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Teleologia della Natura e del Vivente nel Pensiero di Aristotele

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

TESI DI LAUREA

Teleologia della natura e del vivente

nel pensiero di Aristotele

Relatore:

Prof.ssa Maria Michela Sassi

Correlatore:

Prof. Bruno Centrone

Laureando: Simone Molino

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Indice

Introduzione ... 3

I. Teleologia, caso, necessità ... 8

1 Principi del divenire e casualità finale ... 8

2 Teleologia e caso ... 16

3 Materia e necessità ... 28

II. Teleologia cosmica e fine ultimo dell'uomo ... 44

1 Il Motore Immobile come modello dell'essere ... 44

2 L'ipotesi antropocentrica ... 52

3 La critica all'antropocentrismo ... 62

4 Il fine ultimo dell'uomo ... 71

III. Teleologia e organismi viventi ... 79

1 L'anima come principio di unità e complessità degli organismi ... 79

2 Complessità anatomica e ruolo del calore nei processi biologici ... 99

IV. Nutrizione, generazione, continuità della natura ... 105

1 Finalità nella nutrizione e nell'accrescimento ... 105

2 Finalità nella riproduzione ... 110

3 Generazione spontanea e continuità della natura ... 119

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi ha lo scopo di indagare le principali questioni legate al ruolo che la causa finale svolge all'interno del pensiero di Aristotele.

La prima parte, costituita dai capitoli I e II, approfondisce i processi finalistici riguardanti la natura in generale, mentre la seconda parte, costituita dai capitoli III e IV, prende in considerazione la teleologia della natura vivente.

Nel dettaglio, il capitolo I è dedicato all'analisi delle dinamiche finalistiche all'opera nel divenire naturale, nonché allo studio del complesso rapporto che intercorre fra le nozioni di telos, caso, e necessità materiale. A tal proposito, dopo una breve introduzione a quelli che Aristotele definisce come i principi primi del divenire, viene approfondita la problematica relativa alla teoria delle quattro cause, in virtù delle quali trova definizione ogni sostanza naturale, ossia ogni ente dotato di un principio interno del movimento e della quiete.

Più precisamente, secondo il filosofo la causa finale rappresenta ciò in vista di cui si verificano i processi di generazione ai quali le molteplici sostanze naturali sono eternamente sottoposte, e in ultima istanza viene ad identificarsi con la piena realizzazione della loro forma. In tal senso, risulta opportuno precisare fin da ora che per Aristotele la natura non agisce mai invano, ma opera sempre in vista di un fine, il quale rappresenta in qualche modo un bene per ogni sostanza in quanto ne garantisce l'auto-conservazione mediante un processo eterno e ricorsivo di auto-produzione dell'eidos.

A partire da tali osservazioni nasce dunque l'esigenza di domandarsi se, e in che modo, Aristotele riesce a conciliare la propria teoria finalistica con l'ipotesi dell'esistenza del caso, specie e soprattutto in opposizione alla tesi portata avanti da alcuni physiologoi secondo cui tutto ciò che avviene nell'ambito del divenire naturale è privo di un fine e rappresenta esclusivamente il risultato del concorso di cause accidentali.

Un'altra questione rilevante in questo quadro problematico riguarda il modo in cui il paradigma teleologico si accorda al costante ricorso di Aristotele alla nozione di necessità nella spiegazione dei processi naturali, ovvero al fatto che per il filosofo la causa materiale costituisce parte integrante dell'ontologia del reale allo stesso modo della causa finale, di quella efficiente e di quella formale. In tal senso, è possibile anzitutto osservare che il mutuo escludersi del paradigma teleologico e di quello casualistico su un piano generale non implica

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necessariamente anche un'alternativa fra l'impiego della causa finale e il ricorso alla causa materiale nella spiegazione dei fenomeni naturali. Tali questioni vengono quindi indagate mediante l'analisi delle complesse dinamiche di cui il filosofo si serve al fine di elaborare una teoria finalistica dotata di coesione e coerenza notevoli, ma capace allo stesso tempo di armonizzare fra loro due concetti che a prima vista sembrano escludersi vicendevolmente, quali appunto quelli di teleologia e necessità.

Nell'ultima parte del capitolo I viene esaminata in maniera approfondita la principale modalità tramite cui gli enti sublunari corruttibili perseguono il telos della conservazione del proprio essere e della propria sostanza, ovvero mediante un processo circolare ed eterno di auto-produzione dell'eidos.

Nel capitolo II vengono quindi discusse le modalità attraverso cui il finalismo si esplica a livello cosmico. A partire da un determinato filone interpretativo della teleologia aristotelica, non certamente privo di oppositori, viene presa in considerazione la tesi secondo cui Aristotele sostiene in ultima istanza una teleologia cosmica, in base alla quale ogni ente naturale trascende il raggiungimento del proprio fine individuale per inserirsi in una dinamica finalistica volta a garantire l'equilibrio della totalità del cosmo. In questo capitolo, rimanendo lo stesso quadro interpretativo, viene dunque esaminata la particolare lettura secondo cui l'essere umano costituisce per Aristotele uno dei principali fini dell'ordine teleologico del mondo sublunare. Vengono successivamente prese in considerazione alcune fra le critiche più significative che gli studiosi hanno recentemente rivolto all'ipotesi dell'antropocentrismo, allo scopo di verificarne la plausibilità, o perlomeno offrire una spiegazione alternativa delle dinamiche tramite cui la teleologia aristotelica si realizza a livello globale. È opportuno anticipare fin da ora che secondo quest'ultima ipotesi l'ordine che Aristotele attribuisce alla totalità del cosmo non deve essere inteso come la realizzazione di un telos che trascende gli scopi individuali delle molteplici sostanze, ma al contrario deve essere concepito come il solo ed esclusivo risultato della tendenza intrinseca in ogni ente naturale al raggiungimento del proprio fine individuale. Ciò porta a chiedersi, nella parte conclusiva del capitolo II, quale sia il telos ultimo che Aristotele attribuisce all'essere umano, su un piano chiaramente differente rispetto a quello delle altre sostanze naturali.

Il discorso può a questo punto concentrarsi, nei capitoli III e IV, sullo studio della teleologia del vivente, con particolare riferimento alla trattazione aristotelica dell'anima, ai diversi livelli di complessità psicofisica degli organismi, ed infine ai processi biologici della nutrizione e della generazione, che costituiscono in ultima istanza le dinamiche concrete attraverso cui si realizza il telos di ogni ente naturale dotato di psyche.

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Bisogna anzitutto osservare che per Aristotele la psyche rappresenta il principio che garantisce ad ogni essere vivente la capacità di esercitare compiutamente l'insieme articolato di attività e funzioni per mezzo di cui persegue e raggiunge il proprio telos, anche se occorre precisare che l'anima si identifica in ultima istanza anche con il principio del movimento e con l'eidos di ogni organismo. Nel dettaglio, il telos di ogni vivente corruttibile coincide da un lato con il raggiungimento della maturità e con la conservazione del proprio essere, perseguito mediante i processi di nutrizione e accresimento, e dall'altro con il processo ricorsivo ed eterno di auto-produzione dell'eidos, perseguito mediante la generazione di un nuovo individuo, identico dal punto di vista della forma all'organismo generante.

Mette dunque conto rilevare che la psyche rappresenta l'aitia ultima dell'unità e della complessità del vivente proprio in quanto ne costituisce la forma, ossia il principio intrinseco dell'organizzazione delle parti di cui esso si compone, nonché della determinazione delle relazioni fra queste stesse parti. Per Aristotele i molteplici viventi sono organizzati secondo un ordine gerarchico di complessità crescente, determinato in maniera diretta dalla presenza nell'organismo di una combinazione più o meno articolata delle differenti facoltà o dynameis dell'anima. Tale organizzazione possiede innegabilmente un carattere inclusivo: le varie facoltà della psyche costituiscono ognuna la condizione necessaria per la presenza di quella successiva nell'ordine della complessità, e costituiscono inoltre il fattore in virtù di cui ad ogni organismo è attribuito un grado inferiore o superiore di perfezione o compiutezza. L'ordine gerarchico della complessità dei viventi viene dunque stabilito a partire dalla presenza nell'organismo di un insieme più o meno articolato di queste stesse capacità vitali, le quali rappresentano la condizione imprescindibile per l'esercizio della totalità delle funzioni biologiche, nonché per il raggiungimento del telos della sopravvivenza e dell'auto-produzione della forma.

Ciò che consente ad Aristotele di individuare la sfuggente linea di confine che separa gli esseri viventi dalle sostanze inanimate è quella che il filosofo definisce come la prima e più importante dynamis dell'anima, la facoltà nutritiva, senza il possesso della quale nessun ente naturale può annoverarsi nell'ambito degli esseri viventi. Come si avrà modo di osservare, da un lato la facoltà nutritiva garantisce al vivente l'esercizio dei processi biologici fondamentali dell'accrescimento e della nutrizione, grazie ai quali ogni organismo raggiunge il telos del proprio sviluppo complessivo e dell'auto-conservazione, mentre dall'altro lato questa stessa facoltà coincide anche con la causa principale del processo di generazione di un nuovo individuo, tramite cui ogni vivente raggiunge infine il telos dell'auto-produzione circolare ed eterna della propria forma.

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Da queste considerazioni deriva l'esigenza di un'analisi dettagliata del ruolo dell'anima, delle funzioni e delle attività proprie dei vari generi di organismi, senza la quale non sarebbe certamente possibile comprendere in maniera adeguata le complesse dinamiche della teleologia aristotelica delle sostanze viventi.

Viene successivamente presa in considerazione la problematica della generazione spontanea. È lo stesso Aristotele ad ammettere in diversi luoghi che alcuni viventi possono generarsi spontaneamente, ma una tale teoria appare inconciliabile sia con la dottrina dell'ingenerabilità dell'eidos sia con il finalismo. Difatti, affermare che alcuni organismi possono venire alla luce senza che vi sia un altro vivente a trasmettere la propria forma sembra non potersi affatto conciliare con l'idea che la forma può essere trasmessa solamente per mezzo del processo eterno e ricorsivo dell'auto-produzione. D'altra parte, affermare che alcuni viventi nascono spontaneamente implica inoltre che tale processo è esclusivamente dovuto alle potenzialità degli elementi materiali da cui essi stessi vengono all'essere, da un lato per necessità, dall'altro casualmente, e perciò senza un fine. Nell'ambito della generazione spontanea non vi è infatti alcuna forma preesistente a determinare il telos del processo generativo, ovvero l'auto-produzione dell'eidos.

La sezione conclusiva del capitolo IV è infine dedicata alla concezione aristotelica della continuità naturale, secondo cui nell'ambito degli enti naturali si passa per gradi tanto impercettibili dagli enti inanimati alle sostanze viventi, che risulta estremamente difficile individuare il confine fra i due campi. Il principio della continuità naturale consente ad Aristotele di organizzare i molteplici enti animati secondo un crescente grado di complessità e diversificazione delle facoltà, nonché di individuare con precisione i fattori che differenziano non soltanto una determinata specie dalle altre, ma anche l'intero genos delle piante dagli enti inanimati e gli animali a loro volta dalle piante. Dall'altro lato tale principio permette ad Aristotele di riconoscere le affinità e le somiglianze fra le varie specie viventi, consentendogli inoltre di portare avanti un metodo di classificazione scevro da linee di demarcazione troppo rigidamente sistematiche, e pertanto capace di rendere adeguatamente conto dell'enorme mutevolezza del reale. Come si avrà modo di vedere, il principio della continuità naturale non può essere interpretato in termini evoluzionistici, non soltanto perché è lo stesso Aristotele ad opporsi in più luoghi alle dottrine di quei physiologoi che prima di lui avevano teorizzato la nascita di nuove specie animali da altre meno sviluppate o il loro progressivo adattamento, ma anche perché la gerarchia aristotelica del vivente trova stabilità proprio nel presupposto dell'ingenerabilità, immutabilità ed incorruttibilità dell'eidos, che non lascia alcuno spazio alla possibilità della trasformazione di una specie meno sviluppata in una

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dotata di un più articolato sistema di facoltà, dato che ciò comprometterebbe in maniera evidente i fondamenti stessi del modello ontologico aristotelico. D'altra parte la moderna teoria dell'evoluzione implica anche che le variazioni tramite cui nascono nuove specie viventi siano del tutto casuali, mentre secondo Aristotele la natura non agisce mai a caso, ma anzi opera sempre in vista di un fine, ponendo fin dal principio ogni ente animato nel proprio luogo naturale in vista del telos della sopravvivenza e dell'auto-conservazione.

Tali sono dunque le questioni che si tenterà di sollevare nell'ambito del presente lavoro, talvolta con l'intento di mostrare i punti di forza di alcune letture interpretative, talaltra allo scopo di sollevare dubbi ed evidenziare le criticità di altre, oppure anche solo per cercare di individuare con chiarezza quelle che sono le tensioni ed i contrasti che attraversano il panorama degli studi sul pensiero del filosofo, ma sempre e comunque cercando di rispettare con la maggiore precisione possibile le fitte e complicate trame del testo aristotelico.

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I. Teleologia, caso, necessità

«la natura, infatti, è fine e ciò in vista di cui» (Phys. II 1, 194a 28-29).

1 Principi del divenire e causalità finale

L'indagine aristotelica della natura (physis) si apre con l'individuazione dei principi (archai) del divenire. Per Aristotele ogni scienza (episteme) consiste infatti nella conoscenza dei principi e delle cause propri di ciascun ambito di ricerca, e ciò chiaramente vale anche per lo studio degli enti naturali. Fin dalle prime righe del libro I della Fisica, del resto, viene ribadito che nella ricerca scientifica è necessario procedere «dalle cose più oscure per natura, ma più chiare per noi, a quelle più chiare e più note per natura» (184a 19-20). Il punto di partenza di ogni conoscenza è dato dunque dalla sensazione immediata, attraverso la quale si ottiene una conoscenza generale ed imprecisa, mentre invece l'episteme vera e propria consiste nella definizione e nella determinazione delle differenti proprietà dell'oggetto indagato.

Al fine di individuare i principi propri della scienza della natura, Aristotele procede come di consueto all'analisi ed alla confutazione delle opinioni autorevoli (endoxa) dei pensatori che lo hanno preceduto. Le endoxa dei sapienti costituiscono di frequente il punto di partenza dell'argomentazione aristotelica, dato che vengono accettate in linea di massima dalla maggior parte degli individui, nonché dai pensatori più illustri. La prima tesi criticata dal filosofo è dunque quella degli eleati, secondo cui il vero essere è uno e immobile, mentre gli enti naturali non sono dotati di vera e propria esistenza né tantomeno possono essere conosciuti a causa della loro molteplicità e movimento. Più precisamente, Aristotele si oppone a tali pensatori proprio perché la loro dottrina non è capace di giustificare l'esistenza degli enti naturali come mobili e molteplici, dato che tali proprietà vengono colte in maniera immediata ed evidente dall'induzione (epagoge), e pertanto non possono essere negate. D'altronde, aggiunge il filosofo, l'essere (to on) «si dice in molti sensi», per esempio come «sostanza», «qualità», oppure «quantità» (185a 22-23), e non è possibile in alcun modo che esso sussista in maniera separata dalle diverse predicazioni che gli sono attribuite, come appunto sostengono gli eleati.

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Proseguendo la trattazione, Aristotele prende in esame le dottrine dei cosiddetti naturalisti (physiologoi), osservando che in linea di massima, «come se fossero costretti dalla medesima verità» (188b 29-30), essi hanno adottato principi contrari fra loro e diversi di numero, anche se poi non sono stati capaci di individuarli nella maniera corretta. Il filosofo afferma pertanto che i principi del divenire devono di necessità essere contrari e reciprocamente irriducibili, ovvero che non possono derivare gli uni dagli altri.

Essendo principi primi, inoltre, non devono neppure derivare da un altro principio ad essi superiore. Per poter essere contrari, poi, i principi devono essere almeno più di uno, ma d'altro canto è impossibile anche che siano solamente due, perché per essere irriducibilmente contrari non devono poter in alcun modo derivare gli uni dagli altri. È evidente dunque che entrambi i contrari devono essere ricondotti ad un terzo principio, di cui essi sono predicati. Questo principio è per Aristotele il sostrato (hypokeimenon), ovvero ciò che soggiace al mutamento dei contrari. Da ciò risulta che i principi in tutto sono tre, e non possono essere più di tre in quanto la sostanza (ousia), come genere fondamentale dell'essere, può ammettere una sola coppia di contrari. D'altro canto i principi non possono neppure essere infiniti di numero, visto che secondo il filosofo da un principio infinito può derivare solamente qualcosa di indeterminato e di inconoscibile.

Dopo aver stabilito le condizioni generali che tali principi devono rispettare, Aristotele procede quindi alla trattazione della generazione (genesis), sostenendo che è proprio a partire dall'analisi dei processi generativi che si possono identificare con precisione i principi primi del divenire naturale. In ogni generazione, infatti, è sempre possibile riconoscere a) il soggetto che diviene, b) ciò che esso non è ancora, ed infine c) ciò che esso diviene alla fine del processo. Il risultato della genesis è pertanto definito da Aristotele come l'acquisizione della forma (morphe) da parte del sostrato, a partire da un principio contrario alla forma, che in ultima istanza viene identificato con la privazione (steresis).

Il riconoscimento di tali principi permette al filosofo di operare un'ulteriore critica nei confronti della tesi eleatica, secondo cui la molteplicità del divenire naturale non può esistere perché né può generarsi dall'essere, che già esiste pienamente, né dal non essere, perché da esso non può derivare nulla. Il fulcro della generazione naturale viene infatti identificato da Aristotele con il sostrato, che non deve essere considerato come non-essere assoluto, bensì come non-essere per accidente, ossia un essere che non ha ancora ottenuto la forma ma è in qualche modo disposto ad accoglierla1.

1 A proposito dell'indagine aristotelica sui principi del divenire contenuta nel libro I della Fisica cfr. Berti 1997, pp. 106-109.

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Nel libro II della Fisica, prima ancora di introdurre la teoria delle quattro cause, Aristotele procede a definire gli enti naturali come quelle sostanze2 che mostrano di avere in se stesse il principio del movimento (kinesis) e della quiete (stasis). Tra gli enti naturali il filosofo annovera pertanto gli animali e le piante, le loro parti, ed i quattro elementi. I prodotti della tecnica, al contrario, non rientrano fra le sostanze naturali, dato che in essi il principio del movimento e della quiete è presente solo in maniera accidentale, per via della materia di cui sono composti3. Il principio della produzione di un letto o una casa, ad esempio, è esterno alla loro essenza, e risiede nell'artigiano o nell'architetto che li ha costruiti. Allo stesso modo, un medico che cura se stesso è causa della propria salute solo in maniera accidentale, dato che nell'essenza del medico non è contenuto l'essere sani, bensì l'arte del guarire, per il cui esercizio non è necessario, se non per accidente, che il medico sia in salute.

Dopo aver ribadito nuovamente l'evidenza della molteplicità della physis, Aristotele prende in esame la teoria dei pensatori che riconducono il principio delle sostanze naturali alla materia (hyle) di cui sono composte. In generale si tratta di coloro i quali hanno posto gli elementi4 come principi del divenire, anche se in particolare Aristotele si riferisce ad Antifonte, che per difendere tale tesi sosteneva che la natura di un letto si identifica nel legno di cui è composto per il fatto che seppellendo un letto sotto terra dopo qualche tempo ciò che nasce è semplicemente legno, e non un altro letto. Di conseguenza, i sostenitori di questa teoria affermano che tutti gli enti naturali «si generano e si corrompono un numero infinito di volte» (193a 26) in qualità di meri accidenti della materia, che essi considerano come l'unico ente naturale ad essere dotato di vera e propria esistenza. Riprendendo appunto il senso generale di tali dottrine per integrarlo nel quadro della propria scienza della natura, Aristotele afferma esplicitamente che uno dei possibili sensi del termine physis è quello di «materia che per prima funge da sostrato a ciascuna delle cose che hanno in se stesse il principio del movimento e del mutamento» (193a 29-30).

Tuttavia, osserva Aristotele, non è questo l'unico senso del termine physis, né tantomeno quello principale. La natura, infatti, può anche essere definita come «la configurazione [morphe] e la forma [eidos], non separabile, se non secondo il discorso definitorio» (193a 31,

2 Cfr. 192b 33-34: «E tutte queste cose sono sostanza, giacché sono un certo sostrato e la natura è sempre in un sostrato».

3 Anche le proprietà degli enti naturali esistono secondo natura: «Sono conformi a natura queste cose e tutte quelle che appartengono loro per sé: per esempio al fuoco di portarsi in alto. Questo infatti non è natura, né possiede una natura, ma è per natura [physei] e conforme a natura [kata physin]» (192b 34-193a).

4 Cfr. 193a 21-23: «Perciò, gli uni sostengono che la natura delle cose è il fuoco [Eraclito e Ippaso], altri la terra [Esiodo], altri l'aria [Anassimene e Diogene di Apollonia], altri l'acqua [Talete e Ippone], altri alcuni di questi [probabilmente Parmenide], altri tutti questi [Empedocle]». Sulla corrispondenza fra tali pensatori e i

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trad. Quarantotto). Del resto, la forma «è natura in misura maggiore della materia» (193b 7), dato che una sostanza naturale viene riconosciuta come tale solo quando è in atto e mai quando è in potenza. Peraltro, così come non possiamo affermare di trovarci davanti ad un letto quando di fronte abbiamo soltanto un letto in potenza, ossia i materiali che lo compongono, allo stesso modo non possiamo definire un ente naturale come la carne o l'osso a partire dalla carne in potenza o dall'osso in potenza, dato che essi «non possiedono ancora la propria natura prima d'aver assunto la specie che è conforme alla definizione, con la quale, quando definiamo, enunciamo che cos'è carne o osso» (193b 1-3).

Inoltre, aggiunge Aristotele, dal momento che la physis di un letto è da identificarsi con il legno di cui è composto per il fatto che seppellendo il letto ciò che nasce è legno, è chiaro anche che la natura dell'uomo non può identificarsi con la materia che lo compone, bensì con la sua forma specifica, dato che dall'uomo non si genera alcuna materia indeterminata, bensì «un uomo si genera da un uomo» (193b 9).

Con ciò Aristotele intende chiaramente dimostrare che l'uomo, ed insieme a lui anche gli altri animali e le piante, possiede una determinata physis e rientra a pieno titolo fra le sostanze naturali in virtù della trasmissione della propria forma per il tramite della generazione. Del resto Aristotele ha già osservato che uno dei principali significati del termine physis è quello di genesis, ed è proprio in tal senso che alle righe 193b 13-14 egli ribadisce che la generazione è una «via verso la natura» vera e propria. Gli esseri viventi nascono e si sviluppano tendendo costantemente ad una forma specifica, ed è proprio in virtù di tale forma che dal filosofo vengono considerati a tutti gli effetti sostanze naturali5.

Dopo aver considerato i vari modi in cui si definisce la natura, Aristotele procede dunque all'identificazione dell'oggetto proprio della fisica, individuato a partire da un confronto con l'oggetto proprio della matematica, la quale ultima si occupa di studiare le forme di enti separabili dalla materia e dal movimento per mezzo del pensiero. Le sostanze studiate dalla fisica, al contrario, sono forme inseparabili dalla materia, dal movimento, e dal fine (telos) in vista di cui esse esistono6. Si tratta di una prima introduzione della teoria delle quattro cause (aitiai) del divenire, di cui il filosofo si occuperà nel capitolo successivo. Allo scopo quindi di determinare con precisione l'oggetto della fisica, Aristotele si sofferma in particolar modo sulla causa finale, considerata come il fine in vista di cui esistono tutte le sostanze naturali.

5 Come viene osservato alle righe 193b 14-16, accade diversamente nell'ambito della techne. La guarigione, ad esempio, deriva dalla medicina ma non è una «via verso l'arte del guarire», bensì verso la salute. Difatti gli oggetti della techne non sono enti naturali.

6 Nel libro VI della Metafisica l'episteme fisica viene appunto definita come quella scienza appartenente all'ambito del sapere teoretico che si occupa degli enti che non possono essere considerati in maniera separata dal movimento e dalla materia di cui sono costituiti. Cfr. Metaph. VI 1, 1025b 25-28.

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Inoltre, sono propri della stessa [scienza] il ciò in vista di cui [hou heneka] e il fine [telos], e quanto è in vista di questi. E la natura, infatti, è fine e ciò in vista di cui (194a 27-29).

Delle cose che presentano un movimento continuo vi è infatti un fine, e questo è il termine estremo [eschaton] e ciò in vista di cui. Perciò il poeta si spinse, per ridere, a dire che "ha la fine in vista della quale è nato"7. Infatti

non ogni termine estremo è un fine, bensì l'ottimo [beltiston] (194a 29-33, trad. Quarantotto).

In questo passaggio il telos viene chiaramente definito come il termine ultimo di un processo che consiste in un movimento continuo ed è dotato di un risultato qualificabile come ottimo (beltiston). Appare pertanto evidente che per Aristotele ogni processo che non si realizza in un movimento continuo e non giunge ad un risultato ottimo non può essere in alcun modo considerato come diretto finalisticamente8.

È quindi in Phys. II 3 che Aristotele procede all'esposizione della dottrina delle quattro cause del divenire. Oltre a costituire il fondamento ontologico del reale, le quattro aitiai corrispondono alle quattro differenti modalità di esplicazione di cui il fisico si serve per poter conoscere il perché di ciascuna sostanza naturale. Per Aristotele ogni arte (techne) imita l'operato della natura, e pertanto la techne viene utilizzata dal filosofo come principale modello di spiegazione della propria teoria causale. In una statua di bronzo, ad esempio, è possibile ravvisare la causa materiale, ossia il bronzo stesso, la causa efficiente, cioè lo scultore che impone alla statua la sua particolare forma, ovvero la causa formale, ed infine la causa finale, ossia lo scopo per il quale lo scultore realizza la statua9.

7 Il poeta identifica ironicamente il fine con «la fine» della vita. 8 Cfr. Quarantotto 2005, pp. 43-44.

9 Nel libro I della Metafisica Aristotele prende in esame le teorie dei predecessori alla luce della propria dottrina causale e giunge infine ad affermare che essi non hanno compreso il divenire in maniera adeguata, anche se in qualche modo sono riusciti ad intravedere la causa materiale, quella motrice e quella formale, senza mai cogliere appropriatamente quella finale. Dopo aver analizzato le dottrine dei physiologoi che hanno ricondotto il divenire a un principio materiale ed a un principio motore, Aristotele afferma che alcuni altri pensatori, in particolare Anassagora ed Ermotimo di Clazomene, spinti dall'insufficienza esplicativa di tali principi nonché della casualità, hanno sostenuto che l'intelligenza (nous) è la causa dell'ordine (kosmos) e dell'organizzazione (taxis) della natura e degli animali. Il nous viene inoltre identificato da tali pensatori con la causa del bene e del bello e con il principio del movimento delle sostanze naturali (cfr. Metaph. I 3, 984b 8-22). D'altronde, anche Esiodo e Parmenide hanno individuato un principio in qualche modo simile alla causa finale, ossia l'amore, e lo hanno posto come origine del movimento e dell'unione degli enti (cfr.

Metaph. I 4, 984b 23-31). E così Empedocle, che all'amicizia come principio dell'ordine ha opposto la

discordia, come principio del disordine (cfr. Metaph. I 4, 984b 32-985a 10). Tuttavia, osserva Aristotele, i

physiologoi non sono riusciti a cogliere pienamente la causa finale perché i principi da loro posti, pur

possedendo alcune caratteristiche in comune con la causa finale, rappresentano in ultima istanza un principio del movimento (cfr. Metaph. I 4, 985a 10-14). In seguito Aristotele afferma che anche Platone ha utilizzato esclusivamente due cause, ossia la materia come causa del male e la forma come causa del bene (cfr.

Metaph. I 6, 988a 8-17). D'altro canto Aristotele accusa Platone di aver trasformato la filosofia in una

scienza matematica (cfr. Metaph. I 9, 992a 29-b 1). Tale accusa è dovuta principalmente all'individuazione platonica dei principi in enti immobili che non possono essere ricondotti né alla causa finale né ad un principio del movimento (cfr. Metaph. III 2, 996a 21-32). Inoltre, aggiunge Aristotele, confondendo il telos con la causa motrice tali pensatori hanno sempre sostenuto che il principio è ciò da cui il divenire delle cose

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È possibile individuare fin da ora una delle principali differenze fra l'ambito della physis e quello della techne. Nel caso dell'arte, infatti, la causa efficiente è sempre una causa esterna alla materia, mentre in quello della natura si tratta sempre di una causa interna. Se nel caso della techne è interna, lo è solo accidentalmente, così come il medico che cura se stesso è solo accidentalmente la causa della propria salute. Ad ogni modo, i particolari sviluppi della teoria delle quattro cause conducono Aristotele a modificare radicalmente una delle principali dottrine che Platone porta avanti nel Timeo, quella secondo la quale il Demiurgo produce il mondo allo stesso modo in cui un artigiano produce un manufatto, ossia in seguito ad un processo deliberativo10. Ne consegue un problema relativo all'analogia con la techne, dato dal fatto che Aristotele si propone di spiegare il funzionamento di una physis estranea alla deliberazione proprio tramite l'analogia con qualcosa che sembra poter derivare solo ed esclusivamente da un processo deliberativo, ovvero la produzione artigianale. La soluzione del problema derivante dall'analogia fra physis e techne può forse essere rintracciata in un passo di Phys. II 8, nel quale Aristotele afferma esplicitamente che nemmeno alla techne appartiene la deliberazione.

È assurdo non ritenere che qualcosa si verifica in vista di un fine, se non si vede il motore che ha deliberato. A dire il vero, anche l'arte non delibera (199b26-28, trad. Quarantotto).

Anche se è perfettamente possibile che Aristotele si stia riferendo ad un modello idealizzato di techne, secondo il quale l'artigiano ha sviluppato una tale abilità da non dover più deliberare prima di compiere il lavoro, bisogna comunque riconoscere che questo particolare concetto sembra non essere presente in nessun altro dei luoghi aristotelici, nei quali al contrario il filosofo associa la produzione artigianale alla deliberazione, intesa appunto come scelta dei mezzi migliori per il raggiungimento di un determinato fine. Per spiegare quindi in che modo alla techne può non appartenere la deliberazione, e per spiegare anche come l'analogia con la techne può essere utile alla spiegazione del divenire naturale, risulta necessario prendere in esame alcuni passaggi fondamentali della teoria causale aristotelica, contenuti appunto in Phys. II 3. A proposito della causa efficiente ultima della costruzione di una casa Aristotele afferma:

conclude il filosofo, i physiologoi e Platone hanno senza dubbio intuito la causa finale come principio, ma ne hanno parlato sempre in senso accidentale (kata symbebekos) e mai in senso assoluto (haplos) (cfr. Metaph. I 7, 988b 6-16); critiche simili vengono svolte nei particolari confronti di Empedocle e Anassagora in Metaph. XII 10, 1075a 36-b 10). Su questi temi cfr. Quarantotto 2005, pp. 29-39. Sulle quattro cause nella Fisica, cfr. Zanatta 1999, pp. 47-50. Sulla teroria causale aristotelica in rapporto agli scritti biologici, cfr. Carbone 2002, pp. 5-16.

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Sempre si deve ricercare la causa più elevata di ciascuna cosa, come anche negli altri casi: per esempio l'uomo costruisce una casa perché è costruttore di case, ed è costruttore di case secondo l'arte del costruire case. Questa è dunque la causa anteriore. E così anche negli altri casi (195b21-25).

Se quindi il costruttore è causa della casa, lo è solo grazie alla techne della costruzione, che si rivela infine essere la vera e propria causa efficiente della casa. Più precisamente, l'aitia ultima della casa è la forma della casa, la quale si trova nella mente del costruttore prima ancora che la casa venga costruita. Similmente, nel mondo naturale la forma di un organismo precede la sua generazione, in quanto è già presente in esso prima che si sviluppi completamente.

In questo senso la forma può essere vista anche come causa finale, dato che la sua realizzazione è ciò verso cui tende lo sviluppo di tutti gli enti naturali. Alla luce di tutto ciò si può forse sostenere che quando Aristotele afferma che la techne non delibera non intende dire che il costruttore non delibera, bensì che egli non è la causa ultima della casa, dal momento che la deliberazione appartiene alla techne solo accidentalmente, poiché la vera causa, ossia la forma o essenza della casa, in quanto tale non compie alcuna deliberazione11.

L'analogia fra physis e techne serve quindi ad Aristotele per spiegare l'isomorfismo dei processi causali che avvengono nei due rispettivi ambiti. Sia nel caso della natura che in quello dell'arte, infatti, l'aitia ultima efficiente e quella finale coincidono in qualche modo fra loro e si identificano con la forma, la cui realizzazione consiste appunto nella compiuta determinazione della materia12.

11 Sull'analogia fra physis e techne cfr. Sedley 2007, pp. 173-181. Cfr. inoltre Leunissen 2010, pp. 16-18. 12 Sull'unità di causa motrice, formale e finale cfr. Phys. II 7, 198a 23-26: «Tre di queste spesso si riducono ad

una sola: ché il concetto e il fine sono una sola cosa, e ciò che per primo muove è identico per specie agli altri due: l'uomo infatti, genera l'uomo». È tuttavia necessario precisare che, nonostante coincidano numericamente, dal punto di vista dell'essere e della funzione svolta come principi del divenire le quattro cause sono fra loro irriducibili. Cfr. Quarantotto 2005, p. 32 n. 1 e pp. 38-39. Sulla differenza fra causa motrice come principio temporalmente primo del movimento e causa finale come compimento di questo cfr. inoltre Metaph. I 3, 983a 30-32 e III 2, 986b 22-24. D'altro canto, nel libro I di Parti degli animali Aristotele stabilisce la priorità del fine sul principio del movimento proprio tramite l'analogia fra natura ed arte. La causa finale, infatti, corrisponde alla definizione (logos) degli enti naturali e dei manufatti tecnici, ed in quanto tale costituisce il principio verso cui tendono i movimenti della generazione naturale e della produzione artigianale. Dal punto di vista della techne è infatti chiaro che il logos si identifica con il risultato dei processi artistici, ma dal punto di vista della physis questa stessa corrispondenza di logos e telos è evidente in misura ancora maggiore, dato che il fine ed il bello in natura sono presenti in sommo grado rispetto all'arte. Cfr. De part. an. I 1, 639b 11-21: «Inoltre, poiché vediamo davvero molte cause per quel che concerne la generazione naturale, come quella finale e quella donde è il principio del movimento, si deve definire anche intorno ad esse qual è per natura prima e quale seconda. È evidente che sia prima quella che diciamo fine di qualcosa, giacché la nozione [logos] è questo: la nozione è ugualmente principio sia nei [prodotti] tecnici, sia nelle cose costituite per natura. Infatti, il medico e l'architetto, avendo definito – con l'intendimento e la sensazione – l'uno la salute e l'altro la casa, esplicano le ragioni e le cause di ciascuna cosa che fanno, e [chiariscono] per quale motivo debba essere fatta in questo modo. Il fine e il bello sono più nelle opere della natura che in quelle della tecnica». Poche righe più avanti, Aristotele ribadisce nuovamente la priorità del fine e dell'ousia sul porcesso generativo tramite il riferimento alla forma come causa principale

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Proseguendo con la trattazione della causa finale in Phys. II 3, è necessario prendere in considerazione l'esempio di cui Aristotele si serve per delineare le principali caratteristiche di ogni processo teleologico.

Inoltre [causa si dice] nel senso di fine. Questo è ciò in vista di cui, come la salute del passeggiare. Perché, infatti, passeggia? Per essere in salute – rispondiamo –, e riteniamo, dicendo così, di aver fornito la causa. E anche le cose che, essendo altro ciò che muove, costituiscono termini intermedi prima del fine, come [prima] della salute il dimagrimento o la purificazione o i farmaci o gli strumenti. Tutte queste cose, infatti, sono in vista del fine, ma differiscono tra loro per essere le une operazioni e le altre strumenti (194b 32-195a3, trad. Quarantotto).

L'attività di passeggiare allo scopo di essere in salute corrisponde ad un processo dotato di continuità e diretto verso un fine qualificabile come ottimo, dato che rappresenta in qualche modo un bene per colui che lo persegue. «Per essere in salute» rappresenta inoltre la risposta alla domanda «perché, infatti, passeggia?», ed in quanto tale permette di individuare con precisione l'aitia finale del passeggiare. D'altro canto, anche i mezzi dei quali ci si serve per ottenere la salute costituiscono parte integrante del processo teleologico. È pertanto possibile osservare che l'attività del passeggiare, così come ogni altra attività svolta in vista di un fine, è da considerarsi pienamente compiuta solo quando procede da un motore, si sviluppa attraverso i mezzi necessari per il raggiungimento del fine, ed in ultimo lo raggiunge13.

Eppure, può anche darsi il caso in cui l'ottenimento della salute diviene il risultato di una passeggiata senza tuttavia esserne la causa finale. Si potrebbe ad esempio supporre che un individuo cammini tutti i giorni senza un particolare motivo, e che tramite questa attività egli ottenga la salute senza alcuna deliberata intenzione, ossia in maniera del tutto accidentale. Nel capitolo quarto Aristotele si domanda pertanto se anche il caso (automaton) e la fortuna (tyche) siano propriamente delle cause, o se piuttosto non debbano essere ricondotti alle quattro aitiai precedentemente individuate.

cose conviene dire: in qual modo ciascuna cosa è per natura rispetto al generarsi, come fecero in precedenza quelli che per primi elaborarono la teoria, o piuttosto in qual modo è, giacché questo [modo] non differisce da quello per qualcosa di piccolo. Sembra che si debba cominciare da qui, come abbiamo detto anche prima, cioè che, innanzi tutto, si debbano assumere i fenomeni riguardo a ciascun genere, e che poi, in questo modo, si debbano esporre le cause di queste cose anche riguardo alla generazione. Queste cose accadono in primo luogo nell'ambito dell'architettura, poiché la casa si produce in questo modo dal momento che tale è la forma della casa, o [in quanto] la casa è siffatta. La generazione, infatti, è in vista della sostanza, ma la sostanza non è a cagione della generazione». Sulla priorità del fine sulla generazione nel libro I di Parti degli animali cfr. Quarantotto 2005, pp. 216-221.

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2 Teleologia e caso

Partendo come di consueto con l'analisi delle autorevoli opinioni dei predecessori, Aristotele osserva anzitutto che nessuno di essi ha posto l'automaton come principio, anche se nel linguaggio quotidiano il verificarsi di numerose tipologie di eventi e fenomeni viene spesso attribuito al caso. Più precisamente, ognuno di tali pensatori riconduce gli avvenimenti fortuiti ai propri principi, privando così l'automaton e la tyche di ogni capacità causale.

Tuttavia, afferma il filosofo, il fatto che nessuno degli antichi pensatori abbia individuato il caso come principio non è in alcun modo una prova della sua inesistenza. Del resto, gli eventi che nel linguaggio comune vengono attribuiti all'automaton conservano il proprio carattere di casualità anche nel momento in cui è possibile individuarne l'aitia vera e propria14. Vi sono poi alcuni pensatori che, come Empedocle, vengono criticati da Aristotele in quanto hanno fatto riferimento alla fortuna per descrivere alcuni fenomeni atmosferici ed il processo di formazione delle parti degli animali, senza tuttavia giungere ad affermare l'esistenza del caso o a darne una spiegazione adeguata. Alcuni altri, invece, come Democrito, hanno sostenuto che il cosmo intero si è generato spontaneamente, ed hanno attribuito all'automaton la causa del «vortice» e del «movimento che separa e dispone il tutto in quest'ordine» (196a 27-28). Ad ogni modo, perfino i sostenitori del modello atomistico riconoscono che «gli animali e le piante né sono né si generano dalla fortuna15», bensì che «la natura [physis] o la Mente [nous] o qualcos'altro di siffatto ne è la causa» (196a 29-31). Tuttavia, quando si tratta di spiegare l'origine del cosmo essi affermano senza riserve che si è generato in maniera casuale, il che per Aristotele è assurdo, dato che alla stabilità ed alla regolarità del cielo non può in alcun modo essere attribuita l'accidentalità della fortuna.

Già a partire da questi esempi Aristotele intende in maniera evidente anticipare gli sviluppi della propria argomentazione sul finalismo naturale. Determinando infatti le principali caratteristiche del caso e dimostrando che nei processi naturali esso non ricopre alcun ruolo, egli porta chiaramente avanti quella che nei capitoli successivi del libro II della Fisica sarà una delle principali dimostrazioni del carattere teleologico della natura16.

In Phys. II 5 Aristotele procede quindi alla distinzione tra processi che accadono sempre allo stesso modo, processi che accadono per lo più allo stesso modo e processi che non accadono 14 Cfr. Quarantotto 2005, p. 49: «Che nel linguaggio ordinario la casualità venga attribuita solo ad alcuni fenomeni è un indizio a favore dell'esistenza del caso o almeno a favore dell'idea che non tutti gli eventi abbiano lo stesso tipo di causa. Che poi alcuni eventi siano detti "casuali" anche quando si ammette la possibilità di ricondurli ad una qualche causa, mostra che l'esistenza di una simile causa non implica necessariamente la non causalità dell'evento».

15 Cfr. 196a 31-32: «non ciò che capita viene all'essere da ciascun seme, ma da questo qui un ulivo, da quest'altro un uomo».

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né sempre né per lo più allo stesso modo. Poiché in generale nessuno afferma che il caso è la causa di ciò che accade sempre allo stesso modo e nemmeno di ciò che accade per lo più allo stesso modo, è chiaro che il caso riguarda l'ambito dei processi che non accadono mai allo stesso modo, dal momento che sono esclusivamente questi eventi ad essere definiti casuali. Con ciò Aristotele sancisce in prima istanza l'esistenza del caso.

Ad ogni modo, non tutti i processi che non accadono né sempre né per lo più sono casuali. Allo scopo di identificare con maggiore precisione i processi fortuiti Aristotele opera quindi un ulteriore distinzione fra processi che avvengono in vista di un fine e processi che non mirano ad alcuno scopo, ed afferma poi che le cose che accadono in vista di un fine sono quelle che «potrebbero essere realizzate ad opera del pensiero [dianoia] e quelle che potrebbero essere realizzate ad opera della natura» (196b 21-22, trad. Quarantotto). I processi casuali vengono pertanto definiti da Aristotele come processi che a) potrebbero essere realizzati ad opera del pensiero o della natura, b) non si verificano né sempre né per lo più allo stesso modo, ed infine c) si producono «per accidente [kata symbebekos]» e non derivano da una causa «per sé [kath'auto]» (196b 24-25)17.

Delle cose che si generano, alcune si generano in vista di un fine, ed altre invece no (delle prime alcune sono realizzate secondo deliberazione, altre invece non secondo deliberazione, ma entrambe rientrano nell'ambito di ciò che si verifica in vista di un fine). Di conseguenza, è chiaro che anche tra le cose che sono all'infuori del necessario e del per lo più ve ne sono alcune a cui può appartenere l'essere in vista di un fine. Sono in vista di un fine le cose che potrebbero essere realizzate ad opera del pensiero [dianoia] e quelle che [potrebbero essere realizzate] ad opera della natura. Quando simili cose si verificano per accidente [kata symbebekos], diciamo che sono dovute alla fortuna (come infatti vi è l'essere per sé [kath'auto] e quello per accidente, così anche la causa può essere [per sé o per accidente]: per esempio, causa per sé di una casa è l'architetto, mentre causa accidentale è il bianco o il musico. La causa per sé è determinata, quella accidentale, invece, è indeterminata: ad un'unica cosa cosa possono capitare infatti infiniti [accidenti]). Come si è affermato dunque, quando ciò si verifica nelle cose che si generano in vista di un fine, allora si dice che [l'evento] è dovuto al caso e alla fortuna (in seguito si dovrà definire la differenza che intercorre tra queste [il caso e la fortuna]; per ora, sia chiaro questo, che entrambe rientrano nell'ambito di ciò che si verifica in vista di un fine) (196b 17-33, trad. Quarantotto).

Una delle principali differenze fra i processi finalistici e quelli casuali è dunque data dal fatto che i veri e propri processi teleologici risultano effettivamente causati dalla dianoia o dalla physis, mentre quelli casuali avrebbero potrebbero esserlo ma non lo sono, ed in quanto tali possono essere definiti finalistici solo in senso lato. Si tratta di un evento casuale se ad esempio un uomo si dirige al mercato senza la deliberata intenzione di incontrare qualcuno ed

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una volta arrivato si imbatte in un debitore dal quale riesce a recuperare il denaro18. Tale evento è finalistico solo in senso lato, dato che rientra nell'ambito di quei processi che potrebbero essere causati dalla dianoia ma non lo sono. Se invece lo stesso uomo si reca al mercato con la deliberata intenzione di riscuotere il denaro si tratta di un processo autenticamente finalistico, in quanto di tale evento è propriamente causa la dianoia.

Aristotele procede dunque con l'affermare che l'automaton non è un'aitia per sé, bensì un'aitia indefinita e accidentale. È indefinita perché è indefinito19 (o infinito20) il numero di cause accidentali che possono dare luogo ad un determinato avvenimento casuale, ed è accidentale perché, pur essendo causa, da essa non dipende in maniera certa e inevitabile un determinato risultato21. Alla fine di Phys. II 6 Aristotele dichiara inoltre che «quanto al modo della causa» il caso e la fortuna sono da annoverarsi «fra le cose da cui proviene il principio del movimento», riconducendo in ultima istanza l'automaton e la tyche alla causa motrice. In sintesi, Aristotele riconduce il caso all'interno della propria teoria delle quattro cause, sostenendo che esso è da identificarsi propriamente con un'aitia efficiente, indefinita ed accidentale.

Alla luce di queste distinzioni è possibile quindi affermare che per Aristotele i processi finalistici, a differenza di quelli casuali, sono sempre causati dalla dianoia o dalla physis in quanto cause per sé22. Dopotutto, sostiene il filosofo, il caso «non è causa di nulla» (197a 14, trad. Quarantotto) se non in quanto causa accidentale. Chiaramente, i processi teleologici che riguardano l'ambito umano, e cioè ogni azione (praxis) che deriva da una scelta deliberata 18 Cfr. 196b 33-197a 1.

19 Cfr. 197a 21. 20 Cfr. 197a 17.

21 Cfr. Quarantotto 2005, pp. 58-60. Cfr. inoltre Metaph. V 30, 1025a 14-30: «Si dice accidente ciò che appartiene a qualcosa ed è vero dirlo, tuttavia non di necessità o per lo più: per esempio, se uno scavando una fossa per una pianta trova un tesoro. Ebbene, questo è accidentale per colui che scava la fossa: trovare un tesoro. Ché, non di necessità quella cosa deriva da questa o viene dopo questa, né per lo più uno, se pianta un albero, trova un tesoro. Ancora, un musico può, in realtà, essere bianco, ma poiché questo non si verifica né di necessità né per lo più, diciamo che la cosa è accidentale. Di conseguenza, poiché è possibile che qualcosa appartenga anche a qualcosa, e alcune di queste cose si verificano in un certo luogo e in un certo tempo, ciò che appartenga, ma non perché sia questa data cosa o perché sia ora o qui, sarà un accidente. Pertanto, dell'accidente non si dà neppure alcuna causa determinata, ma una causa fortuita, e questa è indeterminata. A uno capita di giungere a Egina se non è partito per questo, ossia per andare colà, ma [vi è giunto] perché è stato spinto da una tempesta o perché è stato catturato dai predoni. Ebbene, l'accidente si è verificato ed esiste, ma non in quanto quella data cosa, bensì in quanto un'altra. Infatti, la tempesta è causa del fatto che si giunge la dove non si navigava». Cfr. anche Metaph. VI 2, in cui Aristotele sostiene che dell'accidente non vi è alcuna scienza.

22 Cfr. Quarantotto 2005, pp. 68-69: «Pur avendo una notevole somiglianza strutturale, cioè pur essendo entrambi costituiti da un motore, un mezzo e un risultato positivo, il caso e la teleologia non sono identici. Il motore di un processo teleologico è infatti una causa per sé (la dianoia o la physis), mentre quello di un processo casuale è una causa accidentale. Ciò suggerisce che è la presenza di una causa per sé a far sì che tra mezzo e risultato intercorra una relazione finalistica, e che il risultato sia quindi la causa finale del mezzo. Se invece il motore non è una causa per sé, ma una causa accidentale, allora tra mezzo e risultato non intercorre

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(prohairesis)23, sono quelli in cui la dianoia è una causa per sé, mentre i processi teleologici naturali sono propriamente quelli in cui il ruolo di causa per sé è svolto dalla physis.

Più precisamente, per Aristotele l'esempio dell'uomo che si reca al mercato e riscuote il debito dovuto riguarda un evento fortunato e non semplicemente casuale. Difatti la tyche viene esplicitamente definita dal filosofo come una particolare specie dell'automaton che si manifesta nell'ambito degli eventi che riguardano esclusivamente l'uomo24. Peraltro, perché si possa dire che ad un individuo è capitato qualcosa di fortunato è necessario anche che quel determinato evento realizzi uno scopo che in altre circostanze egli avrebbe potuto scegliere di perseguire deliberatamente25.

Dall'altro lato, invece, perché un processo naturale possa essere definito casuale è necessario che realizzi in maniera fortuita uno di quegli scopi che in altre circostanze potrebbero essere causati dalla physis. Per chiarire dunque in che modo la casualità possa essere attribuita ad un evento naturale Aristotele ricorre all'esempio di un cavallo che si sposta accidentalmente dal luogo in cui si trova e, così facendo, riesce ad evitare un pericolo imminente26. L'incolumità del cavallo rientra certamente tra i fini del cavallo in quanto ente naturale, ma non è causata in nessun modo dalla physis, bensì da una particolare combinazione di circostanze fortuite. Allo stesso modo, anche un tripode che cade e fortuitamente si dispone in modo tale che ci si possa sedere sopra27 cade certamente ad opera della physis, e cioè in virtù delle proprietà degli elementi materiali che lo compongono, ma si dispone in quella particolare maniera solo per un insieme di condizioni fortuite, e non perché tale disposizione è uno dei fini in qualche modo perseguiti dalla natura del tripode. Un ulteriore esempio fornito da Aristotele è quello di una pietra che cade e colpisce un uomo fortuitamente. Anche se la pietra cade in virtù delle proprietà degli elementi di cui è composta, non cade certamente perché colpire l'uomo è uno scopo contenuto nella sua physis, e perciò anche in questo caso tratta di un avvenimento fortuito.

In realtà tali eventi possono essere considerati casuali solo ed esclusivamente per il fatto che non hanno una causa motrice accidentale esterna, e non perché non hanno una causa motrice accidentale interna, in quanto per Aristotele una causa motrice interna è sempre una causa kath'auto e dà sempre luogo ad eventi finalistici, o al limite contro natura, ma mai

23 Cfr. 197b 5-8: «Di conseguenza, a tutto ciò cui non è possibile compiere azioni, neppure [compete] il fare alcunché che provenga dalla fortuna. E per questo né una cosa inanimata, né un animale, né un bambino entrano nella sfera della fortuna, giacché non possiedono scelta deliberata».

24 Cfr. 197a 37-197b 14.

25 Cfr. 197a5-6: «È chiaro, pertanto, che la sorte è causa per accidente, tra le cose conformi a scelta deliberata, di ciò che è in vista di qualcosa».

26 Cfr. 197b 15-16. 27 Cfr. 197b 17-18.

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propriamente casuali. Una causa motrice interna, in quanto physis, non può mai essere accidentale, dato che la physis è causa di ciò che avviene sempre o per lo più nel mondo naturale, mentre per poter essere accidentale dovrebbe causare ciò che non avviene né sempre né per lo più.

Per essere chiari, il cavallo dell'esempio aristotelico può essersi salvato dal pericolo in due modi: a) in maniera casuale, ossia per una causa motrice accidentale esterna, ad esempio perché si è spostato per cercare del cibo, oppure b) finalisticamente, in questo caso per una causa motrice kath'auto esterna28, ad esempio perché intendeva fuggire dal pericolo o perché qualcuno lo ha intenzionalmente condotto altrove per metterlo al sicuro dal pericolo. In ogni caso, il cavallo non può essersi salvato per una causa motrice interna, dato che ogni causa di questo tipo è per definizione una physis, e per Aristotele la physis non è mai causa di ciò che non si verifica né sempre né per lo più. Di conseguenza, la natura formale del cavallo non può in alcun modo rappresentare la causa della combinazione di eventi fortuiti che lo hanno portato a mettersi in salvo, anche se certamente la sopravvivenza rientra a pieno titolo fra gli scopi perseguiti dalla physis dell'animale.

Allo stesso modo, il tripode può essersi posizionato in modo tale che ci si possa sedere sopra per due ordini di motivi: a) in maniera casuale, ossia per una causa motrice accidentale esterna, ad esempio perché qualcuno lo ha fatto cadere fortuitamente in quella posizione, oppure b) finalisticamente, sempre per una causa motrice kath'auto esterna, ad esempio perché qualcuno lo ha deliberatamente posizionato in modo tale che ci si potesse sedere. Il tripode non può tuttavia essersi posizionato in quel modo per una causa motrice interna, sia perché il raggiungimento di quella posizione non è certamente contenuto nella physis degli elementi che lo compongono, sia perché non accade sempre o per lo più, ovvero secondo natura, che quando un tripode cade si posiziona in modo tale che ci si possa sedere sopra. Lo stesso discorso vale per la pietra che cade e colpisce un uomo. La pietra può colpire l'uomo solo per una causa motrice esterna, sia essa accidentale o per sé. Ma non è possibile che sia mossa verso quel fine da una causa interna, dato che nella physis degli elementi che la compongono non è certamente contenuto il fine di colpire l'uomo, né tantomeno ciò si verifica sempre o per lo più.

Pertanto la natura non è mai causa di ciò che è fortuito: da un uomo infatti si genera sempre un uomo, e mai qualcos'altro. Ciò che si genera accidentalmente per una causa motrice interna viene piuttosto definito da Aristotele come fenomeno contro natura, ossia come errore 28 È forse opportuno ripetere che per Aristotele la causa kath'auto esterna non è certamente l'unica modalità in cui si esplica un processo finalistico. Difatti la natura, che agisce sempre in vista di un fine e sempre o per lo

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accidentale nel processo teleologico naturale. Solo in questo senso la natura, intesa come causa motrice kath'auto interna, può causare accidentalmente qualcosa, vale a dire per errore. In nessuna circostanza la physis di una sostanza naturale può identificarsi con una causa motrice accidentale interna29.

Dopo aver definito l'automaton e la tyche in questi termini, Aristotele conclude il sesto capitolo con una critica rivolta a quei pensatori che hanno posto il caso come principio del cielo e del mondo del divenire.

Il caso è una causa accidentale, ribadisce il filosofo, mentre la natura e l'intelligenza (nous) sono una causa per sé. Di conseguenza, il caso è necessariamente una causa posteriore e subordinata alla natura, visto che ciò che è per sé è in maniera evidente anteriore e superiore a ciò che è accidentale.

Poiché il caso e la fortuna sono cause di quelle cose delle quali l'intelligenza o la natura potrebbero essere cause, quando è per accidente che qualcosa diviene causa di quelle stesse cose, [e poiché] nulla di ciò che è accidentale è anteriore a ciò che è per sé, è evidente che neppure la causa per accidente è anteriore a quella per sé. Il caso e la fortuna sono quindi posteriori all'intelligenza e alla natura. Di conseguenza, se anche il caso è causa, quanto più è possibile, del cielo, è necessario che l'intelligenza e la natura siano per prime cause di molte altre cose e di questo tutto (198a 5-13, trad. Quarantotto).

Tale critica viene approfondita ed ampliata in Phys. II 8, in cui Aristotele intende esplicitamente fornire una vera e propria dimostrazione del finalismo naturale.

Bisogna innanzitutto dire perché la natura fa parte delle cause finali, e in seguito, riguardo al necessario, in che modo è presente negli enti naturali. A questa causa, infatti, ricorrono tutti, [affermando] che, poiché il caldo è per natura tale, e il freddo e ciascuno di questi [elementi], di necessità sono e si generano queste cose. Infatti, se anche menzionano un'altra causa, l'uno l'amicizia e la discordia, l'altro l'intelligenza, dopo averne accennato, la tralasciano. Vi è tuttavia un problema: che cosa impedisce che la natura non operi in vista di qualcosa né per il meglio, ma come Zeus che fa piovere non in vista della crescita del raccolto, bensì di necessità (ciò che è spinto verso l'alto deve raffreddarsi e, divenuto acqua in seguito al raffreddamento, cadere; avvenuto ciò, la crescita del raccolto accade), e allo stesso modo, se il raccolto nell'aia si distrugge, la pioggia non cade in vista di ciò, ma questo è accaduto – di conseguenza, che cosa impedisce che, nella natura, così stiano le cose anche per le parti, per esempio che i denti spuntino di necessità, aguzzi e adatti a tagliare – quelli anteriori – , piatti e utili per sbriciolare il cibo – i molari –, non perché si sono formati in vista di questo fine, ma ciò è accaduto? E ugualmente per tutte le altre parti nelle quali sembra presente l'essere in vista di qualcosa. Laddove, dunque, tutte le cose sono capitate come se avvenissero in vista di un fine, queste si sono conservate, essendo state costituite dal caso in maniera opportuna. Quelle che invece non sono così, si sono distrutte e si distruggono, come Empedocle dice a proposito dei buoi dal volto umano (198b 10-32, trad. Quarantotto).

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In prima istanza, dunque, Aristotele prende in esame la possibilità che la natura sia governata dal caso e dalla necessità (ananke), e che quindi non tenda ad alcun fine. Il caso e la necessità rappresentano due singoli aspetti dello stesso processo causale, cioè la realizzazione delle possibilità contenute nella materia di cui son composti gli enti naturali, che da un lato avviene in maniera necessaria perché rispetta meccanicamente il principio di causa ed effetto, ma dall'altro è anche casuale perché sembra non essere diretta ad alcun fine preciso. L'utilizzo prioritario di cause materiali ha portato quindi, secondo Aristotele, i pensatori che lo hanno preceduto a tralasciare le altre tipologie di cause a cui essi stessi avevano in qualche modo fatto riferimento, ad esempio «l'amicizia e la discordia» (Empedocle), oppure «l'intelligenza» (Anassagora) (198b 16). Per Aristotele la teleologia e il caso rappresentano due poli di un'alternativa che riguarda l'unica possibile modalità di svolgimento dei processi naturali. Se la natura opera teleologicamente, allora non può allo stesso tempo agire in modo casuale, ossia senza alcun fine, mentre se opera in modo casuale, allora non può tendere ad alcun fine. Chiaramente, l'alternativa non riguarda in alcun modo teleologia e necessità, dal momento che per Aristotele la causa materiale è ontologicamente parte integrante del divenire naturale. L'alternativa fra teleologia e caso viene piuttosto sviluppata in opposizione a quei pensatori che nelle loro teorie hanno tentato di spiegare la physis ricorrendo esclusivamente alla potenzialità dei principi materiali che compongono il mondo, privando quindi la natura di uno scopo e facendola procedere in maniera del tutto casuale30.

Non si può certamente affermare che un fenomeno naturale come la pioggia si verifica in vista di qualcosa, ad esempio della crescita del grano, se la necessità materiale viene posta come unica causa del divenire, ma al contrario bisogna sostenere che essa cade solo in virtù delle proprietà materiali dell'acqua, che una volta portatasi in alto ed aver subito un raffreddamento precipita di necessità verso il proprio luogo naturale. Secondo questo argomento, dunque, la crescita del grano deriva dalla pioggia soltanto in maniera accidentale, allo stesso modo in cui la distruzione di un raccolto deriva fortuitamente da un temporale31. D'altra parte, se la materia viene posta come unica causa degli enti naturali non è possibile nemmeno sostenere che le parti degli animali esistono in vista di un fine, ma piuttosto che esse si generano in maniera completamente casuale. Si tratta della teoria di Empedocle, ma la critica che Aristotele rivolge a questi argomenti sembra potersi chiaramente estendere anche alle dottrine di tutti quei physiologoi che hanno ricondotto la natura alla necessità materiale. Empedocle sostiene dunque che le diverse parti degli animali si sono generate esclusivamente 30 Cfr. Quarantotto 2005, pp. 81-84.

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a partire dalle proprietà degli elementi materiali che le compongono, e che pertanto la funzionalità di tali parti e la correlata sopravvivenza dell'animale sono il risultato particolare di una combinazione di circostanze fortuite.

Non è infatti in vista di un fine, ma solo a causa delle potenzialità degli elementi di cui sono composti che i denti si generano con una struttura tale per cui possono svolgere adeguatamente la funzione della masticazione, e cioè aguzzi per lacerare e piatti per triturare. Ad Empedocle viene dunque attribuita l'idea che la generazione delle parti degli animali sia frutto del caso, ma il processo generativo non viene considerato casuale semplicemente per il fatto che le parti degli animali derivano dalla necessità materiale, bensì perché secondo Empedocle esse derivano solo ed esclusivamente dalle proprietà della materia, e pertanto non è possibile che siano dirette ad alcun fine32. Perfino l'adattamento e la sopravvivenza di intere specie animali per Empedocle sono dovuti all'automaton. Dalla combinazione di molteplici circostanze fortuite possono infatti generarsi specie animali funzionali e capaci di proliferare così come specie prive della possibilità di adattamento ed incapaci di sopravvivenza, ad esempio i «buoi dal volto umano» (198b 32)33. Le specie prive di funzionalità sono conseguentemente destinate all'estinzione, dal momento che sono paradossalmente incapaci di raggiungere un fine, la sopravvivenza, al quale tuttavia non tendono fin da principio, visto che si sono generate per caso34.

Dopo aver così delineato le posizioni degli avversari, Aristotele procede alla confutazione: Questo è dunque l'argomento tramite il quale si potrebbe sollevare il

problema, o qualunque altro affine ad esso. Ma è impossibile che le cose stiano in questo modo. Le cose menzionate e tutte quelle che sono per natura, infatti, si generano sempre o per lo più così, mentre nulla di ciò che è dovuto alla fortuna e al caso [si genera sempre o per lo più così]. Non si ritiene, infatti, che sia per caso o per fortuna il fatto che in inverno piova spesso, ma se [ciò si verifica] in agosto. Né che ci sia caldo in agosto, bensì in inverno. Dunque, se si ritiene che [un fenomeno si verifichi] o per una coincidenza o in vista di qualcosa, e se queste cose non possono essere dovute né ad una coincidenza né al caso, allora saranno in vista di qualcosa. Ma tutte le cose di questo tipo sono naturali, come direbbero anche coloro che avanzano questi argomenti. L'essere in vista di qualcosa esiste quindi nell'ambito di ciò che è e si genera per natura (198b 32-199a 8, trad. Quarantotto).

È chiaro quindi che i processi naturali sono per definizione quelli che avvengono sempre o per lo più, mentre quelli che si verificano in maniera casuale non presentano alcuna regolarità. Di conseguenza, è possibile affermare che i fenomeni naturali non sono casuali 32 Come è stato già osservato, l'alternativa fra teleologia e caso non corrisponde ad un'alternativa fra teleologia e necessità, e pertanto non esclude la compatibilità di causa finale e causa materiale. Cfr. Quarantotto 2005, p. 85 n. 13.

33 Cfr. D-K 31 B 61.

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proprio in virtù di tale regolarità. Ma se non sono frutto del caso è appunto evidente che esistono in vista di qualcosa, dato che in base all'alternativa fra teleologia e caso è necessario che ogni processo sia orientato ad un fine oppure che sia privo di qualsiasi finalità. Tutto ciò che è naturale, di conseguenza, è sempre orientato ad un fine.

Per Aristotele, dunque, i fenomeni atmosferici come la pioggia invernale ed il calore estivo sono teleologici proprio perché si verificano sempre o per lo più, ed essendo regolari non è possibile che siano casuali, cioè che siano privi di un telos. Dal momento che esistono in vista di qualcosa, è inoltre possibile affermare che i fenomeni atmosferici regolari sono in qualche modo dotati di una propria natura. Allo stesso modo, la regolarità presente nel processo di generazione e nello svolgimento delle funzioni delle parti degli animali costituisce per Aristotele la prova del fatto che anche gli animali sono sostanze naturali, cioè enti dotati di una propria natura ed orientati ad un fine35.

Non è tuttavia possibile sostenere che i fenomeni naturali che non manifestano alcuna regolarità, come la pioggia estiva o il calore invernale, sono totalmente privi di finalità e derivano interamente dal caso36. Essi derivano piuttosto da un'anomalia nel processo finalistico naturale, o al limite si verificano contro natura, ma non avvengono mai maniera del tutto casuale. Non è infatti possibile sostenere che la pioggia possiede una propria physis, e quindi anche un telos, solo quando cade regolarmente, ossia d'inverno. Al contrario, la pioggia in quanto tale è sempre dotata di una propria natura, ma d'estate cade in maniera accidentale perché è accidentale la combinazione di circostanze che dà luogo allo spostamento dell'acqua verso il basso. Più precisamente, ciò che durante l'estate avviene in maniera accidentale è l'evento che dà luogo alla caduta dell'acqua verso il basso, ossia il processo di raffreddamento, che d'inverno si verifica invece con regolarità. In quanto tale, la pioggia conserva sempre la propria physis, e quindi la propria finalità, se non altro quella contenuta negli elementi materiali che la compongono, ovvero la capacità dell'acqua di spostarsi verso il basso, che del resto per Aristotele è il suo luogo naturale37.

Allo stesso modo, gli esiti della generazione animale che si verificano senza regolarità non sono da attribuire propriamente al caso, ma appunto ad un'anomalia nello svolgersi del processo teleologico. Certamente tali esiti difformi (terata) si sono formati per accidente, ma non devono essere intesi come privi di natura e di scopo, bensì come contro natura ed incapaci di raggiungere lo scopo. D'altronde per Aristotele l'ambito della physis è soggetto ad 35 Cfr. Quarantotto 2005, pp. 89-94.

36 Cfr. 197a 12-14: «In effetti, è possibile che si dia venuta all'essere fortuitamente, giacché si dà venuta all'essere per accidente e la fortuna è causa come accidente, ma in senso assoluto non lo è di niente».

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