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Studio di procedure analitiche per la caratterizzazione di materiale plastico disperso in sabbia marina.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN:

CHIMICA ANALITICA

Elaborato del Tirocinio:

Studio di procedure analitiche per la caratterizzazione di materiale plastico

disperso in sabbia marina

Relatore: Prof. Alessio Ceccarini

Controrelatore: Prof.ssa Francesca Modugno

Candidato: Francesca Erba

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INDICE

RIASSUNTO 2

Capitolo 1 – INTRODUZIONE 3

1.1 Definizione di microplastiche 3

1.2 Caratteristiche delle microplastiche 5

1.3 Impatto biologico delle plastiche 6

1.4 Degradazione dei polimeri 8

1.4.1 Degradazione delle poliolefine 10

1.4.2 Degradazione del polistirene 13

1.5 Metodi di campionamento e trattamento dei campioni 15

1.6 Caratterizzazione e quantificazione delle microplastiche 16

Capitolo 2 – PARTE SPERIMENTALE 19

2.1 Procedure di campionamento 19

2.2 Procedura d’analisi 22

2.2.1 Reagenti 22

2.2.2 Metodi 23

2.2.2.1 Estrazione a temperatura ambiente 23

2.2.2.2 Estrazione a caldo 24

2.2.2.3 Prova sui filtri 25

2.2.3 Analisi strumentale 27

2.2.3.1 Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR) 27

2.2.3.2 Pirolisi/Gas Cromatografia/Spettrometria di massa (Py-GC/MS) 28

2.2.3.3 Cromatografia a permeazione di gel (GPC) 28

Capitolo 3 – RISULTATI E DISCUSSIONE 29

3.1 Ottimizzazione delle procedure di estrazione 29

3.2 Caratterizzazione chimica dei materiali 32

3.2.1 Analisi mediante FT-IR 33

3.2.2 Caratterizzazione chimica dei materiali del sopravaglio 39

3.2.3 Analisi mediante Py-GC/MS 45

3.2.4 Analisi mediante GPC 52

3.2.5 Riassunto dei dati 64

3.3 Quantificazione mediante Py-GC/MS 64

CONCLUSIONI 67

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Riassunto

Questo lavoro sperimentale ha come obiettivo la messa a punto di un metodo analitico per la caratterizzazione e la quantificazione del materiale plastico finemente disperso in sabbia proveniente dal litorale pisano.

Dal punto di vista analitico le problematiche legate a questo tipo di analisi sono di varia natura: da un lato la complessità della matrice (sabbia) che può risultare talora disomogenea in termini di dimensioni granulometriche, dall’altro la complessità del materiale da estrarre e quantificare, ovvero una miscela di poliidrocarburi originati dalla degradazione di materiale polimerico ad elevato peso molecolare.

Durante la messa a punto della procedura di analisi è stato individuato un metodo di campionamento idoneo per la tipologia di matrice e sono state confrontate diverse tecniche di estrazione con solvente per garantire il massimo recupero del materiale di interesse. Inoltre, per la caratterizzazione chimica del materiale estratto dalla sabbia, sono stati confrontati i risultati ottenuti dall’analisi mediante le seguenti tecniche strumentali:

• Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR), utilizzata sia per identificare i materiali polimerici presenti nei residui delle estrazioni che per la caratterizzazione di frammenti plastici spiaggiati.

• Pirolisi/gas cromatografia/spettrometria di massa (Py-GC/MS), applicata al fine di identificare i materiali poliidrocarburici estratti ed escludere l’eventuale estrazione di macromolecole di origine naturale (es. lignina).

• Cromatografia a permeazione di gel (GPC), usata per valutare la distribuzione dei pesi molecolari per i diversi polimeri.

I dati raccolti mostrano che il materiale estraibile utilizzando diclorometano come solvente è costituito da poliidrocarburi a medio-basso peso molecolare riconducibili alla degradazione di materiali quali polietilene, polipropilene e polistirene. Inoltre le evidenze sperimentali permettono di escludere che la procedura di estrazione utilizzata rimuova anche macromolecole di origine naturale, ad esempio lignina, che porterebbero ad un sovrastima della quantità di materiale di origine antropica.

I risultati della caratterizzazione chimica del materiale estratto sono in accordo con prove parallele di caratterizzazione di frammenti di materiale plastico ottenuti dalla setacciatura della sabbia con un vaglio a 2 mm.

I risultati ottenuti hanno permesso di differenziare le diverse zone della spiaggia (dune, linea di costa, berma di tempesta e battigia) dal punto di vista quantitativo. In particolare, i campioni delle dune hanno mostrato la presenza di quantitativi maggiori di materiali plastici (327 mg/Kg), come anche i campioni della linea di costa (18,7 mg/Kg), corrispondente al punto di maggior accumulo del materiale spiaggiato. Per quanto riguarda, invece, i campioni appartenenti alla battigia e alla berma di tempesta le quantità di materiale poliidrocarburico ritrovate nei residui delle estrazioni sono risultate minori (rispettivamente 5,6 e 6,9 mg/Kg).

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Capitolo 1

Introduzione

La produzione mondiale di plastiche è aumentata notevolmente con lo sviluppo di polimeri sintetici a partire dalla metà del 20° secolo, arrivando attualmente a superare le 300 milioni di tonnellate annue. La grande scala di produzione, accoppiata con la lunga durata dei materiali plastici e il basso grado di riciclo, ha avuto come conseguenza un aumento di inquinamento su tutto il pianeta, in particolare nell’ambiente marino. [1]

I frammenti plastici dispersi nell’ambiente raggiungono gli oceani, dove si osservano processi di accumulo sia sulla superficie delle acque (isole di plastica) che sui fondali marini. Parte di questo materiale torna alla terra ferma sotto forma di materiale spiaggiato. I processi di trasporto in mare sono determinati da diversi fattori come i venti, le correnti marine, l’azione delle onde così come dalle proprietà fisiche dei materiali stessi.

La presenza e l’accumulo di microplastiche nell’ambiente marino è di notevole interesse scientifico per diverse ragioni: innanzitutto, date le piccole dimensioni, numerosi organismi marini riescono ad ingerire questi frammenti, inoltre, per la loro natura idrofoba, le microplastiche possono adsorbire composti tossici (PBT- Persistent Bioaccumulative and Toxic compounds) direttamente dall’acqua, tra cui metalli e POPs (Persistent Organic Pollutants); infine, una volta che gli esseri viventi ingeriscono le microplastiche, le sostanze inquinanti vengono trasferite all’organismo e non è noto quale possa essere il rischio tossicologico associato a questo fenomeno. [2]

Gran parte degli studi presentati in letteratura sono concentrati sulla quantificazione e diffusione dei detriti plastici nell’ambiente marino allo scopo di capire meglio l’impatto che le microplastiche hanno sull’ambiente ma soprattutto sugli organismi viventi che ne fanno parte.

1.1 Definizione di microplastiche.

Non è chiaro quando il termine “microplastiche” sia stato usato la prima volta in relazione ai frammenti marini, ma già negli anni ’70 si potevano trovare in letteratura articoli scientifici riguardanti la presenza di piccoli pezzi di plastica che galleggiavano sulla superficie dell’oceano. [3, 4] Ad oggi non è stata ancora data una definizione precisa di questo termine, ma generalmente con “microplastiche” si intendono quei frammenti che possono essere identificati soltanto mediante l’uso di un microscopio, anche se, in certi casi, vengono considerati microplastiche frammenti di dimensioni inferiori a 5 mm [5] o, in altri casi, inferiori a 1 mm [1].

Una definizione delle dimensioni delle microplastiche è stata discussa nel 2008 durante il primo workshop internazionale di ricerca sulla presenza, gli effetti e il destino dei rifiuti marini microplastici. [6] Sebbene non si voglia definire un limite inferiore, i campioni più piccoli hanno dimensioni minime di 333 µm, dato dall’uso di reti con maglie di questa grandezza, comunemente usate per catturare plankton e detriti galleggianti. Sono state rilevate anche particelle più piccole (1-1,6 µm) [7], ma per queste dimensioni non è stata sviluppata alcuna procedura standard di campionamento in acqua di mare [8]. Il limite superiore, invece, è stato fissato a 5 mm. [6]

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Fondamentalmente le dimensioni minime delle microplastiche dipendono dal metodo di campionamento e di trattamento dei campioni: per la sabbia si utilizzano setacci e le dimensioni delle microplastiche campionate vanno da 0,5 a 2 mm; per i campionamenti effettuati in acqua, invece, le dimensioni dipendono dalle maglie delle reti. Durante il trattamento dei campioni, la grandezza delle microplastiche viene limitata dalle dimensioni dei pori dei filtri utilizzati per la filtrazione (1-2 µ m), anche se non è da escludere che siano presenti nella sabbia frammenti ancora più piccoli, nell’ordine delle nanoparticelle, per i quali, però, non sono ancora stati studiati metodi di identificazione e quantificazione adatti. Si può fare una distinzione tra microplastiche “primarie” e “secondarie”: con primarie si intendono tutte quelle plastiche derivanti da oggetti di uso quotidiano (detergenti per il viso, reti da pesca, imballaggi ecc.) e da precursori di altri prodotti (pellet); le secondarie sono, invece, quelle formate nell’ambiente per degradazione e frammentazione di porzioni più grandi di materiali plastici. [6]

Globalmente sono numerose le tipologie di polimeri utilizzati nella produzione di materie plastiche, ma il mercato è dominato da sei classi: polietilene (PE, alta e bassa densità), polipropilene (PP), polivinilcloruro (PVC), polistirene (PS, compreso polistirene espanso EPS), poliuretano (PU) e polietilene tereftalato (PET). La maggior parte dei comuni materiali termoplastici fabbricati (PE, PP) vengono utilizzati in prodotti di confezionamento, la cui utilità ha un tempo di vita medio abbastanza breve, dopodiché finiscono rapidamente nei rifiuti o vengono dispersi nell’ambiente, in cui, col tempo, li si ritrova sotto forma di microplastiche.

In tabella 1.1 si riportano i principali polimeri che compongono le microplastiche.

Tabella 1.1: principali polimeri a cui possono essere ricondotte le microplastiche e abbreviazioni. Polimero Abbreviazione Polietilene PE Polipropilene PP Polistirene PS Cloruro di polivinile PVC Poliuretano PU Polietilene tereftalato PET Poliammide (nylon) PA Acrilico PC Poliossimetilene POM Alcol polivinilico PVA Polimetilcrilato PMA

Una proprietà importante che influenza il comportamento in mare delle microplastiche è la loro densità: questa proprietà dipende sia dal tipo di polimero, sia dai trattamenti durante i processi di fabbricazione (aggiunta di additivi). La densità delle materie plastiche varia da 0,8 a 1,4 g/cm3, mentre la densità dell’acqua di mare si aggira attorno a 1,03 g/cm3: per questo motivo le microplastiche tendono a galleggiare o stanno in sospensione sotto la superficie dell’acqua, ben separate dalla sabbia, la cui densità ha valori di 2,6 g/cm3. [2]

I frammenti plastici presenti sia sulle spiagge sia sulla superficie marina sono esposti alle radiazioni UV, le quali favoriscono i processi di degradazione e la perdita delle proprietà meccaniche del polimero vergine [9]: si sviluppano crepe superficiali sulle plastiche [10] e

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si formano così frammenti sempre più piccoli [11, 12]. I processi di degradazione ad opera degli agenti atmosferici sono più rapidi sui materiali spiaggiati e più lenti per i detriti che galleggiano in mare. Al contrario, in ambienti afotici e a bassa presenza di ossigeno i processi di degrado e frammentazione sono particolarmente lenti.

La degradazione sulla superficie marina è rallentata dalle basse temperature dell’acqua. Inoltre, il fenomeno del biofouling porta ad un aumento della fauna in superficie, che protegge le plastiche dalle radiazioni UV. A differenza delle plastiche che si trovano in mare, quelle presenti sulla spiaggia hanno un grado di degradazione più alto, a causa di un più efficace irraggiamento UV, temperature più elevate e per l’abrasione meccanica ad opera della sabbia. [6]

Tra queste il contributo dominante alla degradazione delle plastiche spiaggiate è dato sicuramente dalla radiazione solare UV, che facilita la degradazione ossidativa dei polimeri [13]. La fotodegradazione delle plastiche comuni come polietilene, polipropilene e polistirene consiste in reazioni di ossidazione che procedono per via radicalica [14]. Il meccanismo che sta alla base dell’ossidazione auto-catalitica delle plastiche comuni è noto [15]. Durante gli stadi avanzati di degradazione, i frammenti di plastica tipicamente perdono il colore e diventano deboli e fragili. A questo punto qualsiasi sollecitazione meccanica, come il trasporto ad opera del vento, onde o attività umana, possono rompere i fragili frammenti di plastica altamente degradati.

I prodotti plastici possono contenere una serie di additivi, utilizzati per modificare le proprietà della resina, per ottenere caratteristiche adatte all’uso che si intende fare del prodotto finito. Gli additivi svolgono anche la funzione di stabilizzanti UV e calore, riducendo gli effetti della degradazione ossidativa e ambientale delle plastiche.

1.2 Caratteristiche delle microplastiche

La presenza di pellets nell’ambiente marino è da attribuire ad una perdita da parte dei processi di produzione e trasporto dei materiali vergini. Si è visto che non solo si riversano nelle acque circostanti agli impianti, ma le si ritrovano anche nelle spiagge lontane, a causa del trasporto marino. Alcune proprietà dei pellets cambiano durante la permanenza in acqua: la densità specifica diminuisce se l’esposizione all’ambiente marino è duratura. [16] L’esposizione agli agenti atmosferici e il fenomeno del biofouling influenzano il grado di galleggiamento e la densità delle plastiche. La degradazione ha come conseguenza una diminuzione della densità, mentre l’accrescimento di microrganismi sulle microplastiche ne causa l’aumento.

Microplastiche derivanti da prodotti di consumo sono di diversi tipi e origini. Si possono descrivere come frammenti rotti, appuntiti, infragiliti, alterati, di forma irregolare e di varie dimensioni. Possono derivare da reti da pesca, sottili film plastici, materie prime delle industrie e detergenti facciali [17] oppure sono microplastiche di polietilene e fibre di poliestere a bassa densità che sfuggono agli impianti di trattamento delle acque reflue, arrivando nell’oceano. [18]

La forma dei detriti dipende dai processi di frammentazione e dal tempo di residenza nell’ambiente. Bordi taglienti indicano un’introduzione recente nel mare o una recente rottura di pezzi più grandi, mentre bordi lisci si associano a frammenti più vecchi, che sono

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stati levigati da altre particelle o sedimenti. Frammenti più grandi hanno forme più allungate e superfici irregolari, mentre quelli più piccoli sono maggiormente tondeggianti. [19] La degradazione e l’erosione superficiale delle particelle sono causate da fotodegradazione, rottura biologica, alterazione chimica e forze fisiche (onde, vento, sabbia). [20] Questo può causare rotture visibili sulla superficie della plastica, portando a una grande varietà di forme differenti.

La struttura della superficie delle microplastiche può influenzare la concentrazione di sostanze chimiche adsorbite; in particolare l’adsorbimento di inquinanti nei pellets aumenta all’aumentare dell’area superficiale.

Ad oggi, non esiste un metodo per determinare il tempo medio di permanenza delle particelle plastiche nell’ambiente marino.

I colori più comuni delle microplastiche ritrovate nell’ambiente marino sono il bianco e colori correlati (giallo da scolorimento, bianco chiaro/crema ecc). Il colore può facilitare la separazione nel caso in cui le microplastiche siano disperse in grandi quantità di altri detriti. In letteratura il colore viene utilizzato per un’identificazione preliminare della composizione chimica dei pellets più comuni: pellets chiari e trasparenti possono essere attribuiti a polipropilene, mentre pellets bianchi a polietilene.

Un altro uso che se ne fa è per valutare l’indice di fotodegradazione, il tempo di residenza sulla superficie marina e il grado di alterazione: il processo di scolorimento dei pellets di polietilene (ingiallimento) è indicativo di una lunga esposizione all’acqua di mare, che aumenta la probabilità di ossidazione dei polimeri. [21] Pellets neri e invecchiati, essenzialmente quelli composti da polistirene e polipropilene, presentano la più elevata varietà di inquinanti adsorbiti, sia per gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici) che per i PCB (Policlorobifenili). [7]

1.3 Impatto biologico delle plastiche.

L’interesse crescente nei confronti delle plastiche e delle microplastiche nell’ambiente marino è legato soprattutto agli effetti che esse hanno sulla fauna acquatica.

Le minacce alla vita marina sono principalmente da attribuire all’ingestione di frammenti plastici e all’intrappolamento in nastri da imballaggio o reti da pesca.

L’inquinamento marino colpisce 267 specie animali in tutto il mondo, tra cui l’86% di tutte le specie di tartarughe marine, il 44% di tutte le specie di uccelli marini e il 43% di tutte le specie di mammiferi marini. [22] Questa forma di inquinamento è ad oggi sottovalutata, dal momento che molte delle vittime non possono essere trovate, o perché affondano nell’oceano o perché vengono mangiate dai predatori.

L’accumulo di detriti plastici sui fondali marini, inoltre, può costituire un potenziale rischio per l’ecosistema marino. Questo fenomeno può inibire lo scambio di gas tra l’acqua del fondale e le acque sovrastanti, provocando ipossia o anossia nel benthos, interferendo con il normale funzionamento dell’ecosistema e alterando la composizione della fauna acquatica. Numerosi studi riportano il ritrovamento di plastiche all’interno di stomaci di uccelli marini ed è stato notato che queste specie selezionano frammenti di specifiche forme e colori, scambiandoli per possibili prede. Sono state esaminate diverse specie di pesci e nei loro intestini sono state ritrovate soltanto particelle sferiche di plastica bianca, indicando elevata

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capacità selettiva nel cibo. [3] Un caso simile di ingestione selettiva di frammenti plastici bianchi viene riportato anche per le tartarughe marine (Caretta Caretta). [23] Per quanto riguarda gli uccelli di mare l’ingestione delle plastiche è correlata alle tecniche di foraggiamento e al tipo di dieta. [22, 24, 25, 26, 27] Inoltre pesci planctivori sono più propensi a confondere pellets con la loro preda rispetto a pesci piscivori, pertanto i primi hanno una maggiore incidenza di plastiche ingerite. [24]

In letteratura sono stati svolti esperimenti su galline domestiche (Gallus domesticus) per stabilire i potenziali effetti dell’ingestione di particelle plastiche da parte di uccelli marini. Sono state nutrite con pellets di polietilene e i risultati indicano che le plastiche ingerite riducono la quantità di cibo assunto a pasto, in quanto diminuiscono il volume a disposizione di stomaco e l’appetito. Riducendo l’assunzione di cibo viene limitata anche la capacità di creare depositi di grasso, peggiorando così la forma fisica. [28] Negli uccelli migranti

Phalaropus fulicarius il fatto che sia ostacolata la formazione di depositi di grasso influisce

negativamente sulla migrazione a lunga distanza e sulla riproduzione. [29] Altri effetti causati dall’ingestione di particelle plastiche includono il blocco della secrezione di enzimi gastrici, la diminuzione dello stimolo a nutrirsi, abbassamento dei livelli di ormoni steroidei, ritardo nell’ovulazione e problemi riproduttivi. [24] L’ingestione di frammenti plastici può provocare anche lesioni interne e blocchi intestinali, che portano alla morte.

Gli uccelli procellariformi, come l’albatro di Laysan, sono più vulnerabili per il fatto che non sono in grado di rigurgitare la plastica ingerita, la quale si accumula nello stomaco, portando alla morte. [24, 30, 31]

Il problema dell’ingestione di materiali plastici non è, tuttavia, limitato ai soli uccelli marini, ma, ad esempio, colpisce anche le tartarughe ed in particolare gli esemplari più giovani. [32] Infatti le borse di polietilene vengono scambiate dalle tartarughe marine per prede, in quanto sono trasportate dalle correnti oceaniche in modo simile. [23, 33, 34] In letteratura viene riportato un caso di ritrovamento di una tartaruga che aveva inghiottito 540 metri di filo da pesca. [35]

Una minaccia molto seria alla vita marina deriva dall’intrappolamento degli animali in detriti plastici, in particolare reti da pesca. Questo fenomeno è stato osservato per le sule (Sula

bassana) [36] e per le tartarughe marine [32], ma risulta essere un problema significativo

per i mammiferi marini, come le foche, che sono animali curiosi e giocosi. [33]

Le foche vengono attratte da detriti galleggianti e si immergono, rotolando su di essi. [33] Avvicinandosi a questi oggetti spesso rimangono intrappolate nei fori o negli anelli plastici, [27, 37] ma quanto è semplice riuscire a farli scivolare attraverso il collo, è tanto difficile sfilarli, a causa dei lunghi peli di guardia posseduti da questi animali. [33] Così i cuccioli crescono con questi collari di plastica, che col tempo tendono a strangolarli o a recidere le arterie. [38] L’intrappolamento può portare anche all’annegamento, all’incapacità di catturare prede o fuggire dai predatori [27] e alla perdita della forma fisica, in quanto aumenta il costo energetico richiesto per muoversi. [39]

All’ingestione di plastiche e all’intrappolamento si aggiunge il problema biologico legato ai policlorobifenili (PCB), che hanno colpito la rete trofica marina e si ritrovano prevalentemente in uccelli marini. [40] Anche se i loro effetti non sono sempre del tutto evidenti, i PCB possono portare a disturbi riproduttivi o alla morte, aumentano il rischio di malattie e alterano i livelli ormonali. [40, 41]

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Uno studio sulle berte ha dimostrato che i PCB trovati nei tessuti di questi animali derivano dalle particelle plastiche ingerite e che pertanto gli uccelli marini possono assimilare le sostanze chimiche direttamente dalle plastiche presenti nello stomaco. [40] La stessa conclusione è stata raggiunta qualche anno dopo studiando le tartarughe. [42]

Un altro tipo di inquinamento è dovuto ai metalli pesanti, che possono essere introdotti nell’ambiente marino mediante piccole particelle plastiche, derivanti, ad esempio, da procedure di pulizia dei motori. Particelle di polietilene vengono utilizzate per sverniciare superfici metalliche e per pulire parti di motori, dopodiché vengono gettate, passano attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, da cui, però, spesso sfuggono, giungendo fino al mare e apportando un inquinamento da metalli pesanti. Questo fenomeno può avere diverse conseguenze sull’ambiente, ad esempio i metalli pesanti possono essere trasferiti agli organismi e agli invertebrati mediante l’alimentazione e passare poi a livelli trofici superiori. [43]

Infine l’inquinamento da parte di materie plastiche può avere conseguenze per gli ecosistemi marini a causa dell’introduzione di specie non appartenenti a quell’ambiente. [44] Le plastiche galleggianti possono ospitare una fauna di vari microrganismi come batteri, alghe, diatomee, balani, idroidi e tunicati, [3, 4, 45, 46] che attraversano continenti interi, mediante il trasporto marino. [47, 48] Queste specie, tuttavia, possono essere introdotte in ambienti dove erano precedentemente assenti e questo potrebbe essere dannoso per gli ecosistemi costieri, intertidali e litorali. [49, 50] Questo mescolamento biotico sta diventando un problema diffuso ed è una potenziale minaccia per la biodiversità marina. Secondo alcune stime la diversità delle specie marine globali potrebbe diminuire del 58% in caso di miscelazione di tutto il mondo biologico.

1.4 Degradazione dei polimeri.

La degradazione dei polimeri che compongono i materiali plastici può avvenire sia in fase di lavorazione che sul prodotto finito. Per evitare che si instaurino questi processi durante la produzione si aggiungono degli additivi, come ad esempio gli anti-ossidanti, che permettono di ritardare la reazione semplicemente ossidandosi al posto del polimero stesso; tuttavia questi hanno un tempo di vita limitato, dopodiché si esauriscono e a quel punto partono i processi di degradazione del polimero sul prodotto plastico finito.

La degradazione dei polimeri può essere causata da diversi fattori, come il calore (degradazione termica), la luce (fotodegradazione), radiazioni ionizzanti (degradazione radio), azione meccanica oppure funghi, batteri, lieviti, alghe e loro enzimi (biodegradazione). L’effetto deleterio degli agenti atmosferici sui polimeri è da attribuire ad una serie complessa di processi in cui predomina l’azione combinata di luce UV e ossigeno. Il processo di degradazione innescato dalla luce in presenza di ossigeno prende il nome di fotodegradazione ossidativa o foto-ossidazione. Questo fenomeno porta alla rottura di catene polimeriche, produce radicali liberi e riduce il peso molecolare dei polimeri. Un’ampia varietà di polimeri sintetici e naturali assorbe la radiazione solare UV e va incontro a reazioni fotolitiche, foto-ossidative e termo-ossidative. [51, 52] I danni portati dalla radiazione UV sono i principali responsabili di decolorazione di coloranti e pigmenti, ingiallimento di plastiche e perdita di lucentezza e proprietà meccaniche. Per questo motivo quasi tutti i

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polimeri necessitano di una stabilizzazione, che li preservi dal danno dovuto a fattori ambientali quali il calore, la luce o l’ossigeno. [53]

La foto-stabilizzazione dei polimeri può essere realizzata in molti modi, ad esempio mediante assorbitori UV, agenti anti-radicali liberi o decompositori di perossidi.

I fattori che portano alla foto-ossidazione si possono dividere in due gruppi:

• Impurità interne, che possono contenere gruppi cromofori, introdotti nelle macromolecole durante il processo di polimerizzazione e lo stoccaggio e includono: idroperossidi, carbonili, legami insaturi (C=C), residui catalitici e complessi a trasferimento di carica con ossigeno.

• Impurità esterne, che possono contenere gruppi cromofori e includono: tracce di solventi, catalizzatori ecc., composti derivanti da inquinamento urbano e smog, additivi (pigmenti, coloranti ecc.) e tracce di metalli e ossidi di metalli (Fe, Ni, Cr). La fotodegradazione è efficace quando la luce riesce ad essere assorbita dal substrato, ovvero dal sistema polimerico, pertanto la presenza di gruppi cromofori nelle macromolecole è un prerequisito per l’innesco di qualsiasi reazione fotochimica. [54]

Chetoni, chinoni e perossidi sono iniziatori di diverse reazioni di degradazione o di modificazione chimica che si verificano in composti organici: essi assorbono la luce fino a circa 380 nm e questo causa la loro eccitazione o scissione di radicali.

La fotodegradazione può verificarsi in assenza di ossigeno (rottura della catena e reticolazione) o in presenza di ossigeno (foto-ossidativa); quest’ultima viene indotta dalla radiazione UV e da altri catalizzatori e viene accelerata dalle temperature elevate.

Come meccanismo di degradazione si può considerare valido quello proposto da Bolland e Gee [55], che prevede tre step:

1. Inizio

2. Propagazione sulla catena 3. Termine

Nello schema 1.1 si riporta il meccanismo generale di degradazione ossidativa.

Schema 1.1: meccanismo generale di degradazione ossidativa.

Questo meccanismo è valido sia per le poliolefine (PE e PP) che per il polistirene, che sono i principali polimeri utilizzati nella produzione dei materiali plastici. Tuttavia le differenti strutture dei polimeri fanno sì che si formino radicali diversi con diverse reattività, che portano alla formazione di prodotti differenti.

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1.4.1 Degradazione delle poliolefine

Le poliolefine sono soggette a degradazione ossidativa, poiché possiedono delle “impurità”, ovvero gruppi carbonilici e gruppi idroperossido, che si formano durante la lavorazione del polimero. La struttura chimica delle poliolefine gioca un ruolo importante nei processi di degradazione ossidativa, sia per il PE che per il PP: il grado di polimerizzazione, la conformazione di catena, il grado di cristallinità e la geometria influenzano questo tipo di degradazione. Nel caso del PE, la bassa reattività dei legami non polari C-C e C-H costituisce un forte vincolo per i processi degradativi attraverso reazioni con radicali liberi. Questo tipo di reazioni hanno solitamente inizio da processi di rottura di legame promossi da una somministrazione di energia sotto forma di calore, radiazione o stress meccanico.

Il punto di partenza del processo degradativo può essere attribuito ad una rottura omolitica del legame nella catena carboniosa, che si verifica durante la lavorazione dei polimeri, in risposta agli sforzi di taglio durante l’estrusione. [56] In presenza di ossigeno, come nella maggior parte dei processi industriali, il radicale al carbonio si converte in un radicale perossido, che a sua volta si modifica in un radicale idroperossido mediante sottrazione di un idrogeno dal gruppo metilenico vicinale (sottrazione in β). L’elevata reattività del gruppo idroperossido quando viene esposto a calore o radiazione UV promuove una serie di reazioni che portano alla rottura della catena (riduzione della massa molare) e alla formazione di diversi gruppi ossidati.

La decomposizione dei gruppi idroperossido viene considerato lo step determinante per la velocità della reazione. [57] Si instaura, infatti, una reazione radicalica a catena tra l’ossigeno e i legami C-H nella catena polimerica, in cui gli idroperossidi sono la chiave intermedia: la loro formazione e decomposizione promuove un aumento di velocità di reazioni concatenate. [58]

Dal punto di vista analitico si utilizza la spettroscopia FT-IR per gli studi cinetici sulla foto-ossidazione delle poliolefine nello stato solido. Si possono monitorare dei cambiamenti evidenti in varie regioni dello spettro FT-IR durante il processo di degradazione del PE. In particolare si può valutare la velocità e il grado di degradazione ossidativa delle poliolefine osservando la formazione del segnale degli idroperossidi (tra 3400 e 3200 cm-1) e l’aumento del segnale nella regione carbonilica (1650-1850 cm-1). È stato stimato che nel PE ossidato più dell’80% dei prodotti contenenti ossigeno sono rappresentati da catene carboniose che contengono gruppi carbonilici e carbossilici. I gruppi carbonilici sono prodotti dalla decomposizione di idroperossidi, passando da macroradicali alcossido, per scissione di catena.

In figura 1.1 e 1.2 si riportano le reazioni che portano alla formazione di gruppi carbonilici.

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Figura 1.2: degradazione del macroradicale alcossido a gruppo carbonilico.

Se la sottrazione dell’idrogeno per formare l’idroperossido non avviene in β, ma sul carbonio geminale, si formerà un composto carbonilico lungo la catena del polimero (chetonico) invece che terminale (aldeidico).

In figura 1.3 si riportano i meccanismi di degradazione del PE.

Figura 1.3: meccanismo di degradazione del PE.

La rottura fotolitica di gruppi chetonici attraverso i meccanismi Norrish I e II (Fig. 1.4) può portare alla formazione di gruppi carbossilici. Nella reazione Norrish I la rottura di catena genera dei prodotti radicalici terminali, mentre nella Norrish II si ottengono un gruppo chetonico e uno vinilico terminali.

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Figura 1.4: meccanismi Norrish I e II.

È stato dimostrato che l’indice carbonilico può essere utilizzato per valutare il grado di degradazione, in quanto è correlato alla perdita di peso molecolare. Come si può notare dalla figura 1.5 la relazione tra l’indice carbonilico e il peso molecolare del PE è espressa da una curva con andamento esponenziale.

Figura 1.5: grafico della correlazione tra peso molecolare (Mw) e indice carbonilico (COi) del PE. [59]

Il polipropilene, a causa del suo carbonio terziario, è soggetto anche ad altre reazioni. Per la grande reattività del carbonio terziario il PP è meno stabile e commercialmente viene stabilizzato per combattere l’ossidazione. In modo simile al PE, si nota una riduzione nel peso molecolare, formazione di gruppi carbonilici e perdita di proprietà fisiche. Un’altra

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scoperta interessante è che l’ossidazione può essere trasferita da uno strato all’altro del solido. [60]

Il meccanismo di degradazione più probabile per il PP viene indotto dal calore o dalla luce e va incontro a un trasferimento elettronico con formazione di radicali liberi. Questi radicali liberi alchilici sottraggono un idrogeno terziario dal PP, formando macroradicali propilici, i quali reagiscono con l’ossigeno, generando macroradicali perossido, convertiti poi in idroperossido. La formazione dei radicali alcossido dalla decomposizione degli idroperossido costituisce un passaggio importante, poiché i macroradicali formati portano alla rottura della catena principale con formazione di gruppi carbonilici. Infine i gruppi chetonici attraverso i meccanismi di Norrish I e II liberano prodotti come aldeidi, acidi carbossilici, esteri, lattoni e peracidi. [61]

1.4.2 Degradazione del polistirene

Il calore o l’irradiazione a lunghezze d’onda corte possono causare la formazione di macroradicali mediante la sottrazione di un idrogeno principalmente da atomi di carbonio terziario della catena carboniosa di PS. Una volta formati, i radicali terziari, in presenza di ossigeno, vengono convertiti in perossiradicali e successivamente in gruppi idroperossido mediante sottrazione di un idrogeno dalla catena polimerica. La decomposizione di questi gruppi, tramite fotolisi o termolisi, porta alla formazione di macroradicali alcossido, che possono reagire in diversi modi (figura 1.6):

• Formazione di gruppi idrossilici tramite sottrazione di un atomo di idrogeno

• β-scissione dei macroradicali

In particolare sono state ipotizzati due tipi di scissione i) Scissione al legame C-Ph

ii) Scissione del legame C-CH2

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b)

Figura 1.6: a) e b) meccanismo di degradazione del PS.

Nel primo caso (Formazione di gruppi idrossilici tramite sottrazione di un atomo di idrogeno) la scissione del legame può produrre un radicale fenilico che è da considerarsi come precursore del benzene, la cui formazione è stata confermata da diversi studi sulla foto-ossidazione del PS. La β-scissione del legame, invece, tra C e CH2 porta ad un gruppo tipo

acetofenone. Probabilmente questi gruppi sono coinvolti in una serie di reazioni che portano alla formazione di diversi prodotti di degradazione a basso peso molecolare, come ad esempio acetofenone, benzaldeide, acido benzoico, acido formico, acido acetico, benzene, dibenzoilmetano e anidride benzoica, formati da meccanismi di depolimerizzazione. [62, 63] È stato notato anche che le reazioni di ossidazione sono confinate sugli strati superficiali del solido di PS, portando ad un’apprezzabile perdita di peso, mentre la scissione della catena polimerica potrebbe essere piuttosto limitata. In figura 1.7 si riporta lo spettro GPC di un campione di PS prima e dopo esposizione a calore e raggi UV: si può notare che, nonostante nel tempo subentrino i processi degradativi, permane sempre il picco relativo alla frazione di PS ad alto peso molecolare. Questo fenomeno è indice del fatto che la degradazione del PS avviene negli strati più esterni delle materie plastiche, che si comportano da antiossidanti andando a preservare gli strati interni.

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Figura 1.7: spettro GPC di un campione di PS prima e dopo esposizione a calore e raggi UV.

È stato ipotizzato tuttavia che gli idroperossidi potrebbero anche decomporsi senza scissione di catena (figura 1.8), portando alla produzione di un gruppo carbonilico lungo la catena principale e ad un fenolo come prodotto di ossidazione a basso peso molecolare.

Figura 1.8: decomposizione dell’idroperossido senza scissione di catena.

1.5 Metodi di campionamento e trattamento dei campioni.

Confrontando diversi studi descritti in letteratura è stato osservato che la maggior parte di rifiuti plastici tende ad accumularsi nella zona più alta della spiaggia. [64] Per quanto riguarda i pellets, sono stati ritrovati sia nel limite dell’alta marea, sia nella zona retrodunale. [65] La zona tidale campionata sulla spiaggia varia notevolmente nei diversi studi descritti in letteratura; laddove viene campionata l’intera spiaggia, dalla zona intertidale alla supratidale, in alcuni studi si distinguono i campioni appartenenti a diverse zone litorali [66], in altri vengono riuniti i campioni presi da zone diverse [67, 68]. La maggior parte dei campionamenti sono stati fatti nel limite dell’alta marea.

Generalmente le microplastiche si muovono in maniera diversa rispetto alle macroplastiche: per quanto riguarda queste ultime, la loro distribuzione è influenzata dalle correnti e dal vento, mentre per le microplastiche i meccanismi che guidano la distribuzione non sono totalmente noti.

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Negli studi riportati in letteratura per il campionamento è stato fatto uso di pinze [69, 70], cucchiai [10] o semplicemente sono stati raccolti i frammenti plastici a mano nuda [65, 68, 71].

Per la scelta delle aree di campionamento sono stati usati approcci differenti:

• Campionamento di una fascia lineare lungo la spiaggia facendo uso di un cucchiaio o di una spatola.

• Campionamento di un’area delimitando zone di forma quadrata.

• Campionamento di differenti strati in profondità usando carotatori.

Per i campionamenti fatti su diversi strati in genere sono studiati intervalli di profondità da 0 a 32 cm. [2]

I campioni raccolti vengono poi trattati in laboratorio con tecniche di separazione per densità, filtrazione, setacciamento, classificazione visiva e separazione.

Come già riportato nel paragrafo precedente, le densità dei polimeri consentono alle plastiche di galleggiare in mare o essere sospese sotto la superficie dell’acqua, ben separate dal sedimento. Analogamente a questo processo naturale, in laboratorio si utilizzano delle soluzioni sature per separare le microplastiche dalla sabbia. In alcuni articoli si riporta l’uso di acqua di rubinetto [72] o acqua di mare [73]; altri invece utilizzano soluzioni più dense, come soluzioni saline concentrate di NaCl (1,2 g/cm3) o soluzioni di politungstato di sodio (1,4 g/cm3) [67], che permettono di far galleggiare anche i frammenti plastici a densità più alta.

Dopo questa operazione le microplastiche vengono separate dal surnatante filtrando la soluzione attraverso filtri di carta con dimensioni dei pori di 1-2 µm [74]. Talvolta vengono utilizzati prima della filtrazione dei setacci da 500 µm per dividere le microplastiche più grandi dai frammenti più piccoli. Nello studio che utilizza acqua dolce per la separazione per densità viene riportato che le microplastiche sono state prelevate dalla superficie del surnatante mediante l’ausilio di pinzette. [72]

Un altro modo per separare le microplastiche dalla sabbia consiste nell’uso di setacci, i quali possiedono dimensioni delle maglie da 0,038 a 4,75 mm. Vengono utilizzati singoli setacci o serie di due [75] o tre [76] setacci consecutivi, per separare frammenti di varie dimensioni. Infine vengono separate le microplastiche dai frammenti di altri materiali (legno, conchiglie, alghe ecc.): questa operazione viene condotta a occhio nudo o con l’aiuto di un microscopio. Il materiale plastico separato viene poi sciacquato, asciugato e conservato a temperatura ambiente. [10]

1.6 Caratterizzazione e quantificazione delle microplastiche.

La quantificazione e la caratterizzazione chimica delle microplastiche è importante non solo per classificare le tipologie di polimeri che si riversano nell’ambiente marino ma soprattutto per capire i meccanismi di trasformazione che questi subiscono nel tempo.

In letteratura sono descritti vari metodi per l’identificazione della natura del materiale costituente i detriti marini. Un breve elenco è riportato in tabella 1.2.

Il metodo più semplice consiste nella valutazione della densità. [77, 78] Ad una soluzione di acqua distillata, vengono aggiunti frammenti plastici: laddove le microplastiche affondano si addiziona una soluzione di cloruro di calcio o di stronzio, per aumentare la densità del

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liquido, mentre nel caso in cui i frammenti galleggiano si aggiunge etanolo, per diminuire la densità del mezzo. Questa operazione viene fatta con lo scopo di portare le microplastiche ad un galleggiamento neutro. A questo punto viene determinata la densità risultante della soluzione, che è paragonabile con quella delle microplastiche nelle condizioni di galleggiamento neutro.

La classificazione mediante la densità specifica, così come mediante colore e forma, pur essendo un metodo rapido ed economico funziona soltanto per pellets e materiale vergine. Infatti, nel caso di frammenti più piccoli, molto spesso si corre il rischio di scambiare microparticelle non plastiche con microplastiche; l’accuratezza della classificazione diminuisce al diminuire delle dimensioni dei frammenti studiati.

L’uso di tecniche spettroscopiche permette di determinare la composizione chimica di frammenti plastici incogniti con un’elevata affidabilità. Si è visto che ben il 70% di particelle somiglianti visivamente a microplastiche in realtà non vengono confermate come plastiche dalle tecniche spettroscopiche. [2]

La tecnica strumentale più utilizzata nello studio dei polimeri è la spettroscopia infrarossa (FT-IR): questa tecnica, tramite l’identificazione dei gruppi funzionali, permette l’identificazione delle classi principali di appartenenza dei materiali organici presenti in forma maggioritaria nel materiale analizzato. Un altro vantaggio molto importante consiste nella possibilità di analizzare direttamente materiali solidi anche quando la disponibilità in peso è limitata a pochi milligrammi. [1, 7, 8, 10, 79, 80]

La spettroscopia FT-IR/ATR (Attenuated Total Reflectance – Riflettanza totale attenuata), permette di avere informazioni sulla composizione superficiale di materiali plastici degradati in maniera non distruttiva. [5, 67, 81] Un’altra tecnica utilizzata è la spettroscopia Raman, che dà informazioni sulla struttura cristallina del polimero. [82]

In uno studio, per la caratterizzazione delle microplastiche, è stata impiegata la calorimetria differenziale a scansione (DSC), in cui si studiano le transizioni termiche dei polimeri, mediante contemporanea somministrazione di calore al campione incognito e a un materiale di riferimento. [83]

Tabella 1.2: riassunto delle tecniche principali utilizzate in letteratura per la caratterizzazione delle

microplastiche.

Tipo di tecnica Tecnica Riferimenti bibliografici

Spettroscopica FT-IR 1, 7, 8, 10, 79, 80 FT-IR/ATR 5, 67, 81 Raman 82 Calorimetrica DSC 83 Densità specifica 77, 78

Per i campioni di sedimento la quantificazione viene effettuata rapportando i frammenti plastici, ottenuti mediante separazione per densità o setacciamento, con l’area di sedimento campionata, come segue:

Misura della massa: espresso in g di microplastiche/ m2 di sedimento

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In un articolo si riporta che la quantificazione è stata espressa come valore di pezzi trovati

per giorno, per esprimere il tasso di riempimento delle plastiche nelle spiagge delle Hawaii.

[10]

I valori delle abbondanze variano da 0,21 a 77000 microplastiche/ m2 di sedimento [65, 73]

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Capitolo 2

Parte sperimentale

2.1 Procedure di campionamento

Il campionamento è stato effettuato il 4 marzo 2016 presso la spiaggia di Marina di Vecchiano (PI). Si è scelto questo sito in quanto è alto l’impatto antropico nella stagione estiva ed è luogo di frequenti spiaggiamenti di detriti di natura antropica. Questa spiaggia si trova vicina alla foce del fiume Arno, che contribuisce in maniera significativa allo spiaggiamento di materiale sia naturale che antropico. Nel momento del campionamento la spiaggia non era ancora stata sottoposta ai trattamenti di pulizia del periodo pre-balneare. Sono stati scelti 16 punti di campionamento ritenuti rappresentativi di un’area di circa 12000 m2. I punti di campionamento sono distribuiti secondo tre transetti. I campioni identificano

quattro fasce omogenee in tipologia, indicate, per semplicità, con le lettere A, B, C e D che, confrontate con un generico profilo di spiaggia (figura 2.1) possono essere associate, rispettivamente, a dune, linea di costa, berma di tempesta e battigia.

Figura 2.1: profilo generico di spiaggia; punti campionati: dune (A), linea di costa (B), berma di tempesta

(C) e battigia (D).

Per ciascun punto sono stati raccolti campioni di circa 1 kg di sabbia secondo due modalità. La prima modalità di campionamento è consistita nel delimitare un’area di circa 35x30 cm all’interno della quale, mediante una sessola in alluminio, è stato asportato uno strato di circa 10 cm di sabbia superficiale come mostrato in Figura 2.2. La sabbia asportata è stata miscelata al meglio ed un campione ridotto è stato trasferito in un barattolo di vetro per il trasporto in laboratorio.

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Figura 2.2: prelevamento del campione mediante sessola.

La seconda modalità di campionamento è stata eseguita inserendo direttamente il barattolo di vetro nella sabbia, effettuando un carotaggio, come mostrato in figura 2.3.

Figura 2.3: campionamento tipo carotaggio.

In un primo momento si è tentato di setacciare la sabbia prima di raccoglierla nei barattoli di vetro ma l’operazione è risultata difficile da fare in loco, dal momento che la sabbia risultava essere troppo bagnata, così si è deciso di operare la setacciatura in laboratorio dopo l’operazione di essiccamento.

Per ogni campione è stata presa la posizione, mediante un apparecchio di rilevazione GPS. In tabella 2.1 si riportano i campioni, le coordinate GPS per ciascuno di essi e la tipologia di campionamento, mentre in figura 2.4 si può vedere la mappa dei punti di campionamento.

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Tabella 2.1: campioni con relative coordinate GPS dei punti da cui sono stati prelevati e tipologia di

campionamento.

Campione Tipologia di campionamento Coordinate GPS

G3040001 Sessola 43,80282 N 10,26381 E G3040002 Sessola 43,80274 N 10,26372 E G3040003 Sessola 43,80263 N 10,26305 E G3040004 Sessola 43,80300 N 10,26288 E G3040005 Sessola 43,80289 N 10,26238 E G3040006 Sessola 43,80289 N 10,26223 E G3040007 Sessola 43,80269 N 10,26246 E G3040008 Sessola 43,80264 N 10,26232 E G3040009 Carotaggio 43,80289 N 10,26225 E G3040010 Carotaggio 43,80290 N 10,26246 E G3040011 Carotaggio 43,80296 N 10,26282 E G3040012 Carotaggio 43,80288 N 10,26369 E G3040013 Carotaggio 43,80326 N 10,26215 E G3040014 Carotaggio 43,80328 N 10,26227 E G3040015 Carotaggio 43,80336 N 10,26264 E G3040016 Carotaggio 43,80374 N 10,26333 E

Figura 2.4: punti di campionamento sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. In nero sono riportati i campioni

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I campioni sono stati trasportati in laboratorio e conservati a temperatura ambiente.

Successivamente ogni campione è stato omogeneizzato, fatto asciugare in stufa a 60°C fino a costanza di peso e setacciato con setacci in acciaio inox da 2 mm (Giuliani) per eliminare i frammenti plastici e non plastici di dimensioni più grandi. La conservazione, in attesa di analizzare i campioni, è avvenuta a temperatura ambiente in barattoli di vetro chiusi ermeticamente. In tabella 2.2 è riportato il contenuto di acqua presente in ogni campione.

Tabella 2.2: contenuto di acqua nei campioni. Campione Contenuto di acqua nel campione

G3040001 1,7% G3040002 1,7% G3040003 2,8% G3040004 2,0% G3040005 3,6% G3040006 12,7% G3040007 3,2% G3040008 7,1% G3040009 7,9% G3040010 3,7% G3040011 3,1% G3040012 6,4% G3040013 8,4% G3040014 4,3% G3040015 4,1% G3040016 4,2%

2.2 Procedura d’analisi

2.2.1 Reagenti

Per l’estrazione dei campioni sono stati utilizzati diclorometano (CH2Cl2 99,9% purezza,

stabilizzato con amilene, Romil-SpS) e xilene (98,5% purezza, Sigma-Aldrich).

Per il processo di purificazione si sono impiegati: filtri CHROMAFIL Xtra H-PTFE (Macherey-Nagel) da siringa, con dimensione dei pori di 0,20 µm e diametro del filtro di 25 mm; filtri PTFE (Agilent) da siringa, con dimensione dei pori di 0,45 µm; filtri a membrana Fluoropore, PTFE (Millipore), con dimensione dei pori di 0,5 µm e diametro del filtro di 47 mm.

Per le analisi GPC sono state preparate tre soluzioni standard di polistirene in cloroformio, una composta da tre standard (Polymer Laboratories, Varian, Inc) di pesi molecolari pari a 0,8 kDa, 2,4 kDa e 10,3 kDa, una composta da due standard (Polymer Laboratories, Varian, Inc) di pesi molecolari pari a 1,68 kDa e 4,0 kDa e una composta da 6 standard (Polymer Laboratories, Varian, Inc) di pesi molecolari pari a 1,79 kDa, 4,85 kDa, 23,8 kDa, 52,1 kDa, 254,0 kDa e 293,3 kDa.

Si è preparata una soluzione di LDPE ossidato (23 mg) in diclorometano, partendo da frammenti di polimero ossidato, estratti con diclorometano.

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2.2.2 Metodi

Il metodo di analisi utilizzato per la quantificazione del materiale riconducibile a detriti plastici si basa sull’estrazione con solvente clorurato e determinazione gravimetrica del residuo, previa evaporazione del solvente ed essicazione in stufa a 60°C.

Al fine ottimizzare i metodi di estrazione dei campioni di sabbia sono state comparate due modalità, una a temperatura ambiente e una a riflusso di solvente. Queste procedure di estrazione rappresentano un miglioramento di un metodo già utilizzato in un precedente lavoro di tesi che ha fornito dati preliminari su questo tipo di matrice. [84]

La scelta del diclorometano come solvente di estrazione è giustificata dal fatto che permette di solubilizzare completamente il polistirene e poliidrocarburi a medio-basso peso molecolare mentre non solubilizza materiale polisaccaridico e ligno-cellulosico di origine naturale.

Il residuo ottenuto è stato poi analizzato mediante tecniche FT-IR, GPC e Py-GC/MS, per escludere la presenza di materia di origine naturale.

2.2.2.1 Estrazione a temperatura ambiente

Il primo metodo di estrazione sperimentato è stato effettuato a temperatura ambiente. Il campione di sabbia, circa 130 g, è stato introdotto nel sistema di estrazione, visibile in figura 2.5, consistente in un cilindro di rete metallica, dotato di un gancio, inserito all’interno di un cilindro metallico, chiuso da un tappo, in cui viene aggiunto il solvente per l’estrazione. Questo tipo di apparecchiatura consente un semplice recupero dell’estratto, in quanto la sabbia rimane all’interno della rete metallica, mentre la soluzione è facilmente recuperabile dal cilindro metallico, una volta tolta la retina dal suo interno.

Figura 2.5: apparecchiatura utilizzata per l’estrazione a freddo.

La singola aliquota di sabbia è stata sottoposta a tre estrazioni consecutive con un volume di solvente tale da coprire la superficie della sabbia (circa 85 mL totali). Le singole estrazioni sono state condotte in un bagno a ultrasuoni, a temperatura ambiente, per 15 minuti. Per recuperare la fase organica rimasta nella sabbia si è fatto uso di una centrifuga, a 3000 rpm per 2 minuti. La procedura è stata ripetuta su una seconda aliquota di sabbia e tutti gli estratti organici ottenuti sono stati riuniti in una beuta e ridotti in volume mediante un concentratore a centrifuga1 fino ad un volume di circa 3 mL. La soluzione concentrata è stata filtrata con

1 Sistema di concentrazione JOUAN della Thermo Electron Corporation, composto da un concentratore a vuoto

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filtri PTFE e portata a secco sotto flusso di azoto in un contenitore di vetro da 5 mL, precedentemente portato a costanza di peso.

2.2.2.2 Estrazione a caldo

Al fine di migliorare l’estrazione, sono stati provati due sistemi per l’estrazione in riflusso di solvente.

Nel primo metodo si sono pesati circa 330 g di sabbia, i quali sono stati posti in un estrattore solido-liquido con setto poroso, collegato ad un pallone da 500 mL e ad un refrigerante di Graham (Figura 2.6). Il sistema è stato portato a riflusso, scaldando con un termomanto, ed è stato lasciato ad estrarre per tre ore. Visto il volume complessivo dell’apparecchiatura sono stati necessari circa 300 mL di diclorometano per ottenere una circolazione regolare del solvente. Dopodiché l’estratto è stato ridotto a piccolo volume mediante concentratore a centrifuga. Il campione è stato poi filtrato con filtri PTFE e portato a secco sotto flusso di azoto in un contenitore di vetro da 5 mL, precedentemente portato a costanza di peso.

Figura 2.6: estrattore solido-liquido con setto poroso.

Nel secondo metodo si è utilizzato un estrattore solido-liquido tipo “Kumagawa” da 500 mL appositamente costruito, collegato ad un refrigerante di Graham. Il sistema portacampione è costituito da un cilindro in ottone cromato del diametro di 4 cm e alto 16 cm. La parte bassa del cilindro è dotata di portafiltri per l’alloggiamento di un filtro PTFE del diametro di 47 mm. Questo tipo di apparecchiatura consente di esporre ai vapori del solvente di estrazione la sabbia, che si trova all’interno del cestello metallico, migliorando l’estrazione del solvente distillato dal refrigerante. Inoltre, la possibilità di utilizzare il filtro PTFE durante l’estrazione permette di realizzare la filtrazione della fase organica a caldo, evitando eventuali perdite di materiale meno solubile nel solvente una volta tornato a temperatura ambiente.

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Figura 2.7: estrattore solido-liquido tipo “Kumagawa”.

In particolare sono stati sottoposti ad estrazione circa 160 g di sabbia, aggiungendo diclorometano in quantità tale da bagnare preliminarmente tutta la sabbia e riempire il pallone di ebollizione per circa 90 mL. Il sistema è stato portato a riflusso, scaldando con un termomanto, ed è stato lasciato ad estrarre per tre ore. L’estratto è stato poi posto in rotavapor e la soluzione rimanente è stata portata a secco sotto flusso di azoto in un contenitore di vetro da 5 mL, precedentemente portato a costanza di peso.

Il sistema di estrazione ideato ed ottimizzato per il diclorometano si è dimostrato adatto anche all’estrazione con miscela di xileni, in condizioni più drastiche di temperatura (140°C). In particolare una prova di estrazione in queste condizioni è stata effettuata al fine di quantificare frazioni poliidrocarburiche a medio-alto peso molecolare. In questo caso si sono aggiunti 150 mL di xylene e l’estrazione ha avuto una durata di tre ore dall’inizio del riflusso. L’estratto è stato poi posto in rotavapor e la soluzione rimanente è stata portata a secco, scaldando, sotto flusso di azoto in un contenitore di vetro da 5 mL, precedentemente portato a costanza di peso.

2.2.2.3 Prova sui filtri

La procedura di estrazione del materiale sabbioso prevede uno step indispensabile di filtrazione degli estratti prima dell’operazione di pesata. A questo scopo sono stati presi in considerazione filtri in teflon di varie marche per valutare il rilascio di materiale solubile in diclorometano al passaggio del solvente. In particolare sono stati valutati filtri delle ditte Chromafil, Agilent e Fluropore. Per ciascuno di essi sono stati fatti passare attraverso 20 mL di solvente, che sono stati poi raccolti, ridotti a piccolo volume e portati a secco sotto flusso di azoto in un contenitore di vetro da 5 mL, precedentemente portato a costanza di peso, per valutare il contributo gravimetrico. I risultati relativi alle tre marche sono riportati in tabella 2.3.

Tabella 2.3: peso del materiale rilasciato dai filtri per la prova di contaminazione.

Filtro Peso (mg)

CHROMAFIL 0,8

Agilent 0,3

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Le prove sui filtri mostrano un rilascio di materiale idrocarburico per quanto riguarda gli Agilent e i Chromafil, visibile dagli spettri FT-IR in figura 2.8 e 2.9. Pertanto si è deciso di utilizzare per lo step di filtrazione i filtri Fluoropore, unico a non aver rilasciato residuo dopo evaporazione del solvente.

Figura 2.8: spettro FT-IR del materiale rilasciato dal filtro Agilent, depositato su lamina di KBr. A (2957

cm-1), C (2867 cm-1), ν

a(CH3) e νs(CH3); B (2926 cm-1), D (2847 cm-1), νa(CH2) e νs(CH2); E (1458 cm-1), F

(1376 cm-1), δ

a(CH3) e δs(CH3).

Figura 2.9: spettro FT-IR del materiale rilasciato dal filtro Chromafil, depositato su lamina di KBr. A (2954

cm-1), C (2870 cm-1), ν

a(CH3) e νs(CH3); B (2916 cm-1), D (2848 cm-1), νa(CH2) e νs(CH2); E (1464 cm-1), F

(1377 cm-1), δ

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2.2.3 Analisi strumentale

2.2.3.1 Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR)

Per ciascun spettro IR è stata preparata una lamina di KBr, macinando KBr anidro all’interno di un mortaio e sottoponendolo poi a una pressione di 2000 psi con una pressa idraulica. Sopra la lamina ottenuta, omogenea, sottile e trasparente, sono state deposte alcune gocce dell’estratto organico e si è fatto evaporare il solvente. La lamina è stata introdotta in un portacampione e posizionata all’interno dello strumento. Per l’analisi, effettuata in modalità trasmissione, è stato utilizzato uno spettrofotometro FT-IR Avatar 360 (Nicolet). Condizioni di lavoro: intervallo di numeri d’onda 4000-400 cm-1, risoluzione 4 cm-1, numero di scansioni accumulate 8.

Per la caratterizzazione chimica del materiale estratto sono state ricercate le bande di assorbimento riportate in tabella 2.4, che rappresentano gli assorbimenti caratteristici di polimeri quali polistirene, polietilene e polipropilene.

Tabella 2.4: segnali FT-IR caratteristici dei principali polimeri ritrovabili nella sabbia come microplastiche. Polimero Segnale (cm-1) Tipo di segnale2

Polietilene 721 γr(CH2) 1460 δ(CH2) 2853 νs(CH2) 2925 νa(CH2) Polipropilene 975 γr(CH3) 1168 γw(CH3) 1378 δs(CH3) 1461 δa(CH3) 2840 νs(CH2) 2880 νs(CH3) 2928 νa(CH2) 2960 νa(CH3) Polistirene 700 ν(Arom) 760 ν(Arom) 906 ν(Arom) 1027 ν(Arom) 1450 ν(Arom) 1493 ν(Arom) 1602 ν(Arom) 1745 Overtones aromatici 1800 1875 1945 2851 νs(CH2) 2923 νa(CH2) 3029 ν(Arom) 3061 ν(Arom) 2 ν = stretching, δ = bending, γ w = wagging, γr = rocking

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2.2.3.2 Pirolisi/Gas Cromatografia/Spettrometria di massa (Py-GC/MS)

Si sono aggiunte alcune gocce dell’estratto ad una capsula e si è fatto evaporare il solvente. Dopodiché si è pesata la quantità di materiale plastico depositata sul fondo della capsula e si è inserita all’interno del Py-GC/MS. Le analisi sono state effettuate mediante un pirolizzatore analitico multi-shot pyrolyzer® EGA/PY-3030D (Frontier Lab), interfacciato ad un gas cromatografo 6890 accoppiato con uno spettrometro di massa Mass Selective 5973 a singolo quadrupolo (Agilent Technologies, Palo Alto, CA, USA). La separazione cromatografica degli analiti è stata effettuata con una colonna capillare in silice fusa HP-5MS (5%difenil-95%dimetil-polisilossano, 30 m x 0,25 mm d.i., J&W Scientific Agilent Technologies), preceduta da 2 m di pre-colonna disattivata di diametro interno di 0.32 mm. Le condizioni di pirolisi adottate per l’analisi dei campioni sono state: temperatura fornace 650°C, temperature interfaccia 300°C. I pirogrammi sono stati acquisiti nelle seguenti condizioni cromatografiche: 40°C per 5 min., 10°C/min fino a 300°C, 10 min. isoterma. Flusso di He (purezza 99.9995%): 1.2 L/min. Modalità di iniezione: split.

I rapporti m/z ricercati per l’identificazione dello stirene sono 104, caratteristico del picco dello stirene, e 91, caratteristico dei picchi generati dalla frammentazione sia dello stirene che dei suoi oligomeri, mentre per l’identificazione delle poliolefine si sono ricercati i rapporti m/z 55 e 57, tipici, rispettivamente, di idrocarburi alifatici insaturi e saturi.

2.2.3.3 Cromatografia a permeazione di gel (GPC)

La soluzione dell’estratto è stata portata a una concentrazione compresa tra 4 e 5 mg/mL, dopodiché ne sono stati iniettati 20 µL all’interno del GPC.

Per questo tipo di analisi è stato utilizzato uno strumento Jasco, con pompa Jasco PU-2089 plus, rivelatore UV (254 nm, 260 nm e 340 nm) Jasco UV-2077 plus e rivelatore da indice di rifrazione (RI) Jasco RI-2031 plus.

Sono stati utilizzati due tipi di colonna diversi:

• Due colonne PLgel MIXED-E Mesopore Polymer Laboratories connesse in serie,

termostatate a 30°C; eluente cloroformio (1 mL/min)

• Due colonne PLgel MIXED-D Mesopore Polymer Laboratories connesse in serie,

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Capitolo 3

Risultati e discussione

3.1 Ottimizzazione delle procedure di estrazione.

L’estrazione con diclorometano a temperatura ambiente e quella in riflusso di solvente tipo “Kumagawa”, le cui strumentazioni e procedure sono già descritte nei paragrafi 2.2.2.1 e 2.2.2.2, hanno prodotto i risultati riportati in tabella 3.1.

Tabella 3.1: concentrazione di materiale estratto (mg/kg) nei risultati relativi all’estrazione a temperatura

ambiente (modalità: tre estrazioni, solvente diclorometano, tempo estrazione 15 min) e a riflusso di solvente con l’estrattore tipo “Kumagawa” (modalità: una estrazione, solvente diclorometano, tempo di estrazione 3

ore).

Campione Tamb Triflusso

G3040001 6,1 28,6 G3040002 5,2 13,7 G3040003 5,2 12,5 G3040004 3,0 6,2 G3040005 4,1 6,9 G3040006 4,0 6,9 G3040007 4,4 6,9 G3040008 3,7 5,6

I risultati mostrano chiaramente che per un’estrazione esaustiva dei campioni di sabbia è fondamentale operare a riflusso di solvente. Inoltre sono state effettuate due estrazioni consecutive sullo stesso campione, della durata di 3 ore ciascuna, analizzando separatamente i due estratti, al fine di verificare l’efficienza di estrazione. Nelle prove effettuate la seconda estrazione non ha mostrato quantità apprezzabili di residuo.

Il metodo di estrazione in riflusso di solvente che utilizza l’estrattore solido-liquido con setto poroso, utilizzato nell’estrazione di un’aliquota del campione G3040004, ha fornito un residuo del peso di 4,80 mg/Kg, quantità intermedia tra i valori ottenuti con gli altri metodi di estrazione. Tale metodo, oltre ad essere meno efficiente dell’estrazione con l’estrattore a caldo tipo “Kumagawa”, è risultato essere particolarmente scomodo dal punto di vista operativo, pertanto non è stato ritenuto utile estendere l’indagine anche agli altri campioni. Dai dati riportati in tabella 3.1 risulta evidente la migliore efficienza di estrazione del sistema a riflusso di solvente con l’estrattore tipo “Kumagawa”.

L’estrattore tipo “Kumagawa” è stato utilizzato anche per un’estrazione con miscela di xileni, in condizioni più drastiche di temperatura, in modo da valutare la presenza di frazioni poliidrocarburiche a medio-alto peso molecolare che potevano essere rimaste nel campione estratto con diclorometano.

Dopo estrazione con diclorometano, lo stesso campione (G3040004) è stato sottoposto a estrazione con miscela di xileni. Il residuo ottenuto (1,8 mg) è stato sottoposto all’analisi mediante Py-GC/MS e in figura 3.1 se ne riporta il cromatogramma.

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Figura 3.1: cromatogramma ottenuto mediante Py-GC/MS della frazione estratta con xylene del campione

G3040004.

In tabella 3.2 si riportano alcuni dei composti associabili ai picchi presenti nel cromatogramma, con i relativi tempi di ritenzione.

Tabella 3.2: identificazione dei picchi presenti nel cromatogramma e relativi tempi di ritenzione. Tempo di ritenzione Composto 2,94 benzene 3,26 1-eptene 4,84 toluene 7,66 etilbenzene 7,84 p-Xylene 8,01 1-nonene 8,27 stirene 9,36 benzaldeide 9,62 alfa metilstirene 10,43 alcol benzilico 10,66 benzaldeide metilata 10,80 benzaldeide metilata 12,76 anidride ftalica 13,67 1-pentadecene 14,28 1-esadecene 16,90 dimetil fenantrene 20,97 1-entriacontene 21,48 1-docontano

Dal cromatogramma si evince che sono presenti soltanto segnali riconducibili a non ben definite macromolecole polimeriche e comunque sono composti la cui presenza potrebbe essere giustificata da processi di trasformazione dello xylene alla temperatura di estrazione e in presenza di ossigeno. Pertanto si può concludere che l’estrazione con xylene non ha

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evidenziato l’ulteriore presenza di materiali plastici nel campione di sabbia e che l’estrazione con diclorometano è sufficiente per il nostro tipo di analisi.

In tabella 3.3 sono riportati i risultati relativi a tutti i campioni estratti in riflusso di solvente con l’estrattore tipo “Kumagawa”, come già descritto nel paragrafo 2.2.2.2, e, per comodità di lettura, di seguito è ripetuta l’immagine con i punti di campionamento già presentata nel paragrafo 2.1 (figura 3.2).

Tabella 3.3: concentrazioni di materiale estratto dai campioni analizzati con estrattore tipo “Kumagawa”.

Coordinate Campione Tipologia di

campionamento Concentrazione (mg/Kg) 43,80282 N 10,26381 E G3040001 Sessola 19,5±2,6 43,80274 N 10,26372 E G3040002 Sessola 13,7±2,6 43,80263 N 10,26305 E G3040003 Sessola 12,5±2,6 43,80300 N 10,26288 E G3040004 Sessola 5,4±2,6 43,80289 N 10,26238 E G3040005 Sessola 7,9±2,6 43,80289 N 10,26223 E G3040006 Sessola 6,2±2,6 43,80269 N 10,26246 E G3040007 Sessola 6,9±2,6 43,80264 N 10,26232 E G3040008 Sessola 5,6±2,6 43,80289 N 10,26225 E G3040009 Carotaggio 5,6±1,5 43,80290 N 10,26246 E G3040010 Carotaggio 6,9±1,5 43,80296 N 10,26282 E G3040011 Carotaggio 18,7±1,5 43,80288 N 10,26369 E G3040012 Carotaggio 327±1,5 43,80326 N 10,26215 E G3040013 Carotaggio 5,6±1,5 43,80328 N 10,26227 E G3040014 Carotaggio 5,6±1,5 43,80336 N 10,26264 E G3040015 Carotaggio 10,6±1,5 43,80374 N 10,26333 E G3040016 Carotaggio 57,5±1,5

Ogni campione è stato estratto in triplicato e l’intervallo di confidenza è stato calcolato sulla base della standard pooled deviation sui dati relativi allo stesso metodo di campionamento. Gli intervalli di fiducia sono stati calcolati con un livello di fiducia del 95%.

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Figura 3.2: punti di campionamento; in nero sono riportati i campioni prelevati mediante sessola, in rosso i

campioni tipo carotaggio.

Le due tipologie di campionamento si sono dimostrate simili, ma sulla base dei dati sembra migliore l’utilizzo del carotaggio, sia per la semplicità operativa che per la riproducibilità dei singoli replicati.

Confrontando i valori medi calcolati sui campioni omogenei per tipologia di zona (A, B, C, D) si osserva un significativo aumento del materiale estratto allontanandosi dalla battigia verso la duna (tabella 3.4).

Tabella 3.4: concentrazioni medie di materiale estratto dai campioni di sabbia per zona. Punto di campionamento N° misure Concentrazione3 (mg/Kg) A 8 139±130 B 8 11,9±5,2 C 8 7,1±1,0 D 8 5,9±0,4

I valori di concentrazione sia nella zona C che nella zona D si possono considerare in accordo tra di loro, grazie anche al fatto che le due tipologie di campionamento hanno permesso di ottenere risultati simili.

3.2 Caratterizzazione chimica dei materiali

Il materiale estratto dalla sabbia è stato sottoposto a diversi tipi di analisi per la caratterizzazione chimica. Il primo obiettivo di questa analisi è l’esclusione di possibile materiale di origine naturale eventualmente estratto dal solvente. In secondo luogo queste analisi sono volte ad individuare la tipologia di polimero e il livello di degradazione che questo ha subìto durante la permanenza nella sabbia. Le tecniche utilizzate sono state le seguenti:

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• Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR) • Pirolisi/Gas cromatografia/Spettrometria di massa (Py-GC/MS) • Cromatografia a permeazione di gel (GPC)

3.2.1 Analisi mediante FT-IR

Le figure da 3.3 a 3.18 riportano gli spettri FT-IR del materiale estratto dai campioni considerati e ottenuti mediante la procedura sperimentale descritta nel paragrafo 2.2.3.1.

Figura 3.3: spettro FT-IR del materiale estratto dal campione G3040001, depositato su lamina di KBr. A

(3436 cm-1), ν(OH); B (3050 cm-1), C (3025 cm-1), ν(Arom); D (2921 cm-1), E (2850 cm-1), ν

a(CH2) e νs(CH2); F (1943, 1870, 1800 cm-1), overtones aromatici; G (1715 cm-1), ν(C=O); H (1492 cm-1),I (1450 cm

-1), L (700 cm-1), ν(Arom).

Figura 3.4: spettro FT-IR del materiale estratto dal campione G3040002, depositato su lamina di KBr. A

(3054 cm-1), B (3024 cm-1), ν(Arom); C (2919 cm-1), D (2850 cm-1), ν

a(CH2) e νs(CH2); E (1729 cm-1), ν(C=O); F (1490 cm-1), G (1452 cm-1), L (698 cm-1), ν(Arom).

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