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Dal sopruso al riscatto: Él di Mercedes Pinto (traduzione e commento)

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Academic year: 2021

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Sommario

1. Introduzione ... 3

2. Premessa ... 5

2.1 Mercedes Pinto: la vita ... 5

2.2 Él di Mercedes Pinto ... 7

2.3 Él: libro e film a confronto ... 9

3. Traduzione... 15

4. Commento alla traduzione ... 86

4.1 Considerazioni sulla lingua ... 86

4.2 Il registro colloquiale ... 92

4.3 Scelte di traduzione ... 97

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3 1. Introduzione

Il testo che ho deciso di tradurre è il romanzo Él di Mercedes Pinto, pubblicata per la prima volta in Uruguay nel 1926; l’autrice di origini canarie è la protagonista e narratrice omodiegetica dell’intera vicenda, e descrive le esperienze drammatiche da lei stessa vissute. Per questo motivo il libro può considerarsi un’autobiografia dell’autrice, nonostante la Pinto non riveli mai né il suo nome né quello del marito, l’altro protagonista del libro. Quest’ultimo, malato di paranoia, ha reso impossibile, per diversi anni, la vita della donna, a causa delle continue minacce, i soprusi e le violenze fisiche e psicologiche, che la narratrice descrive nei diversi episodi nei quali si articola l’intera opera. La particolarità di questo libro, che è uno dei motivi che hanno fatto ricadere la mia scelta di traduzione su questo brano, è il fatto che l’autrice riesca a descrivere le sue dolorose e drammatiche esperienze di vita vissuta attraverso immagini vivide e forti, nonostante non ripercorra in modo lineare e preciso i fatti, ma descriva soltanto brevi episodi di un’esistenza tormentata e triste. La struttura dell’opera è, infatti, molto simile a un diario, in cui la donna annota le sue vicende personali e i suoi pensieri. La sua prima, terribile, notte di nozze, la perdita dell’amata sorella, la nascita del primo figlio, il ricovero dell’uomo in ospedale sono tutti episodi che ripercorrono la vita infelice di Mercedes Pinto accanto a Lui. Nonostante il dolore e il pessimismo che, sin dalle prime pagine, sembrano essere i protagonisti assoluti dell’esistenza della donna, quest’ultima non si perde d’animo, ma sopporta e lotta al punto che il finale dell’opera può considerarsi abbastanza positivo: la protagonista riesce, infatti, a far rinchiudere il marito in una clinica psichiatrica e a fuggire insieme ai figli.

Ciò che mi ha particolarmente colpito e affascinato è la personalità poliedrica di questa donna coraggiosa, che fu una delle prime femministe spagnole, e che, come emerge dalle pagine del romanzo, non ha avuto una vita facile, ma si è dovuta battere per ottenere ciò che le spettava di diritto: la libertà.

Él rappresenta la chiara testimonianza di una moglie e di una madre

sottomessa al potere di un marito folle che, però, in una società patriarcale e ancorata ad antichi valori maschilisti, tutti difendono e giustificano. Inoltre, l’aggiunta del brano El divorcio come medida higiénica all’edizione del 2011 che

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ho tradotto, sottolinea, ulteriormente, il forte messaggio che la Pinto vuole trasmettere. Questo brano riporta, infatti, il discorso che l’autrice tenne nel 1923 all’Università Centrale di Madrid, sostenendo la legittimità del divorzio e i diritti delle donne, e fu, però, anche il motivo per il quale dovette lasciare la Spagna: i temi scottanti di cui parlò non piacquero, infatti, all’allora dittatore Primo de Rivera. Gli anni successivi fanno parte del periodo sudamericano di Mercedes Pinto, la quale viaggiò dall’Uruguay al Messico promuovendo numerose attività come pedagoga, drammaturga e oratrice. Nonostante il suo impegno a favore dei diritti delle donne, la promozione culturale e le campagne per l’educazione popolare, la vita della Pinto e tutto quello che ha rappresentato sembrano essere caduti nell’oblio, ed è anche per questo motivo che ho deciso di tradurre Él, una delle sue opere più dimenticate.

Ritengo che i temi e le riflessioni che emergono dal racconto autobiografico di una donna che ha vissuto esperienze tanto traumatiche, oltre a permetterci di capire molti aspetti riguardanti la società spagnola del primo Novecento, possano far riflettere anche sull’attuale condizione della donna: troppo spesso, ancora oggi, l’unico ruolo che le viene riconosciuto è quello di madre e di moglie. La violenza nei confronti delle donne rappresenta, infatti, un tema molto attuale e delicato, del quale non si deve smettere di parlare, al fine di sensibilizzare le coscienze su quello che le donne continuano a subire, restando spesso vittime di una società che non ha saputo ascoltarle e proteggerle abbastanza.

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5 2. Premessa

2.1 Mercedes Pinto: la vita

Mercedes Pinto vive en el viento de la tempestad. Con el corazón frente al aire. Enérgicamente sola. Urgentemente viva. Segura de aciertos e invocaciones. Temible y amable en su trágica vestidura de luz y llamas.

Questi sono i versi che Pablo Neruda dedicò a una donna dalla forte personalità e dal talento multiforme: Mercedes Pinto. Meglio conosciuta come la

poetisa canaria, Mercedes Pinto nacque a San Cristobal de La Laguna il 12

ottobre del 1883, da una famiglia colta e benestante; suo padre, Francisco María Pinto, fu, infatti, scrittore e critico letterario. Gli anni più difficili, che influenzarono profondamente la vita e le opere di quest’autrice, sono quelli che la donna trascorse con il suo primo marito, il capitano della Marina Juan de Foronda, dal quale ebbe tre figli; l’uomo era affetto da problemi mentali paranoici, che resero impossibile la vita della Pinto, la quale, negli anni Venti, dopo il ricovero del marito in una clinica psichiatrica, si trasferì a Madrid. La sua permanenza nella capitale spagnola le permise di entrare in contatto con alcune personalità culturali importanti, come Ortega y Gasset e Carmen de Burgos, grazie ai quali poté iniziare la collaborazione con importanti riviste spagnole; è qui, inoltre, che conobbe il suo secondo marito, l’avvocato Rubén Rojo, che le dette altri due figli. Il 1921 fu l’anno di pubblicazione del suo primo libro di poesie, dal titolo Brisas del Teide, e in quegli stessi anni, l’autrice iniziò la sua attività di oratrice e femminista, entrando a far parte della Liga Internacional de

Mujeres Ibéricas e Hispanoamericanas. Il punto di svolta nella vita di Mercedes

Pinto coincise con il discorso dal titolo El divorcio como medida higiénica, che la donna tenne il 25 novembre del 1923 all’Università Centrale di Madrid, e durante

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il quale, sostenne la legittimità del divorzio al fine di tutelare le donne e i loro figli da mariti malati e violenti: fu proprio in seguito a questo discorso che, a causa delle minacce ricevute dall’allora dittatore Primo de Rivera, fu costretta ad abbandonare la Spagna. La scrittrice canaria decise, pertanto, di partire con la famiglia per stabilirsi a Montevideo, città che rappresenta la prima tappa dei suoi spostamenti nei paesi sudamericani, e delle sue numerose attività di pedagoga e attivista in difesa delle classi più deboli. In seguito, in Uruguay fondò, infatti, la

Casa del Estudiante per la promozione culturale nei diversi strati sociali, a cui si

unì, tra gli altri, anche Luigi Pirandello. Inoltre, in questi anni, Mercedes Pinto scrisse la sua opera più conosciuta, il romanzo autobiografico Él, in italiano “Lui”, pubblicata nel 1926, e basata sulla sua tormentata esperienza matrimoniale con il primo marito. A Montevideo, l’autrice fondò anche una compagnia teatrale, nella quale debuttarono come attori tutti i suoi figli.

La seconda tappa sudamericana è invece rappresentata dal Cile, dove la donna si trasferì nel 1933, e dove conobbe Pablo Neruda, il quale, colpito dalla sua grande personalità, le dedicò i versi che oggi costituiscono l’epitaffio della sua tomba. Fu qui, inoltre, che, nel 1934, pubblicò il suo secondo romanzo, dal titolo Ella, “Lei”, mentre a Cuba, dove visse fino al 1943, si impegnò in favore degli ebrei, cercando di incentivare la collaborazione e il sostegno tra il popolo cubano e i rifugiati perseguitati dai nazisti. I numerosi spostamenti di Mercedes Pinto nei vari paesi sudamericani terminarono con il suo trasferimento definitivo in Messico, dove la donna morì il 21 ottobre del 1976, all’età di 93 anni1.

Nonostante sia stata una donna poliedrica, dallo spirito ribelle, sempre impegnata in tante e svariate attività come giornalista, scrittrice, attivista femminista, drammaturga e pedagoga, le sue opere e le numerose attività culturali che promosse raggiunsero un successo e una notorietà di breve durata, per poi sprofondare nell’oblio. In particolare, la sua opera più importante, il romanzo Él, rappresenta uno dei testi letterari maggiormente dimenticati; tuttavia il regista spagnolo Luis Buñuel lo fece diventare un film, che uscì sul grande schermo nel 1953 con lo stesso titolo. Mentre, però, il libro si concentra maggiormente sulle tragiche esperienze della vita matrimoniale dell’autrice, la

1 A. Llarena, Yo soy la novela. Vida y obra de Mercedes Pinto, Gran Canaria, Cabildo de Gran

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7

quale lancia una critica feroce contro la società patriarcale dell’epoca, che limitava il ruolo della donna a madre e moglie sottoposta al potere assoluto dell’uomo, la pellicola, invece, pone l’accento sul caso clinico di un malato di paranoia2.

2.2 Él di Mercedes Pinto

Il romanzo Él fu pubblicato per la prima volta a Montevideo nel 1926, poi in Messico nel 1945 e nel 1948, e, infine, a Madrid nel 1969, per poi scomparire definitivamente dal panorama editoriale. I personaggi principali della storia sono due, Lui e la narratrice, sua moglie, la quale racconta, in prima persona, la sua vita accanto a quest’uomo paranoico e geloso; nonostante l’esperienza personale di Mercedes Pinto sia alla base di queste vicende, i coniugi del libro restano sempre anonimi, come se l’autrice volesse conferire loro un’essenza universale3.

Le ossessioni morbose e malate del marito rendono impossibile la vita della donna, la quale subisce maltrattamenti e violenze fisiche e psicologiche; l’uomo viene ricoverato per un certo periodo in una clinica psichiatrica, per uscirne, però, poco tempo dopo. Tuttavia il finale si risolve in modo piuttosto positivo per la protagonista-narratrice, la quale riesce a fuggire per iniziare una nuova vita senza il marito, lasciandosi alle spalle anni di sofferenza, di minacce e di martirio.

Il libro non è suddiviso in capitoli, ma è un susseguirsi di episodi, sequenze e sezioni in cui la voce narrante omodiegetica è sempre quella della protagonista; inoltre, prima del racconto vero e proprio, l’opera si apre con un breve testo dal titolo Invitación al dolor, che introduce l’esperienza tanto terribile quanto familiare vissuta dalla narratrice, la quale si rivolge direttamente al dolore, suo compagno sin da quando era piccola4. Cummings percepisce nella protagonista una sorta di religiosità vittimistica, tipica di una donna cresciuta secondo i dettami della dottrina cattolica, e che aveva da poco perso il figlio primogenito.

2

G. Cummings, Él: de Mercedes Pinto a Luis Buñuel, in Revista de Filología y Lingüistica de la Universidad de Costa Rica, vol. XXX (1), 2004, p. 77.

3 F. Heitz, De Ella a Él: caras y máscaras en la « novela » de Mercedes Pinto (1926) y en la película de Luis Buñuel (1952), in Arbor, vol. 187-148, Madrid 2011, p. 372.

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In particolare, lo stile utilizzato si rifà all’estetica simbolista, e presenta diverse metafore cristiane, poste in relazione con l’esistenza dolorosa della donna5

:

Viajaba yo con mi pesada cruz sobre los hombros (Él, p. 83)6.

Questo presunto vittimismo è riscontrabile, secondo Heitz, anche nel fatto che la protagonista non approfitti dei momenti in cui il marito è ricoverato in clinica per fuggire.

Dopo Invitación al dolor, in un frammento che non fa ancora parte del racconto vero e proprio, la narratrice informa il lettore di aver trovato un manoscritto, dal titolo Él, che ha deciso di pubblicare, nonostante non sappia chi l’abbia scritto né da dove provenga:

Cuando hicimos el hoyo para plantar el rosal blanco, al pie del laurel grande, que está junto a la fuente, fue cuando encontré el cofre de metal con este manuscrito, que hoy publico […].

A manera de título, el manuscrito empezaba con esta palabra escrita en color rojo, no sé si con tinta o con sangre: ÉL… (Él, pp. 10-12).

Questo espediente del manoscritto ritrovato ha un noto precedente in letteratura: anche Cervantes, infatti, all’inizio del Don Chisciotte, si inventa un autore fittizio, Cide Hamete Benengeli, che fa passare per l’autore del manoscritto, contenente la storia dell’idalgo scritta in arabo, e che egli dice di aver trovato in un mercato a Toledo. Cervantes immagina, inoltre, di aver fatto tradurre il manoscritto dall’arabo allo spagnolo da un giovane traduttore; tuttavia, l’autore reale afferma di non dare troppo credito a Benengeli in quanto arabo e, dunque, incline alla menzogna. Mercedes Pinto sfrutta questo topos letterario, che contribuisce a creare confusione e sorpresa nel lettore, quasi volesse prendere le distanze dai temi scottanti e sovversivi che sono il fulcro della sua opera; la denuncia sociale della condizione della donna, e la sua chiara presa di posizione

5 Heitz, op. cit. p. 373.

6 Mercedes Pinto, Él, Madrid, Escalera 2011; nelle citazioni che seguiranno impiegherò solo il titolo

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in favore della legalità del divorzio erano, infatti, argomenti tabù per la società borghese e patriarcale dell’epoca.

Dopo questa premessa sul ritrovamento del manoscritto, la protagonista dice di aver mostrato al suo confessore e a un magistrato delle pagine in cui descriveva la sua prima, terribile, notte di nozze, ma essi le suggerirono di non pubblicarle; soltanto il medico che l’aveva fatta nascere le aveva consigliato la pubblicazione, ma lei aveva preferito dar credito ai primi due, e aveva strappato quei fogli. Questi segmenti confondono e disorientano ulteriormente il lettore, il quale, dopo tali premesse, si trova di fronte al racconto vero e proprio, che inizia in medias res, con la descrizione della vita matrimoniale della protagonista che, sin da subito, appare tormentata. La legge non le permette di separarsi dal marito, il quale riesce a conquistarsi la simpatia di tutti, fingendo abilmente di essere sano di mente e, dunque, togliendole credibilità, tanto che né il suo medico, né il sacerdote e neppure la sua stessa madre danno importanza alle sue richieste d’aiuto7

. La situazione si complicherà tanto da mettere in pericolo la vita della donna, e il punto clou della vicenda andrà a coincidere con il ricovero del marito in un manicomio, e con la fuga finale di lei con i figli8.

L’opera si chiude con Plegaria a la luz, una vera e propria preghiera che l’autrice rivolge alla luce, paragonandosi, ancora una volta, al Cristo in croce:

[…] pero que la luz ilumine mi dolor y no haya sombra alguna que ocultar pudiera un retorcimiento de mi cuerpo en cruz… (Él, p. 93).

2.3 Él: libro e film a confronto

Il film Él di Luis Buñuel uscì nel 1953, ben ventisette anni dopo la prima pubblicazione dell’omonima opera letteraria di Mercedes Pinto: questo aspetto mette in evidenza il disinteresse per la dimensione temporale nella genesi della trasposizione cinematografica, che sarebbe potuta essere ambientata in qualsiasi luogo, dal momento che, come afferma il regista stesso, il suo intento principale è

7 Heitz, op. cit. p. 372. 8

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quello di fornire il ritratto di un paranoico9. Tuttavia, il fatto che Buñuel viva in Messico, gli permette, inevitabilmente, di presentare alcuni aspetti caratteristici della società messicana, come il maschilismo, qui più radicato rispetto che in Spagna10.

Il protagonista della pellicola è Francisco Galván, un ricco possidente apparentemente normale, rispettabile, e devoto; è, infatti, in chiesa, durante il rito della lavanda dei piedi, che vede Gloria, fidanzata del suo amico Raúl, per la prima volta. Questa scena iniziale, funzionale alla presentazione dei due personaggi principali, non è presente nel romanzo. Nel corso del film, vi sono altre due sequenze ambientate in chiesa: la scena in cui Francisco vi si reca per cercare Gloria, della quale si è innamorato, e quando, sempre alla ricerca della donna, finisce nella stessa chiesa, dove ha luogo l’episodio di massima tensione della pellicola11. È qui, infatti, che Francisco, durante la messa, cade in preda a una grave crisi schizofrenico-paranoica che gli provoca delle visioni per cui gli sembra che tutti, compreso il parroco, ridano e si prendano gioco di lui.

Anche per Mercedes Pinto, la quale lamenta l’incomprensione della Chiesa nei suoi confronti, la religione cattolica svolge un ruolo importante: è infatti il suo confessore a consigliarle di non pubblicare il racconto drammatico della sua prima notte di nozze, e a esortarla ad avere pazienza e a continuare a sopportare, nonostante tutte le molestie e gli abusi subiti dal marito.

Oltre alla chiesa, un altro luogo-simbolo del film è la casa dei coniugi, che, da fuori, appare più simile a un castello-prigione; il giardino con le statue rappresenta, invece, il posto in cui avviene il bacio tra Francisco e Gloria, e in cui si arriva al culmine dell’esasperazione del desiderio di Francisco. In questo caso, il contrasto con il testo letterario è marcato, dal momento che, per Mercedes Pinto, il giardino rappresenta, invece, un locus amoenus, un rifugio in cui la donna cerca di ritagliarsi dei momenti di tranquillità, nonostante “Lui” faccia di tutto per impedirglielo12.

Un altro aspetto importante del film di Buñuel, consiste nel fatto che, inizialmente, il punto di vista appare oggettivo, ma, dal momento del flashback, 9.Ivi, p. 77. 10 Heitz, op.cit. p. 377. 11 Cummings, op.cit. p. 86. 12 Heitz, op.cit. p. 377.

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in cui Gloria racconta a Raúl delle gelosie paranoiche del marito, già a partire dalla loro luna di miele, durante la quale Francisco aveva iniziato a mostrare i primi segnali di squilibrio mentale, lo spettatore si trova di fronte a una nuova immagine del protagonista, carica di aspetti psicologici mostruosi13: l’uomo descritto da Gloria, infatti, differisce notevolmente dal buon cattolico che ci viene presentato all’inizio. Nell’opera di Buñuel, la focalizzazione e i diversi piani sui quali si sviluppa l’azione risultano, dunque, fondamentali: è solo durante l’analessi, quando la donna rivela il conflitto alla base della storia, che ci viene presentata la tormentata vita matrimoniale dei coniugi attraverso il punto di vista femminile. Per il resto, il film ci mostra la realtà così come la percepisce Francisco, la cui personalità rappresenta ciò che, maggiormente, interessa il regista. Nel libro, la voce narrante è, invece, sempre e solo quella della protagonista, la quale, attraverso la descrizione di episodi e frammenti di vita vissuta, ci fornisce un ritratto spaventoso e drammatico dell’uomo che ha sposato.

Una caratteristica che, invece, accomuna le due opere sta nel fatto che, sia Pinto che Buñuel rispettino le regole fondamentali del teatro greco, partendo da informazioni che fanno parte del nucleo narrativo, per poi presentare le cause del conflitto, alla base della storia, che complica la trama, fino ad arrivare al momento di massima tensione e alla risoluzione finale14, che, nel film, è soltanto apparente. Inoltre, il tema principale alla base del libro e della pellicola è l’amour

fou, l’amore folle, che provoca nel personaggio maschile gelosie e paranoie,

causa, a loro volta, di molti episodi drammatici per la narratrice e per Gloria; quest’ultima ci appare come una donna dolce e sottomessa, che sembra esistere soltanto per il fatto che Lui la osserva15. Il tema dello sguardo rappresenta, infatti, un altro aspetto importante all’interno del film: durante la scena iniziale, per esempio, Francisco osserva i piedi che il sacerdote sta lavando, per poi soffermarsi su quelli di Gloria. Subito dopo, la cinepresa ci mostra la donna, in tutta la sua bellezza, ricambiare lo sguardo di Francisco, già innamorato di lei.

Se il personaggio femminile del libro e Gloria del film non sintetizzano la poliedrica personalità di Mercedes Pinto, “Lui” e Francisco sono entrambi

13 Cummings, op.cit. pp. 79-80. 14 Cummings, op. cit. p. 80. 15

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convinti della loro superiorità e onnipotenza nei confronti del genere umano, tanto che non mancano di paragonarsi a Dio:

[…] yo tengo conciencia de mi valor moral, y así como Dios se quiere a sí mismo más que a la humanidad, yo, que conozco y sé que valgo más que todos vosotros, me quiero y me admiro, ¡y siento, a veces, hacia los demás unos impulsos de desprecio…! (Él, p. 36).

Dopo la scena più drammatica nella chiesa, il regista ci mostra Gloria e Raúl, diversi anni dopo, sposati e con un figlio di nome Francisco, che fanno visita a Francisco, il quale, apparentemente guarito, vive in un monastero in Colombia. Il film si chiude con l’immagine di Francisco che, nel giardino del convento, si allontana dalla camera con una camminata a zigzag: un chiaro segnale, questo, che in realtà l’uomo non è guarito, e che la tranquillità dimostrata di fronte al Padre priore era soltanto apparente16.

Risulta, dunque, evidente che il dubbio e l’incertezza siano elementi caratteristici della produzione buñueliana, dal momento che lo spettatore è portato a chiedersi se il padre del bambino sia Raúl o Francisco, e, addirittura, se l’intero racconto non sia soltanto un sogno. Inoltre, questo falso happy end contribuisce a sovvertire i canoni del genere melodrammatico, all’epoca, particolarmente in voga in Messico17. Il regista, insomma, lascia libero spazio all’immaginazione, restando fedele allo spirito del surrealismo, e distruggendo il binomio tra vittima e carnefice che è, invece, alla base dell’opera di Mercedes Pinto, la cui struttura narrativa è molto più semplice e lineare18.

Buñuel afferma di volersi soffermare sull’osservazione scientifica di un caso clinico, ma, allo stesso tempo, confessa la sua vicinanza al personaggio maschile, geloso e solitario, tanto da interessarsi, sino al finale, al destino di Francisco19. Al contrario, Él rappresenta una drammatica testimonianza delle violenze fisiche e psicologiche subite da una donna che ha avuto il coraggio di

16 Cummings, op. cit. p. 88. 17 Heitz, op. cit. p. 378. 18 Ivi, pp. 377, 379. 19

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alzare la propria voce contro un sistema che negava qualsiasi diritto a una moglie costretta a subire i soprusi di un folle; la dialettica tra la vittima e il pazzo, il quale, grazie alla sua apparente rispettabilità, si avvale dell’appoggio di personalità sociali importanti, è, infatti, un elemento costante del libro20.

L’intento principale del regista spagnolo è, soprattutto, quello di rappresentare l’essere umano con tutte le sue debolezze e contraddizioni, in perenne conflitto con le sue pulsioni interiori21; Mercedes Pinto, d’altro canto, si avvale della sua drammatica esperienza personale per denunciare la condizione d’inferiorità della donna, alla quale era concesso soltanto di ricoprire il ruolo di madre e di moglie senza la possibilità di denunciare i soprusi e le violenze subite da un marito malato e senza scrupoli.

La violenza nei confronti delle donne è, inoltre, un tema molto attuale e delicato, soprattutto in un periodo in cui il femminicidio è all’ordine del giorno. Mercedes Pinto è un esempio di donna che non si è arresa a un destino tragico, ma che ha deciso di lottare, sola contro tutti e con tutte le sue forze, per poter ricominciare a vivere come meritava. E, alla fine, riesce nel suo intento: infatti, nonostante nel romanzo si percepiscano spesso rassegnazione e pessimismo, la sua determinazione e il suo coraggio le permettono di riprendere pieno possesso della sua vita e di ripartire da zero. Per questo motivo, Él rappresenta la testimonianza toccante di una donna che ce l’ha fatta, la cui storia dovrebbe essere presa a esempio da tutte quelle che, invece, purtroppo ancora oggi, subiscono violenze fisiche e psicologiche da parte di mariti o compagni possessivi e gelosi. Troppo spesso, le gelosie ossessive di questi uomini non lasciano scampo alle donne, che rimangono vittime di un amore malato. L’autrice, attraverso il suo romanzo-diario, trasmette un messaggio di speranza e di fiducia, attuale e valido oggi più che mai: bisogna avere la forza e il coraggio di ribellarsi a un’esistenza fatta solo di soprusi e di minacce, poiché, se davvero lo si vuole, è sempre possibile prendere in mano le redini della propria vita. Il messaggio di Mercedes Pinto, che è stata anche una delle prime femministe spagnole, acquista ancora maggior valore se si considera che l’autrice ha vissuto in un’epoca in cui il divorzio era illegale, e alle donne veniva riconosciuto

20 Ivi, p. 378. 21

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soltanto un ruolo di sottomissione all’uomo: i movimenti femministi volti al raggiungimento della parità dei sessi stavano compiendo i primi passi, e l’emancipazione femminile era ancora un’utopia.

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3. Traduzione

INVITO AL DOLORE

Vieni qui, dolore, che gli uomini trattano in modo così ingiusto; avvicinati a me che ti conosco tanto bene perché mi hai accudito, sin da quando ero bambina, come fossi il fiore prediletto del tuo giardino…Tu mi hai scelto come si sceglie una sposa dall’istante in cui ho aperto gli occhi per la prima volta…Tu mi hai nutrito, offrendomi da bere dal tuo calice più prezioso, le lacrime più amare ed eccitanti; tu mi hai vestito con la tunica che più di ogni altra potesse corrodere la mia carne e mi hai cinto la vita con il cilicio che più di ogni altra cosa potesse lacerarmi le viscere; tu, con la tua mano di ferro che perfora le tempie e buca le cellule fino alla pazzia, mi hai accarezzato la fronte; tu hai, e hai fatto in modo che quel ‘film’ terrificante rimanesse impresso nella mia testa.

Tu, amico dolore, mi hai risvegliato violentemente dal tranquillo sonno della gioventù per mostrarmi, nella cupa oscurità notturna, mille scenari di violenza e di furore; con un’attenzione privilegiata hai provocato nodi, ferite e lievi strappi nelle pieghe più delicate, più care, e per questo più dolorose da toccare, del mio cuore…

Mi hai fatto tutto questo e te ne sono grata, amico dolore, perché bisogna sempre ringraziare per il posto d’onore che viene concesso a chi, come me, ha potuto elevarsi sopra gli altri mortali con le ali sanguinanti che mi hai prestato e, con uno spirito più snello, comprendere, da una posizione privilegiata, quello che non sarei mai arrivata a capire e, perciò, a godere, se non avessi bevuto dal tuo calice fortificante…Sfortunati quelli che non sono stati sfiorati dalle tue mani d’acciaio! Sfortunati quelli che hanno bevuto la vita dal calice mediocre delle pene ordinarie!

Oh benedetto dolore, adorato dolore, che mi hai permesso di vedere piccole le cose che una volta mi sembravano grandi, splendide, quelle che mi spaventavano perché non le comprendevo, e mi hai fatto percepire chiaramente ciò che la vista mi nascondeva!

Dolore benedetto che mi hai permesso di crescere…! Dolore adorato, grazie a te so chi sono…!

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Fu quando scavammo la buca ai piedi dell’alloro grande, accanto alla fonte, per piantare il roseto bianco, che trovai lo scrigno di metallo con questo manoscritto, che oggi pubblico nel caso saltasse fuori il proprietario e volesse integrare questi appunti, che potrebbero costituire un chiarimento per molti casi in cui ancora si confonde il malvagio con l’irresponsabile; potrebbe rappresentare la bandiera nobile di una Giusta causa; potrebbe essere la difesa di una vita, una veritiera museruola insanguinata che una mano sofferente ha collocato su maldicenti bocche contadine che, con la loro bava, macchiano tutto ciò che non conoscono né comprendono…

A mo’ di titolo, il manoscritto iniziava con questa parola scritta di rosso, non so se con l’inchiostro o con il sangue:

LUI…

Avevo già scritto alcune pagine in cui descrivevo la mia prima notte di nozze. Le mostrai a un magistrato, esempio di rettitudine, e sbottò, arrossendo per la rabbia:

Non le pubblichi, perché cento mani oneste si allungheranno, giustiziere, per strangolarla…

Poi, le mostrai al mio confessore, e mi consigliò, a bassa voce:

Strappale subito; queste pagine invocano il castigo e il castigo lo può dare solo Dio.

Poi le lesse il medico che mi fece nascere, e mi disse:

Pubblica queste pagine, perché le perversioni viste con gli occhi della scienza, al momento opportuno, possono evitare mali peggiori.

Tuttavia rilessi le pagine e, dando più ascolto al magistrato e al parroco piuttosto che al medico, le feci in mille pezzi, e per un istante, vidi dileguarsi il racconto dell’infamia e della follia della mia prima notte di nozze…

Come opporsi Continuavo a chiedermi. Tutte le donne sopportano a questo modo… Che cos’è questo

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E l’innocenza che le bravi madri spagnole vogliono inculcare nelle vergini, posando anche sopra di me il suo spesso velo, mi impediva di distinguere, di selezionare, di scegliere…

Non avrò pace disse un giorno Lui, concentrato finché non sarò più di ricco di Tizio e mi nominò un suo amico che qualche giorno prima gli aveva fatto un favore enorme.

–E perché gli chiesi.

–Per potere schiacciarlo e vincerlo. Pensi che gli sia grato per il favore che mi ha fatto? No; lo odio talmente tanto da allora, che è la mia ossessione di giorno, e, di notte, l’idea di essere moralmente umiliato non mi fa dormire. Chi ci fa un favore ci condanna a sottostare alla sua autorità e potrà sempre dire: «Io ho fatto questo per Tizio, e il potere che lo equipara a un dio fa sì che il beneficiato sia uno schiavo morale, perché non ha potuto fare quello che ha fatto l’altro…».

–Per questo voglio arrivare a poterlo fare, e allora lo distruggerò e lo avrò finalmente ai miei piedi…Ma dimmi, infelice, tu non capisci quanto è naturale questo odio, questa tortura che mi uccide Non capisci tutto questo…

Sei giorni da sposati e i suoi sospetti lo portavano a diffidare dell’inglese tubercolotico, nostro vicino di camera, ospite fisso del Grand Hotel. La metallica tosse notturna del malato gli faceva pensare a segnali prestabiliti, e le ore passavano con Lui che non mi lasciava dormire e vegliava ogni mio minimo movimento. A volte, per corrispondenza nervosa, a forza di sentir tossire il vicino dal sottile divisorio, mi si seccava la gola e tossivo a mia volta, e allora Lui si scagliava contro di me, pronto a strangolarmi con le sue mani.

Durante il giorno io evitavo anche il minimo sguardo dell’inglese, il quale non faceva caso a noi, indifferenza che tuttavia Lui interpretava come un astuto calcolo.

Senza temere di esser messo in ridicolo, parlò con il proprietario dell’hotel per farlo cambiare di stanza, ma lui si rifiutò, perché era un ospite di vecchia data che, aggiunse, era molto cagionevole.

Un giorno, il «suo» cervello era sconvolto a tal punto che la mattina uscimmo per cercare una camera in un altro hotel. Era già molto tardi quando

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rientrammo nello stesso albergo per dormirvi solo quella notte, e notai, contrariata, che sotto la porta accanto c’era ancora una lama di luce. «Un’altra notte» pensai, «di gelosia e di tormento!».

Dopo poco, un sospiro profondo ruppe il silenzio, e Lui, che stava scrivendo delle lettere, alzò la testa e mi guardò; seguirono un altro sospiro e dei passi felpati dentro la camera.

–Lo vedi– mi disse inferocito– vedi che vuole solo attirare la tua attenzione?

E sentendo un singhiozzo soffocato che proveniva dalla stanza del vicino, urlò, ormai fuori di sé:

–Prima di domattina lo ammazzo!

Si alzò con violenza, e in quel momento si sentì un «ahi!» di una voce dal timbro femminile, che gli fece pensare a una voce falsa da beffa denigratoria, allora, con feroce impeto, percosse la porta di legno che univa le due camere e la fece cadere a terra.

E notai con orrore, nella stanza vicina, un candelabro nero, che la porta si era trascinata dietro, con un cero acceso e, in un angolo, ci guardavano con occhi sconvolti la proprietaria dell’hotel e una domestica, con dei rosari tra le mani, mentre, sul tavolo, avvolto nel lenzuolo funebre, c’era il povero inglese, freddo e privo di vita.

Quella volta ottenne certamente un successo nella sua carriera, e gli amici affollavano la nostra casa con visite di congratulazioni.

–Ha molto talento– mi dicevano. Congratulazioni. Congratulazioni. Ed era tutto un susseguirsi di felicitazioni.

Una persona della mia famiglia, che in più di un’occasione aveva ricevuto le mie confidenze, mi diceva a bassa voce:

–Vedi quanto erano infondati i tuoi sospetti sul fatto che Lui non stesse bene di testa; se fosse così non lavorerebbe con così tanto talento.

Io ascoltavo, confusa.

Di notte, un sospetto assurdo, tremendo e scandaloso venne a turbare la quiete del mio sonno…Il mio dito indice e il mio pollice erano rimasti uniti e

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chiusi sopra il cuscino, formando una O, e con quella lettera iniziava il nome di un uomo che Lui odiava…

Ma il pomeriggio del giorno dopo ricominciarono le visite, e gli amici mi ripetevano:

–Congratulazioni…!

Quando quell’uomo, spinto dal danno che aveva procurato ai suoi interessi, lo aggredì in mezzo alla strada, Lui sprofondò in uno stato di disperazione cupa e silenziosa, che lo faceva assomigliare a una belva impaurita.

–È solo che sto cercando la parola– mi disse, alla fine, un pomeriggio. –Che parola?– gli chiesi.

–La parola che possa tormentarlo di più; una che gli procuri un rosichio eterno nelle viscere e un palpito incessante nel cervello che lo torturi finché vive; e so che esiste questa parola, e che ce l’ho «qui», ma non riesco a darle forma e, credimi, questa cosa mi fa diventare pazzo…

In quella circostanza lo trovavo molto male, e nonostante Lui facesse di tutto per nascondere i suoi nervi, io sapevo che, da un momento all’altro, la malattia si sarebbe rivelata con violenza. Non dormiva, e quando, finalmente, per qualche minuto, prendeva sonno, questo era popolato da incubi e fantasmi che lo facevano svegliare terrorizzato.

Prima di salpare, mi aveva detto: –Vorrei ammazzarmi.

Io, da allora, ero preoccupata da questa idea; ma quella notte, che era la terza di viaggio, mi abbandonai al sonno e, quando mi svegliai, la cabina era vuota. Uscii e percorsi i corridoi; salii in coperta e, in un’estremità della nave, lo vidi vicino al parapetto, mentre faceva strani movimenti con le braccia alzate al cielo.

Quando mi vide si aggrappò alla ringhiera per gettarsi in mare; io mi misi accanto a lui e, rapida, lo afferrai per i vestiti; Lui allora mi colpì sulla fronte procurandomi una ferita che avrei conservato per tutta la vita; si dovette divincolare per portare avanti il suo proposito di suicidarsi; ma al rumore della

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nostra lotta si avvicinarono alcuni marinai, e io, mentre un rivolo di sangue mi scendeva dalla fronte fino alle labbra, sentii dire queste parole:

–È paranoica e voleva suicidarsi…si è ferita durante lotta.

Io pensai che stesse delirando, e dovetti perdere completamente conoscenza, perché non sentii più nulla…So solo che il giorno dopo mi visitò il medico di bordo ma, dato che Lui era lì, non potei parlargli. Quando il giorno che mi sentii meglio provai a dire qualcosa al dottore, in un momento in cui Lui mi aveva lasciata sola, quel dottore, quel bravo dottore dall’aspetto rispettabile, mi disse, benevolo:

Non si agiti; queste crisi di nervi, nelle donne, sono molto spiacevoli. E quando negai di essere nervosa, mi rispose sorridendo, mentre Lui stava entrando:

Sono disturbi che hanno molte donne: docce fredde e tanto svago…È provato.

Siccome Lui, sospettoso, mi controllava incessantemente, non potei restare sola neppure per un attimo e, coltivando nell’anima il terrore di essere nelle mani di un irresponsabile, passando di fronte ad alcuni marinai, mentre stavamo lasciando la nave, sentii queste parole, dette a voce molto bassa:

Questa voleva buttarsi in mare… e, nel frattempo, con l’indice si indicò le tempie in un gesto noto.

Un altro, guardandomi, aggiunse: Povera donna!

E un terzo ribatté:

Non povera lei…Povero lui…!

Lui faceva affari azzeccatissimi. Ovunque mettesse le mani, era un successo. La sua intuizione per gli affari era evidente e pronta.

Ma il giorno in cui subiva una perdita nei suoi interessi, i suoi sospetti quotidiani aumentavano d’improvviso, e pensava di essere accerchiato e perseguitato da quelli che credeva suoi nemici. Molte volte, guardandomi cupo, mi disse:

Ci sono delle donne che portano «jella», ed è lecito allontanarsene prima che risulti fatale…

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21 E le sue mani tremavano…

Un giorno arrivò una signora nel suo ufficio, e Lui la accolse gentilmente. Era giovane, alta, un bel tipo, e mi sembrò molto simpatica.

Dopo un po’ si sentì un pianto straziante, e subito dopo vidi la signora uscire di fretta, mentre si copriva il volto con le mani.

Chiesi a Lui che cosa fosse successo, e mi rispose risentito e cercando di non dare importanza all’accaduto:

È la vedova di uno che aveva alcune delle mie cambiali… Insistetti con le domande.

Alla fine mi disse tutto.

Morto il marito, quella povera signora era venuta a chiedergli il rinnovo delle cambiali. Ma Lui non soltanto rifiutò una richiesta presentata in modo così umile, ma pretese l’immediato risarcimento di quella operazione bancaria da usurai.

Questa intransigenza avrebbe lasciato la povera vedova senza un tetto e senza un rifugio.

Nonostante lo implorassi, non riuscii a ottenere nulla. Guardandomi negli occhi, mi disse con freddezza:

Mi fanno comodo quei soldi. Lo supplicai ancora:

Rimane per strada…non ha di che mangiare…

E Lui, con l’amoralità assoluta degli ultimi stadi del suo squilibrio mentale, mi rispose sorridente:

Sì, ci rimarrà, ma lei è ancora graziosa e può guadagnarselo in un altro modo.

Quel pomeriggio il dottore, uscendo, chiuse distrattamente la porta di colpo, e quel rumore sordo rimbombò a lungo dentro la mia testa priva di idee.

Dovevo dire a Lui che avremmo avuto un figlio, e tutte le mie idee si affollavano su un solo punto: per quanto triste fosse il mio matrimonio, l’arrivo del primo figlio poteva essere un raggio di sole.

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Lui, sicuramente, si sarebbe riempito di tenerezza e, forse, sarebbe cambiato in modo considerevole.

Quando più tardi lo sentii salire le scale, ebbi un tuffo al cuore e fui pervasa da una profonda emotività. Per noi tutto sarebbe migliorato?

Alla fine riuscii a dirglielo e, quando alzai gli occhi, vidi il suo volto profondamente contrariato, mentre la sua voce vigorosa mi rispose:

È una cosa talmente inopportuna! Spese su spese dappertutto!

I preparativi per la nascita furono scarsi, silenziosi, quasi vergognosi. Tutto mediocre; avvolto in una timidezza sconsolata, con qualcosa di simile all’umiltà con cui i poveri si siedono in chiesa, senza far rumore e senza occupare tanto posto.

E quando, per acquistare un nastro o un merletto, ero costretta a rivolgermi a Lui, ricevevo sempre le stesse risposte:

È una cosa terribile! Si vede proprio che non hai denaro e che non l’hai mai avuto in vita tua, e che non sai nemmeno quello che costa guadagnarlo. Tuo padre avrebbe almeno potuto lasciarti qualcosa per soddisfare questi ridicoli sfoggi di maternità…

Appena nacque il bambino, si avvicinò a guardargli il viso con attenzione. Poi lo gettò sul letto con ripugnanza.

Ha gli occhi verdi mi disse. Che disgrazia! Perché gli domandai.

Ogni notte sogno un fantasma che mi segue e mi guarda con i suoi occhi verdi. È da quando ti conosco che lo sogno, e ho paura che una notte, per ucciderlo, faccia del male a te…Perché dovrò ucciderlo!

Ma se è solo un sogno gli risposi stravolta –non hai motivo per fare del male a me, che sono reale.

A voce bassa, continuò:

Tu sei la causa del mio sogno, e…non sai quello che mi fai patire! So che finirò per fare qualcosa di tragico per liberarmi dalla visione spaventosa dei tuoi occhi che mi inseguono di giorno, e di quelli del fantasma, spalancati sopra di me, continuamente, nell’oscurità della notte.

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E, molto pallido, si lasciò cadere su una poltrona mormorando: Adesso gli occhi verdi sono sei …Adesso sono sei…!

I nostri amici ci venivano a trovare e Lui dissimulatore senza rivali prendeva in braccio il bambino e interrompeva gli elogi assumendo un aspetto ingenuo, ed esclamava:

La cosa più bella che ha sono gli occhi, sono uguali a quelli di sua madre, vero?

Come riusciva a proteggere la sua dignità davanti alle persone! Come sapeva riunire, di fronte al pubblico, e con che maestria, i gesti della sua ragione dispersa!

Era anche molto frequente che si sentisse escluso, disprezzato o umiliato da qualcuno e, raccontandomi con grande incisività i motivi che pensava di avere, mi costringeva a essere seria o ad accogliere con freddezza i responsabili delle sue pene, chiunque essi fossero: il dottore, i suoi colleghi e, a volte, persino la mia stessa madre.

Tuttavia, quando Lui si presentava e io mi aspettavo che avrebbe assecondato di gran lunga il mio atteggiamento schivo, o meglio, quando, abituata alle violenze del suo carattere, pensavo che sarebbe giunta la frase aspra o il gesto sgarbato, accadeva tutto il contrario, e arrivava sorridente, spiritoso e gentile…

E mi lasciava sopraffatta da un doloroso sconcerto, con il ricordo pungente delle sue minacce e delle sue accuse villane di qualche ora prima. Ma quanto era lontano tutto ciò, allora, dall’essere una manifestazione di squilibrio mentale! Al contrario, io lo interpretavo come una «prova» della sua perspicacia, un chiaro sprazzo di consapevolezza psicologica che gli faceva capire che non era quello il momento giusto per mostrare il suo fastidio a quelle persone. Perché? Eh! Lui lo sapeva bene. Qualcosa che doveva chiedere loro. Qualche cosa che per ottenerla, gli era indispensabile o conveniente; momenti, insomma, in cui vedeva più chiaramente di ogni altro i vantaggi e, d’improvviso, cambiava atteggiamento, mostrandosi agli occhi degli altri come un uomo corretto, e io come una

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bambinetta dal carattere capriccioso e volubile, ma guai a me se un giorno mi fossi mostrata gentile con quelli che Lui detestava…!

Molti giorni scriveva lettere in bello stile e con una facilità sorprendente. Altre, lo vedevo quasi sul punto di piangere di fronte al foglio di un telegramma che non riusciva riempire, per scrivere un banale messaggio di condoglianze. Io gli facevo tre o quattro brutte copie che rifiutava infastidito.

–La parola, la parola! diceva tra l’irascibile e l’angosciato, e il suo orgoglio si piegava ricercando quella parola ribelle che, offuscando momentaneamente la sua immaginazione, gli faceva patire una sofferenza incomprensibile per la sua stessa futilità.

E ogni giorno diventavano più frequenti le occasioni in cui «la parola», sfuggente, lo torturava crudelmente.

Lui credeva di aver inventato un dispositivo scientifico, innovativo e sconosciuto, applicabile a un determinato settore dell’industria, e quell’idea gli costò denaro, eccitò i suoi nervi, lo condusse all’esasperazione del suo orgoglio cieco facendogli concepire le più folli speranze e quando, in seguito al suo fallimento, venne da me, smarrito e scoraggiato, io lo consolai dicendogli con impeto:

Non ti preoccupare, tu vali! Ci hai speso il tuo denaro e le tue notti, ma non devi rendere conto a nessuno, perché erano tutte cose tue!

Lui mi strinse la mano e sussurrò commosso: Sei molto buona!

Ma per tutto il pomeriggio rimuginò in silenzio sul suo fallimento e, cupo e intimorito, tacque, pieno di nera disperazione.

Io ero affettuosa e attenta a non parlare della faccenda che lo tormentava, ma ricordavo senza dubbio i miei avvertimenti precedenti e le mie obiezioni caute degli altri giorni, che Lui dissipava, presuntuoso, dicendomi:

Io trionferò, e per le persone sarò come un dio!

Di notte, il suo silenzio e la sua presunta triste docilità esplosero in un accesso d’ira per un fatto senza importanza accaduto tra la servitù di casa, e quando io gli dissi, sorpresa, «che non c’era nessun motivo per una simile arrabbiatura», mi disse, contorcendomi le mani con eccitazione selvaggia:

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È che ti sto odiando al punto che voglio trovare una ragione per dirtelo…La tua stupida compassione mi esaspera. Stamattina avrei voluto che avessi accolto il mio fallimento con una beffa sincera, e io, allora, strangolandoti, avrei trovato una tregua all’ira che ho dovuto inghiottire quando tutti hanno voluto farmi notare che la mia opera non era fattibile e la mia invenzione non serviva…Allora avrei sfogato su di te la mia rabbia, e tu, giustamente, mi avresti ripagato del male che mi ha fatto il giurato, per la tua insolenza e per la tua cattiveria nei miei confronti…Ma la tua imparzialità è in grado di esaltare una roccia; l’espressione dolce del tuo volto mi fa impazzire, e le tue parole d’incoraggiamento sono ipocrisie che mi esasperano, perché non mi lasciano spazio per dare adito alla mia disperazione. Se non vuoi che «diventi pazzo», insultami, urla, arrabbiati, e vedrai come punendoti «per una causa meritata», dopo, mi sentirò riposato e tranquillo…!

Sentendo da lontano il brusio del suo discorso, mi arrivavano all’orecchio frasi frammentate, che scoppiettavano come scintille di fuoco sopra la cenere:

Io voglio…Io ordino…Io dico…

E nella mia immaginazione, torturata da quella dittatura schiacciante, per qualche istante restava quell’«io», come pronunciato da labbra bibliche, da un dio tonante, con la tiara e lo scettro...

Quando lessi Juan Gabriel Borkman mi ammalai, e per due giorni ebbi la febbre, e mia madre raccontò che, nel mio delirio, parlavo solo di neve, di neve e di un cuore che si dissanguava sopra la neve…

Ma nel mio delirio, non era Juan Gabriel quello che moriva di freddo…Quella che moriva di freddo ero io!

Di tutti i miei momenti di tormento, nessuno lo ricordo tanto intenso quanto quello della notte in cui morì la compagna dei miei giochi di bambina, l’altro io della mia adolescenza, l’ombra del mio corpo, il bocciolo gemello del roseto materno…MIA SORELLA.

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Vidi la sua adorata testolina posarsi sul guanciale, e avanzai tremante fino al suo letto, redarguendo la vita che, vigliacca, cedeva il posto a quell’estranea scheletrica; piansi, gemetti, mi contorsi le mani supplicando e, in preda al delirio, fuori di me, la pregai che non se ne andasse, che non mi lasciasse sola di fronte al cammino arido e scosceso che avevo di fronte a me…!

Stringevo tra le mie la sua mano ancora tiepida quando la voce di Lui mi fece sobbalzare, quella voce perentoria che era il grido di guerra della mia vita. «Andiamo a casa, qui ormai non hai più niente da fare!».

Io lo seguii, come lo spirito preda di un incubo terribile e, una volta a casa, mi gettai sul letto dando sfogo al mio intenso dolore…

Mi tirò su, con violenza, per un braccio. –A tavola!

E io, sconvolta:

Non posso cenare; è terribile; come posso sedermi a tavola mentre sono tormentata? Non vedi la mia angoscia?

Ho detto a tavola, e sei già in ritardo; non sono abituato a sostenere discussioni inutili…

Mi portò quasi trascinandomi per terra, dentro la sala da pranzo. La luce elettrica, bianca e fredda, calava sulla tovaglia pulita, con il vetro che rischiarava la frutta e i fiori…E io avrei dovuto sedermi lì, «come se nulla fosse successo», mentre lo spirito di mia sorella era ancora accanto al suo adorato corpo, e i gemiti di mia madre avrebbero rimbombato cupi «là», nell’«altra» casa… Guardatemi un istante, un minuto e non di più, uomini che avete sofferto in questo mondo, e vedete se riuscite a parafrasare queste parole del Vangelo «C’è un dolore come il mio dolore!». Tutte le altre angosce della mia vita riguardavano più un conflitto ed erano più esteriori; questo dolore provocava l’intenzione feroce di innalzare la bestialità e la materia sulla sofferenza morale e sul momento tetro del mio spirito in croce…

E purtuttavia…

Fu un momento tremendo, durante il quale lottai con coraggio contro me stessa, e riflettei su questo dilemma: oppormi è facile…(lotta, frasi villane, urla, scandalo…), ma lei gira attorno a me, lei, pace assoluta, totale e dolce calma spirituale, mi ringrazierà È difficile, invece, cedere…(Sedermi a questa tavola,

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cercare di mangiare; sentire Lui strangolare la mia pena in una mezz’ora che sarà lunga come la salita che percorse il Nazareno con la sua croce…), ma in compenso ci sarà un’offerta per la sempre adorata che vedrà, dall’alto, il mio corpo, seduto di fronte alla tavola imbandita di manicaretti, e la mia anima, in ginocchio dinnanzi al suo letto di morte, mentre bevo l’ultima lacrima di cristallo dalla sua guancia…

E mi vinsi…e mi sedetti…e mentre Lui mangiava e chiacchierava, io, senza sentirlo, spezzai il pane con delicatezza e, con devozione sacra, me lo feci sciogliere in bocca pronunciando le parole: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…». E offrii per lei il mio sacrificio, e ho la certezza che mai, quando da bambina e con l’anima candida prendevo la comunione, Dio avesse elevato come quella sera il mio spirito che, separato da me, poté innalzarsi crocifisso...!

Arriverà alle anime questo mio dolore? Diverrà palpabile questo martirio come gli altri dove ci sono violenza e sangue…

A quel tempo le persone ignoravano ancora molte cose della mia vita. Lui stava attento a nascondere le apparenze e io, con grande pudore, ancora tacevo…

Mia sorella era morta, e, durante la messa che mia madre aveva organizzato per lei, vidi, con profonda commozione, quell’anziano fratello di mio padre che, a causa di discordie familiari, era stato, sin dalla mia infanzia da orfana, lontano da me. Io piangevo sconsolatamente per il mio tesoro fuggito, per la compagna della mia esistenza dolorosa, e i miei occhi andavano verso mio zio, con rispetto, con gratitudine e con il sussulto interiore al pensiero che, nonostante i diverbi coi miei parenti, la morte mi univa nuovamente a colui che rappresentava mio padre sulla terra…

Il momento, doloroso e fortemente spirituale, metteva le ali al mio «io» immateriale e, sentendomi innalzata dal vento delle mie pene come cenere, conclusa la cerimonia religiosa, attraversai la chiesa per uscire. Allora il mio anziano zio, avvicinandosi a me con gli occhi rossi dal pianto che facevano fuoriuscire tutte insieme le pene rimosse, mi disse, commosso, delle parole con un dolore molto profondo e, sopra il velo da lutto bagnato dalle lacrime, mi diede un bacio sulla fronte.

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All’uscita dalla chiesa Lui, con un gesto brutale e con voce ferma e sibilante, mi apostrofò con un epiteto ignobile, e aggiunse con violenza:

A casa vedrai se le donne possono lasciarsi baciare impunemente!

Dopo un giorno di sospetti, di rabbia e di scandalo, che trasformavano le ore in una catena dolorosa, quando idee di pace raggiungevano il suo spirito tormentato, lasciava cadere sulle sue vittime un perdono altezzoso, come un condono immeritato.

–Vieni mi diceva, smetti di piangere. Anche se questo ti farà capire la direzione sbagliata che conduci nella vita. Tu non ti fai carico delle cose…Non comprendi dove sta la verità, e per questo ti succede tutto ciò, inevitabilmente, perché essendo come sei, ti deve succedere. Beh, impara, e non ricascarci…

E quando io me ne andavo, voltandosi con enfasi verso i domestici, davanti ai quali si divertiva a fare queste scenate che, secondo Lui, mettevano in chiaro il suo principio di autorità, diceva:

Bisogna perdonare la signorina perché è nevrotica…Bisogna perdonarla…E assisterla…

E io, confusa, ignorante o innocente, ancora all’inizio di questa vita da incubo, passavo in rassegna tutte le mie azioni, e cercavo, con ostinazione, di indagare il significato di quelle frasi oscure, «direzione sbagliata…», «ti deve succedere…», «farmi carico delle cose…», e mi perdevo in quel mare di parole confuse. Avrei desiderato fare qualcosa che mi facesse meritare un rimprovero, e che mi si dicesse chiaramente: «Questa cosa non la fare più».

Ma provavo un’inquietudine incoerente non sapendo se il giorno seguente, a mia insaputa, avrei continuato su quella «direzione sbagliata», il cui inizio e la cui fine mi erano sconosciuti, e non riuscivo a capire quando né in che modo vi mettessi piede…

E vissi così per molto tempo, soppesando le mie azioni, le mie parole, i miei gesti per migliorarmi, per mostrarmi grata, per non costringere i miei poveri piedi stanchi di fare equilibrismi nella «direzione sbagliata» che, secondo Lui, io percorrevo inevitabilmente e tristemente.

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E, un giorno, raccontai tutte queste cose strane a un dottore, a uno di quei santoni di Dio che usano ancora le sanguisughe per curare la polmonite e, guardandomi assorto e con le sopracciglia inarcate al di sopra degli occhiali azzurri, mi disse, convinto:

Io credo, signora, che quest’uomo finirà per diventare pazzo…

E tutte queste opinioni (le uniche di cui disponevo per poter parlare di un caso) mi sottoposero a una lenta tortura, giorno dopo giorno…

Senza dubbio, mi dovevo aspettare che uscisse per le strade dicendo che era Dio…!!

Quando mia madre veniva avvisata che a casa mia c’era stato «un alterco», la poverella accorreva subito. Arrivava piangendo, e afflitta come l’Addolorata. «Che succede?», mi domandava, senza fiato.

E quante volte i suoi occhi esprimevano il più grande sconcerto vedendomi seduta a leggere un libro con il volto tranquillo! La facevo sedere e «niente», le dicevo, «le cose» di Lui…«Ma guarda, mamma, ti leggo questa pagina di un uomo di grande talento! Vedrai che calmante per lo spirito…»

–Smettila, smettila! mi diceva, incredula. –Come puoi leggere dopo il dispiacere che ti ha provocato?

Differenza di opinioni le rispondevo io; voi siete convinti che Lui sia un malvagio le cui cattiverie riempiono la mia anima di delusione, ma io so che è un «anormale», i cui gesti possono procurarmi solo il dolore materiale del momento. Un essere normale e amato ci fa sanguinare l’anima con un’occhiata dispregiativa, una semplice alzata di spalle, una dimenticanza o un’assenza…

Ma un individuo che reputiamo irresponsabile ci dà una coltellata, e sentiamo solo il dolore fisico della carne strappata. Senza poter esclamare il doloroso «Che ingrato!». Così io, quando passa il «momento», prendo qualcosa che cancelli da me la scena dello spavento, e un libro, dei fiori, un raggio di sole che trema sui vetri conduce il mio spirito intatto verso il calmante insperato. Questo livido rossiccio, che vedi di nuovo sul mio braccio, sarebbe lo stesso, se lo consideriamo da un punto di vista morale, se me lo fossi procurato contro il batacchio di una porta; lo vedi Me lo bendo…e mi metto a leggere; ma se tu,

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invece, mi dicessi che non mi ami, il livido che procureresti alla mia anima non si potrebbe bendare né dimenticare…

Erano raffiche di ottimismo quelle che mi sferzavano facendomi perdonare, perdonare indubbiamente! E, a volte, dimenticare e…sperare!

E speravo perché ero giovane, perché ero in salute, perché la mia anima era forte ed energica, perché sulla terra c’erano luce e calore e vita…e perché ci doveva essere una Provvidenza che un giorno mi avrebbe teso la sua ancora di salvezza…

Conobbi altri martiri come me che si perdevano d’animo, inariditi da un uragano di avversità, e li paragonavo a quelle delicate piante da serra che, esposte alla pioggia e al freddo, muoiono. Io, invece, mi paragonavo a quelle piante da montagna, molto forti e molto rozze, che la mattina vengono divorate dal gregge e, dopo due giorni, hanno, sul tronco logorato, un germoglio nuovo e vigoroso, che spunta con una vitalità sempre rinnovata…

Fino a quando avrei resistito con questo vigore?

Dopo queste ore di calma, tornava ad avvolgermi il cappuccio nero della mia vita quotidiana, con la sua corte d’ingiustizie, di sadismi e di orrori. Le mie membra tornavano a sentirsi sottomesse a un solo ordine di Lui: la mia lingua paralizzata di fronte alla sua voce; i miei occhi velati dai suoi sguardi sospettosi; e la mia gioventù e la mia salute e la mia intelligenza assomigliavano a una pianta rigogliosa, legata e intrappolata nella fitta trama della tela di un ragno…

Era necessario andare avanti, perché la mia strada era segnata in quel modo, e io andai avanti. E un giorno…Un giorno capii che il sentiero era troppo ripido, e che, inoltre, percorso in compagnia di chi cadeva e camminava a zigzag, era possibile che finissimo nell’abisso. Questa idea s’impossessò di me quando vidi che dubitava di tutto e seguiva tutti i miei passi, perseguitando, nell’ombra, i miei pensieri; arrivai ad avere molta paura che per strada un uomo mi salutasse, anche se fosse stato vecchio e cadente, e non mi affacciavo mai alle finestre né uscivo in giardino, se non con grandi precauzioni.

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Mi avevano regalato un gattino al quale, nella mia solitudine spirituale, mi affezionai molto, finendo spesso per tenerlo nel mio grembo; Lui stesso gli comprò un collarino, e sembrava un cagnolino che mi seguiva da tutte le parti; ma arrivò il momento in cui il suo cervello bacato provò avversione per il gatto, arrivando a dire che io avrei finito per amarlo più di lui. Quel giorno, temetti per la vita del povero animale, dato che, senza intendermi di medicina, le sue manie mi facevano pensare a foruncoli o a tumori nel suo cervello, che nascevano piccoli, e che poi sarebbero cresciuti, cresciuti, fino al punto di otturare tutto il cervello.

Il suo odio verso il gattino arrivò a tanto che, una sera, lo mise in un sacco e, dalla terrazza alta, lo lanciò di sotto…

Poi mentì ai domestici, dicendo loro che il gatto «aveva una malattia contagiosa».

Nelle mie viscere sentii lo schianto del cervello del gatto che si spaccava sulle lastre di pietra e, per molto tempo, mi ha ronzato in testa il timore cieco di finire così la mia vita, in un modo oscuro e miserabile, intrappolata in un legame di calunnie, tra le mani soffocanti di un pazzo che, dopo, avrebbe spiegato tutto in «modo logico»…

Sospetti, diffidenze, assurdità, malignità, cattiverie, sadismi, orrori mi circondavano, mi stringevano, mi opprimevano come catene di spiriti malvagi e io, sola di fronte alla vita, senza chiarezza per la difesa, senza prove per l’accusa, che cosa avrei fatto?

E notavo con orrore che sarei stata io quella che avrebbe finito per sprofondare in quella massa di cose appiccicose e sconosciute che mi circondavano i piedi, e che avrebbe finito per screditarmi per sempre senza che si conoscesse la verità…Ma io sapevo che la scienza mi avrebbe difeso; che c’era qualcuno che, con voce di un’autorità irrefutabile, avrebbe fatto una chiara diagnosi; che esistono uomini votati alla Psichiatria che mi avrebbero tirato fuori con le mani da quel pozzo di tenebre, in cui l’ignoranza e la routine mi rinchiudevano…

Ma dov’era la scienza, madre della luce… Dove trovare gli uomini salvatori che, con voce stentorea, avrebbero gridato ai medici delle boccette di

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sanguisughe: «Qui ci sono un malato e una vittima…!» Quando, quegli uomini, avrebbero potuto dire, davanti alla mia porta: «Via libera!»?

Quella notte…

Il mare, ruggendo, turbinava, là sotto. Seduti sulle rocce, io guardavo il pendio di quel precipizio che finiva nelle onde inquiete, che lasciavano le loro schiume bianchissime sulle rocce nere, come fossero strappi.

La sua voce era cupa, e sembrava pervaso da una lieve emozione. Io proposi di andarcene da lì. Si alzava vento.

Non m’importa mi disse, è una notte splendida e, facendo attenzione, se si ascoltano i rumori del mare, si sentono cose molto belle.

E si mise a pancia in giù sulla roccia piatta dove ci eravamo seduti. Il suo sguardo sembrò dirigersi verso un punto fisso nel mare, e rimase così per un momento. Io mi alzai, inquieta.

Ho freddo dissi.

Sentii immediatamente le sue braccia forti che mi sollevavano da terra. Mi dibattei, disperata, e, nella lotta, riuscii a liberarmi, battendo la bocca su uno scoglio; un rivolo di sangue mi macchiò le labbra, che dovevano essere bianche.

Scusa mi disse, pensavo di scivolare e mi sono aggrappato a te, ma tu non hai nessuna resistenza…

Si udivano voci vicine.

Buona sera rispose Lui ad alcuni pescatori che passavano. E, senza dire altro, iniziammo a rientrare.

Per altre due volte guardò indietro, verso il mare che si allontanava e, incrociando il suo sguardo con il mio, ferì le mie pupille con una luce sinistra.

Alla fine, e su richiesta di mia madre, mi permise di eseguire alcune pratiche religiose, ma a condizione che, quando mi fossi confessata, lo avessi fatto con un vecchio missionario che era stato a Fernando Po, dove, un giorno, quando si addentrò nell’entroterra, i selvaggi gli procurarono un lungo taglio sul volto, cosicché il povero signore, che era molto brutto, rimase del tutto sfigurato.

Ma una domenica, tornando dalla messa di comunione, dopo averla appena ricevuta, attraversavo la chiesa con le mani giunte e gli occhi bassi; il mio spirito

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era lontano da tutto, e chiedevo a Dio solo la misericordia…quando sentii che mi tiravano per il vestito, ed era Lui che, seduto su una panca, mi ostacolava il passaggio con un gesto da belva, per dirmi:

Infame, quando tornerai a casa me la pagherai…Credi che non abbia visto che ti confessavi dal lato dove non ha il taglio…

…E dopo, per strada, le persone rispettabili del paese lo salutavano affettuose…e io zitta…

Oggi mi sono convinto che Tizio e Lui mi nominò un amico , non deve star bene di testa. Mi stavo lamentando delle mie notti insonni, raccontandogli i pensieri che mi tormentavano in quei momenti, e mi capitò di dire: «Questa cosa mi farà diventare pazza!». Ma volli subito rettificare, fosse mai che ci credesse e, quando gli dissi due o tre volte «Ma non la sono, non ti credere, ti assicuro che non la sono!», fu allora che divenne pallido e, con un pretesto, si allontanò precipitosamente…

A quel tempo, in momenti d’intimità, mi diceva:

Io so che mi sono indurito nei confronti di tutti i miei cari, e di non amare come dovrei nemmeno te, né i miei figli, né mia madre…Ma il fatto è che io sono consapevole del mio valore morale, e, così come Dio ama se stesso più dell’umanità, io, che riconosco e so che valgo più di tutti voi, mi amo e mi ammiro, e sento, a volte, verso gli altri, degli istinti di disprezzo…!

La musica di un organetto da strada mi risveglia dalle mie tristi idee.

Mi affaccio alla finestra del balcone, e guardo verso la strada. Un vecchio ungherese con la barba bianca fa suonare l’organetto, mentre solleva, di tanto in tanto, un piattino dorato chiedendo le elemosina…Suona una musica vecchia come lui stesso e come l’organetto, e, ciononostante, i miei occhi si riempiono di lacrime, e invidio il vecchio ungherese che, forse, attraverso pene e dolori molto intensi, fa ondeggiare al vento la sua barba bianca come una bandiera di indipendenza, e va per il mondo povero ed errante, ma libero…

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Vengo subito! a una voce che, dal fondo della casa, mi chiama, impetuosa…

Mi ricorderò per sempre di quel pomeriggio.

Lui era taciturno, infastidito da qualcosa che io ignoravo, quando mi disse: Ho la prova che uno dei miei peggiori nemici e mi nominò uno dei suoi migliori amici, si è travestito per seguirmi…Verifica tu stessa quello che dico, osserva bene quel tipo con la barba che si nasconde vicino a noi.

Io guardai, e vidi un uomo che passeggiava tranquillamente.

Non noto niente di strano gli risposi, credo che stia passeggiando senza far caso a noi.

Perché non guardi bene mi disse, furioso–, perché non ti interessa niente di quello che dico!

Tornai a guardare e, questa volta, il viandante mi notò, e quando stava per girare l’angolo, il maniaco tornò a dirmi:

Osserva bene! stringendomi il braccio. Gli obbedii, timorosa, e lo sconosciuto, vedendo che lo guardavo di nuovo, cambiò direzione, tornò sui suoi passi, e venne a mettersi dietro di noi.

Io, rossa per la vergogna, lo sentivo «vicino a noi» nello spirito, mentre Lui, sentendosi sempre perseguitato, percorreva viuzze nascoste facendomi guardare…

Il giorno seguente, quello sconosciuto mi inviò, in modo anonimo, dei fiori, e, dopo, seppi che parlò di me vantandosi…E, malgrado ciò, rifiutandomi di guardare indietro nei pomeriggi successivi, quando ormai, «veramente», ci seguiva, Lui mi diceva:

Tu non vuoi guardare perché sei cattiva, perché non t’importa che quel mio nemico mi spari un colpo alla schiena…Ormai ti sei convinta che ci segue dappertutto come un incubo…

…Mentre il «persecutore», al nostro fianco, mi guardava con arie da vanesio…!

Una delle mattine più tristi della mia vita, il corpo e l’anima macerati da una notte di sadismo e di orrore, andai a casa di un avvocato, nella cui saggezza,

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le persone riponevano molta fiducia. Era don Agustín, un anziano gentiluomo di straordinario talento, che, per la sua età, poteva essere mio padre. Arrivai tremante, e gli raccontai di infinite pene e umiliazioni.

Mi ascoltò tristemente, e mi chiese: Hai dei testimoni?

I domestici risposi.

Non possono testimoniare; così dice la legge. Non ricordi nessuno, estraneo alla casa, che abbia visto o sentito?

Oh, signore! gli risposi, angosciata. Non è consuetudine che gli amici stiano nascosti nelle camere da letto!

Sorrise, dispiaciuto, dicendomi: È vero…

E allora insistetti.

Allora è molto difficile provare qualcosa. Le tue ferite non sono mortali…I tuoi figli maggiori di tre anni, per il momento, dovranno restare con Lui…

No! gridai, alzandomi . Soli con Lui non devono restarci nemmeno per un’ora! E, all’orecchio, gli riferii di esperienze orrende.

L’avvocato affondò la testa tra le mani, e rimase immobile.

Io mi alzai subito, e uscii lentamente, come chi si lascia indietro, sepolto in profondità, il sedimento dell’ultima speranza…

E decisi di sopportare per sempre il mio martirio, soltanto per i figli…

Era da qualche giorno che io e Lui non ci parlavamo. Un contrattempo senza importanza causò una delle sue esplosioni di rabbia, e, in seguito, il suo rancore e i miei timori sigillarono le nostre labbra.

Era la situazione in cui stavamo meglio, chiusi e taciturni, il silenzio tesseva, intorno a noi, delle ombre allucinanti, ma non c’erano strepiti nella casa consumata da quella parentesi d’inquietudine.

Una mattina, entrando in una stanza, mi disse: Oggi ti desidero molto, sai?

E tremai di terrore, udendo già il rumore che faceva il silenzio quando si spezzava, e sentendo sulla mia carne, ancora livida, il rinnovato dolore delle sue nuove, feroci, carezze…

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