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New Psychoactive Substances. Focus sulla metossietamina: dall'abuso alle potenziali applicazioni terapeutiche.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea in Farmacia

TESI DI LAUREA

New Psychoactive Substances.

Focus sulla Metossietamina: dall’abuso alle potenziali

applicazioni terapeutiche

CANDIDATO: RELATORI:

Sig. Enrico Franzoni

Prof. Vincenzo Calderone

Prof. Silvio Chiericoni

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NPS ...3

STIMOLANTI ...4

Amfetamine ...5

Catinoni e pirovaleroni ...8

Derivati indolici e benzofuranici ... 10

Aminoindani ... 11

Piperazine ... 12

Derivati del Fenidato ... 13

Analoghi dell’Aminorex ... 14

Derivati della Fenmetrazina ... 15

Derivati tiofenici ... 15

SEDATIVI ... 16

Oppioidi ... 16

Benzodiazepine ... 19

Analoghi del GABA ... 22

DISSOCIATIVI ... 24 CANNABINOIDI ... 26 PSICHEDELICI ... 32 Fenetilammine ... 33 Triptamine ... 37 Lisergidammidi ... 39 KETAMINA ... 40 La sostanza ... 40

Meccanismo farmacologico, effetti e applicazioni terapeutiche ... 40

METOSSIETAMINA ... 43 Metossietamina come NPS ... 43 Meccanismo farmacologico ... 44 Dosaggi ed effetti ... 46 Tossicità... 47 “Bladder- friendly” ... 48 Metabolismo ... 49

Possibili applicazioni terapeutiche ... 49

Potenziale d’abuso ... 50

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NPS

Le NPS (new psychoactive substances), definite anche designer drugs o research chemicals sono delle sostanze psicoattive emerse sul mercato in tempi relativamente recenti, che, almeno in un primo momento, non risultano legalmente controllate.

Il termine “new” fa riferimento al fatto che sono appunto entrate in commercio da poco: infatti, alcune sono effettivamente di nuova scoperta, mentre tante altre sono state scoperte anni o decenni fa, ma per un motivo o per l’altro sono entrate nel mercato solo recentemente, come per esempio molecole sintetizzate in passato da case farmaceutiche, poi abbandonate perché risultate di scarso interesse terapeutico (come per esempio l’AMT), o mai approvate per uso medico (come accaduto con l’MDMA), cadute nel dimenticatoio, e in seguito riportate alla luce da qualcuno che le immette sul mercato.

Internet ha reso possibile la venuta alla ribalta delle NPS: esso svolge infatti un ruolo cruciale sia nella loro diffusione, sia nella possibilità di ottenere e diffondere informazioni su di esse. Grazie ai forum si è infatti negli anni sviluppata una vera e propria comunità online di persone che oltre a utilizzarle, ne descrivono gli effetti e si confrontano in proposito: si tratta dei cosiddetti psiconauti.

Si definisce come psiconautica la metodologia per descrivere e spiegare gli effetti soggettivi degli stati alterati di coscienza dell’uomo, attraverso un paradigma di ricerca tramite il quale l’individuo si immerge volontariamente in stati alterati di coscienza al fine di esplorare l’esperienza e l’esistenza umana (AA. VV. Percorsi Psichedelici, 1995).

Appartengono a tutte le classi delle più classiche e conosciute droghe d’abuso, di cui ricalcano, generalmente, i meccanismi farmacologici.

Le grosse differenze, rispetto alle tradizionali sostanze d’uso voluttuario, sono il fatto che la maggior parte di esse restano fuori dai normali screening per l’identificazione di droghe, e il fatto che le informazioni su di esse sono molto scarse, avendo pochi o alcuno studi a riguardo, almeno fino a quando non iniziano a diffondersi richiamando l’interesse scientifico e dei legislatori.

A questo punto, in seguito all’adeguamento delle norme, vengono messe al bando. Si assiste quindi in risposta a una ulteriore modifica chimica della molecola, che le consenta di uscire dalle maglie legislative, per poi venire nuovamente proibita e così via.

Si tratta di un “gioco” teoricamente senza fine, dato che le modifiche alle molecole possono essere tendenzialmente infinite; questo comporta però un problema dal punto di vista del rischio: mentre su una droga più studiata, bene o male è ormai documentato il tipo di

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4 problemi che ne deriva, quando si tratta di una nuova molecola si sta letteralmente lanciando una moneta. Questo è vero di per sé qualora il soggetto assuma per esempio una sola sostanza: nel caso che il soggetto stia seguendo una terapia farmacologica, entrano in gioco altre variabili date dai medicinali che già assume, e le incognite sul risultato del “cocktail” aumentano di conseguenza. Inoltre, spesso, vengono assunte in combinazione, quindi, oltre a quanto già detto, diventa difficile anche a posteriori di osservazioni su eventuali manifestazioni cliniche, tracciare un ritratto verosimile e non falsato, del profilo tossicologico di una singola determinata sostanza.

STIMOLANTI

Gli stimolanti monoamminergici sono certamente tra le più popolari sostanze d’absuo: tra di essi, troviamo la cocaina e le varie amfetamine, incluso, caso peculiare, l’MDMA (3,4-metilenediossimetanfetamina) (fig. 1). Alcuni stimolanti sono utilizzati anche in terapia: metilfenidato, destroamfetamina e in certi casi perfino la metanfetmaina sono tutt’ora utilizzati in casi di narcolessia e ADHD (disturbo di deficit di attenzione/iperattività). L’MDMA stesso sta suscitando un rinnovato interesse come supplemento alla psicoterapia, in caso di PTSD (disturbo da stress post-traumatico). Infatti, la FDA (Food and Drug Administration) e la MAPS (multidisciplinary association for psychedelic studies) hanno messo in atto un “Protocollo Speciale di Vautazione” al fine di validare questa tesi.

In generale, le sostanze stimolanti aumentano la trasmissione monoamminergica, interagendo principalmente con i trasportatori di dopamina, noradrenalina e serotonina e stimolando i recettori di cui questi neurotrasmettitori sono i ligandi endogeni.

Una diversa selettività e potenza portano ovviamente a differenti dosaggi, ma soprattutto a diversi effetti farmacologici e, di conseguenza, a diverse propensioni all’abuso (Aarde e Taffe, 2017; Gannon et al., 2018; Javadi-Paydar et al., 2018; Kuhar et al., 1991; Luethi and Liechti, 2018; Ritz et al., 1987; Vandewater et al., 2015; Wee et al., 2005; Wee e Woolverton, 2006).

Nei ratti è stato osservato come sostanze stimolanti con un profilo di selettività DAT (dopamine transporter) maggiore rispetto a SERT (serotonine transporter), inneschino con più facilità l’abuso e l’autosomministrazione in maniera dose-dipendente rispetto a stimolanti con un profilo di selettività SERT maggiore rispetto a DAT.

Per quanto riguarda sostanze con un profilo di selettività DAT e SERT simili, può venire riprodotto ad oltranza l’effetto derivante dall’affinità per il DAT, mentre si sviluppa

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5 tolleranza all’affinità per il SERT: ciò conduce anche in questo caso a un maggiore potenziale d’abuso (Suyama et al., 2019).

Tutto ciò è perfettamente in linea con l’attuale visione secondo cui la dopamina risulta essere il vero e proprio “responsabile” dell’abuso derivante dalla stimolazione dei meccanismi di gratificazione e di rinforzo.

Questa categoria è una di quelle maggiormente rappresentate all’interno delle NPS, è può essere suddivisa in ulteriori sottoclassi.

Amfetamine

Molte sono le amfetamine sostituite presenti tra le NPS: la maggior parte di esse va a mimare i classici effetti stimolanti caratteristici della classe, mentre alcune altre tendono ad avere un’azione più serotoninergica, MDMA-simile. È infatti stato evidenziato come la sostituzione in para sull’anello fenilico dell’amfetamina sposti il profilo farmacologico anche verso una maggior attività per il SERT e quindi in derivati meno propensi a innescare fenomeni d’abuso rispetto alle controparti più dopaminergiche (Luethi e Liechti., 2018 e 2019b; Rickli et al., 2015a; Simmler et al., 2014a; Wee et al., 2005).

La maggior parte di esse risulta comunque avere una attività per il DAT, oltre che per il NET, decisamente più imponente rispetto a quella che ha per il SERT.

Esse presentano poi rispetto per esempio alla cocaina (che è solo un inibitore della ricaptazione, andando a legarsi e bloccare i suddetti trasportatori) un secondo duplice meccanismo, non meno importante.

Le amfetamine sono infatti dei substrati per i trasportatori vescicolari delle monoammine (VMAT) e dell’inibitore della monoammino ossidasi: il primo meccanismo fa sì che esse vengano stipate nelle vescicole presenti nel citoplasma della cellula nervosa pre-sinaptica al posto del neurotrasmettitore, e il secondo ne causa un blocco della degradazione ad opera delle MAO.

Il risultato è un aumento vertiginoso delle monoammine in questione all’interno della cellula che innesca il meccanismo di rilascio vero e proprio: il trasportatore di membrana, percependo questa concentrazione citoplasmatica molto elevata inverte la propria azione, e anziché ricaptare i neurotrasmettitori, inizia ad estrometterli nel vallo sinaptico.

Accessoriamente queste molecole sintetiche interagiscono con vari recettori, come quelli serotoninergici, adrenergici e TAAR1 (trace amine-associated receptor #1) che modula negativamente la trasmissione monoamminergica.

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6 Per quanto riguarda le classiche amfetamine (amfetamina (fig. 1), lidestroamfetamina, destroamfetamina e metamfetamina (fig. 1)), sono stati effettuati moltissimi studi sui loro effetti collaterali, dal momento che si trovano in commercio e in uso, anche terapeutico, da molto tempo. Questi sono principalmente effetti simpaticomimetici e includono ansia, irritabilità, insonnia, bruxismo, tachicardia, palpitazioni, dolori al torace, ipertermia, ipertensione, nausea, vomito, dolore addominale, bocca secca, midriasi e mal di testa; ugualmente è legittimo aspettarsi conseguenze simili con l’assunzione delle designer drugs amfetaminiche.

Nonostante la somiglianza di classe, il manifestarsi di alcuni peculiari effetti collaterali vede una maggior incidenza per certe specifiche amfetamine.

L’ipertermia in particolare è specificatamente responsabile di complicanze gravi: questo squilibrio omeostatico può infatti portare all’insorgenza di trombi disseminati, insufficienza renale e rabdomiolisi. Una menzione particolare va fatta in tal senso per l’MDMA: essa provoca un’ipertermia particolarmente maligna, che spesso e volentieri è la maggior causa di fatalità correlata alla sua assunzione. Essa è mediata dal disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa nei muscoli scheletrici indotta dall’attivazione della proteina disaccoppiante #3 (UCP-3) e, prevedibilmente, dall’attivazione adrenergica causata dal massivo rilascio di noradrenalina.

Anche l’epatotossicità, potenzialmente fatale, è un effetto tossico associato all’uso di amfetamine, e l’MDMA è l’amfetamina che statisticamente ha una maggior incidenza di danno al fegato. Ciò sarebbe il risultato di una serie di meccanismi che sommandosi risultano particolarmente pericolosi: il massiccio rilascio di monoammine, l’ipertermia, lo stress ossidativo e il venir meno della risposta fisiologica ad esso, disfunzioni mitocondriali e la formazione di derivati catecolici.

Da non sottovalutare è poi la cardiotossicità, attribuibile alla protratta attivazione simpatica e secondariamente ad altri processi come l’ipertermia e la bioattivazione metabolica. Il recettore 5-HT2B, particolarmente espresso a livello delle valvole cardiache, può essere poi uno dei maggiori responsabili di tale tossicità: la sua attivazione può portare appunto a valvulopatia cardiaca, e ciò è imputabile sia a sostanze che lo attivano direttamente, sia a composti che in qualche modo aumentano i livelli di serotonina a livello plasmatico. Infatti, sono state osservate complicanze a questo livello in soggetti che erano consumatori forti di MDMA, e in vitro è stata dimostrata, in seguito al suo utilizzo, una proliferazione esagerata delle cellule interstiziali a livello delle valvole cardiache.

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7 derivazione amfetaminica, causava lo stesso problema, insieme all’ipertensione polmonare: per questi motivi venne sospesa la sua produzione e fu ritirato dal mercato (Heal et al., 2009).

Dal metabolismo dell’MDMA poi viene prodotto HMMA

(4-idrossi-3-metossimetamfetamina), il quale ha dimostrato di sollecitare la secrezione di vasopressina, ormone antidiuretico e vasocostrittore; questo, insieme all’ipertermia indotta e all’eventuale assunzione eccessiva di liquidi ipotonici che ne può scaturire, può condurre a iponatremia (eccessiva diminuzione dei livelli di sodio plasmatici), potenzialmente fatale, specie nel sesso femminile, che presenta come aggravante l’azione estrogenica, anch’essa stimolante il rilascio di vasopressina (Fallon et al., 2002).

La deplezione di neurotrasmettitori e le specie reattive risultanti dallo stress ossidativo hanno poi un ruolo chiave nell’induzione di neurotossicità delle amfetamine.

Tra le varie amfetamine, per quanto riguarda la neurotossicità, quelle con una spiccata azione serotoninergica sono certamente più propense alla sua predisposizione: le amfetamine alogenate 4-FA (4-fluoroamfetamina) e 4-CA (4-cloroamfetamina) sono un esempio di designer drugs di questo tipo (fig. 1).

Il meccanismo chiave alla base di tale neurotossicità pare essere il trasporto della dopamina nelle terminazioni serotoninergiche, dove ovviamente non dovrebbe stare; qui viene deamminata ad opera delle MAO-B, conducendo al DOPAC (Acido 3,4-diidrossifenilacetico), che innesca un danneggiamento dei recettori.

Nel caso dell’MDMA questo meccanismo sembra inibito dalla cosomministrazione di selegilina, inibitore irreversibile delle MAO-B, mentre nel caso della 4-CA no (Sprague et al., 1996).

La 4-FA ha visto una larghissima diffusione e sono stati associati ad un suo utilizzo diversi effetti avversi anche gravi, che comprendono, oltre ai più comuni e meno rischiosi della sua classe d’appartenenza, emorragia cerebrale, sindrome invertita di Tako-tsubo, infarto del miocardio e conseguente arresto cardiaco.

Il suo omologo 4-CA, invece, non ha per fortuna mai visto una diffusione come NPS, probabilmente grazie alla vasta documentazione inerente alla sua tossicità presente in letteratura scientifica: si tratta di una neurotossina a tutti gli effetti, che come detto porta a una tossicità agli assoni serotoninergici e un calo di serotonina a livello dell’ippocampo notevole, non reversibile né contrastabile (Sprague er al., 1996).

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Figura 1 Struttura chimica di MDMA e di alcune altre amfetamine

Catinoni e pirovaleroni

I catinoni sono derivati della β-keto-amfetamina catinone (fig. 2), alcaloide presente in natura nelle foglie della pianta Catha edulis, tutt’ora molto presente nella tradizione e nella cultura di molti paesi mediorientali; il più celebre tra essi è il mefedrone (fig. 2), descritto in aneddotica come capace di produrre un “mix” di effetti simili a cocaina, MDMA e amfetamina. Il mefedrone (4-metilmetacatinone) fu sintetizzato per la prima volta nel 1929 (Sanchez, 1929) ma, caduto nel dimenticatoio fino a tempi recenti, è stato riscoperto nel primo decennio del 2000, e nel giro di poco tempo è diventato molto diffuso, soppiantando, in alcune zone, sostanze d’abuso di lunga data. Questo è stato possibile anche a causa di un crollo della disponibilità di MDMA sul mercato clandestino, conseguente a un maxi-sequestro di safrolo, il precursore naturale più utilizzato, avvenuto nel 2009 in Cambogia. A parte esso e alcuni altri catinoni già studiati e quasi sempre scartati a causa dell’intrinseco potenziale d’abuso, la maggior parte dei catinoni artificiali sono di sintesi recente o recentissima: riscuotono infatti molto successo e la loro grande disponibilità e popolarità li rende dei protagonisti ideali per quel meccanismo, continuamente reiterato, di divieto di una sostanza che innesca la nascita di un nuovo analogo, come detto precedentemente.

I catinoni sono in effetti attualmente il gruppo più vasto di stimolanti “designer” che viene monitorato dalla EMCDDA (Europenan Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction) (European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, 2019).

Un catinone utilizzato in terapia è il bupropione: trova spazio, anche in Italia, nella disassuefazione da fumo, come antidepressivo e, associato al naltrexone (analogo del naloxone) nella terapia antiobesità.

I pirovaleroni invece sono un sottogruppo dei catinoni, la cui struttura ha come capostipite appunto il pirovalerone, sviluppato negli anni '60 come trattamento per letargia, astenia e obesità (Gardos e Cole, 1971). Fanno parte di questa categoria il MDPV, la α-PVP (“flakka”)

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9 e la α-PHP, nonché altri derivati meno noti diffusisi poi come rimpiazzo (fig. 2). Questi derivati vennero inizialmente commercializzati come “Sali da bagno”: non perché presentassero realmente questa possibile applicazione, bensì perché potessero stare fuori dai radar giuridici, almeno in un primo momento: per questo motivo esiste una tendenza a riferirsi in generale ai catinoni sintetici come “Sali da bagno”.

Presentano in generale un’azione di inibitori del DAT e del NET (nonché del SERT), che in alcuni casi si unisce ad un’azione amfetamino-simile di rilascio monoamminergico: si può quindi facilmente evincere che gli effetti ricalcheranno bene o male quelli delle convenzionali droghe d’abuso cocaina e amfetamina.

Una menzione particolare va fatta per questi pirovaleroni, i quali sembra possano passare molto velocemente la barriera emato-encefalica (Novellas et al., 2015): questa caratteristica, unita alla breve durata degli effetti ricercati, e al fatto che spesso vengono fumati, sono indice del loro alto potenziale d’abuso. Inoltre, dopo la scomparsa degli effetti ricreativi, sussiste per diverse ore una forte stimolazione adrenergica, durante la quale si sperimenta un forte craving per la sostanza. È quello che sta dietro alle tante storie di cronaca statunitense che parlano di “zombie drug”: i soggetti, portando avanti “binge” di queste sostanze anche per giorni, in totale mancanza di sonno, entravano in stati psicotici molto forti, che si traducevano in aggressività, autolesionismo e altri comportamenti pericolosi e preoccupanti, denotanti un importante distacco dalla realtà da parte del soggetto. Il medesimo atteggiamento è stato osservato anche nei ratti; peraltro le cavie non aumentavano gradualmente e progressivamente la dose presa, bensì passavano da un’assunzione saltuaria a tutta quella che avevano modo di ottenere durante la sessione, perdendo completamente interesse per la ruota su cui normalmente amano girare, e da lì, per le sessioni successive, continuavano a seguire questa tendenza. Ciò dà un’idea dell’orientamento che si può sviluppare in un soggetto assuntore (Aarde et al., 2014).

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Figura 2 Struttura chimica del catinone e di alcuni catinoni e pirovaleroni sintetici

Derivati indolici e benzofuranici

Si tratta di analoghi dell’MDMA e dell’MDA, in cui il gruppo benzodiossolano è sostiuito da un gruppo indolico o da un gruppo benzofuranico.

Il 5-IT (5-API) e il 6-IT (6-API) (fig. 3) sono stati sintetizzati da Albert Hofmann, padre dell’LSD, nei primi anni ’60, appunto come derivati indolici, (Hofmann e Troxler, 1962) nonché analoghi dell’αMT, in quegli anni commercializzato in U.R.S.S. come antidepressivo, sotto il nome di Indopan.

Il 5-APB e il 6-APB (fig. 3), derivati benzofuranici, invece sono stati sintetizzati da David Nichols nel 1993, alla ricerca di un analogo non neurotossico dell’MDMA, in vista di un possibile futuro impiego in psicoterapia (Monte et al., 1993). La loro azione sarà tendenzialmente più simile a quella dell’MDMA piuttosto che a quella di uno stimolante puro, dato che presentano più affinità come substrato per il trasportatore della serotonina rispetto a quello della dopamina (eccezione 5-IT: ha, rispetto all’analogo 6-IT, 8 volte la sua affinità per il DAT rispetto al SERT), oltre a dare una stimolazione diretta dei recettori serotoninergici (Marusich et al., 2016).

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11 L’effetto collaterale più peculiare e rischioso riconosciuto ad alcune di queste molecole usate cronicamente, specialmente il 6-APB, è la valvulopatia cardiaca: infatti, esso risulta essere, in maniera analoga a MDMA e fenfluramina, molto selettivo per i recettori 5-HT2B, sebbene con un’affinità ancora maggiore (Rickli et al., 2015b).

Figura 3 Struttura chimica di alcuni benzofurani

Aminoindani

Gli aminoindani hanno visto la loro età d’oro quando gli stimolanti-designer di prima generazione, come il mefedrone, sono stati banditi e messi sotto controllo legislativo (Pinterova et al., 2017; Sainsbury et al., 2011).

Analoghi conformazionali dell’amfetamina, furono inizialmente investigati come farmaci analgesici, broncodilatatori e agenti anti-Parkinson, e successivamente come farmaci con un valore psicoterapeutico (Pinterova et al., 2017, Solomons e Sam, 1973).

Alcuni di essi hanno dimostrato infatti di fornire un effetto entactogeno (generatore di contatto interiore) nonostante possiedano una minore neurotossicità serotoninergica: è il caso dell’MDAI e del 5-IAI (che mantengono comunque una affinità per il NET simile all’MDMA) e del MMAI (che si differenzia per una selettività quasi esclusiva per il SERT), selettivi per il SERT e non per il DAT (Luethi e Liechti, 2018; Simmler et al., 2014b) (fig. 4).

Una menzione particolare va poi fatta per il 2-AI e il 2-NM-AI (fig. 4), non presentanti sostituenti sull’anello, i quali in vitro hanno dimostrato una peculiarità: sono privi di affinità per il DAT, come per il SERT, e agiscono come relasers selettivi di NE (Luethi et al., 2018c; Simmler et al., 2014b).

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Piperazine

Grazie al loro profilo farmacologico che dovrebbe avvicinarle all’MDMA, le piperazine sono state vendute e utilizzate come tali come designer drugs, o utilizzate in pastiglie di ecstasy come adulteranti attivi (Baumann et al., 2005; Bossong et al., 2010; Lin et al., 2011; Sheridan et al., 2007; Wood et al., 2008). Il consumatore descrive l’esperienza con ecstasy contenente piperazine come non piacevole e tendenzialmente negativa: nonostante ciò, in un momento di scarsa offerta di MDMA come quello che si è detto aver contribuito alla diffusione di varie NPS, il mercato di queste sostanze è comunque cresciuto parecchio, portando a una legiferazione delle stesse.

Le piperazine sono ben conosciute in campo terapeutico: vari farmaci presentano una porzione piperazinica, come il Sildenafil, il Vardenafil, l’Imatinib, il Trazodone, il Nefazodone), oltre al fatto che la piperazina stessa, e alcuni suoi derivati, sono utilizzati come antielmintici; la BZP (benzilpiperanzina) (fig. 5) è stata appunto studiata come antielmintico, nonché antidepressivo e la mcPP (meta-cloro-fenilpiperazina) (fig. 5) è un metabolita attivo di diversi farmaci antidepressivi, come appunto il Trazodone e il Nefazodone.

Altre piperazine che fanno parte delle research chemicals sono: la TFMPP, l’MDBZP e la MeOPP (fig. 5).

Oltre ai classici effetti collaterali di natura simpaticomimetica che derivano dall’uso di queste, come di altre sostanze stimolanti, abbiamo un’alta incidenza di convulsioni correlate all’uso di ecstasy contenente piperazine; nonostante paia che questo trend vada di pari passo con l’aumentare del dosaggio assunto, queste convulsioni tossiche possono manifestarsi già anche a basse dosi (Gee et al., 2005; 2008).

La combinazione di queste piperazine con MDMA, appunto conseguente all’uso di queste “pasticche” adulterate, ha portato in un caso osservato a ipertermia grave con conseguente insufficienza multi-organo e in un altro a iponatremia e conseguente edema cerebrale fatale (Balmelli et al., 2001; Gee et al., 2010); il contributo di ciascun singolo intossicante rispetto al severo quadro clinico osservato resta ignoto, ma è lecito pensare che MDMA e piperazine possano dare un sinergismo tossico.

Resta il fatto che si tratta di sostanze dal potenziale tossico molto alto, probabilmente più pericolose di altre: è stato riscontrato come in vitro queste piperazine portino ad un aumento di enzimi chiave per la biosintesi del colesterolo, inducano stress ossidativo, interrompano la funzione mitocondriale e inneschino l’apoptosi, tutti fenomeni che possono potenzialmente contribuire alla tossicità clinica evidenziata (Arbo et al. 2016a, b; Dias da

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Silva et al. 2017; Dias-da-Silva et al. 2015; Majrashi et al. 2018).

Figura 5 Struttura chimica di alcune piperazine

Derivati del Fenidato

Si tratta di derivati del farmaco Metilfenidato (fig. 6), utilizzato per contrastare ADHD e narcolessia, ottenuti con sostituzioni sull’anello fenilico e modificazioni della lunghezza della catena laterale carboniosa (Luethi et al. 2018b). Rimanendo comunque abbastanza simili alla molecola madre, ne continuano a ricalcare anche gli effetti: possono essere utilizzati sia come droghe ricreative per indurre euforia, che come potenziatori cognitivi (il metilfenidato è infatti una delle sostanze più abusate dagli studenti) (Ho et al., 2015; Lüthi e Liechti, 2019).

Essi agiscono come potenti inibitori NET e DAT, privi di attività di substrato (Luethi et al., 2018b; Simmler et al., 2014b); sembra poi che abbiano un po’ di inibizione sul SERT nonché attività sui recettori adrenergici e serotoninergici, ma è improbabile che queste azioni accessorie giochino un ruolo rilevante nella azione psicoattiva di queste sostanze (Luethi et al., 2018b).

A causa della loro relativa lentezza nella manifestazione degli effetti qualora assunti oralmente, è comune il loro uso per via inalatoria o per via iniettiva; ciò può esporre l’utilizzatore a ulteriori rischi: dolore al naso e perforazione del setto nel primo caso e infezioni varie nel secondo sono conseguenze piuttosto gravi (Ho et al., 2015; Lafferty et al., 2016; Parks et al., 2015). La rapida comparsa degli effetti susseguente a queste vie di somministrazione, combinata alla selettività DAT vs SERT, è collegata a un accresciuto rischio di dipendenza (Luethi et al., 2018b): quando “sniffati” i fenidati vengono ad avere un profilo farmacologico, nonché di effetti soggettivi, molto simile a quello della cocaina (Vogel et al., 2016).

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Analoghi dell’Aminorex

L’Aminorex fu inizialmente venduto come farmaco da banco soppressore dell’appetito in alcune parti d’Europa negli anni ’60, ma sul mercato farmaceutico durò meno di un decennio, dato un’epidemia di ipertensione polmonare cronica che in alcuni casi conduceva alla morte, correlata al su utilizzo (Maier et al., 2018a).

I principali suoi analoghi comparsi come NPS sono il 4-MAR (4-metilaminorex) e il 4,4-DMAR (4,4-dimetilaminorex) (fig. 7). Si tratta di sostanze molto forti e dalla lunga durata, spesso paragonate alla metanfetamina.

Il 4,4-DMAR è un potente inibitore di DAT, NET e SERT, mentre il 4-MAR è meno selettivo per il SERT (Maier et al., 2018b; Rickli et al., 2019).

Come per il capostipite della classe, che per questo effetto collaterale venne ritirato, il 4-MAR è correlato alla comparsa di ipertensione polmonare (Gaine et al., 2000).

Entrambe queste sostanze sono state rilevate analiticamente in svariate morti per droga (Cosbey et al., 2014; Davis e Brewster 1988; European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction 2015), ma il 4,4-DMAR sembra avere una marcia in più in quanto a pericolosità.

Infatti, nonostante in casi fatali siano state rilevate più sostanze, il 4,4-DMAR è stato considerato l’agente causale delle morti, o è stato a lui riconosciuto un ruolo di primo piano in esse (European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction 2015). Svolgendo le autopsie relative a questi decessi che vedono il 4,4-DMAR protagonista, la lista degli eventi avversi avvenuti è alquanto preoccupante: edema cerebrale, convulsioni, ipertermia, arresto cardiaco e respiratorio, emorragie interne (European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction 2015).

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Derivati della Fenmetrazina

La Fenmetrazina è uno stimolante che veniva usato come anoressizzante, prima di venire ritirato dal mercato (Chait et al., 1987). Le designer drugs da essa derivate sono una classe abbastanza sconosciuta di sostanze, di cui fa parte la 3-FPM (3-fluorofenmetrazina) (fig. 8), che, al contrario, sembra essere molto diffusa.

Come il composto di origine essa risulta essere substrato sia per il NET che per il DAT, e in misura minore anche per il SERT (Mayer et al., 2018; Rothman et al., 2002).

È riportato in letteratura che, metilando l’anello fenilico, si assiste ad un aumento delll’effetto sul SERT (McLaughlin et al. 2018); come nel caso di amfetamine e catinoni, la sostituzione che porta al maggiore effetto serotoninergico, è quella in posizione para sul fenile (Luethi et al., 2019; Rickli et al., 2015a).

Gli effetti collaterali di queste sostanze sembrano essere i classici effetti simpaticomimetici amfetaminici, come riportato dal progetto svedese STRIDA (Bäckberg et al., 2016).

Figura 8 Struttura chimica della Fenmetrazina e di alcuni suoi derivati

Derivati tiofenici

Nel tempo sono apparsi vari analoghi di amfetamine e catinoni, nei quali il fenile è stato rimpiazzato da un tiofene; alcuni di essi furono inizialmente prodotti e studiati negli anni '40, e i loro effetti vengono descritti come comparabili alla loro controparte fenilica (Alles e Feigen, 1941; Blicke and Burckhalter, 1942).

Tra questi, il composto sul quale ci sono più studi farmacologici e tossicologici è certamente la MPA (metiopropamina) (fig. 9), analogo tiofenico della metamfetamina.

Si tratta di un inibitore della ricaptazione di noradrenalina e dopamina quasi equipotente (meno del doppio della selettività per il NET, rispetto al DAT), che va inoltre ad interagire con vari recettori: adrenergici, dopaminergici, serotoninergici, NMDA e sigma-1 (Iversen et al. 2013).

È riportata una morte scaturita dall’uso esclusivo di MPA non in congiunzione ad altre sostanze, dove la causa probabile del decesso è un’aritmia cardiaca che ha causato un collasso cardiovascolare (Anne et al., 2015).

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16 Nei ratti inoltre è stata osservata neurodegenerazione dopaminergica e danni renali, gastrointestinali e del miocardio (Foti et al., 2019; Nguyen et al., 2019).

Figura 9 Struttura chimica di alcuni derivati tiofenici

SEDATIVI

Oppioidi

Gli oppioidi sono una classe di composti fondamentale nella medicina: infatti sono fondamentale per il trattamento del dolore grave; si tratta però di un’arma a doppio taglio: infatti nonostante siano stati usati per millenni con questo scopo (oppio), rappresentano da altrettanto tempo un problema sociale, che negli ultimi secoli è divenuto una vera e propria piaga, che si manifesta con l’uso e abuso, almeno inizialmente voluttuario, di sostanze illegali, abuso di medicinali ottenibili su prescrizione medica e, più recentemente adulterazione di sostanze con oppioidi non farmaceutici (Armenian et al., 2018b). Infatti, negli ultimi anni, si è assistito a una crescita drastica ed esponenziale di vari oppioidi sintetici, ma a farla da padrone troviamo il fentanile non farmaceutico e suoi derivati (fig. 10), assunti in quanto tali o perché utilizzati come taglio per eroina: qui nasce un grosso problema. Data la altissima potenza di queste molecole rispetto alla diacetilmorfina (sono attive nell’ordine dei microgrammi), e il fatto che le tecniche con cui vengono prodotti questi “cocktail” per la vendita nel mercato nero, rudimentali o poco più, non sono di certo in grado di garantire un’uniformità del prodotto, il rischio di overdose si impenna, specie appunto quando l’assunzione è inconsapevole. Infatti, la maggior parte delle identificazioni di composti di tipo fentanilico avviene in tossicologia forense, in situazioni associate all’uso endovenoso di eroina (Gladden et al., 2019). Questo problema si è manifestato soprattutto negli Stati Uniti, in maniera epidemica, tanto che i nuovi oppioidi sintetici inseriti nelle dinamiche del luogo, hanno fatto sì che la situazione venisse descritta come “opioid crisis” (Daniulaityte et al.m 2017; Denton et al., 2008; Lucyk e Nelson 2017; Peterson et al., 2016; Rudd et al., 2016; Scholl et al., 2018; Seth et al., 2018). e abbia portato a un divieto per tutti i composti analoghi del fentanile, passati, presenti e futuri.

Il fentanile fu sintetizzato nel 1960 ed è diventato essenziale e molto largamente diffuso, sia nell’analgesia intraoperatoria, che, in forma di cerotto transdermico, nella terapia del dolore cronico (Stanley 2014). Poco dopo la sua immissione sul mercato, iniziarono ad emergere

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17 rapporti di uso improprio, dapprima da parte di operatori sanitari e successivamente da parte dei pazienti, fino ad arrivare, in tempi più recenti, alla comparsa nel mercato clandestino di tutta una serie di suoi analoghi (Armenian et al., 2018b; Suzuki e El-Haddad 2017). Per capire l’entità del fenomeno basti pensare che, dei 49 nuovi oppioidi sintetici identificati in Europa tra il 2009 e il 2018, ben 34 erano derivati del fentanile (European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction 2019).

Escluso questo enorme accrescimento di potenza, il comportamento farmacologico di designer drug oppioidi ricalca in linea generale quello di altri oppioidi/oppiacei: vanno a interagire come agonisti, totali o parziali con i recettori per gli oppioidi (i cui sottotipi sono μ, δ e κ) accoppiati a proteine G di tipo esclusivamente inibitorio (Gi) presenti nel cervello e nel midollo spinale. Generalmente hanno selettività per il sottotipo μ (Armenian et al., 2018b; Baumann et al., 2018; Codd et al., 1995; Maguire et al., 1992; Prekupec et al., 2017), il quale ha dimostrato di mediare la maggior parte degli effetti farmacologici promossi dall’assunzione di questi composti: euforia, rilassamento, analgesia, depressione respiratoria, sonnolenza, nonché lo sviluppo di una dipendenza (Charbogne et al., 2014; Kieffer 1999; Suzuki e El-Haddad 2017). Infatti questi nuovi composti danno i classici sintomi di overdose: vertigini, calo del livello di coscienza, miosi, depressione del SNC, depressione respiratoria, ipossia, edema polmonare, bradicardia, prurito, nausea e vomito, costipazione e in alcuni casi agitazione, ipertensione e tachicardia (Armenian et al., 2017, 2018b; Bäckberg et al., 2015b; Domanski et al., 2017; Helander et al., 2014, 2016, 2017a; Jones et al., 2017; Müller et al., 2019; Schneir et al., 2017; Siddiqi et al. 2015; Wilde et al., 2020).

Un’eccezione a questo paradigma è MT-45 (1-cicloesil-4-(1,2-difeniletil)piperazina) (fig. 10), sintetizzato dapprima negli anni ’70 dalla Dainippon Pharmaceutical Co. e negli ultimi anni emerso nel commercio delle NPS: al suo utilizzo sono stati collegati effetti collaterali peculiari come disturbi uditivi fino a perdita dell’udito, conseguenti a grave danno neurosensoriale, che in un caso ha dimostrato di essere irreversibile (Helander et al., 2014). Inoltre, si è assistito a sintomi acuti a livello della pelle e dei capelli, con perdita di questi ultimi, seguiti da gravi complicazioni oculari sopraggiunte in seguito: per due di questi pazienti è stato necessario ricorrere all’intervento chirurgico per la cataratta (Helander et al., 2017b).

Risulta poi difficile valutare l’effettiva potenza dei suddetti composti prima di un loro utilizzo su cavie o su utilizzatori: è stato infatti dimostrato come i risultati ottenuti in vitro siano solo lontanamente predittivi del comportamento che manifesteranno poi in vivo.

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18 Prendiamo per esempio il butirrilfentanile e U-47700 (fig. 10): in vitro dimostrano di avere una selettività per i recettori μ, sebbene meno impattante rispetto alla morfina, e scarsa selettività per i recettori κ e δ, seppur presente. Si evince che il loro potere antidolorifico derivi comunque dalla selettività per i recettori μ, dato che in topi modificati geneticamente mancanti di questi recettori e in topi a cui viene somministrato naloxone (antagonista recettoriale degli oppioidi non selettivo), questo effetto anti-nocicettivo viene meno.

Nonostante ciò, in vivo, nel topo, usando il test “tail flick”, si osserva come il potere analgesico del butirrilfentanile e di U-47700 sia in realtà ben superiore a quello della morfina, rispettivamente 31 volte tanto e 12 volte tanto (Baumann et al., 2018). Deduciamo quindi che fino al momento in cui un composto di questo tipo venga testato in vivo, è un azzardo volerne definire la potenza.

Al contrario, il test del “tail flick” risulta piuttosto affidabile a scopo predittivo e le valutazioni con esso effettuate ci confermano, come anticipato, che i nuovi oppioidi sintetici hanno tendenzialmente una potenza ben superiore rispetto alla morfina (Armenian et al., 2018b). Per esempio il fentanile è stimato avere da 50 a 200 volte la potenza antidolorifica della morfina, mentre il suo derivato carfentanile, farmaco d’elezione per la narcotizzazione di animali di grossa taglia, come elefanti, è considerato avere circa 10000 volte la forza della morfina, venendo a essere uno degli oppioidi più forti che conosciamo (ha attività negli esseri umani a partire da circa 1 μg) (Armenian et al., 2018b; Concheiro et al., 2018; Suzuki ed El-Haddad 2017).

Molti farmaci oppioidi inibiscono NET e SERT e interagiscono con i recettori 5-HT2, e il tramadolo è tra questi probabilmente il più rappresentativo (Codd et al., 1995; Rickli et al., 2018). Il fentanile ha anch’esso affinità per i recettori serotoninergici 5-HT1A e 5- HT2A, ma manca di un’azione significativa sui trasportatori monoamminergici (Barann et al., 2015; Rickli et al., 2018). Non si può dire nulla in merito invece sulle designer drug oppioidi, dato che attualmente non ci sono dati disponibili; per questo motivo la possibilità di incorrere in tossicità serotoninergica (sindrome serotoninergica) è un effetto avverso che va considerato per queste molecole, dato che spesso vengono usate in combinazioni e non si può sapere se ci sarà e quanto forte potrà essere la sinergia assumendo agenti serotoninergici (Baldo 2018; Rickli et al., 2018).

Date le similarità di classe di queste droghe, comunque, è probabile che l’astinenza successiva all’uso di research chemicals oppioidi segua la falsa riga di quella da oppiacei e oppioidi tradizionali, risultando quindi estremamente difficoltosa, fisicamente e psicologicamente (Siddiqi et al., 2015).

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19 Allo stesso modo, in caso di intossicazione con queste NPS, è necessario cercare di proteggere le vie aeree e mantenere la respirazione e la circolazione (Armenian et al., 2018b) e non appena possibile procedere alla somministrazione di Naloxone (Armenian et al., 2018b; Kim e Nelson 2015).

Figura 10 Struttura chimica della Morfina e di alcuni oppioidi sintetici

Benzodiazepine

Le benzodiazepine sono una classe di composti ampiamente rappresentata, utilizzata nel trattamento di tutta una serie di disturbi psichiatrici e neurologici, in cui disturbi d’ansia e insonnia sono in prima fila (Longo e Johnson 2000; Sternbach 1979).

La loro storia inizia nel 1960, con il capostipite della categoria, il cloridazepossido, commercializzato come Librium®: da allora, piano piano, le benzodiazepine hanno sostituito i barbiturici, grazie al loro indice terapeutico ben maggiore.

Sono largamente utilizzate e, appunto anche per questo, il loro abuso è tutt’altro che sporadico; gli utilizzi principali che conducono a questo abuso sono: il loro uso come sonniferi, per indurre e/o facilitare il sonno, il loro uso come ansiolitici, per percepire meno lo stress, e, in utilizzatori di altre sostanze, trovano impiego per smussare gli effetti collaterali degli stimolanti, auto-trattare i sintomi di astinenza e ovviamente alterarsi, facendone un uso voluttuario (Kapil et al., 2014; Vogel et al., 2013; Zawilska e Wojcieszak 2019). Riguardo a quest’ultimo va specificato che il loro potenziale euforizzante è abbastanza scarso, soprattutto se assunte singolarmente: in combinazione ad altre sostanza infatti esso può

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20 diventare degno di nota. Se prese in concomitanza con sostanze oppioidi, ne esaltano infatti gli effetti euforizzanti (Jones et al. 2012) e, come accennato, se assunte assieme a sostanze stimolanti, ne mitigano gli effetti collaterali, periferici e non, esacerbandone il potenziale d’abuso.

Dal 2007, con il phenazepam (fig. 11) prima (ottenibile tutt’ora con ricetta in Russia e altri stati ex-sovietici) e con l’etizolam (fig. 11) in un secondo momento, abbiamo assistito alla comparsa sul mercato di tutta una serie di designer-drugs benzodiazepiniche, dapprima lentamente, e poi in maniera crescente. All’interno di questo gruppo troviamo farmaci sviluppati da case farmaceutiche ma mai stati approvati [es. Pyrazolam (fig.11)], medicinali in uso in certi paesi (es. Etizolam, una di quelle che ha avuto più successo, si trova nelle farmacie di Italia, Giappone, India, ma non è approvato dalla FDA), composti che sono precursori o metaboliti di farmaci ottenibili su prescrizione in alcuni paesi (Bäckberg et al., 2019; Manchester et al., 2018) nonché i soliti analoghi di benzodiazepine già presenti, ottenuti per es. scambiando un atomo o aggiungendone uno (il Flualprazolam), per es., rientra in entrambe queste categorie, dato che rispetta la prima condizione rispetto al Triazolam, avendo un atomo di fluoro a sostituzione di uno dei suoi due atomo di cloro, e soddisfa invece la seconda condizione rispetto all’alprazolam, di cui è un derivato, avendo un fluoro come sostituente aggiuntivo nella medesima).

Il meccanismo d’azione e gli effetti delle benzodiazepine appartenenti alle NPS sembrano, in questo caso ancor più che in altri simili, ricalcare quelli delle molecole originarie (El Balkhi et al., 2020), nonostante per la maggior parte di esse non siano stati effettuati adeguati studi scientifici a riguardo. Comunque, gli esperimenti in vitro suggeriscono che, appunto come le benzodiazepine convenzionali, esse portino alle loro manifestazioni farmacologiche tramite l’interazione come modulatori allosterici positivi con un particolare sito presente sul recettore GABA-A (recettore-A per l’acido γ-amminobutirrico (Waters et al., 2018). Questo recettore ionotropo, si compone di cinque subunità poste attorno ad un canale per il cloro: l’apertura del suddetto canale porta ad un’iperpolarizzazione, rendendo meno eccitabile la cellula. Le benzodiazepine, legandosi al loro sito sul recettore e agendo da modulatori allosterici, aumentano la frequenza d’apertura del canale ionico centrale e facilitano e potenziano quindi gli effetti del GABA endogeno: non vanno ad interagire direttamente con il recettore, ma soprattutto funzionano solo fino a che c’è GABA disponibile, al contrario dei barbiturici, che aumentano la conduttanza al Clˉ in maniera indipendente dal GABA (Manchester et al., 2018; Moosmann e Auwärter 2018). Questo è il motivo principale per il quale nel tempo li hanno soppiantati e per il quale, nonostante l’azione depressiva sul SNC

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21 e sulla respirazione delle BDZ, molto raramente si registrano fatalità scaturite dall’uso di sole benzodiazepine, seppur ne esista evidenza, sia per il phenazepam (Crichton et al., 2015; Shearer et al., 2015) che per l’etizolam (Carpenter et al., 2019). Infatti, i casi riportati di intossicazione da benzodiazepine, riprovano come spesso il loro uso venga reso ben più pericoloso, qualora assunte insieme ad altre sostanze psicoattive quali stimolanti e soprattutto depressivi (Bäckberg et al., 2019). Invero, l’uso concomitante di benzodiazepine e altri depressivi, specialmente oppioidi e alcol, può produrre depressione respiratoria prolungata e potenzialmente fatale (Jones et al., 2012; Zawilska e Wojcieszak 2019) e la lista delle morti in cui anche il loro uso è stato implicato è alquanto lunga (Bailey et al., 2010; Crichton et al., 2015; Domingo et al., 2017; Karinen et al., 2014; Koch et al., 2018; Liveri et al., 2016; Maskell et al., 2011b; Papsun et al., 2016; Partridge et al., 2018; Shearer et al., 2015; Tanaka et al., 2011a, b).

Come per gli effetti ricercati, c’è una grossa analogia tra benzodiazepine approvate per uso medico e non, anche per gli effetti collaterali: si tratta di quelli tipici scaturenti dalla presenza di tossici sedativo-ipnotici, e cioè affaticamento, alterazione del pensiero, confusione, vertigini, sonnolenza, letargia, amnesia, visione offuscata, biascicamento, debolezza muscolare e, salendo con i dosaggi, allucinazioni, delirio, crisi, sonno profondo fino, nei casi di overdose più gravi, a coma (Zawilska e Wojcieszak 2019).

Esistono poi casi atipici che possono far registrare effetti paradosso, quali agitazione, ipertermia e tachicardia (Bäckberg et al., 2019; Carpenter et al., 2019; Zawilska e Wojcieszak 2019).

L’uso cronico di queste sostanze può facilmente portare allo sviluppo di assuefazione e dipendenza e conseguente sindrome astinenziale qualora se ne sospenda l’utilizzo: ansia, attacchi di panico, irrequietezza, insonnia e convulsioni potenzialmente fatali (Andersson e Kjellgren 2017; Zawilska e Wojcieszak 2019).

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Figura 11 Struttura chimica di alcune benzodiazepine

Analoghi del GABA

Tra i vari analoghi dell’acido γ-amminobutirrico il più celebre è senza dubbio il GHB (fig. 12).

Si tratta di un composto endogeno, presente in vari organi, dove sembra avere la funzione di prevenire il mancato rifornimento di ossigeno alle cellule.

Il GHB è commercializzato come farmaco in forma del suo sale sodico, ed è utilizzato in Italia per la disassuefazione da etanolo in soggetti alcolisti, mentre negli Stati Uniti è sfruttato per ridurre gli attacchi di cataplessia in pazienti narcolettici.

Oltre a questo uso convenzionale, il GHB trova utilizzo come sostanza ricreativa d’abuso, dal momento che è un euforizzante che, appunto in maniera simile all’alcol etilico, crea disinibizione e rilassamento e riduce l’ansia sociale, oltre ad accrescere le sensazioni tattili e l’impulso sessuale (Brennan e Van Hout, 2014; Brown et al., 2011). Infatti, è uno dei maggiori protagonisti, insieme alle molecole con esso imparentate, del chemsex, pratica caratterizzata, come si può facilmente evincere dal nome, dall’uso di droghe combinato all’attività sessuale, che negli ultimi anni è venuto molto alla ribalta.

I suoi precursori metabolici GBL (γ-butirrolattone) e 1,4-butandiolo (1,4-BD), insieme al GHV (acido γ-idrossivalerico, analogo del GHB metilato in posizione 4, e al phenibut (fig. 12)[tutt’ora largamente utilizzato come farmaco in Russia e alcuni paesi ex-sovietici, come ansiolitico e come sedativo nei pazienti psicosomatici e nevrotici (Lapin 2001)] sono le principali designer drug di questa famiglia (Carter et al., 2005; Owen et al., 2016).

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23 Nonostante il suo utilizzo come farmaco e come droga “convenzionale” da tempo, oltre ai suoi analoghi anche il GHB viene generalmente citato come NPS, a causa della sua diffusissima produzione illecita in laboratori clandestini (Fuller et al. 2004).

Il bersaglio farmacologico primario di queste sostanze risulta essere il recettore metabotropico GABA-B, associato a proteine G (Brennan and Van Hout 2014; Carai et al. 2001; Lapin 2001); sembra che questo sia il meccanismo alla base dell’effetto sedativo di questi gabaergici e che venga raggiunto solo quando c’è un’assunzione di GHB esogena, dato che le concentrazioni endogene sembrano non essere sufficienti a raggiungere questa efficacia. Al contrario, l’effetto secondario in caso di assunzione voluttuaria, è quello scaturente dall’attivazione di un sottotipo recettoriale del GABA-A ben preciso: appunto il recettore GHB. Molto espresso a livello cerebrale, specialmente della corteccia, sembra che la sua stimolazione causi il rilascio di glutammato: questa condizione potrebbe spiegare perché, in seguito ad un’assunzione, si abbiano dapprima gli effetti sedativi e disinibitori ricercati, e in un secondo momento, quando la concentrazione di GHB nel sangue si abbassa, si assista a un passaggio a effetti stimolanti. È quindi lecito ipotizzare che siano questi recettori il bersaglio “originale” della molecola all’interno del nostro corpo (Bay et al., 2014; Crunelli et al., 2006).

Gli effetti soggettivi positivi ricercati del GHB e dei suoi analoghi superano quelli collaterali solo in un piccolo range di dosaggio: salendo con la dose assunta infatti questi ultimi aumentano drasticamente. Essi includono: perdita parziale o totale di coscienza (il GHB è comunemente noto anche come “rape drug”, a causa di alcuni tristi fatti di cronaca in cui è stato utilizzato per far venire meno i sensi di una persona per poi approfittarne sessualmente), ipotermia, depressione respiratoria, bradicardia, problemi gastrointestinali, come pure effetti non-sedativi, vale a dire agitazione, crisi e mioclono (Busardò e Jones 2015; Liakoni et al., 2016; Schep et al., 2012; Zvosec e Smith 2005).

A causa della breve emivita di queste sostanze (escludendo il phenibut), anche gli effetti avversi sono generalmente poco duraturi e vengono in genere trattati con terapia palliativa, tendenzialmente a base di benzodiazepine e secondariamente a base di barbiturici, baclofen o propofol (Busardo` e Jones 2015; Schep et al., 2012). A tal proposito sono stati poi effettuati degli studi relativi appunto alla detossificazione da GHB: per quanto riguarda la soppressione respiratoria, somministrare un antagonista GABA-B ha dimostrato essere molto efficace, dal momento che praticamente la annulla, mentre per quanto riguarda l’eliminazione del tossico, hanno dato evidenza di una buona efficacia gli inibitori MCT (trasportatori monocarbossilato), come l’ L-lattato, in grado di aumentare appunto la

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24 clearance, sia renale, che totale, oltre a migliorare anch’essi l’efficienza respiratoria (Morse et al., 2012).

L’acido γ-amminobutirrico e i suoi analoghi implicano un rapido sviluppo di tolleranza; una cessazione improvvisa della loro assunzione, come per vari altri agonisti GABA (basti pensare a etanolo e benzodiazepine), può essere molto pericolosa: la sindrome d’astinenza che ne può scaturire è potenzialmente fatale. Essa si può manifestare con ansia, agitazione, aggressività, ipertensione, tachicardia, insonnia confusione, disorientamento, paranoia, allucinazioni (una sorta di delirium tremens), fino appunto a coma e morte (Busardo` e Jones 2015; Owen et al., 2016; Schep et al., 2012; Wood et al., 2011). Anche per la crisi d’astinenza le benzodiazepine sembrano essere il trattamento d’elezione (Busardo` e Jones 2015; Schep et al., 2012; Wood et al., 2011).

Nella stragrande maggioranza delle morti registrate, correlate all’uso di queste sostanze, più del 90% risultano dovute ad arresto cardiorespiratorio, mentre la restante parte a incidenti fatali di varia natura (Zvosec et al., 2011; Corkery et al., 2015).

L’assunzione concomitante di alcolici e/o oppioidi aumenta vertiginosamente la tossicità da depressione dei centri bulbari del respiro; al contempo l’assunzione associata di stimolanti non sembra comunque prevenirla (Knudsen et al., 2010).

Figura 12 Struttura chimica di alcuni analoghi del GABA

DISSOCIATIVI

I composti dissociativi sono molto apprezzati in medicina per la loro azione peculiare: sono infatti in grado di conferire un buon livello di anestesia, senza che ciò implichi una depressione respiratoria e/o cardiovascolare, contrariamente agli anestetici di differente natura (Li e Vlisides, 2016).

Inoltre, la ketamina (fig. 13) ha dimostrato un potenziale come agente antidepressivo, con delle buone manifestazioni terapeutiche in seguito a singola somministrazione di dosaggi sub-anestetici.

In seguito alla sintesi del PCP (fig. 13) (1956), si puntò a diminuirne la durata d’azione e la potenza, così da abbassare la soglia di delirio indotto dalla sostanza: così nacque nel 1962 la

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25 ketamina.

Da allora vari dissociativi hanno iniziato ad apparire sul mercato clandestino (Morris e Wallach., 2014); al giorno d’oggi, le designer drugs di questo tipo comprendono un buon numero di composti, e sono divisibili in due sottoclassi, in vista della loro struttura chimica: le arilcicloesilammine (ketamina, metossietamina, PCP e PCE e loro rispettivi derivati sostituiti) e la diariletilammine (efenidina, difenidina e metossifenidina) (fig. 13).

In maniera del tutto analoga ai loro capostipiti, i dissociativi di nuova generazione hanno come meccanismo principale di agire come antagonisti non competitivi sul recettore ionotropico NMDA del glutammato e la loro potenza nell’indurre effetti dissociativi nell’uomo è in funzione della loro affinità per il suddetto sito recettoriale (Anis et al., 1983; Morris e Wallach, 2014; Wallach et al., 2016).

Accessoriamente queste molecole possono avere un’attività inibitoria per i trasportatori di dopamina e noradrenalina (come la difenidina), mentre altre, possono inibire la ricaptazione della serotonina ((Luethi et al., 2018a; Roth et al., 2013; Wallach et al., 2016)

Sono inoltre da considerare attività di ligandi per vari recettori: α-adrenergici, serotoninergici, istaminergici, colinergici, oppioidi e sigma, le quali possono concorrere alle diverse sfumature di effetti percepiti di queste sostanze, benché il meccanismo principale sia il medesimo (Luethi et al., 2018a; Roth et al., 2013; Wallach et al., 2016)

Anche per quanto riguarda gli effetti collaterali si hanno i classici sintomi riscontrabili anche con i dissociativi più comuni: confusione, amnesia, disorientamento, biascicamento, tachicardia, rigidità muscolare, dissociazione, fino ai casi più gravi in cui si possono riscontrare insufficienza renale, danno neurologico manifestato con tossicità cerebellare e rabdomiolisi (Bäckberg et al., 2015a; Dunlop et al., 2019; Gerace et al., 2017; Helander et al., 2015; Hofer et al., 2012, 2014; Johansson et al. 2017; Lam et al., 2016; Shields et al. 2012; Thornton et al., 2017; Ward et al., 2011; Wood et al., 2012; Zawilska 2014; Zidkova et al., 2017).

L’uso cronico di ketamina è stato poi correlato con disfunzioni vescicali potenzialmente irreversibili, e conseguente deficit renale (Chu et al., 2007; Tsai et al., 2009).

L’uso acuto, ma soprattutto cronico, di designer drugs dissociative può portare poi a un danneggiamento della memoria, in maniera similare a come è riportato faccia la ketamina. Infatti essa, contrariamente ad altri tossici amnesici, sembra compromettere specialmente gli aspetti della memoria semanitca, ovvero quella parte di memoria relativa alle conoscenze generali sul mondo (Morgan e Curran, 2006).

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26 Le nuove sostanze dissociative sono state identificate in campioni biologici, in seguito a diverse intossicazioni fatali; la maggior parte di queste situazioni riguarda assunzioni concomitanti con altre NPS, come stimolanti, oppioidi, cannabinoidi o psichedelici (Adamowicz e Zuba, 2015; Bakota et al., 2016; Chiappini et al., 2015; De Jong et al., 2019; Elliott et al., 2015; Johansson et al., 2017; Krotulski et al., 2018; Kudo et al., 2015; Kusano et al., 2018; McIntyre et al., 2015c; Mitchell-Mata et al., 2017; Wiergowski et al., 2014; Wikström et al., 2013).

Figura 13 Struttura chimica di alcuni dissociativi

CANNABINOIDI

Il termine “cannabinoidi” prende il nome da una serie di composti prodotti dalla Cannabis, e si riferisce anche a una serie di ligandi endogeni ed esogeni in grado di interagire con i recettori cannabinoidi accoppiati a proteine G, rispettivamente di tipo 1 (CB1) e di tipo 2 (CB2).

I recettori CB1 sono principalmente espressi a livello cerebrale e modulano i segnali di neurotrasmissione, mentre i recettori CB2 sono prevalenti nel tessuto immuntario (Banister e Connor, 2018; Le Boisselier et al., 2017). Infatti, il sistema endocannabinoide è coinvolto in una moltitudine di funzioni fisiologiche tra cui l’apprendimento, il comportamento, la memoria, il controllo motorio, l’appetito, la sensazione dolorifica, la motilità

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27 gastrointestinale i parametri cardiovascolari e, appunto, l’immunoregolazione (Le Boisselier et al., 2017).

I primi cannabinoidi sintetici sono stati sviluppati verso la fine del ventesimo secolo, come validi alleati volti allo studio e alla comprensione del sistema recettoriali umano endocannabinoide (Banister e Connor, 2018; Le Boisselier et al., 2017; Trecki et al., 2015). Alcuni di essi hanno poi trovato, a partire dagli anni ’80, un utilizzo terapeutico: è il caso del Nabilone, cannabinoide sintetico di prima generazione utilizzato come antiemetico, o del Dronabinol, commercializzato come Marinol®, che non è altro che una delle varianti stereochimiche della molecola del Δ-9-THC (fig. 14), anch’esso usato per gestire nausea e vomito in pazienti soggetti a chemioterapia, e per stimolare/indurre l’appetito in pazienti affetti da sindrome da deperimento da AIDS.

Per quanto riguarda le NPS, invece, i cannabinoidi sintetici rappresentano oggi la più vasta, nonché più strutturalmente variopinta, classe di designer drugs, e solo alcuni di questi composti continuano a mantenere una struttura simile a quella dei fitocannabinoidi (Banister e Connor, 2018; Trecki et al., 2015).

Generalmente, la loro assunzione si basa su un approccio simile a quello della tradizionale cannabis: al fine di avere lo stesso metodo di consumo vengono infatti solubilizzati e nebulizzati su della materia vegetale essiccata, che fa da substrato: ci si riferisce a questi prodotti come “spice”, in quanto questo era il nome della prima miscela brandizzata di questo tipo apparsa sul mercato, che, avendo riscosso un gran successo, ha fatto sì che tutt’ora riecheggi il suo nome (Banister e Connor, 2018; Le Boisselier et al., 2017; Trecki et al., 2015).

Gli effetti desiderati utilizzando cannabinoidi sintetici non sono dissimili da quelli derivanti dall’assunzione del Δ-9-THC, maggior protagonista del fitocomplesso della cannabis; vengono però spesso descritti dagli psiconauti come effetti parziali: non perché manchino di potenza o efficacia, ma piuttosto perché l’effetto è percepito come mancante di questa o quella componente dello spettro dei classici effetti cannabinici (Le Boisselier et al., 2017). Contrariamente alla cannabis però, hanno un maggior spettro di effetti collaterali, tant’è che, in alcuni casi, in seguito alla loro assunzione si sono manifestati addirittura effetti fatali (Trecki et al., 2015; Winstock e Barratt, 2013). Questo fenomeno è diretta conseguenza del diverso agonismo che i vari cannabinoidi hanno nei confronti dei propri recettori: sebbene esistano alcuni cannabinoidi sintetici aventi un’affinità in vitro molto bassa e che in vivo non hanno manifestazioni significative, la stragrande maggioranza di essi ha dimostrato

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28 un’affinità superiore al Δ-9-THC (che è un agonista parziale), fino ad arrivare a un agonismo totale (Banister et al., 2015a, b, 2016, 2019; Gamage et al., 2018; Sachdev et al., 2019). I recettori CB1, che come accennato sono espressi soprattutto a livello del SNC, sono coinvolti in numerosi meccanismi che portano alla modulazione/soppressione della trasmissione sinaptica; grazie alla loro collocazione si può desumere che sono essi i maggiori responsabili della comparsa di effetti psicoattivi (Atwood et al. ,2010; Castillo et al., 2012; Kano et al., 2009; Le Boisselier et al., 2017). Questa affermazione è supportata per esempio da studi che hanno evidenziato come in seguito alla somministrazione di un antagonista selettivo dei recettori CB1 viene mediato un abbassamento della temperatura corporea e un rallentamento del battito cardiaco, mentre la medesima situazione non si presenta qualora venga somministrato un antagonista selettivo CB2 (Banister et al., 2015a, 2019a).

Solo alcuni della moltitudine dei cannabinoidi sintetici sono stati studiati in relazione alle loro interazioni con bersagli non-cannabinoidi, ma nonostante ciò sono state evidenziate bassissime o nessune affinità per altri recettori (Wiley et al., 2016). Ciò suggerisce una conferma in merito all’osservazione secondo cui la diversità degli effetti dei cannabinoidi sintetici rispetto al Δ-9-THC sia dovuta più ad una maggiore potenza ed efficacia come ligandi per il recettore CB1; ciononostante non è possibile escludere totalmente altre implicazioni, dato che potrebbero essere possibili effetti su recettori non cannabinoidi e diversi segnali di trasduzione che non siano ancora stati scoperti (Finlay et al., 2019; Wiley et al., 2016).

Studi in vitro hanno poi mostrato che numerosi metaboliti di cannabinoidi sintetici mantengono una qualche attività cannabis-mimetica: potrebbero quindi esserci differenze farmacocinetiche a contribuire in qualche modo agli effetti farmacologici di queste nuove droghe (Longworth et al., 2017).

Infatti, per esempio, in seguito ad una somministrazione cronica di cannabis e una sua successiva sospensione, non si assiste a una vera e propria crisi d’astinenza fisica: ciò è dovuto al fatto che il Δ-9-THC e suoi metaboliti attivi, essendo molto lipofili, tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo; da qui vengono progressivamente rilasciati nel torrente circolatorio, fornendo un vero e propria diminuzione scalare del dosaggio, in maniera del tutto autonoma. La stessa cosa non è necessariamente vera anche per i cannabinoidi sintetici, aventi le strutture più disparate, e quindi appunto aventi farmacocinetiche a sé stanti: di conseguenza, consequenzialmente ad una sospensione improvvisa dopo utilizzo cronico, si assiste spesso all’insorgenza di crisi di astinenza, anche gravi.

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29 Sebbene i più comuni effetti collaterali non siano particolarmente preoccupanti o dannosi, come agitazione, sonnolenza, vertigini, confusione, tachicardia, ipotensione, vomito, allucinazioni, tendano tipicamente ad avere una durata breve e a richiedere un supporto esclusivamente sintomatico e palliativo (Forrester, 2012a; Forrester et al., 2011, 2012; Hoyte et al., 2012; Law et al., 2015; Tait et al., 2016), esiste una casistica di effetti collaterali e complicazioni cliniche più gravi e frequenti rispetto a quelli associati all’utilizzo voluttuario di cannabis (Alipour et al., 2019; Bäckberget al., 2017; Mensen et al., 2019; Tait et al., 2016; Trecki et al., 2015). Non è infatti né atipico né troppo raro che si possano manifestare convulsioni, crisi (Adamowicz et al., 2017; Bäckberg et al., 2017; Bebarta et al., 2012; De Havenon et al., 2011; Gugelmann et al., 2014; Harris e Brown 2013; Hermanns-Clausen et al., 2013a, b; Hoyte et al., 2012; Lapoint et al., 2011; McQuade et al., 2013; Pant et al., 2012; Schep et al., 2015; Schneir e Baumbacher, 2012; Tofighi e Lee, 2012), stati epilettici (Babi et al., 2017), stati catatonici (Khan et al., 2016; Leibu et al., 2013; Smith e Roberts, 2014), delirio (Armenian et al., 2018a; Armstrong et al., 2019; Bäckberg et al., 2017; Schwartz et al., 2015; Tyndall et al., 2015), ictus ischemico (Bernson-Leung et al., 2014; Faroqui et al., 2018; Freeman et al., 2013; Moeller et al., 2017; Raheemullah e Laurence, 2016; Takematsu et al., 2014; Wolff e Jouanjus, 2017), emorragie intra-craniali (Aydin e Bakar, 2019; Rose et al., 2015), embolie e infiltrazioni polmonari (Alhadi et al., 2013; Alon e Saint-Fleur, 2017; Berkowitz et al., 2015; Chinnadurai et al., 2016; Ӧcal et al., 2016; Raheemullah e Laurence, 2016; Yirgin et al., 2018), depressione respiratoria (Alon e Saint-Fleur, 2017; Jinwala e Gupta, 2012), aritmie sopra-ventricolari e ventricolari (Davis e Boddington, 2015; Ibrahim et al., 2014; Ozturk et al., 2019; Young et al., 2012), infarto del miocardio (Clark et al., 2015; Hamilton et al., 2017; Hirapara e Aggarwal, 2015; McIlroy et al., 2016; McKeever et al., 2015; Mehta et al., 2017; Mills et al., 2018; Mir et al., 2011; Ozturk et al., 2019; Shah et al., 2016; Sherpa et al., 2015; Tse et al., 2014), danni al fegato (Shahbaz et al., 2018) e ai reni (Argamany et al., 2016; Armstrong et al., 2019; Bhanushali et al., 2013; Buser et al., 2014; El Zahran et al., 2019; Gudsoorkar e Perez, 2015; Kamel e Thajudeen, 2015; Katz et al., 2016b; Kazory e Aiyer, 2013; Srisung et al., 2015; Thornton et al., 2013; Zarifi e Vyas, 2017; Zhao et al., 2015), iperemesi (Argamany et al., 2016; Bick et al., 2014; Hopkins e Gilchrist, 2013; Ukaigwe et al., 2014) e rabdomiolisi (Adedinsewo et al., 2016; Argamany et al., 2016; Armstrong et al., 2019; Durand et al., 2015; El Zahran et al., 2019; Katz et al., 2016b; Sherpa et al., 2015; Sweeney et al., 2016; Zhao et al., 2015).

Inoltre, anche le insorgenze psichiatriche avverse non sono da prendersi alla leggera: paranoia, psicosi, ideazioni masochistiche e suicide (Akram et al., 2019; Altintas et al., 2016;

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30 Bassir Nia et al., 2019; Benford e Caplan, 2011; Berry-Caban et al., 2013; Bonaccorso et al., 2018; Darke et al. 2019; Deng et al. 2018; Derungs et al. 2013; Durand et al., 2015; Every-Palmer, 2010; Glue et al., 2013; Hermanns-Clausen et al., 2013b; Hobbs et al., 2018; Hurst et al., 2011; Kraemer et al., 2019; Martinotti et al., 2017; Meijer et al., 2014; Mensen et al., 2019; Müller et al., 2010; Oliveira et al., 2017; Oluwabusi et al., 2012; Papanti et al., 2013). Il quadro degli effetti collaterali possibili conseguenti all’utilizzo di cannabinoidi sintetici è alquanto disastroso e queste molecole saranno ancora per un bel pezzo sotto i riflettori legislativi e medici: infatti, se le prime generazioni di cannabinoidi sintetici (serie JWH- per esempio (fig.14)) avevano già degli effetti collaterali più marcati rispetto alla cannabis, mano a mano che ne sono comparse generazioni susseguenti, ogni qualvolta le precedenti venivano proibite, queste implicazioni cliniche si sono fatte via via sempre più gravi e preoccupanti.

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PSICHEDELICI

Gli psichedelici serotoninergici sono agonisti per i recettori 5-HT che, legandovisi, producono alterazioni percettive e cognitive (Nichols 2004, 2016).

Essi vedono un utilizzo da parte dell’essere umano di lunga data: alcuni di essi sono infatti principi attivi di piante utilizzate per secoli a scopo religioso-cerimoniale-rituale. Si tratta dei capostipiti da cui poi è stata sintetizzata la schiera di composti emersi negli anni: la N,N-dimetitriptamina (DMT) (fig. 16), contenuta all’interno di una moltitudine di piante, la psilocina (4-HO-DMT) (fig. 16) e la psilocibina (4-PO-DMT), che nell’organismo viene metabolizzata nella prima, presenti in quantità e proporzioni variabili in molti dei cosiddetti funghi allucinogeni, dei generi Psilocybe e Stropharia, la mescalina (3,4,5-trimetossifenetilammina) (fig. 15), componente principale dei cactus centro-sud-americani di cui il più celebre è indubbiamente il peyote e l’LSD (dietilammide dell’acido lisergico)(fig. 17), composto semisintetico ottenuto da Albert Hoffman studiando gli alcaloidi dell’ergot (Claviceps purpurea), micete che può svilupparsi su alcune graminacee, specialmente segale, a cui conferisce grazie ai suoi sclerozi il peculiare aspetto che l’ha resa nota come segale cornuta.

Il loro meccanismo principale è quello di agire da agonisti del recettore 5-HT2A ((Geyer e Vollenweider, 2008; Kraehenmann et al., 2017), e secondariamente 5-HT2C: è comprovato che la quantità di sostanza da assumere per sperimentare l’esperienza psichedelica è funzione diretta dell’affinità delle molecole per questi recettori (Luethi e Liechti 2018).

Interagiscono inoltre con altri bersagli farmacologici, ma si tratta di azioni ancillari, per quanto riguarda l’effetto, che possono essere quindi responsabili di sfumature differenti, piuttosto che del meccanismo di base.

Esistono designer drugs di tutte le categorie di psichedelici, di cui varie sintetizzate dall’industria o da laboratori universitari; si deve comunque la sintesi della porzione maggiore di esse a Alexander Shulgin, chimico, biochimico e farmacologo statunitense, che, oltre a aver riportato in auge l’MDMA (era stata infatti abbandonata dopo la sua sintesi, nel 1912, dalla Merck), negli anni ‘70 ha sintetizzato più di 200 nuovi derivati dei classici psichedelici sopracitati. Interessato al loro potenziale uso in psicoterapia, oltre che mosso certamente da una gran fame di curiosità, ha testato su sé stesso i suddetti analoghi, descrivendone sintesi ed effetti in due libri scritti con la moglie, PIHKAL (Phenethylamines I Have Known And Loved) and TIHKAL (Tryptamines I Have Known And Loved) (Shulgin e Shulgin, 1995, 1997).

Riferimenti

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