DIPARTIMENTO DI
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
LETTERATURE E FILOLOGIE
EUROAMERICANE.
TESI DI LAUREA MAGISTRALE
Il Quevedo satirico: dalla degradazione del mito alla critica
sociale.
CANDIDATO
RELATORE
Carlotta Bartoletti Prof.ssa Federica Cappelli
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INDICE
INTRODUZIONE...5
Capitolo I: L’origine della satira...7
1.1 La satira nella letteratura spagnola...13
Capitolo II : L’opera satirico-burlesca di Quevedo...16
2.1 La satira quevediana: modelli, stile e temi...16
2.1.1 La satira menippea in Quevedo...34
2.1.2 La satira de oficios y estados...39
2.1.3 La satira personale...47
2.1.4 La degradazione satirica del mito...53
Capitolo III: La donna nel Secolo d’Oro: funzione sociale, educazione e matrimonio...73
3.1 L’immaginario femminile nella satira di Quevedo...78
3.1.1 La vieja...86 3.1.2 La mujer postiza...91 3.1.3 La dueña...100 3.1.4 La monja...108 3.1.4.1 I Galanes de monjas...110 CONCLUSIONI...120 BIBLIOGRAFIA...122 RINGRAZIAMENTI...131
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Introduzione
Il presente lavoro intende mostrare un’analisi articolata delle diverse sfaccettature della produzione satirica di Francisco de Quevedo, uno degli autori più brillanti del Secolo d’Oro spagnolo, per dimostrare la vastità di temi e di meccanismi linguistici utilizzati nella sua opera. Ho deciso di concentrarmi su questo argomento per approfondire tematiche affrontate durante i corsi universitari, e da lì estendere il mio interesse e la mia conoscenza ad altri ambiti satirici illustrati dall’autore nelle sue opere. L’argomento, quindi, non ha la pretesa di essere esaustivo, bensì quella di offrire una mostra della straordinaria capacità dell’autore di adattarsi a contesti e generi letterari differenti, con l’arguzia che sempre lo ha contraddistinto. Verranno in questo senso analizzati tutti gli artifici retorici impiegati dall’autore, da un lato, analizzandone lo stile concettista, dall’altro, spiegando l’utilizzo del ritratto caricaturesco. La prima parte della tesi sarà dedicata ad una breve introduzione sull’origine della satira nel panorama greco-latino e italiano, che tanta influenza ebbero sull’opera satirica quevediana. All’interno del medesimo capitolo tracceremo anche un breve excursus sulla diffusione della satira nella letteratura spagnola, a partire dal Medioevo fino ad arrivare ai secoli d’oro. Passeremo poi, nel secondo capitolo, ad individuare, più nello specifico, quelli che sono stati i modelli classici di riferimento per il nostro autore. Per esempio, approfondiremo l’influenza che poeti come Marziale, Giovenale, Luciano di Samosata, in ambito latino, e Ludovico Ariosto e Francesco Berni, in ambito italiano, esercitarono sulla produzione quevediana. Mostreremo, inoltre, l’ampia gamma di temi affrontati; ogni argomento verrà sviluppato approfonditamente nella sezione centrale di questo capitolo e per ognuno verranno esaminati una serie di componimenti, sia in prosa sia in verso, volti a dimostrare l’approccio satirico dell’autore. Ci concentreremo soprattutto sulla satira menippea, ossia sull’analisi di componimenti satirici di ambientazione fantastico-grottesca (per esempio i
Sueños); sulla satira de oficios y estados, ovvero una satira volta alla critica delle
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a questo proposito, l’odio di Quevedo verso la categoria dei medici); sulla satira personale, vale a dire su ingegniosi e pungenti attacchi rivolti da Quevedo a poeti a lui contemporanei, come Luis de Góngora o Juan Pérez de Montalbán e, infine, sulla degradazione del mito classico, rivitalizzato in chiave ironica e satirica. Analizzeremo, infatti, miti come quello di Ero e Leandro, di Apollo e Dafne e di Orfeo e Euridice, per dimostrare la loro progressiva e svilente umanizzazione, resa possibile soprattutto attraverso l’uso di un linguaggio volgare. Una sezione a parte sarà dedicata alla satira contro la donna che rappresenta per Quevedo una specie di ossessione. Nel terzo capitolo, quindi, ci addentreremo più precisamente in uno scenario al femminile, presentando, prima, la condizione della donna nella società dell’epoca e, poi, all’interno della produzione satirica spagnola del tempo e in particolare di Quevedo. Verrà riportata la concezione negativa dell’amore, della donna e del matrimonio dell’autore, mediante il riferimento a un corpus di componimenti e di frammenti testuali in prosa. Tutti i capitoli, quindi, saranno strutturati secondo il medesimo principio: spiegazione del tema affrontato, presentazione dei testi e, infine, analisi e commento.
Attraverso il presente lavoro, intendiamo mostrare come Quevedo, senza mai nascondere il proprio punto di vista, abbia voluto rappresentare gli aspetti più repellenti di una società ipocrita e corrotta, di cui la sua produzione satirica rappresenta un magnifico affresco.
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Capitolo I: L’origine della satira
Il termine satira deriva dal latino satura, che, nell’espressione satura lanx, indicava il piatto di primizie offerto agli dei durante le cerimonie religiose. Il significato originario era quello di mescolanza, varietà e indicava un tipo di composizione che univa argomenti diversi. Occorre distinguere la satira propriamente detta, ossia quella letteraria (romanzo satirico, poema satirico, ecc.) dal tono o dall’intento satirico che possiamo ritrovare in molti componimenti letterari di varia natura. Il genere letterario della satira si sviluppò fondamentalmente a Roma, tanto che l’oratore e retorico Marco Fabio Quintilliano la considerava come un genere completamente romano (“satura quidem tota nostra est”). L’iniziatore del genere satirico è, però, considerato Quinto Ennio, autore di un’opera dal titolo Saturae. Nonostante la loro frammentarietà, la raccolta ci permette di evidenziare la varietà metrica e tematica utilizzata dall’autore. L’assenza però di quello che sarà l’elemento fondamentale di questo genere, ossia l’attacco ironico, polemico e beffardo, ha fatto sì che si considerasse come autentico iniziatore Gaio Lucilio (II secolo a.C). Assieme a lui, autori come Quinto Orazio Flacco, Aulo Persio Flacco, Decimo Giulio Giovenale, Marco Valerio Marziale e Gaio Petronio Arbitro sono diventati i modelli per gli scrittori satirici di tutti i tempi. La satira assume, nelle opere di questi autori, le sembianze di una composizione il cui scopo è mettere in risalto, con intento moralistico o comico, costumi ed atteggiamenti generali degli uomini o tipici di una particolare categoria sociale.
Gaio Lucilio fu il primo poeta che portò al centro della propria opera la satira. Scrisse ben trenta libri dove, con il suo spirito mordace e temperamento aggressivo, non risparmiava nessuno. Lucilio non attacca il vizio, bensì le persone che lo incarnano, senza preoccuparsi della posizione politica o sociale che esse occupano. L’eredità della satira luciliana fu accolta da Quinto Orazio Flacco nelle sue diciotto satire, dedicate a Mecenate, e pubblicate tra il 35 e il 31 a.C. Come Lucilio, anche Orazio attacca i vizi e le debolezze umane, ma senza adottare un atteggiamento aggressivo perché egli era consapevole delle proprie debolezze.
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Nelle sue satire, Orazio passa in rassegna una galleria di personaggi, di tipologie umane: scrocconi, sciocchi, saccenti e volgari sempre, con l’obiettivo di indicare una via corretta per superare comportamenti erronei e non con la presunzione di voler indicare dei perfetti modelli comportamentali.
Nell’età giulio-claudia, uno dei rappresentanti più importanti della letteratura satirica latina fu Aulo Persio Flacco che, con la sua raccolta di sei satire, si riallaccia alla tradizione di Lucilio. Con Persio la satira presenta delle novità soprattutto per quanto riguarda la forma e il destinatario. A differenza della satira luciliana e oraziana, che avevano come destinatario la cerchia di amici e conoscenti, quella di Persio è destinata ad un pubblico generico di lettori e ascoltatori. Per quanto riguarda la forma invece, alla conversazione ‘costruttiva’ che guarda ai difetti umani, creando così una sorta di complicità fra autore e destinatario, si sostituisce la forma dell’impietosa invettiva. Ora il poeta si erige a giudice intransigente e inflessibile. Il suo obiettivo è quello di smascherare i costumi corrotti della società; egli, come un chirurgo, intende eliminare la parte malata della società; frequenti nella sua poesia sono gli accostamenti vizio/malattia, dunque l’uso di termini appartenenti al lessico medico e una forte insistenza nel campo semantico corporale. È nel contesto storico neroniano che dobbiamo collocare Gaio Petronio Arbitro. Di questo autore abbiamo poche informazioni, alcune delle quali ci giungono dagli Annales di Tacito. Petronio viene identificato come autore del Satyricon, un romanzo in prosimetro della letteratura latina. Il titolo è da intendersi come genitivo plurale di forma greca, dov'è sottinteso libri. I codici, tuttavia, tramandano come titolo dell'opera anche
Saturae, termine interpretabile in due modi: “libri satirici” e “libri di cose da
satiri”, cioè “racconti satireschi”. Entrambe le accezioni del titolo definiscono il genere dell'opera come comico-satirico di contenuto licenzioso.
Un autore su cui è necessario soffermarsi maggiormente quando si prende in esame il genere satirico è Decimo Giulio Giovenale. Egli pubblicò sedici satire in un momento in cui, morto Domiziano, il clima politico sembrava concedere maggior libertà. A differenza di Persio e di Orazio, Giovenale non crede che la scrittura letteraria possa modificare il comportamento umano, perché, a suo dire,
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l’immoralità e la corruzione sono insite nell’animo dell’uomo. Per questa sua profonda sfiducia nell’essere umano, Giovenale rinuncia ad esprimere un giudizio correttivo e limita quindi la sua satira, con atteggiamento profondamente pessimista, ad una denuncia mossa unicamente dalla indignatio. È l’indignazione verso il degrado della società in cui si trova a vivere che lo spinge a scrivere. Un’altra differenza rispetto ai modelli precedenti riguarda lo stile. Se prima veniva utilizzato un linguaggio colloquiale che conferiva alla satira uno stile umile e familiare, ora con Giovenale viene utilizzato uno stile alto e grandioso. I bersagli della satira di Giovenale sono numerosi, provenienti da ogni ceto e da ogni sesso. Bersaglio privilegiato è la donna, soprattutto quella libera ed emancipata. Sulla solita linea di Giovenale, possiamo collocare Marco Valerio Marziale, l’autore dei famosi epigrammi. In essi l’autore offre un quadro della realtà in cui vive- caratterizzata da paradossi e contraddizioni. La osserva attraverso uno sguardo deformante che accentua i suoi tratti grotteschi e mette in risalto ironicamente, seguendo il modello di Lucilio, tutti i difetti, soprattutto fisici, dei personaggi rappresentati. L’atteggiamento di Marziale è quello di un osservatore attento, ma distaccato; non c’è nella sua poesia indignazione, ma piuttosto un sorriso sprezzante che appare nell’ultima parte del testo con una battuta ad effetto1.
La tradizione classica fin qui descritta ha fortemente influenzato la scrittura satirica di molti autori del Secolo d’Oro spagnolo, che sembrano privilegiare la satira in verso. I tre autori latini più importanti, Orazio, Perzio e Giovenale, trasmisero un codice che fu interpretato già dai poeti rinascimentali, attivi in un momento - il Rinascimento appunto - che si caratterizzò proprio per il recupero del mondo antico e della sua letteratura. La riscoperta della satira deve inserirsi precisamente in questo contesto di ritorno alle fonti del passato, che si
1 Per la stesura di questo paragrafo mi sono basata sulla lettura di: SCHWARTZ, Lía (2006), Las
diatribas satíricas de Persio y Juvenal en las sátiras en verso de Quevedo, in Estudios sobre la sátira española en el Siglo de Oro, Carlos Vaillo y Ramón Valdés (Eds.), Castalia, Madrid, pp.
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registró in primis in ámbito italiano per poi passare da lì al resto d’Europa. La scrittura di opere in italiano considerate come satire che seguivano la tradizione latina iniziò nella seconda metà del XV secolo con le satire di Antonio Vinciguerra e la traduzione che Giorgio Sommariva fece nel 1480 di Giovenale, il quale esercitò come satirico la maggior influenza. Vinciguerra (1440-1502) rappresentò un antecedente importante per Ariosto. I suoi testi erano scritti in terzine e il tono satirico veniva utilizzato soprattutto contro i mali della società. La terzina ebbe successo come forma metrica in tutto il XV secolo, partendo dall’esempio della Divina Commedia di Dante, il quale venne considerato il primo grande rappresentante di satira in Italia. In questo contesto culturale emerse l’opera di Ludovico Ariosto (1474-1533). Egli scrisse le sue satire in terzine e prese Dante come modello sia dal punto di vista metrico sia stilistico. Compose le sue Satire tra il 1517 e il 1525. Esse si incentravano su un immaginario dialogo tra l’autore e vari personaggi reali che ricreavano il panorama della società cinquecentesca. Ariosto parte dell’elemento autobiografico per arrivare a una teoria più generale in cui accusa la società e i suoi membri: uomini di chiesa, cortigiani, uomini che fanno di tutto per ottenere fama e denaro ed infine le donne. Lo scrittore apportò una novità al genere satirico, preferendo il modello oraziano a quello abituale di Giovenale. Ariosto influenzò la forma di leggere e imitare Orazio negli autori che seguirono la sua strada. Si affermò quindi nel 500 un modello satirico ariostesco, in cui la satira adotta una forma epistolare, nella quale il narratore, con un tono conversazionale e uno stile medio-basso, si rivolge a un amico, familiare, conoscente, instaurando un dialogo a distanza. L’obiettivo principale è la critica dei vizi, che si ottiene ‘giocando’ con due elementi fondamentali, l’invettiva e la risata, per arrivare a caratterizzare la satira come un genere donde lo amargo se mezcla con lo dulce2. La forma metrica predominante
è la terzina, anche se non mancano esempi di satire scritte in versi sciolti o in ottave.
2 CACHO CASAL, Rodrigo (2004), La poesía satírica en el Siglo de Oro: el modelo ariostesco, in
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Questo modello si canonizzò definitivamente negli anni 60 del 500. In un breve periodo di tempo si pubblicarono due antologie che includevano un corpus di satire di vari autori, selezionate in relazione alle opere di Ariosto. Si tratta dei
Setti libri di satire pubblicati da Francesco Sansovino nel 1560 e delle Satire in cinque poeti illustri di Mario degli Andini. Queste antologie ebbero un ruolo
importante nel consolidamento definitivo della satira in Italia. Nella prima antologia vennero incluse le opere di dieci autori; i sei libri iniziali contengono, in questo ordine, le satire di Ludovico Ariosto, quelle di Ercole Bentivoglio, Luigi Alamanni, Pietro Nelli, Antonio Vinciguerra e quelle di Ludovico Sansovino. Ariosto apre la sezione e si presenta come il grande modello da cui partire. Ercole Bentivoglio (1507-1573) si trova al secondo posto poiché è colui che più si avvicina al modello di Ariosto. L’autore al terzo posto è Luigi Alamanni (1495-1556). Le sue dodici satire imitano Giovenale, nonostante lo stile sia eccessivamente elevato. Il quarto libro presenta la collezione delle opere di Pietro Nelli (1507-1572), il quale, con lo pseudonimo di Andrea da Bergamo, pubblicò le Satire alla carlona (1546) e il Secondo libro della satira alla carlona (1547). In queste opere la maggior parte degli interlocutori appartiene alla borghesia o alla piccola nobiltà veneziana. Il modello di Ariosto è visibile soprattutto nella struttura epistolare dei capitoli, tutti scritti in prima persona e rivolti a un interlocutore che appartiene alla cerchia di conoscenti. Gli argomenti principali sono quelli tipici della satira classicista: l’ipocrisia delle donne, la vanità dell’amore, l’arbitrarietà della giustizia, il malcostume e il nepotismo ecclesiastico, temi che ritroveremo nella satira spagnola barocca e in particolare quevediana. Abbiamo poi Antonio Vinciguerra, che occupa il quinto libro. La sua inclusione è stata giustificata da Sansovino per il suo carattere da precursore della satira di Ariosto.
La seconda antologia che contribuì alla consolidazione del genere satirico fu pubblicata nel 1565 da Mario degli Andini: Satire di cinque poeti illustri. In questo caso il numero degli scrittori viene ridotto drasticamente. Dei dieci poeti compresi nella prima antologia, qui ne vengono considerati solo cinque: Ariosto, Sansovino, Bentivoglio, Alamanni e Paterno. La novità maggiore è la presenza delle satire di Ludovico Paterno (1533-1575). I suoi componimenti vengono divisi
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in tre gruppi, a seconda della forma metrica: sette satire in terzine, quattro in ottave e cinque in versi sciolti.
La satira in verso si diffuse velocemente in Italia e trovò rappresentanti coraggiosi ma, a partire dal XVII secolo, perse terreno a favore di altri generi letterari, come la poesia burlesca. La poesia satirica ebbe quindi una vita limitata, ma intensa.
La figura di Ariosto e di altri poeti come Bentivoglio e Alamanni esercitarono un’influenza considerevole in Spagna. Senza tener conto di questi autori non è possibile comprendere lo sviluppo del genere nel Secolo d’Oro spagnolo3.
3 Per la stesura di questo paragrafo mi sono basata sulla lettura di: CACHO CASAL, Rodrigo
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1.1 La satira nella letturatura spagnola
Consultando il Diccionario de Autoridades la satira viene definita come “La obra en que se motejan y censuran las costumbres, ù operaciónes, ù del Público, ù de algun particular. Escríbese regularmente en verso. Lat. Satyra, æ”4 e
nel Diccionario de la lengua española come “Composición en verso o prosa cuyo objeto es censurar o ridiculizar a alguien o algo” oppure come “Discurso o dicho agudo, picante y mordaz, dirigido a censurar o ridiculizar”5. Pertanto con il termine satira si indica una composizione il cui obiettivo è quello di mettere a nudo, far luce sui vizi, i difetti e i comportamenti sbagliati degli individui nella società, allo scopo di correggerli.
Come già era accaduto in Italia, i poeti presi a modello in Spagna furono fondamentalmente Orazio e Ariosto. Nel suo saggio su La poesía satírica en el
Siglo de Oro: el modelo ariostesco, Rodrigo Cacho spiega che la maggior parte
dei generi classici recuperati a partire dal XVI secolo nella Penisola Iberica vennero assimilati, da un lato, attraverso la lettura delle opere greco-latine e, dall’altro, attraverso la lettura delle loro imitazioni italiane che facevano in qualche modo da filtro, condizionando il modo di interpretare questi testi6.
Nonostante la diffusione di queste opere, il genere satirico ebbe in Spagna meno rappresentanti rispetto all’Italia.
A partire dal Medioevo il primo autore a cimentarsi in questo genere fu Juan Ruiz, arcipreste di Hita, che nell’opera Libro de buen amor, composta nel 1330, attacca il potere del denaro in quanto capace di modificare l’ordine sociale gerarchico. Dopo di lui ricordiamo Pedro López de Ayala, il quale pubblicò il
Libro Rimado de palacio tra il 1378 e il 1403. L’opera, suddivisa in quattro parti,
introduce una dura e violenta satira contro la società dell’epoca, i vizi ed i peccati dei personaggi che appartengono a tale società, senza escludere la Chiesa e la
4Real Academia Española, Diccionario de Autoridades, Tomo VI ,1739, s.v.: “Satyra”, def 1. 5 Real Academia Española, Diccionario de la lengua española online, 23.ª ed., s.v.: “Sátira”, def 1,
[versión 23.3 en línea]. https://dle.rae.es.
6 CACHO CASAL, Rodrigo (2004), La poesía satírica en el Siglo de Oro: el modelo
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Monarchia. Più tardi, Martínez de Toledo pubblicò nel 1438 El Corbacho. L’opera può essere suddivisa in due parti: la prima è una feroce satira contro le donne di qualsiasi classe sociale e dei loro difetti; l’autore stabilisce delle analogie tra i difetti di queste ultime e l’astrologia e la medicina dell’epoca, mentre la seconda è un trattato contro la lussuria, il loro peccato principale. In seguito, il genere satirico venne incluso in molti altri generi come la novela picaresca, la favola, le crónicas, ecc. Uno dei problemi, infatti, con cui si confronta lo studioso della satira, riguarda il fatto che i testi annoverati sotto questa definizione comprendono sia le opere letterarie sia i saggi di critica sociale, per esempio contro figure che appartengono a diversi gruppi, i cui vizi o difetti vegono castigati in opere che possiamo definire come popolari7.
Nel XVI secolo saranno opere come La Celestina di Fernando de Rojas,
La lozana andalusa di Francisco Delicado o El Crotalón di Cristóbal de Villalón a
fornire un quadro realistico della società contemporanea. Gli autori di queste opere vogliono mettere in luce quella parte negativa, oscura, marginale della società in cui vivono. Vogliono rappresentare gli aspetti repellenti di questa società ed è per questo che i protagonisti non sono più degli eroi, bensì appartengono alle basse sfere.
Bisognerà aspettare il 1605, anno della pubblicazione del libro di Isaac Casaubon De satyrica Graecorum poesi et Romanorum satira, per chiarire al meglio il nome e le caratteristiche di questo genere, il cui momento di grande sviluppo avvenne nel Seicento con Luis de Góngora e Francisco de Quevedo: con questi due autori, la satira iniziò ad acquisire importanza come genere letterario. Góngora e Quevedo avevano percepito che il modello rappresentato da Ariosto iniziava a perdere di novità. Per questo inventarono un nuovo tipo di satira che si appoggiava a forme metriche come il sonetto, il romance, le letrillas o le décimas: la cosiddetta satira in verso di ascendenza classica. Tre furono i poeti classici presi a modello: Persio, Giovenale e Marziale. Malgrado questo cambio nella forma, e nei toni, che si fecero più aspri, il contenuto, però, restò più o meno immutato: si
7 SCHWARTZ, Lía (2012), Sátira y satura en los siglos XVI y XVII: teoría y praxis, in Dificil cosa
el no escibir sátiras. La sátira en verso en la España de los Siglos de Oro, Antonio Gargano
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continuò ad attaccare la Monarchia, i suoi governanti, certe categorie sociali (in particolare donne, medici, avvocati, ecc.) e i loro vizi e difetti.
Dopo il Concilio di Trento, però, la satira non venne più vista di buon occhio: il termine “satírico” adottò connotazioni negative e venne associato ad opere come il “pasquín” e il “libelo infamante”. La satira in verso lasciò quindi spazio a generi meno ambigui come la poesia morale, l’epistola, ma soprattutto la poesia burlesca, uno dei generi chiave del Barocco, che permetterà allo scrittore libertà e sperimentazione linguistica.
Per concludere, quindi, la poesia satirica di stampo oraziano/ariostesco ebbe vari seguaci a partire dal XVI secolo. Le terzine di Ariosto e dei suoi imitatori entrarono in Spagna insieme ad altre modalità come la poesia petrarchista, la novella e i romanzi. Al tempo stesso, lo studio degli autori latini influì nella sua conformazione. Nel secolo seguente ci fu, però, un’evoluzione della materia satirica verso ambiti più seri e filosofici. La satira in verso cedette i suoi contenuti e le sue invettive contro i vizi alla poesia morale, la risata venne riservata a generi di maggior successo come la poesia burlesca8.
Dopo questo breve excursus all’interno della satira nella letteratura spagnola, nel capitolo seguente mi soffermerò sulla satira quevediana, presenterò i temi, i modelli e lo stile utilizzato, per spiegare al meglio come Francisco de Quevedo apportò un cambiamento significativo a questo genere, estremizzando tutte le sue componenti.
8 CACHO CASAL, Rodrigo (2004), La poesía satírica en el Siglo de Oro: el modelo ariostesco,
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Capitolo II: La poesia satirico-burlesca di Quevedo
2.1 La satira quevediana: modelli, stile e temi
No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists.
T.S. Eliot
Le opere letterarie non sono oggetti isolati. Lo studio storico di un testo richiede la conoscenza previa del contesto culturale ed estetico della sua epoca. Per questo motivo, ad esempio, non si può capire la poesia del Secolo d’Oro senza tener conto della tecnica della imitatio, che a partire dal Rinascimento condizionò il concetto stesso di letteratura9. Gli scrittori dovevano partire da un
modello precedente, cercando di assimilarlo in tutti i suoi aspetti, per poi restituirlo al suo pubblico con rinnovata originalità. È per questo che uno dei parametri fondamentali per valutare la capacità di un autore dell’epoca risiede nella sua abilità nel maneggiare le fonti. La poesia satirico-burlesca di Quevedo si inserisce chiaramente in questo contesto, visto che è costituita dalla fusione di numerosi precedenti letterari che vanno dalla tradizione greco-latina fino a quella rinascimentale e barocca. González de Salas, che pubblicò una buona parte dell’opera poetica quevediana nel Parnaso español (1648), mise proprio in luce la ricchezza e la varietà della cultura dello scrittore:
Hasta hoy, yo no conozco poeta alguno español versado más en los que viven de hebreos, griegos, latinos, italianos y franceses; de cuyas lenguas tuvo buena noticia y de donde a sus versos trujo excelentes imitaciones10.
9 CACHO CASAL, Rodrigo (2003), La poesía burlesca de Quevedo y sus modelos italianos,
Universidad de Santiago de Compostela, Santiago de Compostela, pp 13-15.
10 GONZÁLEZ DE SALAS, José Antonio (1648), Prevenciones al lector, in F. de Quevedo
(1648), El Parnaso Español, monte en dos cumbres dividido, con las nueve musas castellanas, J. A. González de Salas, Diego Díaz de la Carrera (Eds.), Madrid.
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L’idea che Quevedo fosse considerato uno dei poeti migliori della sua epoca, viene ribadita da Miguel de Cervantes che, nell’opera Viaje del Parnaso, pubblicata nel 1614, lo definisce “hijo de Apolo y de Calíope”:
Haz que con pies y pensamientos prestos Vengan aquí, donde aguardando quedo La fuerça de tan válidos supuestos. —Mal podrá don Francisco de Quevedo venir— dixe yo entonces; y él me dixo: —Pues partirme sin él de aquí no puedo. Ésse es hijo de Apolo, ésse es hijo de Calíope musa; no podemos yrnos sin él, y en esto estaré fijo. Es el flajelo de poetas memos y echará a puntillazos del Parnaso los malos que esperamos y tenemos11.
Se Apollo era il dio della musica, che per i greci comprendeva anche la poesia, rappresentata simbolicamente dalla sua lira, Calliope era la musa associata alla poesia epica. Il riferimento a queste due divinità suggerisce la varietà di temi, generi e stili che Quevedo aveva praticato già nelle prime decadi del XVII secolo. Il fatto che Quevedo venisse definito, già agli inizi del secolo, come “creador de sátiras en todas las formas codificadas que existían”12, lo confema Lope de Vega
che, a sua volta, nel Laurel de Apolo (1630), lo paragona a Giovenale e a Justo Lipsio, illustri studiosi del genere satirico:
Al docto don Francisco de Quevedo llama por luz de tu ribera hermosa, Lipsio de España en prosa
y Juvenal en verso,
con quien las musas no tuvieran miedo de cuanto ingenio ilustra el universo. Ni en competencia a Píndaro y Petronio, como dan sus escritos testimonio;
11 CERVANTES, Miguel de (1991), Viaje del Parnaso, E. L. Rivers (Eds.), Espasa Calpe, Madrid,
capitolo II, vv. 301-312, pp. 87-88.
12 SCHWARTZ, Lía (2004), “Introducción” a Las sátiras de Quevedo y su recepción. Antología
crítica, Centro Virtual Cervantes [https://cvc.cervantes.es/literatura/quevedo_critica/satiras/default.htm; ultima consultazione il 13/11/2019]
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espíritu agudísimo y suave,
dulce en las burlas y en las veras grave; príncipe de los líricos, que él solo pudiera serlo si faltara Apolo.
¡Oh musas! Dadme versos, dadme flores, que, a falta de conceptos y colores, amar su ingenio, y no alabarle, supe, y nazcan mundos que su fama ocupe13.
La fama di Quevedo rimase prevalentemente vincolata alla sua produzione satirica, che rappresenta, però, un terzo della sua opera. José Manuel Blecua, al quale si deve una delle edizioni più affidabili della poesia di Quevedo, definisce le opere contenute all’interno di questa sezione come poemas satírico-burlescos, a differenza di Astrana Marín, che nella sua edizione (Obras completas.Verso) separa le poesie satiriche da quelle burlesche. Tradizionalmente, i due termini si trovavano associati: González de Salas, nel Parnaso Español (1648) definisce il contenuto della sesta musa, Talia, così:
Canta poesías jocoserias, que llamó burlescas el autor, esto es, descripciones graciosas, suceso de donaire y censuras satíricas de culpables costumbres, cuyo estilo es todo templado de burlas y de veras14.
Le poesie burlesche (termine scelto dallo stesso Quevedo) possono quindi includere “censuras satíricas”, non di qualsiasi tipología, ma solo quelle che presentano un “estilo templado de burlas y veras”15. Una prima domanda che
sorge spontanea, relativamente alla poesia satirico-burlesca di Quevedo, riguarda dunque la precisione dei due concetti che la compongono. È difficile trovare nei trattati una definizione di satira che esprima appieno questo genere. Gli studiosi sono unanimi nell’individuare come caratteristica principale della satira l’intenzione di correggere vizi mediante una censura morale che utilizza come mezzo lo burlesco. Questo termine (che il Diccionario de Autoridades definisce come “jocoso, lleno de chanzas, chistes y graciosidades [...] se dice y apropia a los
13 VEGA, Lope de (1935), Laurel de Apolo, in Poesía épica, Luis Guarner (Eds.), Madrid, Bergua,
p. 284.
14 QUEVEDO Y VILLEGAS, Francisco de (1648), El Parnaso Español, monte en dos cumbres
dividido, con las nueve musas castellanas, J. A. González de Salas, Madrid, Diego Díaz de la
Carrera (Eds.), Madrid.
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escritos que tratan las cosas en estilo jocoso y gracioso y festivo”16), gli studiosi sono soliti associarlo alla risa: sarebbero burlescos quegli elementi che fanno ridere, o per facilitare la penetrazione della satira nel testo, o per il valore ludico che hanno in sé. Entrambe le categorie possono essere presenti, con maggiore o minore intensità, all’interno di uno stesso componimento. Pertanto, secondo Ignacio Arellano, piuttosto che parlare di poemas satíricos visti in contrapposizione rispetto ai poemas burlescos, bisognerebbe parlare di poemas
más o menos satíricos expresados en estilo más o menos burlesco17, il che implica l’esistenza di varie modalità possibili :
- Poemas satíricos no burlescos (“la risa no es esencial a la satíra. Encontramos satíras morales sin fines lúdicos risibles”. Per questo tipo di poesie bisognerebbe introdurre un nuovo concetto: il ´grottesco')
- Poemas satírico-burlescos (“intención de censura moral y estilo burlesco. Los grados serán muy diversos según domine la actitud ética o la lúdica, y según la intensidad de los elementos expresivos burlescos”)
- Poemas exclusivamente burlescos (”Se podrían denominar así los que parecen faltos de toda intención crítica o moral”18)
È utile introdurre, per spiegare al meglio la prima modalità di poesie, il concetto di grotesco. James Iffland definì Quevedo “one of the most important figures in the history of the grotesque in literature”19. Il termine grotesco deriva dall’italiano grotta e in origine rimandava a un tipo di pittura ornamentale scoperta alla fine del XV secolo, caratterizzata dal gioco fantastico e libero delle forme umane, animali e vegetali, mescolate tra loro: una sorta di fusione di elementi incompatibili fra loro, di natura diversa, che producono disarmonia e una violazione delle proporzioni classiche e delle norme dell’esperienza quotidiana.
16 Real Academia Española, Diccionario de Autoridades, Tomo I, 1726, s.v. : “burlesco”, def 1. 17 ARELLANO, Ignacio (1984), Poesía satírico-burlesca de Quevedo: estudio y anotación
filológica de los sonetos, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona.
18 Per tutte le citazioni dei tre punti descritti, si veda ibidem.
20
The satirist may make his victim grotesque in order to produce in his audience or readers a maximum reaction of derisive laughter and disgust; and a grotesque text [...] will frequently have a satirical side-effects20.
Riassumendo, quindi, possiamo dire che la poesia satirico-burlesca del XVII secolo si serviva soprattutto della rappresentazione di contesti sgradevoli e di personaggi grotteschi, di metafore e doppi sensi, per provocare una risata nel lettore21. Già nella cultura classica, autori come Cicerone e Quintiliano la
consideravano come uno dei mezzi più efficaci per attirare l’attenzione dell’ascoltatore: il ridicolo dipende dall’orrendo e dal deforme (turpido et
deformitas) che attaccano non solo i difetti morali, ma anche quelli fisici. Il poeta
dimostrerà la sua abilità se sarà in grado di suscitare ilarità senza essere troppo diretto o offensivo, senza cadere nell’ambito volgare. La capacità di svagarsi e allo stesso tempo far divertire era considerata dagli intellettuali classici come una caratteristica esclusivamente umana. Lo stesso Aristotele definì l’uomo come “l’unico animale che ride”22. Queste idee si ripeteranno in tre opere rinascimentali
che occuperanno uno spazio privilegiato nella teorizzazione del ridicolo: De
sermone (1509) di Giovanni Pontano, Il Cortegiano (1528) di Baldassarre
Castiglione e Il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa. Questi tre autori affrontano il tema del riso e dei suoi effetti retorici, analizzando anche le sue ripercussioni nella società. L’autore ideale è quindi colui che, con destrezza, sa e può alternare la componente seria a quella ludica, a seconda del contesto e dei suoi interlocutori. Queste opere, pubblicate in Italia, furono fondamentali per la diffusione della poesia satirico-burlesca anche nella Penisola Iberica. Mai come nel Rinascimento, gli autori si preoccuparono di definire la naturalezza del ridicolo e l’importanza che rivestiva nella società.
20 Ibidem, p. 20.
21 CACHO CASAL, Rodrigo (2007), El ingenio del arte: introducción a la poesía burlesca del
Siglo de Oro, in Criticón, 100, pp. 9-26.
21
Come spiega Rodrigo Cacho Casal, in Spagna i primi autori che si confrontarono con il genere della poesia satirico-burlesca furono Diego Hurtado de Mendoza e Gutierre de Cetina23, vissuti nel Cinquecento e influenzati in particolar modo dagli italiani Ariosto24 e Berni. Bisogna tener presente che gli
italiani furono i primi, non solo a recuperare, nel Rinascimento, il genere della
satura romana, prima con Francesco Filelfo e dopo con Ludovico Ariosto, ma
anche a contribuire alla diffusione della poesia burlesca in Spagna. La stessa parola burlesco, applicata a uno stile letterario con cui si identifica Quevedo, anche se deriva dalla parola spagnola burla, viene documentata per la prima volta in Italia nel 1548, nell’edizione delle Opere burlesche di Francesco Berni, definito da Anton Francesco Grazzini come maestro dello stile burlesco. Il termine si diffonde in Spagna a partire dalla fine del XVI secolo. Una delle prime manifestazioni dell’introduzione del termine nella poesia spagnola la troviamo nella dedica delle rime di Juan de la Cueva (1603):
Dispuesto ya de dar mi flaca vela a su inmoderada soberbia, hice división de ese volumen en dos partes: en la primera pude todas las rimas sueltas, mezclando con la variedad de sujetos las composiciones amatorias, misivas y burlescas por variar los gustos a los lectores [...]25.
Ciò significa che la Spagna ricevette l’influenza della poesia di Berni e dei suoi seguaci, i berneschi. Francesco Berni, sacerdote toscano nato a Lamporecchio, lavorò al servizio di importanti cardinali. La sua formazione umanistica lo portò inizialmente a scrivere la sua poesia in latino, ma ben presto passò a dedicarsi alla letteratura burlesca in toscano. Berni seppe sfruttare la tradizione anteriore e la cultura classica per i suoi componimenti. Le forme metriche fondamentali della sua poesia furono il sonetto e la terzina, anche se la parte più corposa era costituita dai capitoli, che rappresentavano il metro basilare della sua poesia. I temi della sua opera comprendevano la parodia del petrarchismo, il ritratto di personaggi e scene grottesche. Importante fu
23 CACHO CASAL, Rodrigo (2003), La poesía burlesca de Quevedo y sus modelos italianos, cit.,
pp 17-20.
24 La produzione di Ariosto è caratterizzata da un’organizzazione epistolare, in cui attraverso un
tono medio e confidenziale, si rivolge a un amico o a un parente, commentando le sue vicissitudini personali che gli danno la possibilità di criticare i vizi sociali.
25 GALLARDO, Bartolomé José (1968), Ensayo de una biblioteca española de libros raros y
22
l’influenza, nelle sue opere, dei Canti carnascialeschi, tipici della tradizione fiorentina. Si trattava di una forma poetica di origine popolare che presentava una galleria di personaggi (che solitamente incarnavano una professione o una classe sociale; per esempio monache, vedove, sarti, fabbri, ecc.), che sfilavano per le strade di Firenze nel periodo di carnevale. La poesia bernesca si diffuse principalmente a Roma, intorno a un gruppo di scrittori che nelle loro riunioni accademiche si intrattenevano a vicenda realizzando dei capitoli burleschi. I membri più importanti furono Giovanni Mauro, Giovanni Della Casa e Annibal Caro.
Le opere comiche italiane e le antologie della poesia bernesca iniziarono a circolare molto presto anche in Spagna. Un’analisi dettagliata dell’opera di Berni ha permesso di individuare una serie di temi e motivi comuni alla poesia satirica di Quevedo, come ad esempio il mal francese, la figura della pidona, la misoginia, l’immagine della vieja e del medico. A proposito di quest’ultimo, Francesco Berni scrisse un’invettiva contro un medico, Maestro Guazzalletto (Rime XLIX), ritratto con una serie di attributi che ritroviamo anche nella caratterizzazione dei medici in Quevedo, come l’uso dell’asino come mezzo di trasporto e la propensione a parlare con latinismi. Gli indumenti caratteristici del Maestro in Berni, come il berretto e l’abito di panno, senza pelo, ricordano, invece, la descrizione del Licenciado Cabra del Buscón (“cuyo bonete era de cosa que fue paño” y “su sotana tan sin pelo”26).
26 QUEVEDO Y VILLEGAS, Francisco de (2001), L’imbroglione, a cura di Aldo Ruffinato,
23
Come afferma Lía Schwartz, nella realizzazione del suo grande corpus poetico, Quevedo attinse sia dalla tradizione italiana sia dalla cultura latina. Il lavoro di ricostruzione del dialogo che le satire di Quevedo avevano instaurato con la satura romana dimostra che era stato un lettore attento di Giovenale, Marziale e Persio. Le relazioni che i suoi testi stabilivano con i suoi antecedenti grecolatini non si limitavano esclusivamente alla imitatio sul piano verbale, ma potevano imitare anche la dispositio dei modelli. Numerosi sono i temi, i motivi ed i personaggi che, nelle satire di Quevedo, anche se adattati alla sua realtà storica, rimandano a quelli inventati dagli autori delle saturae. Persio, per esempio, inserisce all’interno delle sue sei satire la filosofia stoica, dottrina cara a Quevedo in quanto unica in grado di curare i vizi dell’anima: solo attraverso la virtù l’uomo può liberarsi dalle passioni e dalle tentazioni27. Allo stesso modo,
anche Giovenale pensò che l’unico modo per sopravvivere in un mondo così corrotto fosse quello di seguire la virtù; nelle sue opere attacca il vizio, che relaziona direttamente con la figura femminile e il matrimonio. La satira VI di Giovenale, per esempio, nota anche come satira contro le donne, rappresenta una delle più feroci testimonianze della misoginia di tutti i tempi. Nell’opera Giovenale si scaglia non solo contro i loro vizi, ma anche contro la loro emancipazione; sono dunque disprezzate le mogli infedeli o impudiche e, allo stesso modo, quelle che studiano letteratura, che viaggiano, che vanno a teatro o assistono ai giochi del circo, o che si occupano di politica, perché il suo ideale femminile è l’antica matrona che accudisce la casa e i figli e non compare quasi mai in pubblico. Giovenale rimpiange i tempi in cui alle donne era riservato il ruolo di madre affettuosa, moglie fedele e sottomessa al marito e si lamenta della mancanza di pudicizia e della corruzione del costume femminile. La satira inizia con il ricordo di un’antica età dell’oro in cui ancora viveva sulla Terra la
Pudicitia, dea femminile preposta alla fedeltà coniugale, che rendeva le donne
ancora virtuose. Con l’evoluzione del genere umano però la Pudicitia lasciò il mondo e da quel momento non è più esistita tra gli uomini (e soprattutto tra le donne) la fedeltà matrimoniale. Lo spunto offerto al poeta per il suo violento
27 SCHWARTZ, Lía (2006), Las diatribas satíricas de Persio y Juvenal en las sátiras en verso de
24
attacco contro la natura perversa della donna è dato dalla notizia del progetto di nozze cui si appresta l’amico Postumo. Giovenale lo vuole dissuadere e si rivolge a lui in questi termini: “Una volta eri sano di mente, e adesso, o Postumo, ti vuoi sposare?28[...] Se proprio vuoi porre fine alla tua vita, ci sono al mondo tante
corde per impiccarsi, si aprono nel vuoto alte e vertiginose finestre e qui vicino ti si offre il ponte Emilio”. Per il poeta il matrimonio è la sventura più terribile che possa toccare a un uomo; è meglio morire che sottostare al dominio di una moglie. E prosegue dicendo: “Se proprio nessuna forma di suicidio ti piace, non è forse meglio portarti a letto qualche ragazzino, che almeno non litiga, non vuole regalucci e non si lamenta del tuo scarso ardore?”29 Questa battuta sarcastica
viene pronunciata per denunciare l’insopportabilità delle donne sposate che si concedono sessualmente soltanto dietro regali e denaro. L’infedeltà è il loro difetto maggiore, ma non l’unico: sono anche amanti del lusso, sperperano denaro, eccedono nel trucco, parlano in greco per darsi un tono. Giovenale mette quindi in guardia Postumo, e con lui tutti gli uomini che intendano sposarsi, sulle conseguenze del matrimonio: nessuna libertà sarà più concessa loro, né di decidere come tagliarsi la barba né di scegliere gli amici, perché tutta la vita dell’uomo sarà condizionata dai capricci della futura moglie.
La satira contro la donna è uno dei temi fondamentali anche degli epigrammi di Marziale, che insieme a Giovenale rappresentò il modello più importante per Quevedo. È dai suoi epigrammi, infatti, che ricava alcuni artifici retorici tra cui la tecnica dell’animalizzazione per cui la donna viene rappresentata attraverso paragoni animalizzanti. Entrambi gli autori condividono un repertorio basico di temi, mediante i quali rappresentano i vizi della società decadente30: il
ritratto grottesco della vieja, la mujer postiza, il matrimonio (con particolare riferimento alla figura del marito cornuto), ma anche i medici, il denaro, la rivalità poetica, ecc.
28 BELLATI, Franco (2003), Contro le donne: Satira VI / Giovenale, Marsilio, Venezia, vv. 27-32. 29 Ibidem, vv. 32-37.
30 SCHWARTZ, Lía (2006), Las diatribas satíricas de Persio y Juvenal en las sátiras en verso de
25
Il tema più evidente e studiato da entrambi i poeti è il ritratto grottesco della vieja. Sia Marziale sia Quevedo utilizzano un repertorio di frasi fatte, espressioni popolari, che rimandano a un tempo remoto e sconosciuto, per sottolineare l’età avanzata della donna. Per quanto riguarda Marziale, ricordiamo, per esempio, l’epigramma I, 100, nel quale la vieja Afra supera in età anche i propri genitori:
Afra tiene mamás y papás, pero a ella misma se le puede llamar la mamá más vieja de los papás y las mamás31.
Evidente è anche, di conseguenza, il tema della mujer postiza, ossia una donna che vuole mascherare, con i cosmetici, i segni dell’età che avanza. Vediamo, per esempio, l’epigramma IX, 37:
[...] Y de noches te quites los dientes lo mismo que los vestidos de seda y te acuestes guardada en cien redomas
y ni tu cara duerma contigo, hages guiños
con las mismas cejas que te ponen por la mañana32.
Oltre il ricorrente motivo dell’esagerazione dell’età, entrambi i poeti, nelle proprie composizioni, degradano la figura nel suo complesso. Un esempio significativo, per il poeta latino, lo troviamo nell’epigramma III, 93:
Cuando tienes trescientos años, Vetustila, tres cabellos y cuatro dientes,
el pecho de una cigarra, las piernas y el color de una hormiga; cuando tienes una frente más arrugada que tu abrigo
y unos pechos iguales a las telas de araña; cuando comparada con tu boca un cocodrilo del Nilo tiene una boca pequeña,
mejor croan las ranas de Ravena,
el mosquito de Adria canta más dulcemente, ves lo que ven las lechuzas por la mañana, hueles lo que los machos de las cabras,
te atreves a casarte después de doscientas muertes y buscas como loca un marido para tus cenizas[...]33.
31 MARZIALE, epigramma I, 100 apud FERNÁNDEZ CORDERO, Carolina (a cura di) (2010),
Viejas, cornudos, matasanos y avaros. Marcial en la poesía satírica de Quevedo, Universidad
Autónoma de Madrid, Madrid.
32 MARZIALE, epigramma IX, 37. 33 MARZIALE, epigramma III, 93.
26
Tra gli elementi più caratterizzanti il ritratto degradante, possiamo individuare: la pelle con le rughe, la mancanza di denti, il cattivo odore, un riferimento alla mancanza di moralità e la qualificazione di “pettegola” della donna.
La presenza di Marziale nell’opera di Quevedo non interessa solo l’aspetto tematico, ma, anche l’aspetto formale. Si produce un’interessante concomitanza, poiché entrambi i poeti rappresentano al meglio nelle loro opere lo stile concettista. Lo stesso Gracián considerò Marziale come primogénito de la
agudeza. L’uso di una sintassi concisa e concettosa, dell’arguzia, dell’umorismo,
della paronomasia, delle similitudini e dei neologismi accomunano, infatti, i due poeti.
Un ulteriore modello di riferimento per Quevedo è rappresentato da Luciano di Samosata, soprattutto per quanto riguarda i Sueños. Luciano di Samosata fu uno scrittore della Grecia antica, celebre per la natura arguta e irriverente dei suoi scritti satirici. La produzione di Luciano spazia su generi ed argomenti molto diversi fra loro, ma con una costante di fondo: la critica e la satira nei confronti della società dell’epoca. Come Quevedo, anche Luciano si trovò a vivere in un clima di incertezza e di instabilità economica e sociale. La sua fama è soprattutto legata ai Dialoghi (Dialoghi dei Morti, degli Dei, delle
cortigiane e Dialoghi marini). A noi interessano in particolare i Dialoghi dei Morti, una raccolta di trenta brevi discorsi che avvengono nell’Inferno tra due o
più interlocutori. Questi dialoghi presentano molte affinità con i Sueños di Quevedo, che all’epoca furono appunto definiti come Sueños lucianescos. Ricordiamo che Quevedo compose i Sueños tra il 1605 e il 1623 e che furono pubblicati per la prima volta nel 1627 a Barcellona. Nella sua opera Quevedo passa in rassegna diversi vizi, personaggi e professioni per attaccare la corrotta, ipocrita e vanitosa società dell’epoca. Nella galleria divina e umana di entrambi i poeti incontriamo figure come: soldati, filosofi, cuochi, calzolai, panettieri, medici, barbieri, giudici, donne in tutte le loro forme, personaggi storici realmente esistiti, personaggi che incarnano vizi (come l’avarizia, la lussuria), angeli e demoni, e ancora personaggi allegorici come la fortuna, la povertà, il denaro, l’invidia, ecc.; il tutto è rappresentato nel mondo infernale. L’Inferno viene utilizzato da entrambi i poeti come la risorsa artistica per eccellenza per satirizzare
27
l’umanità. L’unica differenza, a livello stilistico, che possiamo incontrare tra i due autori è che, mentre la satira di Luciano si presenta intessuta di ironia, quella di Quevedo è dominata dal ritratto caricaturesco.
Dalle opere giovanili a quelle composte nella maturià, Quevedo sviluppa ogni volta con maggior intensità concettista la tecnica del ritratto. Le figure e i personaggi grotteschi che popolano le pagine quevediane sono il risultato di una sintesi tra elementi che risaltano la sua formazione retorica e la lettura di autori classici e poeti italiani. La caricatura si definisce per la selezione di alcune caratteristiche isolate di un volto o di una personalità e per la loro deformazione esegerata. Questo è il processo che subisce la maggior parte dei personaggi dello scrittore spagnolo: “mujeres horrbiles y desaseadas, viejas repelentes, calvos maleducados o rocines flacos”34. Le sue figure si delineano attraverso iperboli, similitudini ed enumerazioni volte ad accumulare dettagli ridicoli35. La tradizione italiana si combinò con il modello di Orazio, di Marziale e di altri autori spagnoli per dar vita a queste figure protagoniste della scrittura burlesca di Quevedo. I modelli di riferimento si arricchirono grazie alla sua arguzia verbale, che trovò nella caricatura il mezzo privilegiato per diffondere il suo stile concettista. Quevedo realizzò i suoi ritratti a partire da queste fonti di ispirazione, le quali fornivano a loro volta informazioni circa i passaggi fondamentali da seguire per realizzare al meglio il ritratto di un personaggio.
Il ritratto doveva in primo luogo fornire una descrizione fisica del personaggio (prosopografia), poi una descrizione dell’aspetto morale, del carattere (etopeya) e alla fine il tutto doveva poi essere completato con l’unione delle due descrizioni (prosopopeya). Dopo aver presentanto il personaggio fisicamente e moralmente, Quevedo descriveva il suo modo di comportarsi per completare il quadro. Lo scrittore spagnolo arriva a realizzare i suoi ritratti partendo dal modello classico per poi superarlo. Ciò è possibile poiché ci troviamo nell’ambito della ritrattazione satirica. A differenza, però, della tradizione classica, secondo cui il ritratto doveva essere statico, i suoi ritratti
34 CACHO CASAL, Rodrigo (2003), La poesía burlesca de Quevedo y sus modelos italianos, cit.,
p. 228.
28
esprimono movimento, dinamismo. Il movimento viene rappresentato attraverso due tecniche: la tecnica cinematografica e la tecnica della prospettiva desde lejos. Attraverso questi due procedimenti, il personaggio viene catturato mediante i gesti, i movimenti che compie: importante è infatti la sua gestualità. Con la prospettiva desde lejos, Quevedo inizia a rappresentare la figura scorta in lontananza, a partire dai suoi gesti per poi aggiungervi caratteristiche fisiche man mano che si avvicina al soggetto ritrattato. A tal proposito, ricordiamo, per esempio, il ritratto del maestro di scherma e la descrizione di Don Toribio, uno dei cosiddetti “caballeros de rapiña”, entrambi presenti nel Buscón. Così Quevedo delinea il ritratto del maestro di scherma:
Yo pasé adelante, pereciéndome de risa de los arbitrios en que ocupaba el tiempo, cuando, Dios y enhorabuena, desde lejos, vi una mula suelta y un hombre junto a ella a pie, que, mirando a un libro, hacía unas rayas que medía con un compás. Daba vueltas y saltos a un lado y a otro, y de rato en rato, poniendo un dedo encima de otro, hacía con ellos mil cosas saltando36.
Mentre il ritratto di Don Toribio è il seguente:
Yo iba caballero en el rucio de la Mancha, y bien deseoso de no topar nadie, cuando desde lejos vi venir un hidalgo de portante, con su capa puesta, espada ceñida, calzas atacadas y botas, y al parecer bien puesto, el cuello abierto, el sombrero de lado. Sospeché que era un caballero que dejaba atrás su coche; y así, emparejando, le saludé37.
È infatti nel Buscón, ma anche e soprattutto nei Sueños, dove Quevedo offre una galleria variegata di ritratti, messi a nudo fisicamente e moralmente. Come suggerisce Beatrice Garzelli, ne esistono di vari tipi38:
1) Ritratti che hanno un ruolo importante nella vicenda (il ritratto del “Licenciado Cabra” nel Buscón oppure il ritratto della “Dueña Quintañona” nel Sueño de la Muerte)
36 QUEVEDO Y VILLEGAS, Francisco de (2001), L’Imbroglione, a cura di Aldo Ruffinato, cit.,
p. 142.
37 Ibidem, p. 196.
38 GARZELLI, Beatrice (2008), La pinacoteca del Buscón tra caricature e soggetti deformati e
Pitture infernali e ritratti grotteschi nell’iconografia dei Sueños, in Nulla dies sine linea. Letteratura e iconografia in Quevedo, ETS, Pisa, pp. 109-148.
29
2) Ritratti accessori (sono ritratti che servono solo a completare una scena. Un esempio è dato dal ritratto della zia del Licenciado Cabra o della moglie del carceriere, entrambi nel Buscón)
3) Ritratti obliqui (lo scrittore ottiene un ritratto del personaggio attraverso allusioni al suo comportamento e non tramite la descrizione fisica. Un esempio è il ritratto della madre di Pablo)
4) Ritratti collettivi (per esempio il ritratto delle monache e dei “caballeros de rapiña” nel Buscón oppure quelli delle “dueñas” nel Sueño del Infierno e dei medici nel Sueño de la Muerte). Nei ritratti collettivi importante è l’utilizzo della tecnica della frammentazione: i corpi sembrano essere sezionati. È come se Quevedo svolgesse il ruolo del macellaio, del chirurgo. Questo procedimento ricorda quello utilizzato dal pittore Hieronymus Bosch, giacché anche nei suoi quadri appaiono parti del corpo che sembrano essersi staccate da esso fino ad acquisire vita e autonomia propria.
30
Oltre ai procedimenti già elencati, Quevedo si avvale anche di tre tecniche, che ritroveremo, tra l’altro, nei sonetti satirico-burleschi: la animalización, la
cosificación e la muñequización. L’essere umano viene paragonato
rispettivamente ad animali, ad oggetti o diventa il burattino in mano allo scrittore. Secondo alcuni studiosi come Ignacio Arellano, Ciaran Cosgrove, Victor Dixon e José Ramón Enríquez39, i procedimenti utilizzati da Quevedo anticipano
l’esperpento di Valle-Inclán, uno stile letterario che venne presentato per la prima volta nell’opera Luces de Bohemia (1924). Nell’esperpento la figura umana e la realtà in generale vengono stravolte, come quando ci si riflette, secondo quanto diceva l’autore, negli specchi concavi e convessi, quindi deformanti, della Calle del Gato di Madrid. L’azione deformante degli specchi permette di vedere come è realmente la realtà e la società dell’epoca: ambigua e contradditoria. Valle-Inclán allude così a tre modi di vedere il mondo:
- De rodillas (il personaggio viene osservato in ginocchio, ciò significa essere inferiori a lui e quindi rappresentarlo con rispetto)
- De pie (in questo caso il personaggio si trova di fronte allo scrittore che si pone al suo solito livello)
- Levantado en el aire (il poeta osserva il personaggio dall’alto, è superiore a lui)
Quest’ultimo modo di rappresentare il personaggio è stato attribuito dagli studiosi a Quevedo che ritrae i suoi personaggi assumendo la veste di burattinaio. Si è parlato, a tal proposito, di tecnica esperpentica ante literam.
39 SWANSEY, Bruce (2008), Barroco y vanguardia: de Quevedo a Valle-Inclán, Ediciones
31
Per quanto riguarda lo stile e le tecniche utilizzate, la poesia satirico-burlesca rappresenta la cima dell’espressione concettista barocca.
Quevedo fue un portentoso genio verbal, que llevò la lengua literaria española a cimas de agudezas insospechadas, en un laboreo insaciable con el idioma que le hizo arrancar sentidos inéditos y hallazgos lingüístico no superados40.
Francisco de Quevedo ricorre a tutta la scala sociolinguistica del suo tempo, dallo stile elevato dei poeti, passando per il linguaggio familiare delle donne, il gergo professionale latinizzante dei medici, le espressioni popolari, i termini religiosi, per arrivare al lenguaje de germanía, il linguaggio dei malviventi del XVII secolo41. Lo stile espressivo di Quevedo, in gran parte della poesia satirico-burlesca, viene definito come “bajo”. Arellano e Roncero hanno giustificato l’utilizzo di questo stile nel modo seguente: dato che la burla ha come oggetto fondamentale la deformità, la mostruosità e la satira si occupa dei difetti e vizi morali, risulta logico che la scelta di determinati temi condizioni il linguaggio che si adatta alla realtà che si intende rappresentare (la realtà dei bassi fondi dell’uomo e della sua moralità)42. La scrittura satirico-burlesca si può definire
quindi come un esercizio continuo di escrología (decir cosas feas y deshonestas
con palabras feas y deshonestas43): tutto ciò che può essere definito come basso e ripugnante trova qui la sua miglior espressione; le parti e gli organi inferiori, le pulsioni fisiologiche e sessuali appaiono di frequente in questo tipo di letteratura. Tra le risorse utilizzate per esprimere al meglio il suo ingenio, Quevedo utilizza anche i neologismi (che possono derivare dalla parodia di una parola o essere creati per derivazione e composizione) oppure le agudezas. Baltasar Gracián nella sua opera Agudeza y Arte de Ingenio da una breve definizione di questo termine:
40 QUEVEDO Y VILLEGAS, Francisco de (1999), Antología poética, introduzione e note a cura
di José María Pozuelo Yvancos, Madrid, Biblioteca Nueva, Madrid.
41 ARELLANO, Ignacio (2001a), La poesía satírico-burlesca de Quevedo: coordenadas
esenciales, in Anthropos, Extra 6, pp. 39-49.
42 ARELLANO Ignacio- RONCERO LÓPEZ, Victoriano (2002), Poesía satírica y burlesca de los
siglos de oro, Espasa Calpe, Madrid.
43 ARELLANO, Ignacio (2001a), La poesía satírico-burlesca de Quevedo: coordenadas
32
Consiste, pues, este arteficio conceptuoso, en una primorosa concordancia, en una armónica correlación entre dos o tres cognoscibile extremos, expresada por un acto de entendimiento44.
L’agudeza viene espressa tramite il concetto, che viene definito appunto come “acto del entendimiento que exprime la correspondencia que se halla entre los objectos”45. Sono molte le varietà di agudezas che Gracián analizza nella sua opera. Distingue innanzitutto tra agudeza conceptual (“que consiste más en la sutileza del pensar que en las palabras”46) e agudeza verbal (“que consiste más en
la palabra”47). All’interno dell’agudeza conceptual possono stabilirsi nuove divisioni a seconda del tipo di relazione (positiva o negativa) tra i correlati e la loro categoria. Suddividiamo quindi l’agudeza conceptual in:
1) agudeza de correspondencia y conformidad entre los correlatos (i correlati vengono messi a contatto tra di loro per esprimere un’artificiosa finezza)
2) agudeza de contrariedad o discordancia entre los extremos del concepto (integra tutti i tipi di antitesi e contrasti, sia tra un soggetto e i suoi adiacenti, sia tra oggetti distinti)
La prima, a sua volta, viene nuovamente suddivisa tra agudeza de proporción (la quale stabilisce corrispondenza tra un soggetto e i suoi adiacenti come cause, effetti, attributi) e agudeza de semejanza (corrispondenza tra correlati distinti). I tipi di agudezas maggiormente utilizzati da Quevedo sono le agudezas de
semejanza e le agudezas verbales. Le agudezas de semejanza consistono nel
relazionare due oggetti simili in modo tale che la comparazione esprima un grado di difficoltà sufficiente per essere convertita in agudeza e non in similitudine. Le più significative si basano su associazioni mentali e non visive; più sono strane e imprevedibili, più rappresentano al meglio la poetica concettista. Per esempio la somiglianza tra il tabacco e il medico si basa sugli effetti velenosi di entrambi; la somiglianza tra la donna e il ragno consiste nella loro abilità di cacciare la mosca,
44 GRACIÁN, Baltasar (1987), Agudeza y Arte de Ingenio, Castalia, Madrid, p. 55. 45 Ibidem, p. 55.
46 Ibidem, p. 58. 47 Ibidem, p. 58.
33
parola di doppio senso che significa sia insetto sia denaro. Tra le agudezas
verbales troviamo giochi di parole, dilogie, figure retoriche come la paronomasia
e l’antanaclasis (ripetizione di una parola con significato differente ogni volta). Tutti i commentaristi mettono in rilievo la varietà dei temi satirico-burleschi dell’opera quevediana. La satira si occupa di tutte le cose (“quidiquid agunt homines”48). Questa varietà non è da attribuire solo alla grande capacità
poetica di Quevedo, bensì si presenta come un elemento proprio del genere letterario. Significativi sono i limiti tematici che si pone il poeta, escludendo dalla sua satira la Monarchia, l’esercito e la Chiesa. È inoltre evidente l’assenza di una satira politica soprattutto se si tiene conto della costante preoccupazione istituzionale che Quevedo mostra nell’opera in prosa49 e nella sua attività personale al servizio del Duca di Osuna. Vengono invece inclusi nella grande opera quevediana temi e motivi come la satira menippea (con riferimento al tema scatologico e al mondo infernale), sátira de oficios y estados (protagonisti sono i medici, i funzionari di giustizia), temi contemporanei che potremmo definire
costumbristas (come feste, credenze superstiziose), temi morali (critica alla
vanità, all’ipocrisia, al denaro, all’uso dei cosmetici), satira personali contro poeti a lui contemporanei (per esempio Luis de Góngora, Lope de Vega, Juan Pérez de Montalbán), degradazione del mito ed infine varie forme di degradazione della donna, dell’amore e del matrimonio.
48 GIOVENALE, Sat I, vv. 85-86.
49 Si vedano le opere politiche di Quevedo in prosa come Grandes Anales de quince días (1623),
34
2.1 La satira menippea in Quevedo
Il termine “menippea” deriva dai componimenti satirici di Menippo di Gadara (III secolo a.C), esponente della letteratura e della filosofia cinico-stoica, nei quali si combinavano prosa e poesia, talora con la presenza di parti dialogate e con la tendenza a introdurre nella riflessione morale elementi fantastici e parodie ironiche. Si trattava di un vero e proprio genere letterario, caratterizzato da alcuni tratti distintivi come il prosimetrum (l’inserimento di versi in un testo in prosa), lo stile serio-comico, una struttura narrativa a tre piani su cui si sposta l’azione (Inferi, Terra e Olimpo), una prospettiva narrativa eccentrica da cui criticare e guardare il mondo con distacco, la parodia letteraria e ambientazioni fantastiche e grottesche. In ambito latino sono riconducibili alla satira menippea Le Saturae
Menippeae di Terenzio Varone (I secolo a.C), l’Apokolokyntosis di Seneca (I
secolo d.C) e il Satyricon attribuito a Petronio (I secolo d.C), mentre, in ambito greco, ricordiamo soprattutto le opere di Luciano di Samosata (II secolo), nelle quali il riferimento a Menippo compare già dal titolo (per esempio, Menippo o la
negromanzia, Icaromenippo). Queste opere furono rilevanti per lo sviluppo della
satira menippea in Spagna, nella quale la critica satirica avveniva per mezzo della fantasia, in particolare attraverso il modello del sogno, l’uso dell’allegoria, il ricorso al mondo infernale e scatologico. Una figura chiave alla quale non si è prestato sufficiente attenzione nella nascita di una tradizione satirica menippea in ambito spagnolo fu Juan Luis Vives, autore del Somnium (1520), un’opera dove si mescolano elementi onirici con, appunto, la tradizionale satira menippea di Seneca e di Luciano, che è all’origine di altri componimenti satirici come il
Somnium. Satyra menippea di Justo Lipsio (1581), uno degli umanisti più
importanti dell’epoca. Alcune delle opere precedentemente menzionate sembrano aver instaurato con Quevedo una specie di dialogo, cioè possono aver influenzato la sua produzione. Egli stesso, a sua volta, divenne oggetto di numerose imitazioni. Sono stati infatti numerossisimi i sogni satirici, le satire menippee che si ispirarono alle sue opere. Possono considerarsi come satire menippee di Quevedo i Sueños (1627), El discurso de todos los diablos (1638), la Visita y