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Carico lesionale e outcome riabilitativo nella Sclerosi Multipla: studio di correlazione

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Direttore Prof. Gaetano Pierpaolo Privitera

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Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Carico lesionale e outcome riabilitativo nella Sclerosi Multipla:

studio di correlazione

RELATORE

Chiar.mo Prof. Carmelo Chisari __________________________________

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Ricciardi __________________________________ CANDIDATO Gabriele Carrieri ___________________________

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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Indice

Indice ... 2 Sommario ... 4 Capitolo I ... 5 La sclerosi multipla ... 5

1.1 Eziopatogenesi e storia naturale della malattia ... 5

1.2 Diagnosi e decorso clinico ... 9

1.3 Terapia farmacologica ... 14

1.4 Trattamento riabilitativo ... 16

Capitolo II ... 20

Indagini strumentali nella Sclerosi Multipla ... 20

2.1 La Risonanza Magnetica (RM) ... 20

2.2 Valore prognostico della RM ... 23

2.3 Scoring systems ... 27

Capitolo III ... 29

Obiettivo dello studio ... 29

Capitolo IV ... 31

Materiali e metodi ... 31

4.1 Selezione del campione ... 31

4.2 Valutazioni funzionali del cammino ... 34

4.2.1 Timed Up & Go (TUG) ... 34

4.2.2 6 Minutes Walking Test (6MWT) ... 35

4.2.3 Pysiological Cost Index (PCI) ... 36

4.2.4 10 meter Walk Test (10mWT) ... 36

4.2.5 Dynamic Gait Index (DGI) ... 37

4.3 Valutazioni strumentali con la Risonanza Magnetica (RM) ... 38

4.3.1 Metodica di acquisizione ... 38

4.3.2 Elaborazione ed analisi del segnale ... 38

4.3.3 Parcellizzazione del Corpo Calloso ... 40

4.4 Protocollo di trattamento: circuito riabilitativo task-oriented ... 42

Capitolo V ... 46 Risultati ... 46 5.1 Analisi statistiche ... 46 5.2 Risultati ... 46 Capitolo VI ... 51 Discussione ... 51

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Capitolo VII ... 55 Conclusioni ... 55 Bibliografia ... 56

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Sommario

Ad oggi diversi approcci riabilitativi si sono dimostrati efficaci nel migliorare le abilità motorie ed il grado di indipendenza nelle attività della vita quotidiana di pazienti affetti da Sclerosi Multipla (SM). Tuttavia è di estremo interesse individuare i fattori prognostici che indirizzino l’iter riabilitativo verso trattamenti ad personam. Le tecniche di neuroimaging, specifiche nel valutare la microstruttura della sostanza bianca, associate a valutazioni cliniche e funzionali, possono rappresentare validi strumenti in grado di predire l’entità del recupero funzionale in seguito al training riabilitativo specifico.

Il presente lavoro ha lo scopo quindi di valutare il ruolo predittivo del carico lesionale cerebrale, valutato con tecniche di neuroimaging, sull’efficacia di un trattamento riabilitativo task-specifico.

Sono stati reclutati 15 pazienti affetti da SM, con grado di disabilità motoria lieve-moderato. I soggetti hanno eseguito un training riabilitativo di tipo intensivo della durata di due settimane, con 5 giorni consecutivi di circuito e due giorni di riposo. I partecipanti sono stati valutati prima del trattamento riabilitativo (T0) ed al termine (T1), tramite valutazioni clinico-funzionali (TUG, 6MWT, PCI, 10mWT, DGI) affiancate all’esecuzione di una Risonanza Magnetica basale (RM), per la quantificazione del danno strutturale parenchimale.

I risultati mostrano che la percentuale di Volume Lesionale e lo spessore della superficie anteriore del Corpo Calloso incidono sull’entità del recupero funzionale. In particolare, i soggetti con maggior Volume Lesionale avranno un minor recupero motorio, mentre i pazienti con una maggior superficie anteriore del Corpo Calloso presenteranno un miglior outcome funzionale.

Inoltre, i soggetti anziani si sono dimostrati essere migliori responder al training. In conclusione, la misurazione di due parametri quantitativi, quali la percentuale del Volume Lesionale e lo spessore della superficie anteriore del Corpo Calloso, risulta un indice predittivo di outcome funzionale ad un trattamento riabilitativo di tipo task-oriented. Questo tipo di approccio permette l’individuazione di pazienti in grado di beneficiare maggiormente da questo tipo di training e di elaborare quindi interventi ad personam (customizzazione del training) basandosi sulle caratteristiche del singolo paziente.

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Capitolo I

La sclerosi multipla

La Sclerosi Multipla (SM) è una patologia della mielina, che appartiene pertanto al gruppo delle malattie demielinizzanti, ovvero un gruppo di patologie in cui si verifica un danno sulla mielina con relativo risparmio dell’integrità assonale. La sintomatologia clinica è quindi un epifenomeno della perdita della mielina, con conseguente alterazione della trasmissione degli impulsi elettrici lungo la fibra nervosa. Si parla di “sclerosi” per la presenza di molteplici placche sclerotiche caratterizzate da una consistenza solida rispetto alla sostanza bianca circostante. La dizione “multipla” invece deriva dalla variabilità delle manifestazioni cliniche riscontrabili, questa a sua volta causata dall’eterogeneità dei siti colpiti dalla degenerazione mielinica. (Robbins & Cotran, 2010)

1.1 Eziopatogenesi e storia naturale della malattia

La Sclerosi Multipla è la malattia demielinizzante del Sistema Nervoso Centrale più comune tra i giovani adulti, essendo diagnosticata in individui di età media compresa tra i 20 e i 40 anni. La malattia colpisce circa 2,5 milioni di persone in tutto il mondo con all’incirca 300 nuove diagnosi alla settimana. La patologia presenta inoltre una prevalenza nel sesso femminile, con incidenza all’incirca raddoppiata rispetto al sesso maschile. (Clemente et al., 2017)

Figura 1.1: The geography of multiple sclerosis: prevalence per 100,000 (From Atlas multiple sclerosis resources in the world 2008, p. 15. © population. 2008,

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La malattia presenta una distribuzione eterogenea nel mondo (Figura 1.1): nelle regioni tropicali o in Asia la prevalenza è di 5 casi su 100.000 abitanti; nelle regioni a clima temperato soprattutto in Nuova Zelanda, Stati Uniti e Canada, cioè in quelle regioni in cui la popolazione è prevalentemente di origine Nord Europea, la prevalenza sale a 200 casi su 100.000 abitanti. Tutto ciò denota che la frequenza della patologia aumenta con l’aumentare della latitudine, sebbene ci siano delle eccezioni a questa regola: regioni come la Sardegna, caratterizzate da clima temperato caldo, hanno incidenze alte di SM, mentre alcune regioni del Canada, contraddistinte da un clima freddo, presentano incidenze basse di malattia. Probabilmente questa distribuzione irregolare è da ricondursi all’importanza non solo dell’influenza dell’ambiente ma anche della predisposizione genetica. Inoltre dal 1915 al 2000 si è assistito ad un amento delle diagnosi, che probabilmente è da mettere in relazione ad una miglior applicazione dei criteri diagnostici e delle indagini strumentali. (Milo R., Kahana E., 2010)

La mielina è prodotta dagli oligodendrociti, cellule di nevroglia presenti sia nella sostanza grigia che nella sostanza bianca del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Sono gli oligodendrociti interfascicolari, cioè quelli situati tra i fasci di assoni, i responsabili della formazione della guaina mielinica attorno agli assoni, nonché del suo mantenimento. Il singolo oligodendrocita ha la capacità, nel processo di formazione della mielina, di avvolgere più assoni. Il processo tramite il quale l’oligodendrocita si avvolge attorno all’assone e lo ricopre con la sua membrana è detto processo di mielinizzazione, che inizia dal momento in cui la cellula ingloba l’assone emettendo due estroflessioni citoplasmatiche. Il mesassone è costituito dalla congiunzione delle membrane di questi due processi, di fatto è l’unione delle due membrane. Successivamente il mesassone si avvolge attorno all’assone numerose volte, potendo compiere fino a 100-150 giri. In tutto questo processo i foglietti citoplasmatici delle due membrane vengono in contatto tra loro, mentre il citoplasma rimane all’esterno. La porzione di assone che rimane interposta tra due parti mielinizzate prende il nome di nodo di Ranvier. (Leslie P. Gartner & James L. Hiatt, 2010)

La funzione della mielina è quella di velocizzare la propagazione dei segnali elettrici trasmessi attraverso l’assone del neurone: questo è possibile in quanto la mielinizzazione determina la riduzione della capacità di membrana e l’aumento della resistenza complessiva di membrana. Infatti la capacità e la resistenza totali sono aumentate dal momento che sono le risultanti delle capacità e delle resistenze di ogni avvolgimento di mielina attorno all’assone. In definitiva si può dire che un assone mielinizzato ha una capacità ridotta, quindi sono necessarie poche cariche elettriche per caricare la membrana, ed un’aumentata resistenza alla fuga di cariche attraverso la membrana, quindi si perdono poche cariche nella regione internodale. Questo

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meccanismo permette di veicolare le correnti depolarizzanti da un nodo di Ranvier al successivo. Proprio per questa funzione della mielina, la sua importanza appare chiara osservando pazienti affetti da Sclerosi Multipla, in cui si riduce la velocità di conduzione nella fibra nervosa per la perdita della guaina. Inoltre, a causa della perdita della mielina si verifica una up-regulation dei canali del sodio voltaggio dipendenti: nella fibra sana sono espressi solo a livello del nodo di Ranvier, mentre in quella demielinizzata si trovano lungo tutta la fibra. (Conti et al., 2010)

Figura 1.2: L’oligodendrocita è la cellula produttrice della mielina, sostanza che avvolge l’assone (immagine di Enrico Granieri)

La Sclerosi Multipla è una malattia infiammatoria cronica autoimmune, in cui la mielina prodotta dagli oligodendrociti rappresenta il bersaglio della risposta immunitaria. In questo processo autoimmunitario i linfociti T si attivano contro la proteina base della mielina (MBP), anche se sembra che altre proteine possano attivare il meccanismo autoimmune. Inoltre, alcune evidenze dimostrano che anche la componente umorale dell’immunità può essere coinvolta. Nei roditori e nei primati si è visto che la riposta B cellulare viene attivata dalla glicoproteina mielinica degli oligodendrociti (MOG), espressa sulla superficie esterna della mielina. Sono soprattutto i bambini con meno di 10 anni ad avere la risposta maggiore nei confronti di questo antigene. Una recente acquisizione è che i peptidi autoreattivi possono essere espressi sulle molecole MHC dal Sistema Nervoso Centrale ed essere riconosciuti dai linfociti T helper 1. L’aumento della reattività immunologica contro questi peptidi si manifesta soprattutto in quei pazienti in cui la patologia risulta più attiva sul piano infiammatorio, che comporta il verificarsi di un attacco acuto oppure il riscontro di una lesione captante il contrasto. (Weissert R., 2017)

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Alla base del danno nella SM troviamo infiltrati di cellule infiammatorie nella sostanza bianca e grigia del SNC. L’intervento delle cellule T helper (Th) CD4+ e della risposta immunitaria adattativa, che permette l’interazione tra antigen presenting cells (APC) e linfociti T, rappresenta una tappa importante nell’inizio e nella progressione della malattia. I linfociti Th1 attivati producono citochine come interferon gamma (IFNγ) e tumor necrosis factor alfa (TNF-α), importanti sia nella risposta immunitaria innata che adattativa. Queste molecole hanno un’azione pro-infiammatoria esplicata dalla loro capacità di inibire la differenziazione delle cellule Th2. Altre citochine sono prodotte da un altro tipo di cellule CD4+ cioè i linfociti Th17, molecole con azione promuovente l’infiammazione: IL-17, IL-21, IL-22 e IL-26. Altri fattori patogenetici della Sclerosi Multipla sono i linfociti B che producono due fattori promuoventi l’infiammazione, cioè il transforming growth factor beta (TGF-β) e il TNF-α. All’interno delle lesioni infiammatorie tipiche della patologia si trovano anche i linfociti T CD8+, dette anche cellule citotossiche: le molecole liberate da queste cellule aumentano la permeabilità vascolare e la distruzione delle cellule gliali. Infine il fas ligando (FasL) prodotto dai linfociti si unisce al suo recettore sugli oligodendrociti dando il via al processo di apoptosi, portando così ad una progressiva perdita delle cellule producenti mielina. (Ghasemi, 2017)

La Sclerosi Multipla, come tutte le patologie autoimmuni, ha basi eziologiche da ricercarsi sia nella componente genetica che ambientale. (Robbins & Cotran, 2010) L’importanza della componente genetica è sottolineata dall’elevato grado di correlazione esistente tra consanguinei, infatti nei gemelli omozigoti la correlazione è del 25% mentre tra gli eterozigoti risulta del 2-5%. È noto che sul cromosoma 6, a livello della regione human leukocyte antigen (HLA), è presente un gruppo di geni associato alla malattia, tra cui il più importante è rappresentato da HLA-DR2. (Ghasemi, 2017) Recenti studi di sequenziamento del genoma umano hanno identificato ulteriori associazioni con i polimorfismi a singolo nucleotide nei geni per il recettore dell’IL2 e dell’IL7. I polimorfismi recettoriali sarebbero implicati nella regolazione dell’equilibrio tra linfociti T ad azione patogena e quelli ad effetto protettivo. (Robbins & Contran, 2010) Per quanto riguarda la componente ambientale esistono molti fattori eziologici identificati, ne troviamo ad esempio di natura microbiologica, come il virus di Epstein Barr, l’herpes virus 6 ed il Mycoplasma Pneumonie. Questi agenti molto probabilmente hanno un antigene nucleare omologo ad una componente strutturale della mielina, quindi con un meccanismo di mimetismo antigenico attivano la risposta immunitaria portando alla formazione del danno mielinico. Il fumo di sigaretta è un altro fattore implicato nell’eziologia della SM, determinando la produzione di ossido nitrico (NO) e monossido di carbonio (CO):

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• L’ossido nitrico in concentrazioni patologiche può causare perdita di neuroni ed oligodendrociti inducendo la perossidazione lipidica e danno mitocondriale, quindi infine apoptosi cui segue demielinizzazione

• L’esposizione al monossido di carbonio determina la degradazione della proteina basica della mielina e danno assonale per un blocco dell’ossigenazione tissutale: a questo segue una risposta infiammatoria con attivazione della microglia ed invasione dei linfociti CD4+ nel SNC, cui segue la demielinizzazione.

I deficit di vitamine D3 e B12 sono altri fattori di rischio per la SM: la vitamina D3 ha un ruolo regolatore sul sistema immunitario, il che giustifica l’importanza di un suo deficit nell’eziologia della malattia; inoltre una ridotta esposizione solare è stata correlata con un aumentato rischio di SM ed è ben noto che il numero di ore di esposizione al sole è direttamente correlato coi livelli di vitamina D. La vitamina B12 invece è una molecola importante nella produzione del rivestimento mielinico. Infine la dieta può essere considerata un fattore di rischio, dal momento che bassa assunzione di pesce, elevata assunzione di grassi di origine animali e l’obesità nelle ragazze adolescenti sono correlati con un alto rischio di malattia. (Ghasemi, 2017)

1.2 Diagnosi e decorso clinico

La diagnosi precoce di Sclerosi Multipla è molto importante perché permette di instaurare un trattamento tempestivo e di formulare una corretta prognosi. Per raggiungere una diagnosi corretta risulta fondamentale la storia clinica del paziente associata a diverse indagini strumentali:

• Esami del sangue che possono aiutare nella diagnosi grazie all’identificazione di deficit vitaminici;

• Puntura lombare con analisi nel liquido cefalorachidiano, che permette di studiare la proteina basica della mielina e di determinare la presenza di IgG specifiche dirette contro i componenti della mielina, nonché la presenza di bande oligoclonali;

• I potenziali evocati, visivi, uditivi e somatosensoriali, che offrono informazioni riguardo al grado di demielinizzazione a livello del nervo ottico e del SNC; • Tecniche di imaging, in particolare la Risonanza Magnetica (RM) tramite la

quale si può identificare ogni formazione cicatriziale o danno nel SNC (Ghasemi, 2017).

Quindi i criteri diagnostici per la Sclerosi Multipla fanno riferimento alla clinica ma anche a valutazioni laboratoristiche di tipo paraclinico, sottolineando l’importanza di dimostrare la disseminazione delle lesioni nello spazio (DIS) e nel tempo (DIT). I criteri di Mc Donald permettono di fare una diagnosi in minor tempo pur mantenendo un elevato grado di sensibilità e specificità. Una prima stesura dei

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criteri di Mc Donald è avvenuta nel 2001 ed una sua revisione era già stata fatta nel 2005. Sin da questa modifica si era evidenziata l’importanza di eseguire una semplificazione di questi criteri per aumentarne la comprensibilità e quindi la loro utilità. Fu così che nel maggio 2010 la International Panel on Diagnosis of Multiple Sclerosis, detta anche Panel, si riunì a Dublino per valutare i requisiti necessari a dimostrare la DIS e la DIT. Si è quindi stabilito che i criteri di Mc Donald sono applicabili solo nel caso di una sindrome tipica clinicamente isolata, che suggerisca la presenza di una Sclerosi Multipla o comunque di una malattia demielinizzante infiammatoria del SNC. La sindrome clinica isolata tipicamente coinvolge il nervo ottico, gli emisferi cerebrali, il cervelletto ed il midollo spinale, inoltre può essere sia monofocale che multifocale. La corretta interpretazione di segni e sintomi è fondamentale per la diagnosi: è importante analizzare la tipologia dell’attacco (esacerbazione e remissione), la definizione del segno o sintomo riportato dal paziente, che deve essere tipico di una malattia infiammatoria demielinizzante del SNC, e la durata di almeno 24 ore in assenza di febbre o infezione. C’è concordanza tra i membri della Panel che prima di fare una diagnosi definitiva di SM almeno un attacco deve essere confermato da esami neurologici, potenziali evocati visivi in coloro che riportano sintomi primitivi di disturbi della visione oppure una RM che metta in evidenza aree di demielinizzazione in quelle regioni del SNC implicate nello sviluppo dei sintomi neurologici. Con la revisione del 2010 dei criteri di Mc Donald, la Panel prende in considerazione il lavoro delle MAGNIMS per quanto riguarda il ruolo della RM nella diagnosi di Sclerosi Multipla. Per quanto riguarda la DIS in questo lavoro vengono messi a confronto i criteri di Barkhof e Tintoré con i criteri semplificati sviluppati da Swanton ed i sui colleghi. Secondo questo studio di comparazione, la disseminazione spaziale può essere dimostrata con maggior semplicità e sensibilità con l’analisi basata sui criteri di Swanton senza perdere specificità ed accuratezza. La DIS definisce la presenza di almeno una lesione vista con sequenza T2 e localizzata in almeno 2 delle 4 regioni tipiche della SM e già evidenziate nei criteri di Mc Donald originali: la regione iuxtacorticale, la regione periventricolare, la regione infratentoriale e la regione spinale. Sempre lo studio MAGNIMS, basandosi sullo studio di Montalban e colleghi, ridefinisce anche i criteri per definire la DIT. Secondo questa modifica la DIT si dimostra con la presenza di una o più nuove lesioni evidenziate con sequenza T2 e/o captanti il gadolinio ad una RM di follow-up rispetto ad una scansione baseline indipendentemente dalla tempistica di questa, oppure si definisce per la simultanea presenza in qualsiasi momento di lesioni captanti e non captanti il gadolinio. La Panel inoltre rafforza il concetto che il riscontro nell’analisi del liquido cefalorachidiano di un aumento dell’indice delle IgG o la presenza di 2 o più bande oligoclonali sia importante per supportare la natura demielinizzante infiammatoria della condizione. Ciò nonostante anche se l’aumentato indice delle IgG o la

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presenza di bande oligoclonali nel liquor supportano la diagnosi di SM, ad oggi non ci sono ancora biomarkers specifici che confermino la diagnosi. In conclusione la revisione del 2010 dei criteri di Mc Donald consente di raggiungere più rapidamente la diagnosi aumentando la sensibilità e senza ridurre la specificità nel caso di una forma tipica clinicamente isolata, cioè nella RR. A fronte della revisione dei criteri di Mc Donald si fa diagnosi di SM quando:

• Alla clinica si registrano due o più attacchi con evidenza clinica oggettiva di due o più lesioni o evidenza clinica oggettiva di una lesione ed evidenza storica ragionevole di un attacco precedente;

• Alla clinica si registrano due o più attacchi con evidenza clinica oggettiva di una lesione e a supplemento della diagnosi si ritrovi una disseminazione spaziale dimostrata da una o più lesioni in T2 in almeno due delle quattro regioni tipiche della sclerosi multipla nel SNC oppure si attende un ulteriore attacco alla clinica che colpisca un sito differente del SNC;

• Alla clinica si registra un attacco con evidenza clinica oggettiva di due o più lesioni e a supplemento della diagnosi si ritrovi una disseminazione temporale dimostrata dalla simultanea presenza di lesioni asintomatiche captanti o non captanti il gadolinio in ogni momento, oppure al follow-up si riscontri una nuova lesione evidenziabile in T2 o captante il gadolinio indipendentemente dal suo timing e facendo riferimento ad una risonanza magnetica baseline, o ancora si deve aspettare un secondo attacco alla clinica;

• Alla clinica si registra un attacco con evidenza clinica oggettiva di una lesione e a supplemento della diagnosi una disseminazione spaziale e temporale dimostrate da:

A. Per la disseminazione spaziale si devono evidenziare una o più lesioni in T2 in almeno due delle quattro regioni tipiche della sclerosi multipla nel SNC oppure si attende un secondo attacco che colpisca un sito differente del SNC

B. Per la disseminazione temporale si devono evidenziare la simultanea presenza di lesioni asintomatiche captanti o non captanti il gadolinio in ogni momento, oppure al follow-up si riscontra una nuova lesione evidenziabile in T2 o captante il gadolinio indipendentemente da suo timing e facendo riferimento ad una risonanza magnetica baseline, o ancora si deve aspettare un secondo attacco alla clinica

Esistono anche dei criteri di McDonald, sempre del 2010, che permettono di fare diagnosi della forma PP. Questa si diagnostica qualora il paziente presenti un anno di progressione di malattia, determinato in maniera retrospettiva o prospettiva, e due dei seguenti tre criteri:

• Evidenza di disseminazione spaziale nell’encefalo basata su una o più lesioni in T2 in almeno un’area caratteristica per sclerosi multipla (periventricolare,

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iuxtacorticale, infratentoriale);

• Evidenza di disseminazione spaziale nel midollo spinale basata su due o più lesioni in T2 nel midollo stesso;

• Evidenza della presenza di bande oligoclonali con o senza elevazione dell’indice delle IgG ad uno studio del liquor (Polman, 2011).

Dal punto di vista clinico, i pazienti con Sclerosi Multipla presentano una grande varietà di segni e sintomi neurologici, riconducibile alla variabilità di distribuzione delle lesioni alla sostanza bianca. La patologia può quindi essere caratterizzata sia da attacchi improvvisi, oppure presentando un andamento progressivo ed insidioso. (Milo R., Kahana E., 2010) Dal momento che la malattia può colpire qualunque parte del SNC, si possono riscontrare diversi sintomi neurologici e variabili decorsi clinici tra i pazienti. (Ghasemi, 2017)

Tra i sintomi più comuni si riscontrano i disturbi della visione e dell’oculomozione, che frequentemente rappresentano i sintomi d’esordio della malattia. Tra questi abbiamo la neurite ottica retrobulbare, che causa una perdita del visus e diplopia. Dal punto di vista diagnostico all’esame obiettivo si evidenzia perdita dell’acuità visiva, scotoma e la presenza di desaturazione del colore. L’esame del fundus oculi di solito è normale all’esordio, dato che il processo infiammatorio è classicamente retrobulbare, ma sporadicamente si riscontrano segni di papillite. I pazienti con SM manifestano anche deficit motori con alterazioni del tono muscolare:

• Mono-, emi- o para- paresi; • Paraplegia spastica;

• Tetraparesi; • Tetraplegia.

Gli arti inferiori sono più coinvolti rispetto a quelli superiori, con frequente coinvolgimento unilaterale. Si può evidenziare iperattività dei riflessi tendinei profondi con presenza di clono o di altri segni che indicano il coinvolgimento patologico del primo motoneurone. La fatica è un sintomo che frequentemente si manifesta lungo il decorso della patologia: è una condizione molto disabilitante per il paziente assieme ai disturbi viscerali e del cammino. I pazienti con SM possono presentare anche disturbi sensitivi sia a carico della sensibilità superficiale che di quella profonda, causati da lesioni che interessano le colonne posteriori. La scomparsa della sensibilità vibratoria è frequente e spesso anticipa l’esordio dei disturbi percettivi. Il fenomeno di Lhermitte, che consiste nella percezione di una scossa elettrica che si irradia lungo il midollo spinale durante il movimento di flessione del capo, è spesso riportata da pazienti con lesioni midollari. Frequenti sono anche i deficit cerebellari caratterizzati da disturbi della coordinazione, atassia, tremore, perdita dell’equilibrio statico e dinamico e disartria con parola scandita. Inoltre si possono sviluppare disfagia e sindrome

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vertiginosa. Fanno parte della sintomatologia dei pazienti i disturbi minzionali, che si possono manifestare come incapacità di adeguato riempimento o svuotamento vescicale, oppure entrambi: l’incapacità di riempimento è soprattutto causata da un’iperattività detrusoriale, che si mostra con urgenza minzionale, incontinenza urinaria e nicturia; invece l’incapacità di adeguato svuotamento vescicale è attribuibile ad un difetto di coordinazione detruso-vescicale, che si manifesta con esitazione minzionale e ritenzione urinaria. I disturbi minzionali rientrano tra i disturbi sfinterici, dove rientrano anche le disfunzioni intestinali. Nella varietà dei sintomi della SM si ritrovano anche disturbi psichiatrici, in particolare i disturbi del tono dell’umore, come depressione, euforia o labilità emotiva. (Deangelis T.M, 2014). Infine durante il decorso della malattia i pazienti possono sviluppare disturbi della sfera sessuale e deficit cognitivi nell’ambito dei quali la velocità di processazione, l’apprendimento visivo e la memoria sembrerebbero essere le componenti più compromesse. (Rossi P, 2012). Il decorso clinico della sclerosi multipla è molto variabile, ed in particolare se ne distinguono due forme, la forma Relapsing Remitting (RR) e la forma Primary Progressive (PP). La forma RR è quella di gran lunga più frequente rappresentando l’85% circa dei casi di malattia; questa forma ha un decorso caratterizzato da attacchi acuti con sintomi e segni neurologici nuovi o ricorrenti, sempre seguiti da periodi di completa o parziale remissione caratterizzati da assenza di attività clinica di malattia, che possono variare da molti giorni fino ad alcuni mesi. Col tempo i pazienti affetti dalla forma RR virano verso la forma Secondary Progressive (SP), in cui la disabilità neurologica si accumula progressivamente tra le fasi di remissione fino a che esse non diventano completamente assenti. La forma PP è più rara della RR ritrovandosi in circa il 10-15% dei pazienti affetti da Sclerosi Multipla, e si caratterizza per un andamento progressivo in cui dall’esordio di malattia si verifica un costante accumulo di disabilità neurologica. (Milo R., Kahana E., 2010) Infine esiste un’ultima forma di Sclerosi Multipla definita Progressive Relapsing (PR), che è la forma meno comune ritrovandosi in circa il 5% dei pazienti affetti, e si associa a sintomi come disfunzioni intestinali e del sistema urinario, depressione, vertigini, disfunzione sessuale, dolore agli occhi e visione doppia. (Ghasemi, 2017)

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Figura 1.3: Raffigurazione dei vari tipi di decorso clinico di SM

1.3 Terapia farmacologica

Per quanto riguarda la terapia farmacologica della SM, esistono tre tipi di approcci che si differenziano in base agli obiettivi ed alle indicazioni:

• Terapia dell’attacco acuto, finalizzata a limitare i sintomi che insorgono durante una riacutizzazione;

• Terapia di prevenzione, il cui fine è di controllare l’insorgenza e l’entità delle ricadute nonché di rallentare la progressione di malattia;

• Terapia sintomatica, che viene messa in atto per migliorare i sintomi neurologici e neuro-psicologici cronici, che si sviluppano come conseguenza delle diverse localizzazioni di malattia o delle altre terapie in corso.

La terapia dell’attacco acuto si basa sulla somministrazione, generalmente per via endovenosa, di corticosteroidi ad alte dosi. Tra i corticosteroidi il più utilizzato in quest’ambito è il metilprednisolone, che viene solitamente somministrato in boli con un dosaggio di 1 g/die ad infusione lenta, per 3 o 5 giorni. L’azione terapeutica degli steroidi si esplica sull’edema e sull’infiammazione. La terapia profilattica ha invece come scopo principale quello di ridurre il numero e la severità delle ricadute, oltre che quello di limitare la progressione della disabilità. Si avvale di farmaci immunomodulanti, immunosoppressori ed anticorpi monoclonali. Tra i farmaci immunomodulanti il più importante è l’interferone beta (IFNβ) ricombinante, una citochina prodotta naturalmente da molte cellule come i macrofagi ed i fibroblasti. Ha funzione immunomodulatoria inibendo la proliferazione e l’attivazione dei linfociti T ed ostacolando la loro migrazione a livello della barriera ematoencefalica. Di contro

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l’IFNβ presenta vari effetti collaterali tra cui il principale è la sindrome simil-influenzale, associata a febbre, brividi, cefalea, mialgie, artralgie, reazioni cutanee nella sede di iniezione, astenia, variabilità del tono dell’umore ed alterazione degli esami di laboratorio con rialzo enzimi epatici, leucopenia o anemia. Altro farmaco immunomodulante è il copolimero 1, detto anche glatiramer acetato. Il meccanismo alla base del suo effetto terapeutico non è ben noto ma si pensa che sia riconducibile alla soppressione della risposta autoimmunitaria contro la mielina con sviluppo di immunotolleranza. Il glatiramer acetato rappresenta un’alternativa alla terapia con IFNβ che può essere messa in atto su quei pazienti che producono anticorpi diretti contro questa citochina e che quindi la neutralizzano impedendole di svolgere il proprio ruolo terapeutico. Gli effetti collaterali sono modesti e sono rappresentati soprattutto da reazioni locali in sede di inoculo, quindi è una terapia ben tollerata. Gli immunosoppressori sono un’altra classe di farmaci che hanno la funzione di inibire la replicazione cellulare a tutti i livelli, quindi rallentano anche la risposta del sistema immunitario. Tra gli immunosoppressori i più diffusi sono l’Azatioprina, il Mitoxantrone, la Ciclosporina, la Ciclofosfamide, il Metotrexate e la Cladibrina. Questi sono al giorno d’oggi riservati alla terapia delle forme progressive di malattia, presentando una certa tossicità che ne limita ampiamente l’uso. Per quanto riguarda gli anticorpi monoclonali, recentemente è stato introdotto il Natalizumab, farmaco usato nelle forme RR che esplica la sua funzione impedendo il passaggio dei linfociti attivati nel SNC. L’azione finale è rappresentata da una riduzione dell’attivazione della risposta infiammatoria e quindi del danno alle fibre nervose. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, in genere questi compaiono entro due ore dall’inizio dell’infusione e sono rappresentati da orticaria, vertigini, febbre, rash cutaneo, prurito, nausea, ipotensione, dispnea, dolore toracico ed anafilassi. Si riscontrano anche delle alterazioni a carico degli esami di laboratorio, tra cui in particolare un aumento dei leucociti circolanti, degli eritrociti e dell’emoglobina. Il Natalizumab ha indicazione in quei pazienti che presentano una rapida progressione oppure che non hanno beneficio da un trattamento con INFβ o con Glatiramer acetato. Infine abbiamo la terapia sintomatica volta a trattare i sintomi cronici, cioè quelli che vanno a condizionare la qualità della vita del malato. La spasticità è un sintomo in grado di determinare una perdita di mobilità e destrezza rilevante, rendendo difficoltoso l’accudimento del paziente. Inoltre può causare spasmi dolorosi e posture anomale, la cui conseguenza è lo sviluppo di lesioni ulcerative a livello dei punti di pressione. In alcuni casi la spasticità può anche essere compensatoria dell’ipostenia e necessaria per garantire la motilità residua. Laddove la terapia riabilitativa non sia in grado di migliorare la spasticità, si ricorre alla terapia farmacologica a base di farmaci miorilassanti, tipo il Baclofen. Questo è un farmaco GABAergico assumibile per via orale o intratecale con effetto spasmolitico a livello spinale. Se il Baclofen non venisse tollerato si opta per l’utilizzo della Tizanidina. Altri farmaci ad azione spasmolitica sono le benzodiazepine, il cui utilizzo è tuttavia limitato

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dalla possibile comparsa di sedazione e dalla dipendenza. Infine il Dantrolene che agisce direttamente a livello muscolare. Per il trattamento della spasticità focale sono utilizzate le infiltrazioni di tossina botulinica. Sono stati intrapresi vari tipi di trattamento sintomatico anche per atassia e tremore cerebellare, questi sintomi cronici causano perdita di funzione in assenza di ipostenia e per ridurne gli effetti si utilizzano l’Ondesartan e l’Isoniazide, la quale viene assunta con la piridossina per evitare gli effetti tossici sul SNP. La stanchezza, sia quella fisica che quella mentale, è spesso lamentata dai pazienti con sclerosi multipla, in questo caso però l’efficacia dei farmaci è bassa e spesso i pazienti devono modificare il proprio stile di vita. I farmaci usati sono l’Amantadina, la Pemoline, la 4 Aminopiridina, la 3-4 Aminopiridina, il Modafinil e la Fluoxetina. Per quanto riguarda il sintomo dolore, la terapia cambia in base a quella che sia la presunta patogenesi del sintomo. Per il dolore di sospetta origine neuropatica il trattamento può basarsi su Amitriptilina, Carbamazepina, Gabapentin, Lamotrigina, Pregabalin e derivati della cannabis. Per il dolore, di possibile origine secondaria, ai trattamenti di prevenzione si possono utilizzare Paracetamolo o FANS. Per quanto riguarda le disfunzioni vescicali, prima di intraprendere una terapia, è sempre opportuno effettuare una valutazione urodinamica, che stabilisce la natura dei sintomi. In base a questo si può fare uso di:

• Ossibutina, un anticolinergico inibente l’attività del muscolo detrusore;

• Alfa-bloccanti che possono migliorare sia la capacità di riempimento della vescica che il suo svuotamento;

• Tossina botulinica per via intravescicale in quei pazienti con iperreflessia del detrusore resistente ai farmaci.

Infine annoveriamo la depressione, che può essere trattata con le normali terapie antidepressive. (Rossi P, 2012).

1.4 Trattamento riabilitativo

Nella Sclerosi Multipla sono di frequente riscontro i disturbi deambulatori, infatti, circa l’80% dei pazienti presenta alterazioni della marcia e della mobilità. L’esercizio fisico si è dimostrato un metodo efficace nel migliorare la performance motoria e la qualità della vita dei pazienti, indipendentemente dal suo impatto sulla sintomatologia clinica. Inoltre la prevalenza dei disordini motori sottolinea l’importanza della messa a punto di un trattamento riabilitativo specifico per ciascun paziente (Straudi, 2016).

Questo tipo di approccio deve prevedere un processo educativo che massimizzi l’indipendenza funzionale dell’individuo, attraverso la stabilizzazione delle funzioni residue, la riduzione della disabilità e la prevenzione di complicanze secondarie; è quindi un processo di cambiamento attivo, tramite il quale una persona disabile acquisisce e ed impara ad usare le abilità necessarie a rendere ottimali le proprie funzioni fisiche, psicologiche e sociali (Saraceni D, 2012). La Sclerosi Multipla

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presenta una complessità tale da rendere necessario un trattamento riabilitativo mirato alle varie esigenze e che sia in grado di conformarsi alle condizioni della singola persona, che mutano durante il decorso clinico della malattia. Alla luce di questo, risulta chiara la necessità di eseguire un raffinato lavoro di progettazione, processo che consta di varie fasi:

• Valutazioni specialistiche, volte ad identificare i problemi e le loro cause; • Definizione degli obiettivi, elaborati in base all’esito delle valutazioni

specialistiche e delle aspettative ed esigenze della persona, considerando le abilità residue, le risorse disponibili e la definizione dei tempi previsti per raggiungere gli obiettivi;

• Scelta del luogo dove effettuare la riabilitazione (che può essere in regime di ricovero ospedaliero, ambulatoriale o domiciliare), parametro che dipende da vari fattori: il grado di disabilità del paziente; le condizioni cliniche; le disponibilità logistiche (possibilità di trasporto o ad esempio impegni di lavoro); la necessità di assistenza infermieristica continua e di attrezzature idonee; • Definizione dei programmi riabilitativi, composta da: definizione delle aree di

intervento specifiche; individuazione degli operatori coinvolti; definizione delle modalità e dei tempi di erogazione; definizione delle misure di esito per valutare l’efficacia dei programmi. (Saraceni D, 2012)

Durante la stesura di un progetto riabilitativo deve essere previsto un monitoraggio, in modo da adattare il progetto ad eventuali cambiamenti o a nuove esigenze della persona. Il training riabilitativo deve essere mirato a mantenere il lavoro muscolare, evitando però il sovraccarico, da cui può derivare un peggioramento funzionale. (Saraceni D, 2012). Per migliorare le capacità motorie, il medico riabilitatore può anche avvalersi di eventuali presidi idonei (ausili oppure ortesi), individuandone sia il momento più adeguato per l’utilizzo o la modifica che l’addestramento all’uso. (Saraceni D, 2012).

Sono stati presi in considerazione diversi tipi di intervento riabilitativo, ed è stato dimostrato che l’esecuzione di programmi riabilitativi allenanti e personalizzati può stabilizzare l’autoefficacia ed incrementare la motivazione verso l’esercizio fisico in pazienti con forme progressive di SM (Geertz W, 2015). Inoltre, a dimostrazione dei benefici che la terapia riabilitativa esercita su diverse aree funzionali, soggetti con SM che hanno eseguito regolarmente attività fisica hanno riportato risultati migliori nella valutazione della fatica, della depressione e della qualità di vita, rispetto a quelli che non l’hanno eseguita (Stroud N.M, 2009). Alcuni tipi di approccio riabilitativo, come l’esercizio aerobico su treadmill o la pratica dello yoga, si dimostrano capaci di migliorare non solo l’equilibrio, le funzioni deambulatorie e la fatica, ma anche lo stato d’animo dei pazienti (Ahmadi A, 2013).

Il treadmill, in particolare, è uno strumento nato per testare ed allenare pazienti con patologie cardiopolmonari, ma ad oggi vi è un interesse crescente per il suo utilizzo

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nella riabilitazione di pazienti con patologie neurologiche. Infatti la deambulazione su treadmill risulta un valido metodo di allenamento del cammino. Al fine di un suo utilizzo in sicurezza, i pazienti devono essere in grado di deambulare ad una velocità media di almeno 0,2-0,3 m/s; in caso contrario è opportuno avvalersi di un sistema di allevio per ottenere lo sgravio del peso corporeo, in grado di rendere più sicura la marcia. Il treadmill inoltre offre la possibilità di simulare la locomozione in salita ed in discesa, altrimenti difficilmente realizzabile per lunghi tratti. Oltre all’inclinazione è possibile variare anche la direzione di marcia, in tal modo è possibile camminare in avanti ed in indietro: per questa peculiarità può essere considerato un valido mezzo allenante per alcune abilità quotidiane (ad esempio l’avvicinarsi ad una sedia per sedersi) in soggetti con disturbi dell’equilibrio (Capodaglio P, 2008). Il training riabilitativo su treadmill può essere eseguito, come già visto, con allevio del peso corporeo, ma anche con assistenza e supporto manuale e con allevio del peso associato ad assistenza robotica. Tutti i diversi tipi di allenamento si sono dimostrati in grado di migliorare la velocità del cammino e l’autonomia di marcia in persone affette da SM, ciò nonostante non è ancora chiaro quale tipo di training deambulatorio sia il più efficace (Swinnen E, 2012). In conclusione, il training aerobico su treadmill è in grado di migliorare le funzioni deambulatorie, la fatica ed il tono dell’umore dei soggetti affetti da SM di tipo medio-moderato, non comportando significanti effetti avversi sul dolore o sulla funzione deambulatoria (Learmonth Y.C, 2014).

Nel training deambulatorio robotico (Lokomat) il paziente indossa un cablaggio attaccato ad un sistema che fornisce uno sgravio dal peso corporeo e cammina su di un treadmill con l'ausilio di una ortesi robot-guidata che favorisce la deambulazione.

Durante il training, il movimento degli arti inferiori viene assistito seguendo un fisiologico pattern di marcia. Il momento torcente delle guide posizionate sulle ginocchia e sui fianchi è regolabile dal 100% allo 0%, come anche il supporto che permette lo sgravio dal peso. La velocità del treadmill viene fatta variare tra gli 0,1 km/h e all’incirca i 3 km/h. Durante la prima sessione i parametri vengono settati in accordo con le caratteristiche del paziente ed i livelli da lui richiesti, partendo con una guida articolare del 100% e con uno sgravio del peso del 50%. Col procedere del trattamento, il terapista esegue delle modifiche, ciascuna del 10%, agendo a livello dell’ortesi articolare, del supporto al peso corporeo e della velocità del treadmill. (Straudi et al 2016)

Il training deambulatorio robotico si è dimostrato più efficace, rispetto ad un approccio convenzionale, sul miglioramento della resistenza durante il cammino e dell’equilibrio. Infatti risulta che questo tipo di approccio porti ad un miglioramento valutabile con i test del cammino-6 minutes Walking Test (6mWT), che correla con una migliore mobilità, una maggiore autonomia e migliore vita domestica. Il potenziamento dei muscoli estensori delle ginocchia, ottenuto grazie all’esercizio su Lokomat, permette di migliorare l’equilibrio dei pazienti. Oltre a questi risultati, la terapia riabilitativa

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dimostra di avere un effetto benefico anche sulla depressione (Straudi et al 2016). La riabilitazione con dispositivi robotici è senza dubbio uno strumento valido per trattare pazienti affetti da Sclerosi Multipla. Tuttavia, in soggetti con EDSS compreso tra 3.0 e 6.5 la riabilitazione robotica non si è dimostrata migliore di un approccio riabilitativo su terreno (Vaney C, 2012).

Un altro approccio riabilitativo, proposto per il trattamento dei pazienti affetti da SM con disabilità di grado lieve-moderato, è il circuito riabilitativo di tipo task-oriented (TOCT). Esso si basa sull’esecuzione di una serie di esercizi, divisi in stazioni di lavoro, riproducenti le attività fisiche normalmente svolte nella vita quotidiana, come camminare, mantenere l’equilibrio o salire le scale. Lo svolgimento di una sessione giornaliera ha la durata di circa 60 minuti, dal momento che una sessione quotidiana prevede l’esecuzione di due giri di circuito e che lo svolgimento di ogni stazione di lavoro richiede un tempo di 5 minuti, dei quali 3 di lavoro e 2 di riposo. Le pause tra una stazione e l’altra possono essere sfruttate dal terapista per ottenere feed-back dal paziente. Lo scopo della terapia è quello di promuovere l’apprendimento motorio ed il mantenimento in memoria del compito svolto. Inoltre, questo intervento riabilitativo è caratterizzato da un’intensità di esercizio tale, da essere vicina al numero di ripetizioni necessarie per raggiungere e mantenere l’apprendimento motorio di questi movimenti. Un programma riabilitativo di due settimane consecutive di TOCT, seguito da tre mesi di esercizi domiciliari, si è dimostrato essere sicuro e ben tollerato in soggetti con SM e moderata disabilità deambulatoria (Straudi S, 2014). Al momento quindi, alla luce dei risultati ottenibili e della sua sicurezza, si incoraggia lo svolgimento di attività fisica ai soggetti con Sclerosi Multipla.

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Capitolo II

Indagini strumentali nella Sclerosi Multipla 2.1 La Risonanza Magnetica (RM)

La Risonanza Magnetica (RM) è un’indagine strumentale fondamentale nel percorso diagnostico della Sclerosi Multipla. Infatti ad oggi ricopre un ruolo fondamentale nell’ambito dei criteri diagnostici di Mc Donald, in quanto in grado di discriminate la disseminazione spaziale (DIS) e quella temporale (DIT) delle lesioni demielinizzanti. L’ultima revisione dei criteri diagnostici del 2010 focalizza l’attenzione sulla localizzazione delle lesioni più che sulla loro numerosità; inoltre aumenta la sensibilità dei criteri e semplifica il riconoscimento della DIS e della DIT rendendo possibile una diagnosi precoce. Alla luce di questo, risulta possibile raggiungere la diagnosi basandosi su di una singola indagine RM (Suthiphosuwan, 2017).

Figura 2.1 Immagini di RM nella diagnosi e nel follow-up di sclerosi multipla (Suthiphosuwan et al., 2017)

La Risonanza Magnetica è inoltre un esame che presenta un’elevata sensibilità, permettendo di identificare le lesioni tipiche della patologia in più del 97% dei pazienti

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che presentano la malattia clinicamente definita. A fronte di questo la RM deve essere considerata un esame essenziale non solo in ambito diagnostico, ma anche in ambito prognostico nelle prime fasi di malattia. Infatti tramite questa tecnica è possibile prevedere l’insorgenza di future recidive e la progressione della disabilità, contribuendo quindi ad intuire quella che sarà la storia clinica della malattia (Rio, 2017).

La RM è un’indagine diagnostica che presenta una grande varietà di indicazioni cliniche, presentando ad oggi un uso clinico diffuso. Per questo motivo è possibile riscontrare incidentalmente delle lesioni nella sostanza bianca simili a quelle tipiche della SM in pazienti che però non presentano sintomi neurologici di malattia. Si parla in questo caso di Radiologically Isolated Syndrome (RIS). Questo reperto strumentale è di notevole rilievo, in quanto da studi retrospettivi sembra che pazienti con RIS abbiano un rischio maggiore di sviluppare una vera e propria SM nel tempo. È stato riscontrato che all’incirca un terzo dei pazienti presenta una progressione radiologica mentre il rimanente terzo sviluppa sintomi clinici dopo circa 5 anni. Esistono inoltre una serie di fattori che aumentino il rischio di sviluppare in seguito la malattia clinicamente:

• Sesso maschile;

• Avere 37 anni o meno al momento della diagnosi di RIS;

• Avere una lesione a livello del midollo spinale cervicale o toracico.

Proprio per questo motivo risulta importante a fini prognostici avere una RM del tratto cervicale e toracico nei pazienti con RIS (Suthiphosuwan, 2017).

Il “Consortium of Multiple Sclerosis Centres” (CMSC) nel 2003 ha steso un protocollo standard con i criteri per l’utilizzo della RM, che è stato successivamente revisionato nel 2016. Secondo le attuali line guida il campo magnetico dello strumento dovrebbe essere almeno di 1,5 Tesla, ma l’utilizzo di scanner con campi a 3 Tesla presenta una maggiore capacità di rilevare le lesioni. L’esecuzione della RM dell’encefalo è importante a fini diagnostici ma è essenziale anche nel follow-up della patologia. Nel caso in cui le immagini ottenute dalla scansione dell’encefalo fossero inconclusive, risulta utile l’estensione della scansione al midollo spinale, che permettono così di ottenere ulteriori informazioni diagnostiche e prognostiche.

Per quanto riguarda nello specifico il protocollo di esecuzione della RM dell’encefalo, la CMSC raccomanda di utilizzare il piano sotto-callosale come piano standard per l’orientamento spaziale, al fine di rendere comparabili nel tempo e tra i vari centri le indagini strumentali eseguite. Tra le sequenze che dovrebbero sempre essere acquisite risulta molto importante quella sagittale di tipo T2 Fluid Attenuation Inversion Recovery (FLAIR). Questa sequenza permette di individuare le lesioni tipiche della SM in particolare quando localizzate a livello del corpo calloso. Inoltre consente di evidenziare al meglio il classico orientamento orizzontale o perivenulare delle lesioni.

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Le acquisizioni T2-FLAIR possono essere ottenute sia in 2D che in 3D, ma sono proprio queste ultime quelle con maggior sensibilità nel visualizzare le lesioni infratentoriali.

Oltre alle sequenze T2-FLAIR si possono scegliere altri tipi di acquisizioni in base a quello che si vuole indagare:

• Nel caso in cui si volesse eseguire un’analisi del volume, la sequenza migliore sarebbe quella di tipo 3D T1 Gradient Echo (GRE).

• Qualora si volesse studiare il carico lesionale nella fossa posteriore le acquisizioni più adatte sono la T2 Fast Spin-Echo (FSE) assiale in 2D e la T2 Proton Density (PD).

Tramite la RM è possibile studiare anche il danno della barriera ematoencefalica, che si verifica assieme all’insorgenza di nuove lesioni oppure alla riattivazione di lesioni già esistenti. Questo tipo di analisi, possibile utilizzando il gadolinio come mezzo di contrasto, consente di dimostrare la DIT delle lesioni, permettendo così di strutturare una diagnosi dopo una singola scansione. Per eseguire una corretta scansione col contrasto essa dovrebbe avvenire dopo 5 minuti dalla somministrazione del gadolinio, il quale deve essere dosato a 0,1 mmol/kg. Le sequenze con gadolinio possono essere acquisite come 2D T1 spin-echo (SE) oppure come 3D T1 GRE, anche se, qualora l’analisi venisse eseguita con una macchina a 1,5 T, si dovrebbe preferire l’acquisizione di tipo 2D T1 SE, in quanto più adatta per rilevare le lesioni che captano il contrasto. Comunque, da uno studio eseguito con macchine a 3T, si dimostra che le acquisizioni di tipo 3D T1 GRE rendono più agevole l’identificazione di lesioni attive rispetto a quelle di tipo 2D T1 SE.

Passando al protocollo di utilizzo della Risonanza Magnetica per lo studio del midollo spinale, bisogna sottolineare il fatto che le lesioni silenti sono meglio visualizzabili nonché più comuni a livello cervicale. Le sequenze base devono comprendere almeno due sequenze sagittali ottimizzate per l’identificazione delle lesioni nel midollo spinale:

• T2 sagittale;

• T2 Proton Densitiy (PD);

• T2 Short Tau Inversion Recovery (STIR); • T1 Phase Sensitive Inversion Recovery (PSIR).

Queste sequenze devono essere acquisite con uno spessore di sezione minore o uguale a 3mm.

Si possono ottenere anche acquisizioni 3D o 2D T2 Fast Spinal-Echo (FSE) assiali oppure T2 Gradient Echo (GRE) con spessore di sezione minore o uguale a 5 mm e senza gap. Qualora sia clinicamente indicato, si possono ottenere immagini del midollo spinale utilizzando il gadolinio sul piano sagittale e sul piano assiale. Nel caso in cui sia stata eseguita precedentemente nello stesso setting una RM con gadolinio dell’encefalo, non è richiesta ulteriore somministrazione di contrasto. Risulta importante acquisire immagini T1 dell’encefalo e del midollo spinale su almeno un

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piano prima della somministrazione di gadolinio, ed è fondamentale mantenere gli stessi parametri di sequenze sia pima che dopo la somministrazione del contrasto. Questi accorgimenti consentono di confermare che l’iperintensità registrata dopo la somministrazione di gadolinio rappresenta una vera captazione di contrasto, dal momento che le lesioni tipiche della Sclerosi Multipla possono manifestare una lieve iperintensità intrinseca nelle acquisizioni T1 (Suthiphosuwan, 2017).

Inoltre eseguendo degli studi utilizzando una tecnica pesata in T1 con gadolinio si evidenzia che durante la progressione della malattia, anche durante le fasi di stabilità clinica, si può evidenziare un certo grado di attività e di progressione della disabilità. (Rio, 2017).

2.2 Valore prognostico della RM

La Risonanza Magnetica risulta essere, oltre ad una metodica fondamentale nel percorso diagnostico della Sclerosi Multipla, anche un’eccellente strumento per definire l’andamento prognostico sia nelle fasi precoci che in quelle avanzate di malattia.

Prendendo in esame la Sindrome Clinica Isolata (CIS), si calcola che all’incirca il 50-70% di questi pazienti presenta delle anormalità alla RM basale dell’encefalo, con il riscontro di lesioni asintomatiche. Questo aspetto ha un elevato valore prognostico dal momento che le lesioni nelle sequenze T2 evidenziate precocemente ad una RM basale correlano con lo sviluppo di SM e con la progressione della disabilità valutata secondo la EDSS. Il carico lesionale associato al rischio di conversione a Sclerosi Multipla viene calcolato sulla base del numero di lesioni e della loro localizzazione. In particolare sembra che il rischio di conversione a 5 anni sia del 54,7%, 74,5% e del 82,5% a seconda che i pazienti alla RM basale abbiano un carico lesionale rispettivamente di 0-1, 2-9 e maggiore di 9 lesioni nelle sequenze T2. Si riporta anche che pazienti con CIS, che alla RM basale presentano lesioni infratentoriali ed al midollo spinale, abbiano una maggiore probabilità di sviluppare la patologia e di accumulare disabilità nel tempo. Altri fattori prognostici negativi per i pazienti con sindrome clinica isolata sono la presenza di almeno una lesione cerebellare oppure nel tronco encefalico. Infine possiamo dire che nei pazienti con CIS l’identificazione di 10 o più lesioni alla RM basale rappresenta il fattore prognostico che conferisce il maggiore rischio di sviluppare la SM e di aumentare il grado di disabilità.

Passando alla Sclerosi Multipla clinicamente definita, la RM ha valore prognostico nel predire la probabilità di risposta al trattamento, la conversione alla forma SP e nel preannunciare il futuro grado di disabilità. Un ruolo importante gioca la RM eseguita con gadolinio: il numero di lesioni captanti il contrasto rappresenta un fattore prognostico di risposta al trattamento disease-modifing, tanto che in uno studio retrospettivo eseguito su pazienti con SM RR, il 33,6% dei pazienti con più di 2 lesioni

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captanti risponde al trattamento farmacologico ad un anno mentre tra quelli con meno di 2 lesioni captanti i “responders” sono il 55,6%. Inoltre, il volume delle lesioni studiato con RM basale nelle sequenze T2 correla con la probabilità di passare da una forma RR ad una SP. (Romeo M. et al., 2013) A questo proposito uno studio longitudinale, eseguito da Fisniku et al. nel 2008 su pazienti con SM RR seguiti per 20 anni al follow-up, dimostra che la probabilità di progredire ad una forma SP dipende dal volume delle lesioni e dal loro incremento dimensionale nel tempo. Sempre da questo studio si deduce che maggiore è il numero di lesioni T2 ritrovate ad una RM basale e maggiore è la probabilità che aumenti il grado di disabilità a 20 anni

(Suthiphosuwan, 2017).

Uno dei più importanti parametri da valutare con la Risonanza Magnetica è la volumetria cerebrale, che permette di delineare il grado di atrofia cerebrale. La misurazione del volume cerebrale è uno strumento importante che consente di stimare l’efficacia dei trattamenti sulla progressione dell’atrofia. L’atrofia cerebrale, globale o regionale, è correlata con l’entità della disabilità ma anche con il grado della fatica e del deficit cognitivo. Alla luce di questo risulta quindi importante stimare questo parametro per studiare la progressione della malattia. Come si evince dai risultati di diversi studi, la riduzione della progressione dell’atrofia cerebrale per brevi periodi di tempo, circa 1-2 anni, risulta essere un ottimo indice prognostico della riduzione della disabilità nel medio termine. Lo studio del volume cerebrale, utilizzando un’analisi regionale della sostanza bianca e grigia, ha implicazioni cliniche importanti: l’atrofia selettiva della sostanza grigia corticale e sottocorticale, più di quella della sostanza bianca, presenta un’elevata correlazione con la progressione della disabilità e del deficit cognitivo. Un altro vantaggio che deriva dallo studio dell’atrofia della sostanza grigia è che quest’analisi non viene influenzata dalla pseudoatrofia, cioè dai cambiamenti nella distribuzione del liquido cerebrale determinato dagli effetti antiinfiammatori della terapia disease-modifing, in questo senso lo studio della sostanza grigia risulta particolarmente importante nell’analisi dei cambiamenti di volume che avvengono in intervalli di breve tempo. Infine la misurazione del volume cerebrale può essere utilizzata come marker dell’efficacia del trattamento sul grado di disabilità, dal momento che l’effetto dei farmaci immunomodulanti si può predire sulla base di come essi influenzano la progressione dell’atrofia (Rio, 2017).

La Risonanza Magnetica è uno strumento fondamentale anche per monitorare l’attività di malattia e la risposta al trattamento. Per usufruire al meglio di questa risorsa è necessario tenere conto del paradosso clinico-radiologico, che consiste nella frequente discrepanza tra l’entità del carico lesionale calcolato alla RM con l’impairment clinico della malattia. Alla luce di questo si devono prendere in considerazione sia parametri clinici che di imaging per valutare al meglio il grado di attività di malattia. Nonostante

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il paradosso clinico-radiologico la RM è in grado di dare informazioni preziose riguardo l’attività di malattia in pazienti che assumono una terapia disease-modifing (DMT); inoltre l’attività lesionale riscontrata ad una RM sarebbe più sensibile come indice prognostico di attività di malattia e di risposta alla DMT rispetto alle recidive cliniche

(Suthiphosuwan, 2017).

Esistono diversi parametri che permettono di discriminare tra tutti i pazienti coloro che con maggior probabilità possono beneficiare del trattamento precoce rispetto a quelli che invece non li otterrebbero. Tra queste caratteristiche si distinguono quelle demografiche del paziente, quelle inerenti l’attività clinica di malattia e quelle che riguardano l’attività radiologica. Diversi studi hanno tentato di definire dei criteri che consentano un’identificazione precoce di quei pazienti che possono avere una risposta subottimale al trattamento. Queste norme sono ottenibili mediante una combinazione di parametri clinici e di parametri RM misurati durante i primi 6 e 12 mesi dall’inizio del trattamento. Questi criteri si basano essenzialmente sulla valutazione dell’attività clinica, intesa come insorgenza di recidiva e progressione della malattia, e sull’attività radiologica, definita come comparsa di lesioni nuove o aumentate di volume nelle sequenze T2 oppure come captazione di contrasto nelle sequenze T1 rispetto ad un’analisi eseguita immediatamente prima rispetto all’inizio del trattamento. La comparsa di nuove lesioni nelle sequenze T2 esprimono l’impronta di una lesione infiammatoria focale che si è sviluppata nel periodo intercorrente tra due scansioni di RM. Qualora si debba interpretare la presenza di nuove lesioni T2 bisogna sempre tenere presente il periodo in cui è stata eseguita la scansione basale ed il meccanismo d’azione del farmaco, dal momento che molecole diverse hanno diversi tempi di latenza nell’effetto. Un’indagine di RM dovrebbe essere eseguita ogni 3 o 6 mesi dall’inizio del trattamento per evitare di avere un bias dovuto ai diversi meccanismi d’azione dei vari farmaci (Rio, 2017).

Come già detto per valutare l’andamento della malattia è importante anche l’utilizzo della RM con gadolinio, in quanto la presenza di captazione di contrasto mette in evidenza l’attività infiammatoria a livello della zona di iperintensità nonché il danneggiamento della barriera ematoencefalica. Tipicamente la durata della captazione per le singole lesioni è di 2-6 settimane. Uno studio di RM con gadolinio è indicato:

• Quando è necessario eseguire una nuova scansione baseline 6 mesi dopo avere eseguito un cambiamento di terapia DMT;

• In pazienti che non hanno eseguito il follow-up;

• In pazienti che per un periodo di tempo prolungato non hanno eseguito scansioni di monitoraggio;

• Per confermare la mancanza di infiammazione attiva in pazienti in cui si sospetta la transizione dalla forma RR a quella SP;

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• Per eseguire una corretta diagnosi differenziale tra SM ed altre patologie come neoplasie o sarcoidosi.

È importante ricordare che l’utilizzo del gadolinio come mezzo di contrasto è controindicato qualora il paziente esaminato sia allergico o sia affetto da un’importante insufficienza renale (Suthiphosuwan, 2017).

Il riscontro di lesioni attive durane analisi di follow-up è fondamentale per i pazienti in trattamento dal momento che le terapie immunomodulatorie odierne sono solo parzialmente efficaci. In quest’ambito la metodica più adeguata è quella con contrasto, in quanto l’identificazione di lesioni captanti il gadolinio è più semplice e meglio riproducibile rispetto a quella che prevede il ritrovamento di nuove lesioni nelle sequenze T2. Inoltre alcune di queste nuove lesioni spesso sono di dimensioni ridotte o localizzate in aree di confluenza lesionale, quindi possono essere visualizzate solo dopo essere state precedentemente evidenziate da studi con contrasto. Comunque la strategia più sensibile per mettere in evidenza l’attività di malattia tramite RM prevede che si esegua uno studio sia ricercando la captazione di gadolinio T1 che indagando tramite acquisizioni T2 l’insorgenza di nuove lesioni o l’aumento di dimensioni di quelle già presenti. La RM è la metodica con maggiore valore predittivo sull’attività di malattia nel lungo termine. Questo è vero soprattutto nei pazienti affetti da Sclerosi Multipla RR che vengono sottoposti a trattamento rispetto a quelli che non fanno terapia. Infatti nei pazienti trattati con INF-β il numero di lesioni captanti il contrasto è il migliore indice prognostico di progressione di disabilità calcolato secondo la EDSS. Analizzando il primo anno di trattamento con interferone si nota che la presenza di lesioni captanti in T1 oppure di lesioni nuove in T2 si associa in maniera stretta al rischio di recidive o di aumento del grado di disabilità. È stato stimato che in quei pazienti in cui durante il primo anno di terapia insorgono il maggiore numero di lesioni nelle acquisizioni T2 si presenta il rischio più alto di progressione nella scala EDSS (Rio, 2017).

Altra interessante peculiarità della Risonanza Magnetica, in particolare quella di tipo Funzionale (RMF), è quella di essere in grado di rilevare significative alterazioni dell’attivazione cerebrale, in pazienti che eseguono per 6 settimane una terapia riabilitativa computerizzata, finalizzata al recupero cognitivo. Questo tipo di terapia si è rivelata un approccio riabilitativo strutturato e standardizzato, in grado di rendere persistenti al follow-up le modifiche funzionali rilevate grazie alla RMF (J.Campbell, 2016)

La RM Funzionale si è rivelata efficace anche nel mettere in evidenza segni di neuroplasticità, indicativi di miglioramento cognitivo, in pazienti con Sclerosi Multipla di tipo RR che si sottopongono ad un programma definito Mental Visual Imagery (MVI). Questo protocollo agisce sulla Episodic Future Thought (EFT) e prevede lo svolgimento di esercizi mentali di visualizzazione a difficoltà crescente, divisi in 4 step, durante i quali il neurofisiologo guida il soggetto trattato. Tramite la RMF si è

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dimostrato che il MVI è capace di attivare in maniera particolare l’area frontopolare sinistra, a testimoniare la sua efficacia sulla capacità di progettare eventi futuri (Ernst, 2016).

2.3 Scoring systems

Nel tempo sono stati indicati diversi scoring systems volti all’identificazione dei pazienti in grado di rispondere in maniera sub-ottimale alla terapia. Questi metodi di analisi si basano sia su osservazioni cliniche che su studi radiologici. La Canadian Multiple Sclerosis Working Group (CMSWG) per predire la risposta al trattamento propose di eseguire una valutazione combinata di diversi parametri che indicassero la presenza di attività di malattia. La CMSWG descrisse un modello secondo il quale durante il periodo di trattamento si valutassero la progressione di disabilità, l’insorgenza di recidive e l’attività registrata alla Risonanza Magnetica. Questi parametri per essere correttamente studiati vengono stratificati in vari livelli di gravità. Questo tipo di metodica aveva l’unico vantaggio di identificare i pazienti non responders, non fornendo principi quantitativi per il cambiamento del trattamento. Uno studio più recente prende in analisi pazienti che hanno eseguito la terapia con interferone per più di un anno e in cui si è cercato di trovare degli indici che consentano una valutazione più quantitativa della risposta al trattamento. Per fare questo i parametri presi in considerazione sono la presenza di recidive cliniche, il peggioramento della disabilità valutata secondo la scala EDSS e la presenza di lesioni attive ritrovate alla RM. In particolare questi ambiti vengono indagati come: presenza di almeno 1 recidiva clinica, aumento di almeno 1 punto nella scala EDSS e riscontro di almeno 3 lesioni attive alla Risonanza Magnetica.

I pazienti che hanno maggiore probabilità di aggravare la propria disabilità o di presentare recidive nell’arco dei 2 anni seguenti, sono coloro che risultano positivi ad almeno 2 dei 3 criteri analizzati dopo il primo anno di trattamento con INF-β: in questo modo è possibile individuare i pazienti candidati al cambiamento di terapia. Questo scoring system prende il nome di Rio score (RS), di cui esiste anche una versione modificata chiamata modified Rio score (MRS), che ne rappresenta una variante semplificata. Questa nuova scala è stata codificata grazie ad uno studio che ha analizzato un gruppo di pazienti con SM RR trattati con 2 dosi di INF-β 1a sottocutaneo. Da questa indagine i ricercatori hanno desunto che è possibile dedurre l’effetto complessivo della terapia sulla progressione della disabilità negli anni a venire, valutando la comparsa di nuove lesioni T2 e l’insorgenza di recidive durante il primo anno di trattamento. I valori di cut-off per prendere in considerazione i parametri investigati sono riportati nella tabella 2.1. Grazie alla MRS è possibile inoltre catalogare i pazienti in 3 classi di rischio che definiscono la percentuale di probabilità che si verifichi una progressione di disabilità:

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1. Basso rischio, in cui la percentuale di progressione è del 24%; 2. Medio rischio con progressione di disabilità nel 33%;

3. Alto rischio per cui la percentuale di peggioramento è del 65%.

Infine possiamo dire che gli scoring system sono strumenti importanti per valutare la risposta del paziente alla terapia ed il rischio di progressione di disabilità, ma potrebbe aumentare il loro valore predittivo qualora venissero incorporate altre misurazioni come la stima del volume cerebrale alla RM, la valutazione della fatica, lo studio della cognitività e della percezione della qualità della vita (Rio, 2017).

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