Università di Pisa
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
TESI DI LAUREA
CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO E RIGENERAZIONE URBANA
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’ESPERIENZA TOSCANA
Il candidato Il relatore
Marco Vitrani Chiar.mo Professor
Salvatore Vuoto
Indice sommario
PREMESSA……… 5
Capitolo I
Il consumo di suolo: competenze legislative, origini e prospettive giuridiche per un suo contenimento
1.Nozione di suolo……… 10 2. La tutela dell’ambiente ex art. 117 Cost. e la legislazione regionale sul consumo di suolo……. 14 3. Il suolo come “bene comune”: dove affonda le radici il problema del consumo di suolo?...….. 21 4. Assenza di una legge nazionale sul consumo di suolo. Prospettive de jure condendo e analisi comparata di alcuni disegni di legge……… 32 4.1. Previsioni normative statali concernenti contenimento e riduzione del consumo di suolo: una prospettiva de jure condito………...……….. 46
Capitolo II
La rigenerazione urbana
1. Introduzione………...……….. 49 2. La rigenerazione urbana alla luce delle precedenti esperienze di recupero e riqualificazione.. 51 3. Rigenerazione urbana e legislazione regionale con particolare riferimento alla dimensione partecipativa………. 62 4. Rigenerazione urbana e regolamenti comunali………...………. 70
Capitolo III
2. I principi generali della legge n. 65: in particolare, l’articolo 4 e le disposizioni ad esso
collegate……… 86
3. La rigenerazione urbana nella legge n. 65……… 99
CONCLUSIONI………. 112
Premessa
Doverosa premessa al presente elaborato e, più in generale, a qualsiasi discorso sul problema del consumo di suolo, è un assunto che, a fronte della grande attualità del tema nel dibattito sia politico che giuridico, è in realtà contenuto in un documento del 1972, la Carta Europea del Suolo, all’interno della quale si legge che “(1) il suolo è uno dei beni più preziosi dell’umanità. Consente la vita dei vegetali, degli animali e dell’uomo sulla superficie della Terra. (2) Il suolo è una risorsa limitata che si distrugge facilmente (…). Il suolo si forma lentamente attraverso processi fisici, fisico-chimici e biologici, ma può essere distrutto rapidamente a seguito di azioni sconsiderate. La sua fertilità può essere aumentata con un trattamento appropriato che può durare anni e decenni ma, una volta distrutto, il suolo può impiegare secoli per ricostituirsi. (3) Il suolo può essere destinato a molteplici usi, le scelte relative sono generalmente dettate da necessità economiche e sociali. Tali scelte, tuttavia, devono tener conto delle caratteristiche dei suoli, della loro fertilità e dei servizi socioeconomici che i suoli possono rendere alla società di oggi e di domani”. Tali affermazioni sono di grande rilievo perché pongono le basi per il riconoscimento del suolo quale risorsa limitata e non rinnovabile, la cui protezione costituisce quindi interesse pubblico; una risorsa, il suolo, che deve essere preservata e garantita anche a tutela della qualità della vita delle generazioni future, in base al principio di sviluppo sostenibile1.
1 La definizione più famosa del principio di sviluppo sostenibile si deve alla c.d. Commissione Brundtland, istituita nel 1983 dalle Nazioni Unite; esso venne definito come “sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la
Che il consumo di suolo rappresenti un problema, causato dal fatto che delle suddette caratteristiche, limitatezza e non rinnovabilità, non si è tenuto conto, emerge chiaramente dal Rapporto 2018 dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), il quale peraltro, in apertura, fornisce una definizione di suolo ripresa dalla comunicazione della Commissione Europea del 2006 sulla “Strategia tematica per la protezione del suolo”2; esso
viene definito come “strato superiore della crosta terrestre costituito da componenti minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi. Rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran parte della biosfera. Visti i tempi estremamente lunghi di formazione del suolo, si può ritenere che esso sia una risorsa sostanzialmente non rinnovabile”. I dati del rapporto ISPRA riportati nella Tabella I ci mostrano come a livello nazionale la copertura artificiale del suolo sia stimata, in percentuale sulla superficie territoriale e in chilometri quadrati, al 7,65 % (7,75 % al netto della superficie dei corpi idrici permanenti); il dato, a mio avviso, acquisisce rilevanza non tanto di per sé, ma se lo si compara con la percentuale di copertura stimata per gli anni ‘50 (2,7 %) e con la media stimata in Europa (4,2 %), dove l’Italia si colloca al sesto posto dopo la Germania (7,4 %) e altri paesi che però hanno una limitata estensione territoriale (Lussemburgo, 9,8 %; Malta 23, 7 %; Belgio, 11,4 %; Paesi Bassi, 12,1 %).
Occorre peraltro precisare, sempre in via preliminare, che l’espressione “consumo di suolo” ricomprende al suo interno fenomeni anche molto diversi tra loro, purché in qualche modo
connessi, quali ad esempio la perdita di suolo fertile, l’occupazione di spazio agricolo per usi extra agricoli e lo sviluppo urbano incontrollato in aree suburbane e rurali fuori dai rispettivi centri abitati (c.d. sprawl urbano). Indubbiamente, una delle espressioni più utilizzate in ambito comunitario è quella di “impermeabilizzazione del suolo”, fenomeno che ha suscitato l’approvazione di un apposito atto da parte della Commissione Europea denominato “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo”, nel quale esso viene descritto nell’allegato 1 come “la copertura permanente di parte del terreno e del relativo suolo in materiale artificiale (asfalto o calcestruzzo), ad esempio con edifici e strade”; impermeabilizzazione che “influisce fortemente sul suolo, diminuendo molti dei suoi effetti benefici. Ciò è causa di gravi preoccupazioni, dato che il suolo impiega molto tempo per formarsi e ci vogliono secoli per costruirne anche solo un centimetro”. In proposito sono state avanzate una serie di definizioni contenute nel Multilingual Environmental Glossary dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, tra cui quella di uso del suolo (Land Use)3, copertura
del suolo (Land Cover)4, consumo del suolo (Land Take)5, dispersione
3 “Corresponds to the socio-economic description (functional dimension) of areas:
areas used for residential, industrial or commercial purposes, for farming or forestry, for recreational or conservation purposes, etc.”, ossia “corrisponde alla descrizione socio-economica (dimensione funzionale) delle aree: aree utilizzate per fini residenziali, industriali o commerciali, per fini agricoli o forestali, ricreativi o di conservazione, etc.”
4 “Corresponds to a (bio)physical description of the earth’s surface. It is that
which overlays or currently covers the ground”, ossia “corrisponde a una descrizione biofisica della superficie terrestre. E’ quello che è sovrapposto o che attualmente ricopre il terreno”.
5 “The area of land that is “taken” by infrastructure itself and other facilities that
necessarily go along with the infrastructure, such as filling stations on roads and raylway stations”, ossia “l’area di suolo che è “presa” dall’infrastruttura stessa e
dell’urbanizzato (Urban Sprawl)6 ed impermeabilizzazione del suolo
(Soil Sealing)7.
Dove affonda dunque le radici il problema del consumo di suolo? Perchè il suolo è stato sfruttato eccessivamente non tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche? Qual è l’attuale quadro normativo in materia? E quali risposte possono essere date al problema? Sono queste le domande che si intendono prendere in considerazione nel presente scritto.
L’elaborato tuttavia si concentra su due principali pilastri; se il consumo di suolo è indubbiamente il protagonista del primo capitolo, il secondo è invece dedicato ad un tema attualmente di grande attenzione da parte della dottrina giuridica: quello della rigenerazione urbana, termine incerto, polivalente, generico, di difficile ricostruzione, che non esprime un significato preciso e all’interno del quale si ricomprendono le politiche e gli strumenti volti anche, ma non solo, a ridurre il nuovo consumo di suolo attraverso una previa riqualificazione, recupero, riorganizzazione del patrimonio già esistente, interventi che si pongono “quale
altre strutture che necessariamente accompagnano l’infrastruttura, come stazioni di rifornimento su strade e stazioni ferroviarie”.
6 “The physical pattern of low-density expansion of large urban areas under
market conditions into the surrounding agricultural areas”, ossia “il modello fisico di espansione a bassa densità delle grandi aree urbane in condizioni di mercato nelle aree agricole circostanti”.
7 “Soil Sealing refers to changing the nature of the soil such that it behaves as an
impermeable medium (for example, compaction by agricultural machinery). Soil Sealing is also used to describe the covering or sealing of the soil surface by impervious materials by, for example, concrete, metal, glass, tarmac and plastic”,
ossia “impermeabilizzazione del suolo si riferisce al cambiare la natura del suolo
così che esso si comporti come un mezzo impermeabile (per esempio, compattazione da macchine agricole). Impermeabilizzazione del suolo è anche usata per descrivere la copertura o compattamento della superficie del terreno con materiali impermeabili come, per esempio, calcestruzzo, metallo, vetro, asfalto e plastica”.
alternativa strategica al nuovo consumo di suolo”8. Più
specificamente, in tema di rigenerazione l’intento è quello di fornire una ricostruzione delle esperienze che l’hanno preceduta al fine di poter poi cogliere, in una prospettiva evolutiva, il tratto caratterizzante delle attuali discipline sulla rigenerazione urbana contenute nelle varie normative regionali e all’interno dei regolamenti comunali sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani. Particolare attenzione, infine, verrà dedicata alla disciplina dei due pilastri dello scritto contenuta nella normativa toscana, costituita dalla legge regionale n. 65/2014, che ha come chiave di lettura delle proprie disposizioni il principio di sviluppo sostenibile e in cui la sostenibilità delle scelte di gestione e trasformazione del territorio viene perseguita tramite il principio di contenimento del consumo di suolo ed il principio di prioritario riutilizzo dell’esistente.
8 L’espressione è contenuta nell’articolo 125, comma 1, della legge reg. Toscana n. 65/2014.
Capitolo I
Il consumo di suolo: competenze legislative, origini
e prospettive giuridiche per un suo contenimento
1. Nozione di suolo.
A livello giuridico, è possibile rintracciare una nozione di suolo sia all’interno di atti dell’Unione Europea sia a livello di ordinamento interno. Come anticipato in premessa, una definizione di suolo ci è fornita dalla comunicazione della Commissione Europea del 2006, “Strategia tematica per la protezione del suolo”, dove quest’ultimo è definito come “strato superiore della crosta terrestre costituito da componenti minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi. Rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran parte della biosfera”; costituisce un “mezzo estremamente complesso e variabile” e fornisce una serie di servizi ambientali ed eco-sistemici di fondamentale importanza, e questo perché “nel suolo vengono stoccate, filtrate e trasformate molte sostanze, tra le quali l’acqua, i nutrienti e il carbonio: con le 1500 gigatonnellate di carbonio che immagazzina, è il principale deposito del pianeta. Per l’importanza che rivestono sotto il profilo socioeconomico e ambientale, tutte queste funzioni devono pertanto essere tutelate”. In una precedente comunicazione altrettanto importante9 si precisa 9 COMMISSIONE EUROPEA, Verso una strategia tematica per la protezione del
suolo, COM(2002)179 def., del 16 aprile 2002. Tale comunicazione ha costituito la
inoltre che il suolo “è lo strato superiore fisico di quello che normalmente è indicato con il termine terreno”, e che quest’ultimo è un concetto più ampio che “comprende dimensioni territoriali e spaziali”.
In virtù di tali caratteristiche, al suolo sono riconducibili una pluralità di funzioni e, conseguentemente, è oggetto di molteplici interessi ambientali, economici e culturali; in particolare, la comunicazione da ultimo richiamata, dopo aver precisato che “il suolo assicura una serie di funzioni chiave dal punto di vista ambientale, economico, sociale e culturale che sono indispensabili per la vita”, ci offre un’elencazione in 5 punti, da cui emerge che il suolo è fondamentale sia a livello di produzione alimentare, agricola e di silvicoltura10,
poiché la vegetazione trae dal suolo acqua e sostanze nutritive, sia a livello di “magazzinaggio, filtraggio e trasformazione”. Il suolo, inoltre, è essenziale in quanto habitat di milioni di essere viventi “che vivono sotto e sopra la sua superficie”, fornisce materie prime essenziali ed è “elemento del paesaggio e del patrimonio culturale”, dovendo quindi essere salvaguardato “in funzione della tutela di quei valori estetico-culturali di cui è espressione il paesaggio nel suo insieme”11.
A livello di ordinamento interno, viene in rilievo l’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’ambiente), rubricato “Definizioni”, il quale alla lettera v-quater definisce il suolo come “lo strato più superficiale della crosta
10 Silvicoltura ovvero, secondo l’Enciclopedia Treccani, quel “ramo delle scienze
forestali che riguarda l’impianto e la conservazione dei terreni boschivi”.
11 W. GASPARRI, Suolo, bene comune? Contenimento del consumo di suolo e
funzione sociale della proprietà privata, in DIRITTO PUBBLICO, n. 1/2016, cit.,
terrestre situato tra il substrato roccioso e la superficie. Il suolo è costituito da componenti minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi. Ai soli fini dell’applicazione della parte Terza, l’accezione del termine comprende, oltre al suolo come precedentemente definito, anche il territorio, il sottosuolo, gli abitati e le opere infrastrutturali”. La definizione fornita dal Codice dell’ambiente non convince per più motivi, i quali si rendono particolarmente evidenti se la si confronta con quanto disposto dalle comunicazioni della Commissione Europea: innanzitutto non v’è alcun cenno alle caratteristiche della limitatezza e non rinnovabilità, la cui considerazione è fondamentale poiché costituiscono la base da cui partire per affrontare il tema del consumo di suolo; in secondo luogo, non vi è nemmeno menzione dei molteplici servizi eco-sistemici ed ambientali resi dal suolo e della pluralità delle funzioni ad esso riconducibili, la cui comprensione è altrettanto importante al fine di evidenziare la necessità di considerarlo non come mero terminale di azioni umane, non come mero oggetto di diritti altrui, ma come bene da preservare e salvaguardare a tutela della qualità della vita delle generazioni presenti e future. Si tratta, in altri termini, di una descrizione meramente materiale del suolo, buona se inserita in un manuale di pedologia, ma che non soddisfa proprio perché non contribuisce a farne emergere le caratteristiche fondamentali che ne giustificano una (necessaria) tutela rispetto al problema del suo eccessivo sfruttamento; una definizione, quella del legislatore statale, che descrive il suolo per come esso è, non per
l’importanza che riveste.
preservare, e quindi più vicina alle definizioni di derivazione europea, è quella del legislatore regionale, il quale, nelle leggi regionali di più recente emanazione, si è mostrato particolarmente sensibile al tema del consumo di suolo, sicuramente in misura maggiore rispetto al legislatore statale. Senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo a riguardo, merita menzionare alcune delle disposizioni più significative contenute nelle varie leggi regionali. In proposito, si prenda la legge reg. Lombardia n. 31/2014, secondo cui “il suolo, risorsa non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per l’equilibrio ambientale, la salvaguardia della salute, la produzione agricola finalizzata alla alimentazione umana e/o animale, la tutela degli ecosistemi naturali e la difesa dal dissesto idrogeologico”12; ancora, la legge reg. Veneto n. 14/2017 parla del
suolo come “risorsa limitata e non rinnovabile”, che “è bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni attuali e future, per la salvaguardia della salute, per l’equilibrio ambientale e per la tutela degli ecosistemi naturali (...)”13.
Merita menzione anche un’altra legge regionale di recente emanazione, ovvero la legge emiliana n. 24/2017, la quale prevede che il governo del territorio debba essere esercitato nel rispetto di una serie di obiettivi, tra cui quello di “contenere il consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi ecosistemici (...)”14. L’elencazione potrebbe
continuare, ma quanto esposto è sufficiente a far percepire la maggior rispondenza delle disposizioni regionali alle previsioni
12 Art. 1, comma 2, legge reg. Lombardia n. 31/2014.
13 Art. 1, comma 1, legge reg. Veneto n. 14/2017.
europee; a conferma, talune leggi regionali prevedono espressamente quale proprio scopo il raggiungimento entro il 2050 di una occupazione netta di terreno pari a zero, obiettivo fissato dalla stessa Commissione Europea15.
2. La tutela dell’ambiente ex art. 117 Cost. e la legislazione regionale sul consumo di suolo.
Quali rapporti intercorrono tra competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente” e legislazione regionale sul consumo di suolo? Dobbiamo ritenere legittima la legislazione regionale finora intervenuta? Per rispondere a queste domande, occorre interrogarci sul contenuto dell’articolo 117 Cost. e sulla relativa giurisprudenza della Corte costituzionale; in particolar modo, serve approfondire la nozione di “tutela dell’ambiente” ex art. 117, comma 2, lettera s, Cost.
Com’è noto, l’articolo 117 divide la potestà legislativa in esclusiva, concorrente e residuale, prevedendo una potestà legislativa esclusiva statale nelle materie elencate all’articolo 117, comma 2, una potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni relativamente alle materie elencate al comma 3 dello stesso articolo, e prevede infine una potestà legislativa residuale delle Regioni al comma 4, in base al quale “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Nelle materie di legislazione concorrente, la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, in base alla distinzione tra legislazione di principio, spettante allo Stato, e legislazione di dettaglio, spettante alle Regioni. L’articolo 117 prevede poi il riparto della potestà regolamentare, la quale “spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salvo delega alle Regioni”, mentre “spetta alle Regioni in ogni altra materia”; infine, “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”16.
L’attuale formulazione dell’articolo 117 Cost. risulta dalla riforma della Parte II della Costituzione operata con legge di revisione costituzionale n. 3/2001; come evidenziato in dottrina, “la prima fase di attuazione della riforma ha comportato un notevole intervento interpretativo della Corte costituzionale che ha contribuito a chiarire la portata di numerose norme e, più di ogni altra, quella di cui all’articolo 117, relativamente al contenuto delle singole materie e alle inevitabili zone grigie di sovrapposizione”17.
Relativamente alla materia “tutela dell’ambiente”, la Consulta ha dapprima affermato che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’articolo 117 possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una “materia” in senso tecnico, qualificabile
16 Articolo 117, commi 6, 7, 8, Cost.
17 A. FIORITTO, Introduzione al diritto delle costruzioni, Giappichelli, 2013, cit., pag. 10.
come “tutela dell’ambiente” (…). In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell’ambiente come “valore” costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”18. La
sentenza in esame qualifica quindi l’ambiente come valore, non “materia” in senso tecnico quanto piuttosto “compito trasversale”, “senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli ambientali”. A conferma, nella successiva sentenza n. 246 del 2006 la Corte afferma che “la giurisprudenza costituzionale è costante nel senso di ritenere che la circostanza che una determinata disciplina sia ascrivibile alla materia “tutela dell’ambiente” di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione, se certamente comporta il potere dello Stato di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni, non esclude affatto che le leggi regionali emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella “residuale” di cui all’art. 117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale” e, inoltre, precisa che “la disposizione impugnata (…) non viola alcun principio fondamentale, dal momento che non determina l’effetto di derogare
18 Corte cost. n. 407/2002, conformemente alle precedenti sentenze n. 282/2002, n. 507 e 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 237 del 1998.
agli standard di protezione minima degli equilibri ambientali stabiliti dallo Stato”. Dunque, secondo la Corte, le Regioni possono perseguire finalità di tutela ambientale, non in via esclusiva ma nell’esercizio della potestà concorrente o residuale, e non possono introdurre in ogni caso una disciplina che deroghi in senso peggiorativo rispetto agli standard fissati dal legislatore statale, ma soltanto una disciplina maggiormente rigorosa in termini di garanzie. La Corte Costituzionale è poi intervenuta sul tema con alcune importanti sentenze, le quali segnano un ulteriore passo in avanti nella qualificazione dell’ambiente, definito non come valore ma come “bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”19, nei cui confronti occorre
guardare “come sistema, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto”. Ne consegue che “la potestà di disciplinare l’ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, in via esclusiva allo Stato, dall’art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione”, ma accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario possono coesistere altri beni giuridici “aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati”, e “in questi casi, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi”. Dunque, la
disciplina ambientale posta dallo Stato funge da limite rispetto ad un eventuale intervento normativo di Regioni e Province autonome in materie di loro competenza, non potendo queste ultime “derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato”.
Schematizzando, la legislazione regionale può curare interessi funzionalmente collegati con quelli ambientali e assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, non può derogare in senso peggiorativo a quanto disposto dal legislatore statale mentre può stabilire livelli di tutela più elevati, in virtù però di una propria competenza legislativa concorrente o residuale attribuitagli dall’articolo 117 Cost. Per quanto riguarda la possibilità per le Regioni di stabilire livelli maggiori di tutela dell’ambiente (c.d. deroghe accrescitive), tuttavia, si rendono necessarie ulteriori precisazioni. La dottrina, infatti, è divisa sul punto tra coloro che ritengono che le norme regionali che stabiliscono livelli di tutela ambientale più elevati non siano mai in contrasto con le norme di tutela statali e coloro che invece ritengono che standard di tutela più elevati possano essere introdotti soltanto se giustificati da esigenze reali e proprie del territorio regionale. In base a questo secondo orientamento20, in sostanza, sarebbe da considerarsi derogatoria una
disposizione regionale che impone uno standard più rigoroso, ad esempio in tema di inquinamento ambientale, nel caso in cui la Regione non provasse la sussistenza di specifiche esigenze che giustificano la misura introdotta, e questo perché laddove si eleva la protezione ambientale, contestualmente si comprime una libertà ad essa opposta, nell’esempio proposto la possibilità di inquinare di più.
20 Si veda M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, 2017, pagg. 157 e ss.
La Corte costituzionale, sul punto, si è dimostrata un po’ oscillante, poichè in alcuni casi sembra propendere per l’orientamento che ammette in ogni caso le deroghe migliorative21, mentre in altri ha
assunto un atteggiamento maggiormente rigoroso: è il caso, ad esempio, della sentenza n. 303/2003, dove la Corte, dopo aver rigettato la tesi del ricorrente che invocava la competenza legislativa esclusiva attribuita allo Stato in tema di "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali" per escludere qualsiasi competenza delle Regioni a legiferare in vista di finalità di tutela dell'ambiente, precisa che, in relazione all’inquinamento elettromagnetico e per rispondere all’interrogativo se i valori-soglia (limiti di esposizione, valori di attenzione, obiettivi di qualità definiti come valori di campo), la cui fissazione è rimessa allo Stato, possano essere modificati dalla Regione, fissando valori-soglia più bassi, o regole più rigorose o tempi più ravvicinati per la loro adozione, occorre che si chiarisca la ratio di tale fissazione.
Una disposizione legislativa, tuttavia, appare in linea con coloro che sostengono la necessaria giustificazione oggettiva delle deroghe accrescitive: si tratta dell’articolo 3-quinquies del Codice dell’ambiente, rubricato “Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione”, il cui primo comma afferma che “i principi contenuti nel presente decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell'ambiente su tutto il territorio nazionale”, mentre il secondo comma precisa che “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive, qualora lo richiedano
situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali”. La previsione riportata esprime senz’altro la tesi di coloro che non escludono l’intervento migliorativo degli standard di tutela da parte delle Regioni rispetto ai livelli statali, ma richiedono che tale intervento non sia campato in aria bensì richiesto da situazioni specifiche del territorio e non ingiustificato.
Dopo aver ricostruito il contenuto della materia “tutela dell’ambiente” in base alle principali pronunce della Corte costituzionale, è possibile rispondere alle domande poste ad inizio paragrafo. Alla luce delle considerazioni esposte, si ritengono pienamente condivisibili le affermazioni di Gasparri, ai sensi del quale la legislazione regionale sul contenimento del consumo di suolo “in quanto preordinata alla conservazione di una specifica componente ambientale, incontra certamente i limiti invalicabili posti dalla legge statale a tutela dell’ambiente, ma ciò non le preclude, ad esempio, (...) in materia di governo del territorio, di definire livelli di tutela ambientali più elevati. Cosicché, questa normativa incide, certamente, sul bene giuridico ambiente, ma non al fine di tutelare l’ambiente, già salvaguardato dalla disciplina statale, bensì di disciplinare adeguatamente gli oggetti di propria competenza (...). La mancanza, quindi, di una specifica disciplina statale sul contenimento del consumo di suolo, non impedisce di ritenere pienamente legittima la legislazione regionale finora intervenuta, dal momento che i livelli inderogabili di protezione possono essere dedotti da quelle norme dell’ordinamento giuridico statale che esprimono scelte fondamentali in materia di tutela
ambientale”22. A queste brillanti considerazioni serve aggiungere
soltanto che nel caso in cui vengano fissati standard di tutela più elevati rispetto a quanto disposto dalla normativa statale, si deve ritenere necessario che essi siano giustificati da esigenze oggettive del territorio regionale, e questo in virtù delle indicazioni ricavabili dall’articolo 3-quinquies.
3. Il suolo come “bene comune”: dove affonda le radici il problema del consumo di suolo?
Dall’analisi della legislazione regionale sul contenimento del consumo di suolo, emerge in maniera ricorrente la qualificazione del suolo quale “bene comune”23. Appare dunque opportuno, stante
questa constatazione di fatto, soffermarsi in via preliminare su tale nozione e sul contenuto ad essa riconducibile. Una definizione di “beni comuni” presa come riferimento costante da molti studiosi24 è
quella fornita dalla Commissione Rodotà (scopo dell’incarico della
22 W. GASPARRI, Suolo, bene comune? Contenimento del consumo di suolo e
funzione sociale della proprietà privata, in DIRITTO PUBBLICO, n. 1/2016, cit.,
pagg. 103-104.
23 Si prenda, ad esempio, l’articolo 1 comma 2 legge reg. Lombardia n. 31/2014, secondo “il suolo, risorsa non rinnovabile, è bene comune di fondamentale
importanza (…)”; in termini analoghi si esprime l’articolo 1 comma 1 della legge
reg. Veneto n. 14/2017. Qualifica il suolo come “bene comune” anche la legge reg. Emilia Romagna n. 24/2017, mentre la legge reg. Toscana n. 65/2014, articolo 1, comma primo, dispone che “la presente legge detta le norme per il governo del
territorio al fine di garantire lo sviluppo sostenibile delle attività (…), la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale inteso come bene comune (…)”.
24 Per un approfondimento sui beni comuni, si segnalano U. MATTEI, Beni
Comuni. Un manifesto, Laterza, 2011; S. RODOTA’, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, il Mulino, 2013; P. MADDALENA, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, 2014; W. GASPARRI, Suolo, bene comune? Contenimento del consumo di suolo e funzione sociale della proprietà privata, in
Commissione, istituita presso il Ministero della giustizia il 21 giugno 2007, era quello di riformare la disciplina codicistica dei beni pubblici) secondo la quale sono beni comuni quei beni “che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona umana, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità”25. Si
tratta, dunque, di beni strettamente attinenti ai diritti fondamentali, e proprio questa stretta attinenza costituisce il motivo della loro qualificazione in termini di “beni comuni”; essi non possono essere considerati soltanto nell’ottica della proprietà privata individuale proprio perché l’attribuzione esclusiva individuale non permette né di godere di quelle utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e la loro salvaguardia intergenerazionale, né il libero sviluppo della persona umana. Tale impostazione, in sostanza, richiede un mutamento di prospettiva, tale per cui il bene non è volto soltanto a soddisfare i bisogni del legittimo proprietario, ma si configura “come strumento per soddisfare gli interessi generali e soprattutto quelli delle future generazioni e pertanto (…) irriducibili alle leggi del profitto e dell’appropriazione individuale”26. La
qualificazione giuridica del suolo quale “bene comune”, dunque, apre sicuramente le porte a nuovi orizzonti giuridici, impone di considerare le utilità eco-sistemiche da esso assicurate e la necessità che la fruizione di queste sia garantita all’intera collettività. La nozione di “bene comune”, peraltro, è stata oggetto di attenzione anche da parte della giurisprudenza; particolarmente significativa a
25 Relazione di accompagnamento al Disegno di legge delega della Commissione.
26 C.A. GRAZIANI, Terra, bene comune: dalla sindrome di Nimby al giardino
dell’Eden, in A. GERMANO’, D. VITI (a cura di), Agricoltura e “beni comuni”,
riguardo risulta essere la c.d. giurisprudenza di San Valentino27, con
cui le Sezioni Unite della Cassazione accolsero nel 2011 la nozione di “beni comuni” nel diritto vivente italiano (Cassazione Civile, Sezioni Unite, n. 3665 del 14 febbraio 2011). All’interno della sentenza n. 3665, riguardante le valli da pesca della Laguna veneta, la Cassazione sottolinea come vi sia una “esigenza (…) di rivisitare in via interpretativa il sistema normativo vigente, con particolare riferimento ai dati costituzionali, al fine della individuazione dei criteri indispensabili per attribuire natura “non privata” ad un bene immobile”; dopo aver ricordato che la disciplina essenziale dei beni pubblici è ancora contenuta, nelle sue linee fondamentali, nel codice civile agli artt. 822-831, da cui la tripartizione in beni demaniali, beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili, ed aver ribadito l’impossibilità di limitarsi alla sola disciplina codicistica del ‘42, la quale deve invece essere integrata con le successive norme costituzionali, la Corte sviluppa l’argomentazione partendo proprio dagli articoli 2, 9 e 42 Cost., da cui “stante la loro diretta applicabilità, si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell'ambito dello Stato sociale, anche nell'ambito del "paesaggio", (...) anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività”. Dal quadro normativo costituzionale, secondo le Sezioni Unite, “emerge l'esigenza
27 Oltre alla sentenza presa in considerazione, si segnalano anche le successive sentenze del 16 febbraio 2011 n. 3811 e n. 3813.
interpretativa di "guardare" al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica”; un completo mutamento di prospettiva dunque, che comporta che “più che allo Stato-apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato-collettività, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettiva realizzazione di questi ultimi; in tal modo disquisire in termine di sola dicotomia beni pubblici (o demaniali)-privati significa, in modo parziale, limitarsi alla mera individuazione della titolarità dei beni”. Ne deriva, secondo la Cassazione, che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell'ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, "comune" vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”. Si tratta di parole di grande rilievo giuridico le quali, come giustamente osservato da Maddalena28, lasciano intendere che determinati beni
“appartengono al popolo per la loro naturale funzione (…) e che, come tali, essi attendono di essere individuati e classificati come beni demaniali, il cui regime si estende anche a loro, indipendentemente da una loro individuazione legislativa (...)”.
28 P. MADDALENA, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, 2014, cit., pag. 78.
Tuttavia, il suolo più che “bene comune”, secondo la prospettiva esposta, è stato considerato come risorsa da sfruttare al massimo, senza considerarne in alcun modo le caratteristiche intrinseche; un bene, cioè, da cui dover trarre il massimo profitto economico possibile a scapito della sua fondamentale rilevanza eco-sistemica. Lo dimostrano i fatti: immensi territori sono stati distrutti, la cementificazione si è spinta oltre ogni limite sostenibile, per non parlare di piaghe quali la deforestazione29, il cambiamento climatico
e la conseguente perdita di biodiversità. A ben vedere, il tema dell’eccessivo sfruttamento del suolo è fortemente connesso ai rapporti che intercorrono tra proprietà privata e proprietà collettiva e, soprattutto, è da ritenere condivisibile la tesi secondo cui la speculazione economico-finanziaria e l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi (quei pochi che vorrebbero che la proprietà collettiva non esistesse), sorretto da un’erronea interpretazione del diritto di proprietà privata, costituirebbe la causa principale del problema in esame. Relativamente ai rapporti tra proprietà collettiva e proprietà privata, fondamentale è il contributo di Paolo Maddalena30, già menzionato poco sopra, che costituirà un
riferimento costante nel proseguo del paragrafo. Maddalena si sofferma su due concetti: quello di “precedenza storica” della proprietà collettiva rispetto alla proprietà privata e quello di “prevalenza giuridica” della proprietà collettiva rispetto alla proprietà privata. Con riguardo alla prima nozione l’autore, indossando le lenti dello storico oltre che del giurista, sottolinea che
29 Le cifre ufficiali del governo brasiliano, ottenute tramite osservazioni satellitari, indicano un aumento della deforestazione del 13,7 % nel periodo agosto 2017-luglio 2018: sono le cifre peggiori degli ultimi 10 anni.
la proprietà collettiva ha storicamente preceduto quella individuale, non essendo affatto vero il contrario come spesso si è portati a pensare. Come dimostrano i numerosi studi condotti dagli esperti di diritto romano, in origine “le terre appartenevano alla collettività, ed erano prevalentemente adibite a pascolo. Queste terre, che si andarono sempre più accrescendo con l’espansione territoriale di Roma, costituivano l’ager publicus”31. Solo successivamente, per
mezzo di una divisione del territorio comune, si venne a creare una prima forma di appartenza privata, denominata manus o mancipium, la quale risulta quindi successiva e derivata dalla proprietà collettiva iniziale del territorio. Soggetto attivo del rapporto di mancipium era il pater familias, mentre l’oggetto era la familia, in tutti i suoi svariati elementi; si trattava, quindi, di una forma di proprietà molto diversa rispetto alla moderna proprietà privata: per arrivare al concetto di dominium ex iure Quiritium, bisogna aspettare la fine del II sec. a.C.32.
Ancor più rilevante, in termini giuridici, è il secondo assunto del Maddalena, ovvero la prevalenza giuridica della proprietà collettiva rispetto alla proprietà privata, prevalenza che discende direttamente dalla Costituzione da cui, quindi, occorre prendere le mosse. Un dato da segnalare in via preliminare, in quanto significativo a livello sistematico, riguarda la collocazione del tema della proprietà privata in Costituzione, ossia all’interno del Titolo III, Parte I, dedicato ai “Rapporti economici” (e non invece nell’ambito dei principi fondamentali, artt. da 1 a 12); già questo fatto rappresenta un segno
31 M. MARRONE, Manuale di diritto privato romano, Giappichelli, 2004, cit., pagg. 185-186.
32 Per un approfondimento, A. GUARINO, Diritto privato romano, Jovene, 2001, pagg. 478 e ss.
di rottura con la tradizione (liberale) precedente: lo Statuto Albertino, ad esempio, collocava la proprietà (art. 29) nel novero dei diritti fondamentali dei cittadini. Detto questo, il fondamento costituzionale della proprietà collettiva è costituito dall’articolo 42, comma primo, ai sensi del quale “la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. L’articolo prosegue poi affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti (secondo comma). La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale (terzo comma). La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità (quarto comma)”. Si tratta, per l’appunto, di un articolo mal digerito dai liberali più rigidi, di cui è stato scritto che “(...) è dedicato a sottolineare che il legislatore costituente certifica la proprietà privata come evitabile fastidio. Nell’elenco dei proprietari del primo comma i privati vengono per ultimi, lo Stato per primo; al secondo comma si pone la proprietà pubblica prima di quella privata; al terzo comma si chiarisce che questo fastidioso residuo del passato viene sopportato solo se accessibile a tutti e tale da svolgere una non meglio precisata “funzione sociale” (...)”33; del resto, se si guarda ai
rapporti di forza all’interno della Costituente, la coalizione elettorale liberale, Unione Democratica Nazionale, ottenne 41 seggi, a fronte dei 207 della Democrazia Cristiana, dei 115 del Partito Socialista e
33 A. MARTINO, L’articolo 41 della Costituzione e le sue radici ideologiche, in www.antoniomartino.org - 22 febbraio 2011.
dei 104 del Partito Comunista, e quindi ebbe inevitabilmente un peso minore. Né sono mancate, peraltro, letture alternative (per non dire distorsive) del contenuto dell’articolo, come quella per cui l’espressione “la proprietà è pubblica o privata” farebbe riferimento ad un unico concetto di proprietà, quella privata individuale, che si dividerebbe in “pubblica” o “privata” in relazione all’appartenenza ad un soggetto pubblico oppure ad uno privato. Si tratta, a mio avviso, di una lettura palesemente forzata del disposto costituzionale, che in aggiunta non spiegherebbe l’inutile ripetizione che si verrebbe a creare nel proseguo del comma, laddove il legislatore specifica che i beni economici appartengono, a titolo di proprietà privata, anche allo Stato, oltre che ad enti o a privati. La proprietà collettiva trova dunque riconoscimento all’interno della nostra Costituzione la quale, com’è noto, guarda allo Stato inteso non come mero “apparato”, “persona giuridica pubblica” ovvero “unità fittizia”, ma come “insieme di cittadini”, come “Stato-comunità”, in definitiva come “popolo”, cui è attribuita la sovranità, secondo l’articolo 1 della Costituzione stessa. Ed è al popolo, dunque, a cui appartiene, a titolo di sovranità ed in linea con la storia degli istituti giuridici e la logica del costituzionalismo moderno, come ricordato dallo stesso Maddalena, la proprietà collettiva, quest’ultima da intendersi come riferita ai “demani”, cioè l’aggettivo “pubblica” utilizzato dal legislatore si riferisce senza dubbio ai beni demaniali. La proprietà privata, invece, è “riconosciuta e garantita dalla legge”, e quindi trova fondamento nella legge stessa che, peraltro, costituisce la “voce” del Parlamento e, di conseguenza, del popolo che il Parlamento ha eletto: essa non
è altro che la manifestazione di volontà del titolare della sovranità, di colui cui appartiene la proprietà collettiva, ovvero il popolo stesso. Di conseguenza spetta al popolo, attraverso la legge, stabilire quanta parte del territorio debba essere destinata all’uso esclusivo dei singoli: una decisione, tra l’altro, non definitiva, potendo il popolo stesso tornare sui suoi passi, facendo cioè tornare nel pubblico il bene, non riscontrandosi alcuna preclusione in proposito. La legge, inoltre, non si limita a riconoscere e garantire la proprietà privata, ma in aggiunta “ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”: emerge chiaramente la volontà dei Costituenti di sottoporre la proprietà privata a dei limiti, quello della “funzione sociale” e quello della sua “accessibilità a tutti”; limiti che la legge ha lo scopo di assicurare e che evidenziano quella che a mio avviso è una certezza: il Costituente non ha guardato alla proprietà privata in una prospettiva di ordine meramente economico, come del resto confermato dal disposto dell’articolo 41 Cost., in base al quale è vero che “l’iniziativa economica è libera”, ma allo stesso tempo “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. La funzione sociale deve quindi intendersi come espressione volta a sottolineare una caratteristica della proprietà privata (e delle cose in generale), quella di produrre utilità sociali; rispetto ad esse, deve essere garantita l’accessibilità a tutti, in evidente collegamento con l’articolo 3 della Costituzione e, più specificamente, con la finalità di pieno sviluppo della persona umana, che altrimenti non può realizzarsi. In questa prospettiva, l’espressione “accessibilità” si riferirebbe non tanto
all’appartenenza della cosa, in termini di proprietà, quanto all’accesso alle utilità fornite dalla cosa stessa; rispetto a tali utilità deve essere garantita accessibilità a tutti e, conseguentemente, il proprietario del bene non è libero di farne quel che vuole, bensì deve tener conto dell’interesse collettivo a fruire delle utilità prodotte dal bene stesso, il quale, ad esempio, non potrà essere consumato in maniera irreversibile, altrimenti viene vanificata, evidentemente, la possibilità di accesso e, quindi, il diritto di proprietà privata viene esercitato in maniera antisociale. E’ chiaro che questa interpretazione del secondo comma dell’articolo 42 comporta il sorgere di obblighi in capo ai proprietari: con specifico riferimento al bene “suolo”, al proprietario non sarà consentito di usufruirne in modo tale da minare la sua integrità ovvero in modo da compromettere la sua capacità di fornire quei servizi eco-sistemici che garantiscono la conservazione dell’equilibrio ambientale; e quindi non potrà adottare scarichi inquinanti, se si tratta di un industriale, non potrà fare un uso eccessivo di pesticidi, se si tratta di un agricoltore. E, se una legge nazionale lo consentisse, ci potrebbero essere gli estremi per una declaratoria di incostituzionalità, poiché non si tratterebbe di una legge che assicura la funzione sociale della proprietà ma anzi di una legge che consente l’esercizio antisociale del diritto di proprietà stesso.
I due limiti posti dall’articolo 42, secondo comma, vanno dunque di pari passo, si collegano al disposto dell’articolo 41 ed anche ai successivi articoli del Titolo III, che esprimono un evidente favore non per l’accentramento della ricchezza, non per la speculazione economico-finanziaria, non per il neoliberismo, ma per il
conseguimento di un “razionale sfruttamento del suolo”, per la piccola e media proprietà, che la legge deve aiutare (art. 44 Cost), per il risparmio (art. 47 Cost.), per l’artigianato (art. 45, secondo comma, Cost.).
Possiamo quindi, per concludere, rispondere alla domanda di cui al titolo del paragrafo: dove affonda le radici il problema del consumo di suolo? Ebbene, il tema dell’eccessivo e sconsiderato sfruttamento del suolo sta tutto qui: sta nel considerare la proprietà privata come soltanto funzionalizzata al mero soddisfacimento dell’interesse individuale del proprietario, secondo la concezione borghese ottocentesca, di cui il neoliberismo attuale è figlio, sta nel dimenticarsi delle previsioni costituzionali sopra menzionate, sta nell’ignorare l’esistenza di una proprietà collettiva contraddistinta, con tutta evidenza, sia da una “precedenza storica” che da una “prevalenza giuridica” sulla proprietà privata, per tornare alle espressioni del Maddalena da cui siamo partiti col nostro ragionamento. Le teorie neoliberiste, che pongono al centro il profitto e l’utilità individuale a scapito della salvaguardia degli interessi collettivi, quale è quello del contenimento del consumo di suolo e della sua salvaguardia, non trovano dunque alcun spazio in Costituzione, anzi la nostra Costituzione si pone in netto contrasto con gli interessi di coloro il cui intento è quello di arricchirsi a scapito della collettività e che, di conseguenza, rivolgono attacchi alla prima parte della Costituzione in quanto costituente un ostacolo per il raggiungimento dei loro fini.
4. Assenza di una legge nazionale sul consumo di suolo. Prospettive de jure condendo e analisi comparata di alcuni disegni di legge.
Mentre sul versante regionale il contenimento del consumo di suolo è oggetto di particolare attenzione34, a livello statale si riscontra un
vuoto normativo; manca, cioè, una normativa nazionale specifica, che vada al di là delle attuali previsioni normative disorganiche e che sia dotata di una visione complessiva, globale ed omogenea del territorio. Come affermato da Andrea Quaranta, “la soluzione non deve, e non può essere ricercata nel particolare, nel contingente: occorre avere una visione globale non solo delle problematiche ambientali, ma anche delle conseguenze che certe scelte (…) hanno non solo nell’immediato, ma possono avere nel futuro, anche in relazione ad altri aspetti”35. L’emanazione di una normativa statale
appare dunque un atto improcrastinabile. Ciò emerge, del resto, dalla lettura della presentazione al rapporto ISPRA 2018, in cui Stefano Laporta, Presidente di ISPRA e del Sistema Nazionale per la
34 Si segnalano alcune leggi regionali che introducono una disciplina specifica per il contenimento del consumo di suolo: legge reg. Toscana 65/2014 (“Norme per il
governo del territorio”), oggetto di specifica trattazione nel Cap. III; legge reg.
Lombardia 31/2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato”); legge reg. Umbria 1/2015 (“Testo unico governo del territorio e materie correlate”). Di più recente emanazione la legge
reg. Veneto 14/2017 (“Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e
modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”) e la legge reg.
Emilia-Romagna 24/2017 (“Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”). Previsioni normative connesse al contrasto del consumo di suolo si riscontrano poi in altre leggi regionali; si segnalano, come esempio, la legge reg. Lazio 7/2017 (“Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio”), la legge reg. Piemonte 3/2013 (“Modifiche alla legge reg. 5 dicembre 1977, n. 56, e altre
disposizioni regionali in materia di urbanistica ed edilizia”), la legge prov.
Bolzano 9/2018 (“Territorio e paesaggio”), la legge prov. Trento 15/2015 (“Legge
provinciale per il governo del territorio”), modificata con legge prov. 3/2017.
35 A. QUARANTA, Il consumo di suolo fra impasse normativa, proposte
Protezione dell’Ambiente (SNPA), precisa che “il consumo di suolo con le sue conseguenze, in attesa di interventi normativi efficaci, non si ferma”; inoltre, “l’iniziativa delle Regioni e delle Amministrazioni Locali sembra essere riuscita solo marginalmente, per ora, e solo in alcune parti del territorio, ad arginare l’aumento delle aree artificiali, rendendo evidente che gli strumenti attuali non hanno mostrato ancora l’auspicata efficacia nel governo del consumo di suolo”. La necessità di delineare un quadro normativo efficace, secondo Laporta, è evidenziata dai dati, i quali “mostrano ancora la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane a bassa densità, in cui si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali” e “confermano l’avanzare di fenomeni quali la diffusione, la dispersione, la decentralizzazione urbana da un lato e la densificazione di aree urbane dall’altro”; processi che “riguardano soprattutto le aree costiere mediterranee e le aree di pianura”. La necessità di approvare una legge nazionale volta al contenimento e alla riduzione del consumo di suolo è stata inoltre ribadita anche da Sergio Costa, attuale Ministro dell’ambiente del Governo Conte, come si evince da due comunicati stampa del giugno 201836. Costa ha infatti affermato che il suo dicastero “si farà
garante affinché la legge sul consumo di suolo proceda il più velocemente possibile. E’ una priorità del mio ministero e sarà uno dei miei primi atti, per il quale confido nella collaborazione del Parlamento e delle forze politiche affinché finalmente possa venire
36 In proposito: http://www.minambiente.it/comunicati/desertificazione-costa-stop-consumo-di-suolo-e-gestione-sostenibile-risorsa-idrica e
http://www.minambiente.it/comunicati/suolo-costa-legge-consumo-suolo-priorita-mio-dicastero-attenti-anche-alla-tutela-del.
approvata”; inoltre lo stesso Ministro, in occasione della giornata mondiale contro la desertificazione, ovvero il 17 giugno 2018, ha dichiarato che uno dei suoi impegni sarà portare avanti il disegno di legge contro il consumo di suolo e quello per la gestione pubblica dell’acqua, definendo tali disegni di legge come priorità.
Nonostante una normativa nazionale non sia ancora stata approvata, sono stati comunque presentati numerosi disegni di legge in proposito, di cui è opportuno dar conto. La prima proposta di legge volta a limitare il consumo di suolo è stata presentata in data 11 dicembre 2012; si tratta del disegno di legge di iniziativa governativa AS 3601 (c.d. d.d.l. Catania), all’interno del quale già era contenuta una definizione di suolo quale “bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi ecosistemici” (art. 1, comma primo). All’articolo 2, poi, il disegno di legge reca una definizione di “consumo di suolo” quale “riduzione di superficie agricola per effetto di interventi di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessi all’attività agricola”, mentre l’articolo 3 si occupa dei profili procedurali, prevedendo che con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali venga determinata “l’estensione massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale, nell’obiettivo di una progressiva riduzione del consumo di superficie agricola”. Tale decreto, peraltro, deve essere formulato d’intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con il Ministro per i beni e le attività culturali e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti; deve, inoltre, tener conto della deliberazione della
Conferenza unificata37 (con la quale sono stabiliti modalità e criteri
per la definizione dell’obiettivo di riduzione del consumo di superficie agricola, nonché criteri e modalità per determinare la superficie agricola esistente e per assicurare il monitoraggio del consumo di essa) e dei dati che le regioni, entro 3 mesi da tale deliberazione e sulla base dei criteri da essa indicati, devono inviare al Comitato di cui all’articolo 1, comma 7, il quale ha la funzione di monitorare il consumo di superficie agricola sul territorio nazionale e l’attuazione della legge stessa. Quest’ultimo organo, in aggiunta, deve essere obbligatoriamente sentito ed, infine, deve essere acquisito il parere della Conferenza unificata. Il decreto in commento, ex articolo 1, comma 4, è adottato entro 1 anno dalla data di entrata in vigore della legge e aggiornato ogni dieci anni; secondo il successivo comma 5, la superficie agricola consumabile sul territorio nazionale deve essere in seguito ripartita tra le regioni, e ciò sulla base, ancora una volta, di una deliberazione della Conferenza unificata, che assume dunque un ruolo centrale nel procedimento delineato dal d.d.l. Catania.
L’articolo 4 del disegno di legge in commento pone uno specifico divieto, relativo a quelle superfici agricole in favore delle quali sono stati erogati aiuti di Stato o europei; tali superfici non possono essere destinate ad uso diverso da quello agricolo per 5 anni
37 La Conferenza unificata riunisce i membri della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome e della Conferenza Stato-città ed autonomie locali, e trova la sua regolamentazione nel d.lgs. 281/1997. Essa opera al fine di favorire la cooperazione tra attività dello Stato e il sistema delle autonomie ed esaminare materie e compiti di interesse comune. Ai sensi dell’articolo 9, comma 2, d.lgs. 281/1997, “è comunque competente in tutti i casi
in cui regioni, province, comuni e comunità montane ovvero la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza Stato-città ed autonomie locali debbano esprimersi su un medesimo oggetto”.
dall’ultima erogazione (vengono fatti salvi alcuni interventi specificamente indicati) e, inoltre, ai sensi del secondo comma il divieto deve essere espressamente menzionato nell’eventuale atto di compravendita avente ad oggetto la superficie, pena nullità dell’atto stesso. Degli incentivi agli interventi di, potremmo dire, “rigenerazione urbana”, termine che non compare nel disegno di legge38, si occupa l’articolo 5, che premia eventuali azioni concrete di
comuni e province (ma anche di privati, singoli o associati, in relazione al recupero di edifici e di infrastrutture rurali nei nuclei abitati rurali) attraverso attribuzione di priorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali previsti in materia edilizia. Il disegno di legge dispone poi l’istituzione, con decreto del Ministro delle politiche agricole, di un registro degli enti locali (art. 6) e la destinazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni comminate per la violazione del divieto di mutamento di destinazione “esclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, a interventi di qualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della messa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico” (art. 7). Infine l’articolo 8, comma primo, prevede, nel periodo intercorrente tra la data di
38 Il disegno di legge, all’art. 5, comma primo, prevede espressamente quanto segue: “ai comuni e alle province che avviano azioni concrete per localizzare le
previsioni insediative prioritariamente nelle aree urbane dismesse e che procedono al recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione, ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e della viabilità rurale e conservazione ambientale del territorio, è attribuita priorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali eventualmente previsti in materia edilizia”. Il
secondo comma prevede poi che “il medesimo ordine di priorità di cui al comma 1
è attribuito ai privati, singoli o associati, che intendono realizzare il recupero di edifici e delle infrastrutture rurali nei nuclei abitati rurali, mediante gli interventi di cui al comma 1”.
entrata in vigore della legge e l’adozione del decreto del Ministro delle politiche agricole con cui è determinata l’estensione massima della superficie agricola consumabile sul territorio nazionale (e comunque non oltre il termine di tre anni), il divieto di consumo di superficie agricola, salvo le eccezioni espressamente menzionate (realizzazione di interventi già autorizzati e previsti dagli strumenti urbanistici vigenti, ad esempio).
Il d.d.l. Catania è stato seguito da numerosi altri disegni di legge; solo nella legislatura in corso, al Senato, sono stati presentati almeno undici differenti progetti di legge in materia di consumo di suolo39.
Tra questi vi è anche la proposta di legge del Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i Territori”, AC 63, presentata il
39 Il dato è segnalato in A. QUARANTA, Il consumo del suolo fra impasse
normativa, proposte settoriali e necessità di un cambio di marcia, in Ambiente e sviluppo, n. 8-9/2018. Di seguito si riportano alcuni disegni di legge presentati: AS
129, “Norme per il contenimento del consumo di suolo e la rigenerazione urbana”; AC 70, “Norme per il contenimento dell’uso di suolo e la rigenerazione urbana”; AC 1050, “Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo e la tutela del
paesaggio”; AC 150, “Norme per il contenimento del consumo del suolo e la rigenerazione urbana”; AS 600, “Norme in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo”; AS 769, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo”. Di più recente presentazione: AS 609,
“Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento
del consumo di suolo”; AS 572, “Agevolazioni per la riduzione del consumo di suolo, il recupero delle aree urbane e il riuso del suolo edificato, mediante un credito d’imposta per l’acquisto di fabbricati da restaurare”; AC 809,
“Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato”; AS 86, “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo nonché delega al Governo in
materia di rigenerazione delle aree urbane degradate”; AS 164, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, di riuso del suolo edificato e per la tutela del paesaggio”; AS 193, “Misure per il contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato”; AC 108, “Norme in materia di contenimento del consumo del suolo, per il riuso del suolo edificato e per la rigenerazione urbana”;
AC 178, “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di
contenimento del consumo del suolo”. Per un’analisi comparata delle diverse
proposte di legge, S. FICORILLI, Consumo di suolo, l’attesa di una legge
nazionale. Analisi comparata delle proposte normative, in Riutilizziamo l’Italia - Rapporto 2014; L. DE LUCIA, Il contenimento del consumo di suolo nell’ordinamento italiano, in G.F. CARTEI, L. DE LUCIA (a cura di), Contenere il consumo di suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Editoriale Scientifica, 2014.