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L'influenza di Sirt-1 sulla disfunzione endoteliale nell'obesità è mediata dall'attività della ossido nitrico sintasi endoteliale e dal controllo dello stress ossidativo di origine mitocondriale

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in

Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea Magistrale

L’INFLUENZA DI SIRT1 SULLA DISFUNZIONE ENDOTELIALE NELL’OBESITA’ E’ MEDIATA DALL’ATTIVITA’ DELLA OSSIDO NITRICO SINTASI ENDOTELIALE E DAL CONTROLLO DELLO STRESS OSSIDATIVO

DI ORIGINE MITOCONDRIALE

Relatore

Chiar.mo Prof. Stefano Taddei

Correlatore

Dott. Stefano Masi

Candidato

Francesco Filidei

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Sommario

1. Riassunto analitico ... 5 2. Introduzione ... 10 2.1 Obesità ... 10 2.1.1 Definizione ... 10 2.1.2 Epidemiologia ... 11

2.1.3 Mortalità e complicanze: associazione con patologie cronico-degenerative ... 16

2.2 Malattia cardiovascolare ... 29

2.2.1 Fattori di rischio cardiovascolare e generalità del processo aterosclerotico ... 29

2.2.2 L’endotelio – ruolo dell’NO nell’omeostasi vascolare ... 33

2.3 Rimodellamento vascolare e disfunzione endoteliale nell’obesità ... 35

2.3.1 Ruolo dell’NO ... 38

2.3.2 Ruolo dello stress ossidativo e disfunzione mitocondriale ... 40

2.4 Sirtuine ... 42

2.4.1 Definizione e meccanismo d’azione ... 42

2.4.2 Ruolo nella patologia cardiovascolare ... 45

2.4.3 Ruolo nell’obesità ... 46

2.4.4 Modulazione del rimodellamento vascolare legata alle sirtuine ... 48

3. Scopo dello studio ... 53

4. Materiali e metodi ... 55

4.1 Popolazione in studio ... 55

4.2 Prelievo del materiale ... 56

4.3 Preparazione del materiale ... 57

4.4 Test di reattività vascolare ... 59

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5.1 Popolazione studiata ... 63

5.2 Studio funzionale delle arterie ... 64

6. Discussione ... 70

7. Conclusioni ... 78

8. Ringraziamenti ... 79

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1. Riassunto analitico

L’obesità è divenuta, nel corso degli ultimi decenni, una condizione sempre più prevalente nella popolazione generale. Nel 2015, oltre 600 milioni di adulti nel mondo risultavano classificabili come obesi, e dal confronto con i dati raccolti nel 1980 è emerso che la prevalenza dell’obesità è raddoppiata in oltre 70 Paesi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, purtroppo, il quadro è destinato a peggiorare: si stima che nel 2030, se l’attuale trend rimanesse inalterato, nel mondo ci sarebbero oltre un miliardo di soggetti obesi.

Dato l’enorme aumento di prevalenza dell’obesità, e dato che nei soggetti obesi la prima causa di morte è rappresentata dalle malattie cardiovascolari, si comprende come l’epidemia dell’obesità abbia avuto e stia tuttora avendo delle importanti ripercussioni sui trend della mortalità cardiovascolare: infatti, nonostante la maggior efficacia delle terapie in grado di controllare i fattori di rischio cardiovascolare, quali ipertensione e dislipidemia, abbia determinato negli ultimi decenni una progressiva e costante riduzione della mortalità per cause cardiovascolari, negli ultimi anni si sta assistendo a un’attenuazione di questo trend positivo, e a giustificare questo fenomeno è stata chiamata in causa anche l’epidemia dell’obesità.

La disfunzione endoteliale rappresenta l’evento iniziante della patologia aterosclerotica ed è una condizione in cui un endotelio anatomicamente integro cambia la propria funzione acquisendo un fenotipo pro-aterosclerotico e favorendo lo sviluppo di rimodellamento microvascolare.

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Nell’obesità, l’infiammazione e un incremento della produzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) sono i principali fattori responsabili dello sviluppo di disfunzione endoteliale.

In particolare, le ROS tendono a reagire rapidamente con la molecola di ossido nitrico (NO) riducendone la biodisponibilità a livello della parete vascolare. Questo composto, prodotto in maniera preponderante dalla ossido nitrico sintasi endoteliale (eNOS), rappresenta il principale fattore di controllo dell’omeostasi vascolare, avendo azione vasodilatante e possedendo anche proprietà di regolazione dell’angiogenesi, della coagulazione e dell’aggregazione piastrinica. Si comprende quindi come la riduzione della produzione di NO rappresenti un evento fondamentale nell’acquisizione di un fenotipo disfunzionante da parte delle cellule endoteliali, favorendo lo sviluppo dell’aterosclerosi e delle sue complicanze.

Le sirtuine sono enzimi con funzione di istone deacetilasi che sembrano svolgere un ruolo importante nel controllo dell’invecchiamento cellulare tramite la regolazione dello stato ossidoriduttivo della cellula. L’attività di queste molecole è dipendente dalla disponibilità di NAD+. Quindi, condizioni di deficit energetico si associano a iperattivazione di queste molecole, mentre la loro attività risulta deficitaria in caso di eccesso energetico, quale quello che caratterizza il paziente obeso. Delle varie isoforme delle sirtuine, Sirt1 rappresenta quella maggiormente studiata in ambito cardiovascolare. Infatti, esperimenti condotti sull’animale hanno suggerito che Sirt1 abbia la capacità di influenzare la funzione endoteliale, non solo regolando i livelli intracellulari di ROS, ma anche stimolando l’attività di eNOS.

Sempre nel contesto di esperimenti animali, Sirt1 ha dimostrato un importante ruolo nel controllare la produzione di ROS di origine mitocondriale (mtROS), tramite l’attività di una proteina chiamata p66Shc. In particolare, nel modello murino un incremento dell’attività di

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Sirt1 si associa a una ridotta attività di p66Shc, con conseguente riduzione del mtROS. Questo potrebbe rappresentare un ulteriore meccanismo attraverso il quale Sirt1 è in grado di influenzare la biodisponibilità di ossido nitrico a livello endoteliale.

Vista l’influenza dell’invecchiamento cellulare e dello stato energetico della cellula sull’attività di Sirt1, questa tesi ha cercato di valutare il ruolo di Sirt1 nell’attenuare la disfunzione endoteliale legata all’età e nel paziente obeso. Inoltre, abbiamo cercato di definire se la stimolazione di eNOS e la riduzione dello stress ossidativo di origine mitocondriale fossero i meccanismi attraverso cui opera Sirt1.

Nello studio sono stati reclutati 52 pazienti: 27 soggetti erano affetti da obesità severa (Ob) con indicazione all’intervento di chirurgia bariatrica, mentre i restanti 25 soggetti erano non obesi (NW) con indicazione all’intervento in elezione di colecistectomia o riparazione di ernia inguinale. Sia il gruppo degli obesi sia quello dei non obesi sono stati ulteriormente suddivisi in due sottogruppi sulla base dell’età, classificando come young i pazienti con età < 40 anni e come old quelli con età > 40 anni. In questo modo, sono stati creati quattro gruppi di pazienti:

• YNW: non obesi con età < 40 anni. • ONW: non obesi con età > 40 anni. • YOb: obesi con età < 40 anni. • OOb: obesi con età > 40 anni.

Durante gli interventi chirurgici è stata prelevata una piccola quantità di tessuto adiposo sottocutaneo; da questo sono state isolate piccole arteriole di resistenza che sono poi state montate su di un miografo a pressione.

È stata quindi studiata la funzione endoteliale delle arteriole, facendo riferimento alla capacità di vasodilatazione indotta dall’acetilcolina (ACh), che rappresenta uno dei più

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specifici agonisti endoteliali. Inoltre, il rapporto tra il diametro della media e quello del lume del vaso (rapporto media/lume) è stato utilizzato come stima del livello di rimodellamento vascolare.

Abbiamo riscontrato che i soggetti obesi, rispetto a quelli non obesi, presentavano una ridotta risposta vasodilatatoria all’ACh, e che, tra i soggetti non obesi, quelli più adulti presentavano una ridotta risposta vasodilatatoria indotta dall’ACh rispetto a quelli più giovani. L’utilizzo di SRT1720, una sostanza agonista di Sirt1, era in grado di aumentare la risposta vasodilatatoria all’ACh nei gruppi ONW, YOb e soprattutto nel gruppo OOb, un aumento che veniva abolito dalla preincubazione con L-NAME, una sostanza in grado di inibire selettivamente la eNOS. La preincubazione con MitoTEMPO, uno scavenger di mtROS, era in grado di indurre un miglioramento della vasodilatazione indotta da ACh nei gruppi ONW, YOb e OOb ma non nel gruppo YNW. Il miglioramento ottenuto con MitoTEMPO nei gruppi ONW, YOb e OOb era del tutto sovrapponibile a quello ottenuto con SRT1720, tanto che l’aggiunta di questo agonista sirtuinico al tessuto preincubato con MitoTEMPO non induceva un ulteriore miglioramento della risposta vasodilatatoria all’ACh. Infine, abbiamo osservato che esiste una relazione tra il difetto di vasodilatazione imputabile a un deficit di Sirt1 e il grado di rimodellamento microvascolare, espresso sotto forma di rapporto media/lume: infatti, il rimodellamento microvascolare è tanto più importante quanto maggiore è la percentuale di disfunzione endoteliale attribuibile al deficit di Sirt1.

Il nostro studio dimostra quindi che Sirt1 possiede un ruolo importante nella modulazione della disfunzione endoteliale legata all’età e all’obesità. In particolare, gli effetti positivi di Sirt1 sull’endotelio si esplicherebbero attraverso due meccanismi principali: la regolazione della produzione di mtROS e la stimolazione dell’attività della eNOS.

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Sulla base di questi risultati, possiamo ipotizzare che eventuali farmaci in grado di stimolare l’attività di Sirt1 potrebbero avere effetti positivi sulla disfunzione endoteliale e quindi prevenire lo sviluppo, la progressione e le complicanze della malattia aterosclerotica.

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2. Introduzione

2.1 Obesità

2.1.1 Definizione

L’obesità è definita come una malattia metabolica cronica caratterizzata da un incremento dei depositi di grasso corporeo.

Nella pratica clinica, il contenuto totale di grasso corporeo viene stimato sulla base dell’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index): questo parametro viene calcolato dividendo il peso del soggetto (espresso in kg) per la sua altezza al quadrato (espressa in metri). L’obesità è definita da un BMI > 30 kg/m2, mentre valori di BMI compresi tra 25 e 29,9 kg/m2 definiscono una condizione di sovrappeso 1.

Per le popolazioni asiatiche si fa riferimento a valori soglia di BMI diversi da quelli impiegati nei Paesi occidentali: una consensus di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, World Health Organization) ha concluso che le popolazioni asiatiche hanno un grado di associazione tra BMI, percentuale di grasso corporeo e rischi per la salute diverso rispetto alle popolazioni europee: la percentuale di soggetti asiatici con un alto rischio di diabete di tipo 2 e di malattia cardiovascolare diventa sostanziale a valori di BMI inferiori alle soglie di sovrappeso WHO utilizzate per le popolazioni europee. Quindi, per queste popolazioni, il sovrappeso corrisponde a valori compresi tra 23 e 24,9 kg/m2, l’obesità a valori maggiori o uguali a 30 kg/m2, mentre per valori compresi tra 25 e 29,9 si parla di “pre-obesità” 2.

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Tabella 1. Classificazione del sovrappeso e dell’obesità sulla base del BMI, in popolazioni caucasiche e asiatiche.

BMI per

popolazioni

caucasiche (kg/m2)

BMI per popolazioni asiatiche (kg/m2)

Normopeso

Sovrappeso 25-29,9 23-24,9

Pre-obesità 25-29,9

Obesità lieve (di I grado) 30-34,9 Obesità moderata (di II grado) 35-39,9 Obesità grave (di III grado) ≥ 40

Per la popolazione pediatrica, invece, si è soliti definire la condizione di obesità in riferimento ai percentili delle curve di accrescimento: la soglia del sovrappeso corrisponde all’85° percentile, mentre quella dell’obesità al 95° percentile 3.

2.1.2 Epidemiologia

Nel corso degli anni l’obesità è divenuta una condizione sempre più prevalente fino ad assumere i caratteri di una vera e propria pandemia: nel 2010, il sovrappeso e l’obesità hanno causato 3,4 milioni di morti, il 3,9% di anni di vita perduti e il 3,8% di DALY (Disability-Adjusted Life Years) nel mondo.

I risultati del Global Burden of Disease Study 2013 hanno mostrato che la percentuale di adulti con un BMI maggiore o uguale a 25 kg/m2 è aumentata, tra il 1980 e il 2013, dal 28,8% al 36,9% negli uomini, e dal 29,8% al 38% nelle donne 4.

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Pochi anni dopo, la pubblicazione dei risultati del Global Burden of Disease Study 2015 ha confermato la gravità della situazione: nel 2015, infatti, 107,7 milioni di bambini e 603,7 milioni di adulti risultavano classificabili come obesi; il confronto con i dati raccolti nel 1980 ha dimostrato una prevalenza raddoppiata in oltre 70 Paesi e aumentata continuamente nella maggior parte delle altre nazioni. Inoltre, il tasso di incremento dell’obesità infantile è stato superiore a quello osservato negli adulti. Dato che le traiettorie di peso alla nascita tendono a mantenersi anche nella vita adulta, questo potrebbe tradursi in un ulteriore significativo incremento del problema obesità nel prossimo futuro.

È stato calcolato che alti valori di BMI siano causa di circa 4,0 milioni di morti nel mondo, quasi il 40% delle quali si è verificato in persone non obese; inoltre, più dei 2/3 di queste morti erano dovuti a patologie cardiovascolari 5.

Nel 2014, il 2,3% degli uomini e il 5% delle donne nel mondo presentava un’obesità severa (BMI ≥ 35 kg/m2); la prevalenza dell’obesità di III grado (BMI maggiore o uguale a 40 kg/m2) era invece dello 0,64% negli uomini e dell’1,6% nelle donne 6.

La situazione italiana è migliore rispetto alla media dei Paesi europei: nel 2010, il 31,8% della popolazione era in sovrappeso e l’8,9% era classificabile come obeso. La prevalenza dell’obesità aumentava significativamente con l’età, diminuiva con l’istruzione ed era inferiore negli adulti non sposati che in quelli sposati. Il sovrappeso e l’obesità erano inoltre significativamente più frequenti negli adulti dell’Italia meridionale rispetto a quelli dell’Italia settentrionale e negli ex fumatori rispetto a coloro che non avevano mai fumato 7.

La prevalenza dell’obesità sta aumentando in maniera preoccupante anche nella popolazione pediatrica: tra i bambini e gli adolescenti dei Paesi sviluppati, nel 2013, il 23,8% dei ragazzi

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e il 22,6% delle ragazze era in una condizione di sovrappeso o di obesità. Nei Paesi in via di sviluppo, la prevalenza di sovrappeso o di obesità tra bambini e adolescenti è passata dall’8,1% al 12,9% per i ragazzi e dall’8,4% al 13,4% nelle ragazze dal 1980 al 2013 4. Un’analisi dei valori medi di BMI dal 1975 al 2016, che prende in esame oltre 128 milioni di soggetti, ha rilevato che, nel 1975, il BMI medio standardizzato per età era di 17,2 kg/m2 per le ragazze e di 16,8 kg/m2 per i ragazzi; i valori più bassi si registravano nell’Asia meridionale, mentre quelli più alti in Melanesia, Micronesia e Polinesia.

Nel 2016 il BMI medio ha raggiunto un valore 18,5 kg/m2 sia per le ragazze che per i ragazzi, mentre la prevalenza dell’obesità ha raggiunto il 5,6% nelle ragazze e il 7,8% nei ragazzi. Il numero assoluto di ragazze obese è passato da 5 a 50 milioni nei 42 anni dello studio, mentre quello dei ragazzi obesi da 6 a 74 milioni.

La nota positiva è che il trend in aumento di BMI di bambini e adolescenti ha raggiunto un plateau, seppur stabilizzandosi su valori elevati, in molti Paesi sviluppati a partire dal 2000; tuttavia, il suddetto trend ha avuto un’accelerazione in Asia.

Nonostante questo incremento, nel mondo ci sono più bambini e adolescenti moderatamente o gravemente sottopeso rispetto agli obesi; tuttavia, se questo trend continuasse, l’obesità del bambino e dell’adolescente supererebbe il sottopeso entro il 2022 8.

Le prospettive per il futuro non sono incoraggianti: secondo uno studio, se continuasse l’attuale trend, entro il 2025 la prevalenza globale dell’obesità raggiungerebbe il 18% negli uomini e supererebbe il 21% nelle donne. L’obesità severa supererebbe invece il 6% negli uomini e il 9% nelle donne 6.

Entro il 2030, se gli attuali trend si mantenessero inalterati, ci sarebbero 2,16 milioni di soggetti sovrappeso e 1,12 miliardi di obesi 9.

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Figura 1. Prevalenza standardizzata per età di sovrappeso-obesità (A) e della sola obesità (B) in soggetti di età ≥ 20 anni tra il 1980 e il 2013. (Ng et al., 2014 4)

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Figura 2. Prevalenza dell’obesità sulla base dell’indice sociodemografico (SDI). Vengono mostrati la prevalenza dell’obesità specifica per età nel 2015 (A), e i trends di prevalenza standardizzati per età dal 1980 al 2015 in bambini (B) e adulti (C). (The GBD 2015 Obesity Collaborators, 2017 10)

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2.1.3 Mortalità e complicanze: associazione con patologie cronico-degenerative

L’obesità è un noto fattore di rischio per diverse patologie, tra cui la cardiopatia ischemica, l’ictus, e le neoplasie del colon, del rene, dell’endometrio e della mammella in età post-menopausale 11.

Uno studio del 2009 ha valutato la mortalità causa-specifica, in rapporto al BMI, di 900.000 adulti, rilevando che, in entrambi in sessi, la mortalità era minima per valori compresi tra 22,5 e 25 kg/m2 e che, oltre questo range, un aumento di 5 punti di BMI era associato a un incremento del 30% della mortalità globale; tale incremento era legato per il 40% a patologie vascolari, per il 10% a patologie neoplastiche e per il 20% a patologie respiratorie e di altro tipo.

Per valori di BMI compresi tra 30 e 35 kg/m2 la sopravvivenza mediana risultava ridotta di 2-4 anni, mentre per valori tra 40 e 45 kg/m2 di 8-10 anni 12.

Un altro studio ha valutato, nella popolazione bianca, la mortalità per tutte le cause in rapporto al BMI: ne è emerso che per valori compresi tra 30 e 34,9 kg/m2 l’hazard ratio (HR) era di 1,44, per valori compresi tra 35 e 39,9 era di 1,88, e raggiungeva un valore di 2,51 nel range 40-49,9, senza differenze significative tra uomini e donne 13.

L’eccesso di mortalità associato ad alti valori di BMI è stato confermato anche nelle popolazioni asiatiche, con l’eccezione di India e Bangladesh in cui l’HR non aumentava all’aumentare del BMI 14.

È stata inoltre valutata l’associazione tra incremento di peso durante l’età adulta e outcome nel corso della vita: si è dimostrato che l’incremento ponderale è associato con un rischio

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significativamente aumentato di malattie croniche importanti tra cui ipertensione, patologia cardiovascolare, neoplasie, colelitiasi, osteoartrosi grave e operazioni per cataratta 15.

Il sovrappeso e l’obesità sono stati studiati a fondo già da molti anni in relazione a singole patologie cardiometaboliche, ma soltanto di recente si è valutata la loro associazione con multimorbilità cardiometabolica, definita come la presenza di almeno due tra: diabete di tipo 2, coronaropatia e ictus. Lo studio ha rilevato che, rispetto alla popolazione con peso normale, il rischio dei soggetti in sovrappeso di sviluppare la suddetta multimorbilità era doppio, quello dei soggetti con obesità di classe I era quasi cinque volte superiore, e quello dei soggetti con obesità di classe II e III era quasi 15 volte superiore 16.

L’importanza dell’associazione tra il peso corporeo e l’incidenza di patologie croniche è ribadita dall’osservazione degli effetti benefici ottenuti con la perdita di peso. Il Look AHEAD è stato un trial clinico randomizzato in cui si è indagato l’effetto di un intervento intensivo di variazione dello stile di vita sulla riduzione della morbilità e della mortalità cardiovascolare in pazienti sovrappeso od obesi con diabete di tipo 2. Questo trial venne interrotto precocemente in quanto la modificazione dello stile di vita non risultò associata a una riduzione della frequenza degli eventi cardiovascolari nella popolazione in esame 17. Tuttavia, un’analisi post-hoc è andata a studiare l’associazione tra l’entità della perdita di peso e l’incidenza di patologie cardiovascolari 18: durante i circa 10 anni di follow up, i soggetti che avevano perso almeno il 10% del proprio peso nel primo anno dello studio avevano una riduzione del 21% del rischio dell’outcome primario (outcome composito di morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ricovero per angina) e del 24% dell’outcome secondario (stessi indici, più CABG, endoarterectomia

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carotidea, PCI, ospedalizzazione per scompenso cardiaco congestizio, vasculopatia periferica, mortalità totale) rispetto ai soggetti con peso stabile o aumentato.

Le associazioni principali dell’obesità sono quelle con malattie neoplastiche, malattie neurodegenerative e, soprattutto, diabete e malattie cardiovascolari.

2.1.3.1 Associazione con malattie neoplastiche

Alti valori di BMI sono notoriamente associati a un aumentato rischio di sviluppare numerose malattie neoplastiche 11, e negli ultimi anni si è osservato che l’obesità non soltanto aumenta l’incidenza delle suddette malattie, ma ha anche effetti importanti sulla mortalità delle stesse e sulla risposta a diversi regimi terapeutici.

La IARC (International Agency for Research on Cancer) e la WCRF (World Cancer Research Fund) hanno concluso che esiste un’associazione causale tra elevati valori di BMI e neoplasie del colon-retto, della colecisti, del pancreas, del rene, del fegato, dell’endometrio, della mammella, dell’ovaio, dello stomaco, della tiroide, dell’esofago e di mieloma multiplo.

Uno studio del 2015 ha stimato che circa il 3-6% di tutti i casi di cancro del 2012 fosse attribuibile a un elevato BMI 19. Il numero di neoplasie attribuibili ad elevati valori di BMI era maggiore nei Paesi con indici di sviluppo umano (HDI) elevato e molto elevato rispetto ai Paesi con HDI moderato e basso. I tumori dell’endometrio, della mammella in epoca post-menopausale e del colon rappresentavano il 63,3% di tutti i tumori attribuibili a BMI elevato. Uno studio simile ha osservato che il 5,7% di tutti i tumori diagnosticati nel 2012 era attribuibile agli effetti combinati di diabete ed elevato BMI; individualmente, però, un elevato BMI ha causato quasi il doppio dei casi di tumore rispetto al diabete 20.

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Uno studio inglese ha valutato la correlazione tra il BMI e il rischio di sviluppare 22 tumori tra i più comuni, su un campione di oltre 5 milioni di adulti. Ne è emerso che il BMI era associato con 17 tipi di tumori, con dieci dei quali l’associazione era significativa, ma il peso dell’obesità nella determinazione dell’insorgenza del tumore era molto variabile a seconda della neoplasia presa in considerazione: in generale, si è stimato che il 41% di tutti tumori dell’utero e il 10% o più dei tumori della colecisti, del rene, del fegato e del colon potessero essere attribuibili a un eccesso di peso; si è osservato inoltre che, se il BMI della popolazione aumentasse di 1 kg/m2, questo farebbe sì che quasi 4000 pazienti in più sviluppino uno dei dieci tumori associati significativamente col BMI 11.

Figura 3. Associazione tra il valore di BMI e il rischio di sviluppare diversi tipi di neoplasie. (Bhaskaran et al., 2014 11)

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al fumo come fattore di rischio modificabile associato a neoplasia, e che il 6,3% di tutti i casi di cancro nel Regno Unito nel 2015 era attribuibile a questa condizione; la percentuale era più alta per le donne che per gli uomini (7,5% vs. 5,2%). Inoltre, i tumori maggiormente associati all’obesità erano il carcinoma endometriale per le donne (34%) e quello dell’esofago per gli uomini (31,3%).

Negli ultimi anni si sta rilevando che sempre più tumori sono associati con un elevato BMI: un esempio è il tumore della vescica, storicamente associato al fumo e a inquinanti ambientali. Uno studio coreano ha mostrato un’associazione positiva tra BMI e rischio di sviluppare tumore della vescica, e questa associazione si manteneva tale anche quando i pazienti venivano stratificati in base all’abitudine al fumo 22.

Oltre che nella prevenzione di patologie cardiovascolari e metaboliche, la perdita di peso è importante anche nel diminuire il rischio di sviluppare neoplasie: uno studio ha mostrato che, rispetto agli uomini che avevano un peso normale sia a 7 anni sia all’inizio dell’età adulta, gli uomini che erano sovrappeso in entrambi i suddetti momenti mostravano un rischio più che doppio di sviluppare un carcinoma del colon; al contrario, uomini che erano sovrappeso a 7 anni ma che non lo erano più all’inizio dell’età adulta non avevano un rischio aumentato di tumore del colon 23.

L’associazione tra sovrappeso/obesità e rischio di neoplasie riguarda non soltanto i tumori solidi ma anche le malattie oncoematologiche 24,25. In particolare, si sono osservate associazioni significative con leucemia mieloide acuta e sindromi mielodisplastiche (per queste ultime l’associazione vale soltanto per le donne) 26, mieloma multiplo 27, linfoma di Hodgkin e linfomi non-Hodgkin 28.

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Come naturale conseguenza di quanto descritto finora, il sovrappeso e l’obesità sono associati a un aumento della mortalità per cancro: uno studio effettuato su oltre 900.000 adulti ha dimostrato che i soggetti con un BMI ≥ 40 kg/m2 avevano tassi di mortalità per cancro più alti del 52% (per gli uomini) e del 62% (per le donne) rispetto ai soggetti di peso normale; il rischio relativo era di 1,52 per gli uomini e di 1,62 nelle donne 29.

Come accennato, l’obesità non solo determina un aumento del rischio di sviluppare numerose neoplasie, ma condiziona anche l’outcome e la risposta delle neoplasie stesse alle terapie impiegate.

Uno studio ha valutato il rapporto tra il tessuto adiposo totale (TAT, Total Adipose Tissue), misurato mediante TC alla diagnosi, e la mortalità globale in pazienti con tumore della mammella non metastatico: si è trovato che le pazienti nel terzile più alto di TAT avevano una mortalità più elevata rispetto a quelle nel terzile più basso. Al contrario, il BMI da solo non era correlato significativamente alla mortalità globale e non identificava in maniera appropriata le pazienti a rischio di morte 30.

Un altro studio ha valutato la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza globale in base al BMI in pazienti con melanoma metastatico trattati con chemioterapia, terapia a bersaglio molecolare o immunoterapia 31: si è osservato che l’obesità, rispetto a un BMI normale, era associata a un’aumentata sopravvivenza in pazienti trattati con terapia a bersaglio molecolare e immunoterapia, mentre non sono state riscontrate associazioni con la chemioterapia; l’aumento in termini di sopravvivenza e progressione libera da malattia si è osservato principalmente nei maschi.

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2.1.3.2 Associazione con malattie neurodegenerative

L’obesità è associata anche allo sviluppo di malattie neurologiche e psichiatriche.

Tra le malattie neurodegenerative, quella più significativamente associata all’obesità è la malattia di Alzheimer, come dimostrato da una meta-analisi 32.

Un altro studio ha valutato il rischio di demenza sulla base dell’obesità centrale, definita mediante il diametro addominale sagittale (SAD, Sagittal Abdominal Diameter): rispetto ai soggetti nel quintile più basso, quelli nel quintile più alto avevano un rischio quasi 3 volte superiore di sviluppare demenza; inoltre, i pazienti con SAD elevato e BMI normale avevano un rischio di demenza superiore rispetto a quelli con SAD basso e BMI normale 33.

Seppur meno significativamente, anche la malattia di Parkinson sembra trovare nell’obesità un fattore di rischio, forse perché i soggetti obesi sono meno attivi fisicamente (e bassi livelli di attività fisica incrementano il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson) oppure perché i disturbi del comportamento alimentare sono associati con un’anomala neurotrasmissione ipotalamica 34.

La patogenesi del decadimento cognitivo è discussa. Alcune teorie ipotizzano che l’infiammazione sistemica associata all’obesità determini flogosi anche all’interno del sistema nervoso, in particolare a livello ipotalamico: citochine circolanti, acidi grassi liberi e cellule del sistema immunitario raggiungerebbero il cervello a livello dell’ipotalamo, dove darebbero inizio a un processo infiammatorio con proliferazione microgliale; questa infiammazione causerebbe verosimilmente rimodellamento sinaptico e neurodegenerazione a livello dell’ipotalamo, alterando le connessioni interne e gli impulsi efferenti verso altre regioni cerebrali. Il risultato è il danneggiamento della funzione cognitiva mediata da regioni quali l’ippocampo e l’amigdala (tali ragioni vengono probabilmente interessate anche in maniera diretta dall’infiammazione centrale) 35.

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Un altro meccanismo, non mutualmente esclusivo con quello appena descritto è legato all’insulina e all’IGF-1: la resistenza a questi due ormoni porterebbe a una riduzione del signaling neuroprotettivo mediato dagli stessi, contribuendo quindi all’esordio di malattie neurodegenerative 36.

2.1.3.3 Associazione con diabete mellito

L’obesità e il diabete sono condizioni così strettamente collegate che è stato coniato il termine di “diabesity” per indicare il diabete che si sviluppa in condizioni di obesità. L’incremento della prevalenza del DM2 è strettamente collegata all’epidemia di obesità: si stima infatti che circa il 90% dei casi di DM2 sia attribuibile a un eccesso di peso, ed è dimostrato che la maggior parte dei casi di DM2 può essere prevenuta con l’adozione di uno stile di vita più sano 37.

I meccanismi patogenetici che collegano obesità e diabete sono due: l’insulino-resistenza e il deficit di insulina 38,39.

L’obesità determina un aumento prolungato dei livelli plasmatici di acidi grassi liberi (FFA, Free Fatty Acids), il che rappresenta un fattore importante per l’insulino-resistenza; si ritiene che le fonti dell’eccesso di FFA nei soggetti obesi siano gli acidi grassi derivanti dalla dieta e quelli derivanti dalla lipolisi nel tessuto adiposo. Inoltre, il grasso addominale è metabolicamente e lipoliticamente più attivo, rilasciando quindi più FFAs nel circolo ematico.

Si verifica quindi un aumento dell’uptake cellulare di FFA con loro successiva beta-ossidazione e blocco (con diversi meccanismi) del metabolismo del glucosio: in particolare, si ha una diminuzione dell’uptake di glucosio da parte del tessuto muscolare, in associazione a una diminuita sintesi di glicogeno. Questa condizione di iperglicemia cronica (glucotossicità) altera ulteriormente la sensibilità all’insulina.

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L’iperglicemia e la conseguente iperinsulinemia compensatoria determinano glicazione delle proteine circolanti e formazione di AGEs (Advanced Glycation End-product, prodotto di glicazione avanzata); questa progressione porta in ultima analisi all’insufficienza secretoria delle beta-cellule e alla loro apoptosi.

Quando aumenta l’assunzione di grassi con la dieta, si verifica l’accumulo di grasso in tessuti (principalmente muscolo scheletrico e beta-cellule pancreatiche) che normalmente non accumulano lipidi; in questi tessuti si generano quindi molecole lipidiche tossiche che determinano disfunzione cellulare portando a insulino-resistenza e infine a diabete.

In particolare, l’accumulo di metaboliti tossici all’interno delle beta-cellule altera la secrezione di insulina e incrementa l’apoptosi delle stesse cellule, accelerando la progressione verso il diabete clinicamente manifesto.

Oltre a quanto descritto finora, anche un’infiammazione di basso grado nel tessuto adiposo sembra influenzare la patogenesi del diabete nei soggetti obesi 40.

Il controllo del BMI fin dall’infanzia è importante anche dal punto di vista della prevenzione del diabete. Uno studio danese ha analizzato l’associazione tra il BMI misurato tra i 7 e i 13 anni e lo sviluppo di diabete nella vita adulta: ne è emerso che valori di BMI al di sopra della media erano associati positivamente col diabete, maggiormente nelle donne che negli uomini. Il peso alla nascita non aveva effetti sulle suddette associazioni. È importante notare che il rischio di sviluppare diabete era superiore alla norma anche per valori di BMI inferiori alla soglia del sovrappeso 41.

Gli stessi ricercatori hanno poi valutato se i cambiamenti di peso nel corso dell’infanzia e all’inizio dell’età adulta influissero sul rischio di sviluppare diabete: i soggetti che avevano

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avuto remissione del sovrappeso prima dei 13 anni presentavano un rischio di sviluppare diabete simile a quello di soggetti che non erano mai stati sovrappeso. Al contrario, i soggetti persistentemente sovrappeso (a 7 anni, a 13 anni e all’inizio dell’età adulta) avevano un rischio oltre 4 volte superiore di sviluppare diabete rispetto a coloro che non erano mai stati sovrappeso 42.

Anche nella popolazione adulta è stato dimostrato che esiste una proporzionalità diretta tra l’entità della perdita di peso (ottenuta con dieta) e la remissione del diabete di tipo 2 43. Anche la chirurgia bariatrica ha dimostrato di avere effetti sul diabete: da una parte è in grado di ridurre l’incidenza del diabete in soggetti obesi non diabetici 44, dall’altra consente di ottenere una remissione del diabete in una percentuale rilevante dei soggetti affetti 45.

L’obesità, oltre ad aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, ha anche effetti rilevanti sulla mortalità dei soggetti diabetici: è stata dimostrata, infatti, un’associazione positiva tra BMI e mortalità per tutte le cause 46.

2.1.3.4 Associazione con malattie cardiovascolari

L’associazione tra obesità e malattie cardiovascolari è stata la prima, tra le associazioni descritte, a essere documentata: nel 1983 furono pubblicati i risultati del follow-up (durato di 26 anni) di oltre 5000 pazienti inclusi nel Framingham Heart Study, e si dimostrò che l’obesità era un forte predittore indipendente di patologia cardiovascolare, soprattutto tra le donne; inoltre l’indice allora utilizzato per definire l’obesità (il Metropolitan Relative Weight) prediceva l’incidenza a 26 anni di patologia coronarica, morte per coronaropatia e scompenso cardiaco indipendentemente da età, colesterolemia, pressione sistolica, fumo di sigarette, ipertrofia ventricolare sinistra e alterata tolleranza glucidica 47.

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Uno studio condotto sempre sulla popolazione del Framingham Heart Study ha indagato la relazione tra il BMI e l’incidenza di scompenso cardiaco 48: ne è emerso che per ogni incremento di un punto di BMI si aveva un incremento del rischio di scompenso cardiaco pari al 5% negli uomini e al 7% nelle donne; rispetto ai soggetti con BMI normale, i soggetti obesi avevano un rischio raddoppiato di sviluppare scompenso cardiaco.

Se l’obesità ha effetti deleteri in quanto responsabile dell’aumento dell’incidenza di scompenso cardiaco, altrettanto non si può dire per la mortalità legata allo scompenso stesso: infatti, si è osservato in diversi studi che i pazienti sovrappeso e obesi con scompenso cardiaco hanno una minore mortalità cardiovascolare e per tutte le cause 49–52. La prima osservazione del cosiddetto “paradosso dell’obesità” fu compiuta da Horwich et al. nel 2001 53 e confermata successivamente da una meta-analisi 49.

Il paradosso è stato osservato non soltanto nello scompenso cardiaco cronico, ma anche in quello acuto (ADHF, Acute Decompensated Heart Failure): in particolare, uno studio ha considerato oltre 100.000 pazienti ricoverati per ADHF valutando la presenza di obesità. I pazienti sono stati divisi in quartili sulla base del BMI: si è osservato che i tassi di mortalità intraospedaliera diminuivano all’aumentare del BMI, anche dopo aggiustamento per i vari fattori di rischio cardiovascolare; lo studio ha messo in evidenza una riduzione della mortalità del 10% ogni cinque punti di aumento del BMI 54.

Sono state proposte numerose spiegazioni per questo fenomeno, e diversi studi sono tuttora in corso. Prima di tutto, poiché lo scompenso cardiaco è una condizione catabolica, il sovrappeso e l’obesità potrebbero rappresentare delle riserve metaboliche, mentre i pazienti con livelli inferiori di massa grassa potrebbero andare incontro con più facilità a perdita di peso e cachessia cardiaca, che è notoriamente associata a una prognosi infausta 55–57. Inoltre, i pazienti obesi potrebbero avere, a parità di compromissione cardiaca, una qualità di vita

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peggiore dei pazienti non obesi proprio a causa della massa corporea, e potrebbero quindi ricercare con più solerzia l’attenzione medica, con impiego più precoce di terapie salva-vita. Infine, anche alcuni fattori umorali potrebbero contribuire a giustificare il paradosso dell’obesità: i pazienti obesi possono avere livelli maggiori di lipoproteine, che possono neutralizzare le tossine infiammatorie circolanti che caratterizzano i casi di scompenso cardiaco avanzato 58; inoltre, il tessuto adiposo è in grado di produrre il recettore solubile del TNF-alfa, che potrebbe avere un’azione protettiva nei pazienti con HF neutralizzando gli effetti biologici avversi della citochina 59.

Per quanto riguarda la patologia coronarica, uno studio del 1990 condotto su una popolazione di oltre 100.000 donne evidenziò che il BMI era associato positivamente al rischio di coronaropatia; anche un sovrappeso lieve-moderato aumentava il rischio di coronaropatia in donne di mezza età 60.

Anni dopo, lo studio INTERHEART ha identificato nell’obesità uno tra i principali fattori di rischio modificabili associati al rischio di infarto del miocardio 61; si è poi osservato che il rapporto vita-fianchi (WHR, Waist-to-Hip Ratio) si associa in maniera molto più attendibile al rischio di infarto rispetto al BMI 62.

L’obesità rappresenta un importante fattore di rischio anche per la patologia cerebrovascolare: in uno studio eseguito su oltre 20.000 uomini, si è trovato che a ogni incremento di un punto di BMI corrisponde un incremento del 6% del rischio di ictus 63. Gli stessi ricercatori hanno poi studiato una popolazione di quasi 40.000 donne, trovando che un elevato valore di BMI era un forte fattore di rischio per il numero totale degli ictus e per l’ictus ischemico, ma non per quello emorragico; l’associazione era mediata prevalentemente da ipertensione, diabete e ipercolesterolemia 64.

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L’associazione tra obesità e ictus è stata confermata anche nelle popolazioni asiatiche 65.

Come per l’infarto del miocardio, alcuni indicatori di grasso addominale, in particolare il rapporto vita-altezza (WHtR, Waist-to-Height Ratio), si sono dimostrati più fortemente associati al rischio di ictus rispetto al BMI 66.

Infine, il paradosso dell’obesità, inizialmente osservato nei pazienti con scompenso cardiaco, sembra riguardare anche l’ictus: uno studio ha infatti rilevato che i pazienti con ictus obesi o sovrappeso (sulla base del BMI) hanno tassi di sopravvivenza a breve e a lungo termine significativamente migliori rispetto ai pazienti con BMI normale 67.

L’obesità rappresenta inoltre il principale fattore di rischio per lo sviluppo e per la progressione della sindrome delle apnee ostruttive notturne (OSAS, Obstructive Sleep Apnea Syndrome): infatti, nella popolazione adulta l’OSAS ha una prevalenza stimata intorno al 25%, percentuale che raggiunge il 45% nella popolazione obesa 68–70; per converso, oltre il 70% dei pazienti con OSAS è costituito da soggetti in sovrappeso od obesi 71.

L’OSAS ha una grande importanza soprattutto in quanto capace di aumentare il rischio cardiovascolare, indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio 72,73. Infatti, alcuni studi hanno mostrato un’associazione dell’OSAS con elevati livelli di proteina C reattiva 74,75 e con alterazioni della funzione endoteliale 76.

Uno studio ha osservato che i pazienti con OSAS severa, quindi con un AHI (Apnea-Hypopnea Index, vale a dire il numero di episodi di ipopnea o di apnea per ora di sonno) > 30, avevano un rischio significativamente maggiore di eventi cardiovascolari, sia fatali (OR 2,87) che non fatali (OR 3,17) rispetto ai controlli sani; lo stesso studio ha dimostrato che il trattamento con CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) riduce questo rischio 77.

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Inoltre la perdita di peso, specialmente se ottenuta con chirurgia bariatrica, è in grado di ridurre la gravità e la sintomatologia dell’OSAS e talvolta porta addirittura a una risoluzione completa 78: in generale, i pazienti che si sottopongono a chirurgia bariatrica, indipendentemente dal tipo d’intervento, ottengono una riduzione media di 15 kg/m2 di BMI e di 36 eventi/ora nell’AHI 79.

2.2 Malattia cardiovascolare

2.2.1 Fattori di rischio cardiovascolare e generalità del processo aterosclerotico

La patologia cardiovascolare rappresenta la prima causa di morte nel mondo occidentale; l’ictus, che abbiamo visto essere anch’esso associato all’obesità, oltre ad avere un peso enorme in termini di mortalità, rappresenta una tra le principali cause di disabilità nella popolazione 80,81.

Lo European Heart Network ha pubblicato, nel 2017, le statistiche della patologia cardiovascolare in Europa, esaminando nel dettaglio la mortalità cardiovascolare 82: le malattie cardiovascolari causano in Europa il 45% circa di tutte le morti (3,9 milioni di morti/anno), il 40% nell’uomo e il 49% nella donna; per comprendere l’imponenza di questo dato, basti pensare che il cancro, seconda causa di morte più comune, causa il 24% delle morti nell’uomo e il 20% nelle donne.

Le forme principali di malattia cardiovascolare sono la cardiopatia ischemica (IHD, Ischaemic Heart Disease) e l’ictus; l’IHD rappresenta la prima causa singola di mortalità (19% delle morti nell’uomo e 20% nelle donne), mentre l’ictus la seconda (9% delle morti nell’uomo e 13% nelle donne).

Molti studi hanno valutato il trend della patologia cardiovascolare nel mondo: si è osservato che, tra il 1990 e il 2015, si è avuta una grande riduzione di queste malattie nelle regioni con

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indice sociodemografico (SDI, SocioDemographic Index) molto elevato, mentre si è riscontrata una riduzione inferiore o assente nella maggior parte delle regioni 83; altro dato non incoraggiante è che la velocità di questo trend sembra essere diminuita molto negli ultimi anni 84.

La European Society of Cardiology (ESC) ha definito, in un documento sull’epidemiologia delle malattie cardiovascolari, i principali fattori di rischio per queste patologie, fattori che comprendono principalmente l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia, il diabete, l’obesità, il fumo di sigarette, l’alcol, una dieta non adeguata e un livello insufficiente di attività fisica85.

Per quanto riguarda l’ipertensione, sono innumerevoli gli studi che associano questa condizione ad aumentate morbilità e mortalità cardiovascolare 86–89; tra gli altri, il già citato studio INTERHEART ha osservato che il 22% degli infarti in Europa è legato all’ipertensione, la quale determina un raddoppiamento del rischio rispetto a quello della popolazione non ipertesa 61. Il rischio di patologia cardiovascolare associata all’ipertensione può essere drasticamente ridotto dal trattamento antipertensivo 90–93.

L’associazione tra dislipidemia e malattia cardiovascolare è nota da molti anni 94 ed è supportata da un elevato numero di studi 95–97.

Dal Framingham Heart Study è emerso anche che il livello di HDL correla inversamente con il rischio di infarto miocardico 98.

Come per l’ipertensione, il rischio cardiovascolare associato all’ipercolesterolemia è ridotto in maniera importante dal trattamento con statine 99 e con altri farmaci ipolipemizzanti: particolarmente incoraggianti sono i risultati ottenuti con gli anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9 100,101.

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PCSK9 (Proprotein Convertase Subtilisin-Kexin type 9) è una proteina di 692 amminoacidi che viene secreta dagli epatociti; dopo la secrezione, PCSK9 può legarsi immediatamente ai recettori per le LDL (LDL-R) circostanti oppure entrare nel circolo ematico e raggiungere fegato, intestino, reni, polmoni, pancreas e tessuto adiposo 102,103. Il complesso PCSK9-LDL-R viene quindi internalizzato negli endosomi: a questo livello è presente un basso pH che aumenta l’affinità di PCSK9 per LDL-R, prevenendo così il riciclaggio del recettore sulla superficie cellulare. Il complesso è quindi diretto ai lisosomi, dove entrambe le proteine vengono degradate.

Inoltre, sembra che PCSK9 aumenti la degradazione intracellulare di LDL-R prima della sua espressione sulla membrana, in quanto PCSK9 si complessa col recettore a livello dell’apparato di Golgi e lo indirizza verso lisosomi invece che verso la membrana cellulare 104.

Per questi motivi, l’inibizione di PCSK9 fa sì che l’espressione di LDL-R sulla superficie cellulare aumenti, consentendo un aumentato uptake delle LDL e quindi una diminuzione della loro concentrazione plasmatica.

Il substrato anatomopatologico che, nella maggior parte dei casi, giustifica la relazione tra i fattori di rischio descritti e la malattia cardiovascolare è rappresentato di fatto dall’aterosclerosi, una condizione di ispessimento e perdita di elasticità delle arterie caratterizzata dalla presenza di placche ateromatose.

L’ipotesi patogenetica dominante è quella della reazione al danno 105, per cui l’aterosclerosi sarebbe una risposta infiammatoria riparativa della parete arteriosa a un danno a carico dell’endotelio; la progressione della lesione avviene per via delle continue interazioni tra lipoproteine modificate, macrofagi derivati dai monociti, linfociti T e normali costituenti della parete arteriosa.

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Secondo la teoria della reazione al danno, il danno endoteliale rappresenta il momento patogenetico iniziale dell’aterosclerosi; si è osservato, peraltro, che le lesioni precoci originano in sedi con endotelio morfologicamente indenne. Questo ha suggerito che il processo aterosclerotico non debba necessariamente prevedere un danno a carico dell’endotelio, ma che anche un semplice cambiamento della funzione delle cellule endoteliali, come risultato dell’esposizione a fattori di rischio cardiovascolare, potrebbe promuovere il processo aterosclerotico.

I principali fattori responsabili della disfunzione endoteliale sono le alterazioni emodinamiche (come dimostra la tendenza delle placche a localizzarsi in corrispondenza degli osti e delle regioni di biforcazione dei vasi) e l’iperlipidemia.

In particolare, nell’iperlipidemia cronica le lipoproteine si accumulano all’interno dell’intima, dove vengono ossidate per effetto dei radicali liberi dell’ossigeno prodotti localmente dai macrofagi o dalle cellule endoteliali. Le LDL ossidate vengono captate, per mezzo di recettori scavenger, da macrofagi che diventano cellule schiumose; inoltre, stimolano la liberazione di fattori di crescita, citochine e chemochine da parte di cellule endoteliali e macrofagi, aumentando il reclutamento di monociti e determinando un danno citotossico per le cellule endoteliali e per le cellule muscolari lisce 106,107.

Come accennato, è fondamentale il ruolo dell’infiammazione 108,109: nelle prime fasi del processo, le cellule endoteliali disfunzionanti esprimono molecole di adesione che legano macrofagi e cellule T; queste cellule aderiscono all’endotelio e migrano nell’intima sotto lo stimolo delle chemochine localmente prodotte.

Lo stato infiammatorio cronico che si genera nella parete vascolare determina la proliferazione delle cellule muscolari lisce e la sintesi di matrice extracellulare (ECM,

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ExtraCellular Matrix); se l’ECM ha l’effetto di stabilizzare le placche aterosclerotiche, bisogna notare che le cellule infiammatorie presenti nelle placche possono aumentare il catabolismo dell’ECM e produrre placche instabili: queste sono alla base degli eventi clinici associati all’aterosclerosi (es. infarto del miocardio e ictus) 110.

2.2.2 L’endotelio – ruolo dell’NO nell’omeostasi vascolare

In passato si riteneva che l’endotelio avesse soltanto una funzione di barriera tra il sangue e gli strati più esterni della parete vascolare, consentendo una permeabilità selettiva all’acqua e agli elettroliti. Tuttavia, gli enormi progressi compiuti dagli anni ’80 hanno portato alla comprensione delle complesse funzioni dell’endotelio, che viene ora considerato l’organo endocrino più grande (in termini dimensionali) del nostro organismo 111.

Oggi sappiamo che l’endotelio ha un ruolo cruciale nel mantenere il bilancio emostatico modulando trombosi e trombolisi, nel mantenere fluido il sangue promuovendo l’azione di numerose vie anticoagulanti (es. proteina C e proteina S), nell’interagire con le piastrine e coi leucociti permettendo la diapedesi di questi ultimi, nel regolare la proliferazione cellulare e l’angiogenesi e nella regolazione del tono vascolare 112.

Per quanto riguarda la modulazione del tono vascolare, l’endotelio è in grado di produrre sostanze che inducono vasocostrizione e sostanze che inducono vasodilatazione.

Tra i fattori vasocostrittivi, i più importanti sono l’endotelina-1 (ET-1) e il trombossano A2 (TxA2), mentre tra quelli vasodilatanti il più conosciuto e studiato è l’ossido nitrico (NO) 113.

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L’ossido nitrico viene sintetizzato da tre diverse isoforme di ossido nitrico sintasi (NOS): un’isoforma endoteliale (eNOS), una indotta dall’infiammazione (iNOS) e una neuronale (nNOS).

Le NOS sono omodimeri con attività ossidoreduttasica composti da diverse regioni: un dominio ossigenasico amino-terminale contenente i siti di legame per il substrato L-arginina, per il cofattore tetraidrobiopterina (BH4) e una tasca per un gruppo eme; un dominio reduttasico coi siti di legame per i donatori di elettroni, come NADPH, FAD e FMN; e una sequenza di connessione tra i due domini che lega il complesso calcio-calmodulina

In caso di attivazione della NOS, le flavine nel dominio reduttasico trasferiscono elettroni al gruppo eme del dominio ossigenasico, consentendo il legame dell’O2 al ferro ridotto e la conversione della L-arginina a NO e citrullina 114.

La conoscenza della struttura e del funzionamento della NOS è essenziale per la comprensione delle alterazioni dell’enzima stesso, alterazioni che giocano un ruolo fondamentale nella disfunzione endoteliale (si veda paragrafo apposito): infatti, la BH4 è necessaria per la stabilizzazione del dimero della NOS e per un’adeguata attività catalitica (attività “accoppiata”); in stati di carenza di BH4, gli elettroni vengono trasferiti direttamente all’O2 e vengono generati anioni O2- (attività “disaccoppiata”) 115,116.

L’eNOS viene attivata dallo shear stress, mediante stabilizzazione dell’mRNA codificante l’enzima e espressione della proteina; anche le specie reattive dell’ossigeno (ROS) sono in grado di mediare la trascrizione di eNOS.

L’NO è in grado di diffondere dall’endotelio alle cellule muscolari lisce della parete vascolare, esercitando quindi un signalling di tipo paracrino. L’NO modula la funzione

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cardiovascolare attraverso due distinti pathways metabolici: l’attivazione della guanilato ciclasi solubile (sGC) e la S-nitrosilazione delle proteine.

La sGC attivata dall’NO genera cGMP a partire da GTP; il cGMP attiva quindi la protein chinasi G (PKG), una serina-treonina chinasi che riduce il tono vascolare, la proliferazione delle cellule muscolari lisce dei vasi e l’aggregazione piastrinica; la vasodilatazione avviene grazie a una riduzione della concentrazione intracellulare di calcio 117.

La S-nitrosilazione (legame di un gruppo NO sul gruppo tiolico di un residuo di cisteina) può alterare l’attività di numerose proteine target, coinvolte in diverse attività tra cui la regolazione del calcio intracellulare 118–120.

2.3 Rimodellamento vascolare e disfunzione endoteliale nell’obesità

Il rimodellamento vascolare è stato definito come qualsiasi cambiamento di diametro o di spessore parietale osservato in un vaso completamente rilassato, non spiegato da una variazione della pressione transmurale o della compliance e dovuto quindi a fattori strutturali 121.

Studi clinici e sperimentali hanno dimostrato che aumenti dl BMI sono frequentemente associati con un incremento della stiffness arteriosa e dello spessore della parete delle arterie: questo processo coinvolge effetti diretti sulle cellule muscolari lisce vascolari (VSMC, Vascular Smooth Muscle Cells), la generazione di specie reattive dell’ossigeno e l’attivazione di NF-kB, che stimola la crescita e la proliferazione delle VSMC 122,123.

Dal punto di vista macroscopico, si possono distinguere diversi tipi di rimodellamento vascolare: il rimodellamento può essere diretto verso l’interno (inward) o verso l’esterno (outward) e può essere ipertrofico (con ispessimento della parete vascolare), eutrofico (spessore di parete costante), o ipotrofico (assottigliamento della parete vascolare) 124,125.

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Col termine di “disfunzione endoteliale” ci si riferisce a un fenotipo alterato dell’endotelio caratterizzato da ridotta biodisponibilità di NO, aumentato stress ossidativo, elevata espressione di fattori pro-infiammatori e pro-trombotici, e alterata vasoreattività a stressors endotelio-dipendenti 126.

È noto da tempo che l’obesità è associata con una disfunzione endoteliale caratterizzata da una ridotta disponibilità di NO e da uno squilibrio tra il sistema di NO e il sistema di ET-1. La prima osservazione di disfunzione endoteliale in pazienti con obesità e insulino-resistenza è stata compiuta da Steinberg et al., che dimostrarono un ridotto aumento del flusso sanguigno nella gamba in risposta a dosi progressive di metacolina (un agonista muscarinico) nei pazienti con elevati valori di BMI o diabete di tipo 2 rispetto ai controlli 127.

L’insulino-resistenza, che abbiamo visto essere fortemente associata all’obesità, ha un ruolo diretto nell’indurre disfunzione endoteliale.

Le cellule endoteliali esprimono il recettore dell’insulina (IR, Insulin Receptor): l’insulina, infatti, gioca un ruolo fondamentale nel mantenimento della normale funzione endoteliale stimolando il rilascio di NO mediante una cascata di trasduzione del segnale che coinvolge l’attivazione della via PI3K-Akt e la fosforilazione di eNOS; contestualmente, attraverso la via di Ras, l’insulina stimola il rilascio di ET-1, dimostrando quindi di avere azioni emodinamiche contrapposte, il cui effetto netto sulla pressione arteriosa è trascurabile nei soggetti normali.

L’insulino-resistenza è caratterizzata da un’alterazione specifica della via PI3K-dipendente, mentre le altre vie di signaling dell’insulina non sono interessate. Inoltre, l’insulino resistenza è solitamente associata a un’iperinsulinemia compensatoria per mantenere la

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normoglicemia, e questa iperinsulinemia porta a un’iperstimolazione delle vie metaboliche non alterate dall’insulino-resistenza: si ha quindi una ridotta produzione di NO e un’aumentata secrezione di ET-1 128.

Figura 4. Disfunzione endoteliale indotta dall’insulino-resistenza. (Xu e Zou, 2009 128)

Inoltre, la dilatazione mediata dal flusso (FMD, Flow-Mediated Dilation) dell’arteria brachiale, un test ecografico non invasivo di funzione endoteliale, risulta alterata nei pazienti obesi, e la perdita di peso porta a un miglioramento della funzione endoteliale e dei parametri metabolici in questi individui 129.

Nei pazienti obesi, l’aumentata attività del sistema di ET-1 può contribuire in maniera significativa all’alterata omeostasi vascolare: in particolare, è stata dimostrata un’aumentata attività di vasocostrizione ET-1-dipendente nel circolo dell’avambraccio di soggetti

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Nonostante l’indiscusso ruolo dell’ET-1 e dell’insulina, i due determinanti fondamentali della disfunzione endoteliale del paziente obeso sono rappresentati dalle alterazioni nel sistema del NO e dallo stress ossidativo 131.

2.3.1 Ruolo dell’NO

Come già accennato, l’attività catalitica della NOS dipende da un’adeguata disponibilità di substrato e BH4 e da un ambiente redox equilibrato; il disaccoppiamento della NOS determina produzione di O2- invece che di NO.

La NOS compete, per la L-arginina, con altri due enzimi: l’arginasi e l’arginina metiltransferasi; quest’ultimo catalizza la conversione dell’L-arginina in dimetil-arginina asimmetrica (ADMA). L’ADMA è in grado di inibire l’attività della NOS competendo direttamente con la L-arginina e portando così a disaccoppiamento della NOS e a produzione di anione superossido. A conferma dell’importanza di queste vie metaboliche, si è osservato che l’attività dell’arginasi è aumentata negli stati di disfunzione endoteliale 132; inoltre, la concentrazione plasmatica di ADMA è stata proposta come marcatore clinico di patologia vascolare 133.

In condizioni di stress ossidativo, la BH4 è ossidata a diidrobiopterina (BH2), che si lega all’eme della NOS e provoca uno shift del trasporto degli elettroni verso l’ossigeno, determinando produzione di O2-.

Inoltre, la BH4 esercita anche effetti antiossidanti diretti, NOS-indipendenti, coinvolti nella regolazione della produzione mitocondriale di O2- da parte del complesso I della catena di trasporto degli elettroni 134.

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Figura 5. Attività accoppiata (a sinistra) e disaccoppiata (a destra) della NOS. Ridotti livelli di arginina, aumentati livelli di ADMA e aumentato rapporto tra glutatione ossidato e glutatione ridotto (GSSG:GSH) sono fattori in grado di indurre il disaccoppiamento della NOS con produzione di O2-. (Alkaitis e Crabtree, 2012 135)

In condizioni pro-ossidanti, anche la S-glutationilazione (legame di GSH a un gruppo tiolico con formazione di un ponte disolfuro) porta a disaccoppiamento della NOS, interrompendo il trasporto di elettroni tra le flavine e inducendo la formazione di anione superossido. È stato ipotizzato che il disaccoppiamento della NOS causato dalla S-glutationilazione possa rappresentare un meccanismo difensivo mirato a ridurre la sintesi di NO e a prevenire lo stress cellulare da parte delle specie reattive dell’azoto (in particolare ONOO-) 136.

Infine, l’attività della NOS è inibita anche dall’acetilazione: è significativo che la sirtuina 1 (una proteina con funzione di istone deacetilasi) sia in grado di mediare la deacetilazione della NOS rimuovendo l’inibizione dell’enzima 137; la modulazione dell’attività della sirtuina 1 potrebbe quindi rappresentare un potenziale approccio per trattare la disfunzione endoteliale.

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Anche alterazioni del signalling intracellulare possono compromettere l’attività dell’NO nel mantenimento dell’omeostasi vascolare: in particolare, in ambiente ossidativo, la sGC può essere inattivata mediante ossidazione del Fe2+ a Fe3+, compromettendo così il legame dell’NO 138.

2.3.2 Ruolo dello stress ossidativo e disfunzione mitocondriale

Le cellule possono produrre ROS in diversi modi, ma le principali vie di produzione di queste molecole ossidanti sono rappresentate dalla catena respiratoria mitocondriale e dalla NADPH ossidasi (NOX); è interessante notare che l’isoforma NOX4, presente nelle cellule endoteliali, è localizzata in parte anche nei mitocondri, potendo anch’essa essere considerata una fonte mitocondriale di ROS.

Come si vedrà meglio in seguito, la produzione mitocondriale di ROS è favorita dalla proteina p66Shc, che catalizza l’ossidazione del citocromo c, specialmente in condizioni pro-apoptotiche o quando l’attività del complesso IV è insufficiente per ossidare il citocromo c ridotto accumulatosi in eccesso; anche l’attivazione di p66Shc in condizioni di iperglicemia favorisce la formazione di ROS mitocondriale 139,140.

La disfunzione mitocondriale è definita classicamente come l’incapacità dei mitocondri di generare e mantenere sufficienti livelli di ATP 141; tuttavia, il termine viene usato anche per definire le risposte dei mitocondri che vanno incontro a perturbazioni metaboliche, tra cui alterazioni del trasporto di ferro, mutazioni del DNA mitocondriale o di geni nucleari mitocondriali, apoptosi e produzione di ROS 142.

A questo proposito, diversi studi hanno evidenziato che l’obesità è associata a disfunzione mitocondriale 143,144; in effetti, i mitocondri dei soggetti obesi, rispetto a quelli dei soggetti

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normopeso, hanno ridotte capacità di produzione di energia e di ossidazione degli acidi grassi 145.

L’eccessiva assunzione di cibo, quale quella spesso presente nell’obesità, è associata a un’incrementata produzione di stress ossidativo: si ha infatti un sovraccarico mitocondriale di acidi grassi e glucosio, che esita in un’aumentata produzione di acetil-CoA; elevati livelli di questa molecola determinano un aumento del NADH che viene generato dal ciclo di Krebs e che aumenta la disponibilità di elettroni per i complessi della catena respiratoria mitocondriale, provocando quindi un aumento dei livelli di ROS all’interno della cellula 146.

Ad ogni modo, al di là di ciò che è già conosciuto, altri meccanismi sembrano in grado di favorire il danno microvascolare nel paziente obeso: per esempio, il tessuto adiposo perivascolare (PVAT, PeriVascular Adipose Tissue) dei soggetti obesi è caratterizzato da ipertrofia degli adipociti che diventano in grado di richiamare macrofagi nel PVAT; questo porta a un cambiamento nel profilo delle adipochine che vengono rilasciate e a una riduzione dell’effetto vasodilatante del PVAT stesso 147–149.

Un altro meccanismo è legato all’infiammazione sistemica: infatti, è stato osservato che i soggetti obesi hanno livelli abnormemente elevati di citochine pro-infiammatorie quali IL-6 e TNF-alfa e che tali livelli mostrano una correlazione inversa con la riserva di flusso coronarico (CFR, Coronary Flow Reserve), a suggerire che la disfunzione microvascolare sia legata a un’infiammazione cronica mediata dalle adipochine 150,151.

Infine, particolarmente importante sembra essere il ruolo delle sirtuine e delle proteine da esse regolate.

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2.4 Sirtuine

2.4.1 Definizione e meccanismo d’azione

Le sirtuine (Silent Informator Regulator 2 proteins) sono una famiglia di istone deacetilasi (HDAC) che catalizzano la deacetilazione dei residui di lisina, sia istonici che non istonici. A differenza delle altre deacetilasi che idrolizzano semplicemente residui di acetil-lisina, le sirtuine accoppiano la deacetilazione con l’idrolisi del NAD+, il che le identifica come HDAC di classe III. Oltre all’attività di deacetilasi, le sirtuine funzionano anche come ADP-ribosilasi, demalonilasi, desuccinilasi o glutarilasi. Nei mammiferi sono stati identificati sette ortologhi (Sirt1-7), vale a dire geni omologhi che codificano per una stessa proteina in specie diverse 152.

La dipendenza dal NAD+ è indicativa del ruolo delle sirtuine nel metabolismo energetico; si è osservato infatti che queste proteine si attivano in caso di restrizione calorica e di esercizio fisico, controllando processi cellulari nel nucleo, nel citoplasma e nei mitocondri per mantenere l’omeostasi metabolica, ridurre il danno cellulare e attenuare l’infiammazione 153. Il NAD+ è un coenzima essenziale coinvolto in diverse reazioni cellulari di ossidoriduzione. I mammiferi possono generare NAD+ a partire da diversi precursori, il più importante dei quali è la nicotinamide: in questa via metabolica, l’enzima NAMPT produce nicotinamide mononucleotide (NMN) a partire nicotinamide e 5-fosforibosil-1-pirofosfato; a questo punto la NMN è convertita in NAD+154.

L’isoforma intracellulare di NAMPT (iNAMPT) è coinvolta in vario modo nel metabolismo: per esempio, i livelli di questa proteina si riducono a livello del fegato nei pazienti con steatosi epatica non alcolica (NAFLD, Non-Alcoholic Fatty Liver Disease) 155, mentre

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aumentano a livello muscolare in seguito a restrizione dell’introito di glucosio e a esercizio fisico 156,157.

L’attività di Sirt1 è strettamente regolata da stimoli ambientali di vario tipo che possono modificare la disponibilità cellulare di NAD+: infatti, uno stato a bassa energia che aumenta i livelli cellulari di NAD+ (es. CR, digiuno, esercizio fisico) è in grado di stimolare l’attività di Sirt1 158–161, mentre stati ad alta energia che diminuiscono i livelli cellulari di NAD+ (es. diete ad alto contenuto di grassi, risposte infiammatorie acute) riducono l’attività di Sirt1 162.

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Figura 6. Sirt1: meccanismo d’azione NAD-dipendente (sopra) e regolazione a livello trascrizionale (sotto). (Riadattato da Revollo e Li, 2013 163)

Anche agire direttamente sulla biosintesi del NAD+ può alterare l’attività di Sirt1: per esempio, aumentando l’attività di NAMPT si ottiene un aumento dei livelli di NAD+ e quindi dell’attività di Sirt1 164, mentre riducendo l’attività dell’enzima si ottengono i risultati opposti 165.

Questi dati suggeriscono che Sirt1 sia un sensore metabolico fondamentale, in grado di

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Le sirtuine si localizzano in diversi compartimenti cellulari (citoplasma, mitocondri, nucleo e nucleoli) ed espletano funzioni diverse; la forma più studiata, soprattutto per il suo coinvolgimento nella fisiopatologia cardiovascolare, è Sirt1, una proteina espressa nel nucleo e nel citoplasma.

2.4.2 Ruolo nella patologia cardiovascolare

La prima evidenza di una connessione tra Sirt1 e le cellule endoteliali fu la dimostrazione che Sirt1 è in grado di attivare eNOS 166; successivamente, altri studi in topi geneticamente modificati hanno mostrato che Sirt1 esercita effetti atero-protettivi attivando eNOS o diminuendo l’attività di NF-kB in cellule endoteliali e macrofagi 167–169.

Poiché NF-kB, target di Sirt1, è coinvolto nell’espressione del fattore tissutale (TF, Tissue Factor), uno studio ha valutato se Sirt1 avesse degli effetti sull’espressione di TF e sulla formazione del trombo: è stato osservato che l’inibizione di Sirt1 determinava un aumento dell’espressione di TF in linee cellulari umane e murine; inoltre, i topi trattati con un inibitore di Sirt1 mostravano un’accelerata formazione di trombi a livello della carotide 170.

In merito all’aterosclerosi, inoltre, l’attivazione di Sirt1 determina una riduzione della concentrazione plasmatica di LDL-C inibendo la secrezione di PCSK9, incrementando quindi la disponibilità del recettore per le LDL (LDL-R) epatico e di conseguenza la clearance di LDL-C; per converso, l’assenza di LDL-R annulla gli effetti atero-protettivi dell’attivazione farmacologica di Sirt1 171.

Uno studio ha cercato di definire il ruolo di Sirt1 nelle sindromi coronariche acute (ACS, Acute Coronary Syndromes), confrontando i livelli di espressione dell’mRNA di Sirt1 nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMCs, Peripheral Blood Mononuclear Cells) tra pazienti con ACS e pazienti controllo. Lo studio ha mostrato che i livelli di espressione

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di Sirt1 erano significativamente più bassi nei pazienti con ACS rispetto ai controlli, confermando l’idea che Sirt1 eserciti effetti protettivi nei confronti della patologia cardiovascolare 172.

2.4.3 Ruolo nell’obesità

Sirt1 è coinvolta in maniera significativa nella regolazione dell’accumulo e della maturazione degli adipociti, nel metabolismo epatico dei lipidi, nel sensing centrale dei nutrienti e nella regolazione circadiana del metabolismo; la comprensione di queste azioni potrebbe portare allo sviluppo di trattamenti per i disturbi del metabolismo associati all’obesità 173.

È stato dimostrato che la restrizione calorica (CR, Caloric Restriction) è in grado di allungare la vita media e massima di numerosi organismi, tra cui lieviti, mosche, vermi, pesci, roditori e mammiferi; in questi ultimi, la CR può anche migliorare molte patologie associate all’obesità e alla sindrome metabolica, avendo l’effetto di diminuire il grasso corporeo, ridurre le concentrazioni sieriche di LDL-C e trigliceridi, aumentando il colesterolo HDL e migliorando la sensibilità all’insulina.

Le sirtuine sono state chiamate in causa come mediatori dell’allungamento della vita ottenuto con la CR: a dimostrazione di questo, i livelli di Sirt1 sono stati trovati elevati in corso di CR a livello cerebrale, del tessuto adiposo bianco, del muscolo, del fegato e del rene 174.

Quando i livelli ematici di glucosio si riducono in corso di CR, il metabolismo epatico va incontro a uno shift verso la glicogenolisi e la gluconeogenesi per assicurare un adeguato apporto di glucosio, e Sirt1 ha un ruolo importante in questo shift: in particolare, un digiuno prolungato determina un aumento della deacetilazione e dell’attivazione, da parte di Sirt1,

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