del condilo mediale del femore.
L’articolazione del ginocchio consente movimenti di flessione e di estensione della gamba sulla coscia; quando la gamba è flessa sono consentiti anche movimenti di extra e intrarotazione della gamba. Il movimento di extrarotazione è arrestato dalla tensione dei legamenti collaterali mentre la intrarotazione è limitata dai legamenti crociati.
38 Biomeccanica di base del ginocchio normale.54
La funzione meccanica di ognuna delle articolazioni dello scheletro è di permettere il movimento dei segmenti ossei mentre questi segmenti stanno portando carichi funzionali.
Per l’articolazione del ginocchio, i movimenti desiderati sono solitamente associati a processi deambulatori, come la corsa, la marcia e il salire e scendere scale e pendii. I carichi funzionali durante queste attività sono la forza di reazione del suolo applicata al piede durante la fase di appoggio dell’attività o il carico inerziale della gamba durante la fase di oscillazione dell’attività. Tranne che per le attività posturali statiche, come la stazione eretta, il ginocchio deve portare carichi variabili; allo stesso tempo, deve consentire il movimento tra le sue tre componenti ossee.
L’articolazione del ginocchio offre sei gradi di libertà di movimento. Il movimento rotazionale è costituito dalla componente di flesso-estensione, interno-esterno e varo-valgo. Il movimento traslazionale è possibile in direzione anteriore-posteriore e latero-mediale, cosi come la compressione e la distrazione dell’articolazione del ginocchio (Fig.16)55.
La principale componente volontariamente controllata del ginocchio è la flesso-estensione. È ben noto come il ginocchio possa sottostare ad altri movimenti (ad esempio l’angolazione in varo-valgismo). Ciò nonostante, è la componente di flesso-estensione del movimento che è direttamente controllata in modo volontario e che deve essere presente se si deve conseguire una normale funzione del ginocchio.
39
Fig. 16 – Movimenti dell’articolazione del ginocchio. (a) le 3 rotazioni, (b) le 3 traslazioni.
Da Michael T. Hirschmann · Werner Müller, Complex function of the knee joint: the current understanding of the knee
a
40 Movimento e momenti di flesso-estensione
All’articolazione del ginocchio si richiede di resistere a carichi impartiti sul piede durante il suo contatto con il suolo per tutti i processi deambulatori e di fornire le forze e i momenti necessari per vincere gli effetti inerziali della gamba durante la fase di oscillazione della deambulazione.
Durante il ciclo della deambulazione, le forze di contatto del suolo variano da un massimo di circa 1,3 volte il peso corporeo per la normale deambulazione a più del doppio del peso corporeo per l’attività di corsa. Anche la direzione di questa forza di contatto piede-pavimento è variabile durante il ciclo della deambulazione. Durante la battuta del tallone in fase di appoggio, la forza è diretta in alto e posteriormente. In ogni caso il carico funzionale induce un momento intorno all’articolazione del ginocchio e questo momento deve essere contrastato dal muscolo o dai gruppo muscolare agonista.
L’ampiezza del momento prodotto dal carico funzionale è dipendente dal centro effettivo di rotazione. La quantità di forza richiesta perché il gruppo muscolare agonista bilanci questo momento esternamente applicato è anch’essa dipendente dal centro di rotazione dell’articolazione. La condizione di equilibrio determina una particolare linea di applicazione della forza articolare di contatto. Cioè, la direzione e l’ampiezza del carico funzionale, prese insieme alla direzione della forza muscolare applicata, inducono una particolare direzione e ampiezza della reazione articolare. Siccome la forza è perpendicolare alle superfici, non è richiesta alcuna forza aggiuntiva dai legamenti crociati o collaterali, per fornire equilibrio. Se la forza di reazione articolare e le superfici articolari non sono perpendicolari, saranno richieste forze aggiuntive attraverso l’articolazione del ginocchio.
Se le superfici articolari stanno scorrendo l’una sull’altra, il centro istantaneo deve giacere lungo la linea perpendicolare alle superfici articolari. Se le superfici articolari non stanno scorrendo, ma tendono invece a separarsi o a penetrare una nell’altra, il centro istantaneo giacerà al di fuori di questa linea perpendicolare. Questa condizione può avvenire quando le superfici o le strutture legamentose o entrambe non sono nelle loro normali posizioni anatomiche o quando un tutore o un altro dispositivo ortesico è sovrapposto al ginocchio, forzando il movimento in modo innaturale.
41 Movimento e momenti di varo-valgismo
La forza di reazione del suolo imposta sul piede durante le attività deambulatorie ha componenti verticali ed orizzontali. La componente verticale di questa forza di contatto può essere ulteriormente considerata come avente degli effetti sia in direzione antero-posteriore che in direzione latero-mediale. Le forze di reazione del suolo laterali e mediali producono movimenti di varo-valgismo intorno all’articolazione del ginocchio.
Per l’articolazione del ginocchio sono disponibili tre meccanismi che la mettono in grado di resistere a momenti varismo o valgismo prodotti da componenti mediali o laterali della forza di reazione del suolo. Essi sono:
1) La ridistribuzione della forza articolare di contatto;
2) La ridistribuzione della forza articolare di contatto aumentata; 3) La produzione di carichi legamentosi
Contributo di momento dei legamenti
La capacità di un legamento di sviluppare una tensione e fornire momenti per contrastare carichi esterni dipende dalla grandezza del legamento e dalla sua localizzazione nell’articolazione. I legamenti collaterali laterale e mediale, in virtù della loro localizzazione , sono idonei a fornire momenti di valgismo e varismo, rispettivamente. Occorre considerare l’importanza della localizzazione del legamento nella sua capacità di produrre questi momenti.
Anche i legamenti crociati hanno il potenziale di creare momenti di varo-valgismo a livello dell’articolazione del ginocchio. Studi sperimentali hanno descritto i legamenti crociati come stabilizzatori “secondari” del varismo; inoltre è clinicamente riconosciuto che un legamento crociato assente è difficile da apprezzare quando si applicano momenti di varo-valgismo al ginocchio rilasciato.
42 Meccanica femoro-rotulea
La meccanica dell’articolazione femoro-rotulea differisce considerevolmente da quella della articolazione femoro-tibiale. Le forze dell’articolazione femoro-rotulea non derivano direttamente da esigenze di equilibrio di un carico funzionale. Esse derivano invece dalla necessità di cambiare la direzione del carico del quadricipite mentre passa nella regione dell’articolazione del ginocchio prima che sia applicato alla tibia tramite il tendine rotuleo. La funzione meccanica della rotula, quindi, è di fornire un mezzo per un cambiamento meccanicamente compatibile della direzione di una forza. Le forze agenti sulle superfici femoro-rotulee hanno un effetto integrato in cui una singola forza netta può sostituire la distribuzione delle forze articolari di contatto sulle superfici. Pertanto, la rotula risponde ad un insieme di tre forze: la trazione del quadricipite, la trazione del tendine rotuleo e la forza compressiva netta sulle superfici femoro-rotulee. Queste tre forze devono essere complanari.