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"Nascita ed evoluzione del diritto alla salute: dalle origini alla legge n. 24/2017 (c.d.legge Gelli)"

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Nascita ed evoluzione del diritto alla salute:

dalle origini alla legge n. 24/2017 (c.d. legge

Gelli)

Candidato: Relatore:

Matteo Calvani Prof.ssa Elisabetta Catelani

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2

Alla mia famiglia,

che mi supporta sempre.

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3

NASCITA ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO

ALLA SALUTE: DALLE ORIGINI ALLA LEGGE

N. 24/2017 (C.D. LEGGE GELLI)

INDICE

INTRODUZIONE ... 6

1) L’EVOLUZIONE STORICA DELLA TUTELA DELLA SALUTE IN ITALIA: DAI ROMANI FINO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2001... 9

1.1) DALLE ORIGINI FINO AI PRIMI ANNI ‘40 ... 9

1.2) LA TUTELA DELLA SALUTE IN COSTITUZIONE ... 17

1.3) IL PERIODO 1948-1958: L’ISTITUZIONE DEL MINISTERO DELLA SANITA’ ... 21

1.4) LA RIFORMA OSPEDALIERA ... 24

1.5) LA RIFORMA SANITARIA E GLI SVILUPPI SUCCESSIVI ... 29

1.6) I PROCESSI DI REGIONALIZZAZIONE ED AZIENDALIZZAZIONE ... 36

1.7) LA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2001 E GLI SVILUPPI SUCCESSIVI ... 44

2) I LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA ... 46

2.1) I LEA IN SANITA’: DEFINIZIONE E FINALITA’ ... 46

2.2) I PRECEDENTI NORMATIVI ... 47

2.3) IL D.P.C.M. 29/11/2001 ... 53

2.4) CHE COSA SONO I LEA? DA “INDICE DELLE PRESTAZIONI” A INDIVIDUAZIONE DELLE MODALITA’ DI ACCESSO ALLE PRESTAZIONI... 58

2.5) L’ATTUAZIONE DEI LEA DA PARTE DELLE REGIONI: IL GRADO DI DIFFERENZIAZIONE ... 65

2.6) I LEA PREVISTI DAL D.P.C.M. 23 APRILE 2008 ... 70

2.7) I LEA PREVISTI DAL NUOVO D.P.C.M. 12 GENNAIO 2017 .... 72

2.8) LA “CRISI DI EFFETTIVITA’” DEL DIRITTO ALLA SALUTE E LA DETERMINAZIONE DEL FABBISOGNO STANDARD, REGIONALE E STATALE ... 74

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3) LA RIFORMA GELLI: GLI ASPETTI COSTITUZIONALISTICI. ... 85

3.1) PREMESSA: LE NOVITA’ INTRODOTTE DALLA LEGGE GELLI. ... 85

3.2) LA SICUREZZA DELLE CURE (ART. 1). ... 89

3.2.1) GLI ANTECEDENTI NAZIONALI ... 91

3.2.2) I PRECEDENTI EUROPEI ... 93

3.2.3) LA SICUREZZA DELLE CURE COME PARTE COSTITUTIVA DEL DIRITTO ALLA SALUTE ... 100

3.3) I NUOVI ORGANI INTRODOTTI DALL’ART. 2 ... 105

3.3.1) IL DIFENSORE CIVICO REGIONALE ... 107

3.3.2) I CENTRI REGIONALI PER LA GESTIONE DEL RISCHIO SANITARIO E LA SICUREZZA DEL PAZIENTE ... 110

3.4) L’OSSERVATORIO NAZIONALE DELLE BUONE PRATICHE SULLA SICUREZZA NELLA SANITA’ (ART. 3) ... 114

3.5) LA TRASPARENZA DEI DATI (ART. 4) ... 120

3.6) LE LINEE GUIDA E LE BUONE PRATICHE CLINICO-ASSISTENZIALI (ART. 5) ... 123

3.6.1) LE LINEE GUIDA ... 125

3.6.2) UN ESEMPIO DI LINEE GUIDA: LE LINEE GUIDA AIOM 2019 ... 131

3.6.3) LE BUONE PRATICHE CLINICO-ASSISTENZIALI ... 137

3.6.4) CHIOSA FINALE ... 139

4) POSSIBILI CONSEGUENZE PUBBLICISTICHE DERIVANTI DALL’APPLICAZIONE DELLA NUOVA RIFORMA. PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’ ... 141

4.1) LE CONSEGUENZE PUBBLICISTICHE, ALLA LUCE ANCHE DI ALCUNI CASI GIURISPRUDENZIALI ... 141

4.2) PROFILI DI POSSIBILE INCOSTITUZIONALITA’ IN MATERIA DI RESPONSABILITA’ DEL MEDICO ... 148

4.2.1) UNA BREVE PREMESSA: LA NATURA DELLA RESPONSABILITA’ MEDICA ... 148

4.2.2) IL SUPERAMENTO DELLA RESPONSABILITA’ DA CONTATTO ED IL CONTRASTO CON IL PRINCIPIO DI PROSSIMITA’ ALLA PROVA ... 151

4.2.3) IL DOPPIO REGIME DI RESPONSABILITA’ ED IL POSSIBILE CONTRASTO CON L’ART. 3 COST. ... 152

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5 4.3.1) ALCUNI PROBLEMI DI COSTITUZIONALITA’ DEI

FENOMENI DI PRODUZIONE PRIVATA DI NORME

GIURIDICHE, CON RIFERIMENTO ALLE LINEE GUIDA ... 156

4.3.2) IL RISPETTO DELLE REGOLE DEL GIUSTO PROCEDIMENTO ... 159

CONCLUSIONI ... 162

1) PREMESSA ... 162

2) CONSIDERAZIONI FINALI ... 170

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INTRODUZIONE

La presente tesi ha, quale obiettivo principale, quello di analizzare la legge n. 24/2017 (c.d. “legge Gelli”) da un punto di vista pubblicistico e costituzionalistico. In particolare, sarà importante osservare come molte delle novità introdotte dal punto di vista dei principi generali, pur non essendo tra le più studiate dell’intera riforma, assumeranno una rilevanza tale da condizionare praticamente tutti i settori sui quali è intervenuta la novella1. Ad ogni modo, per comprendere nel migliore dei modi la portata riformatrice della suddetta legge, sarà necessario in precedenza analizzare l’evoluzione che ha avuto nel corso del tempo la tutela della salute.

A questo proposito, bisogna riconoscere che, se è vero che questa materia ha iniziato ad essere disciplinata in maniera ampia e diffusa soltanto dall’entrata in vigore del testo costituzionale, è vero anche che già era emersa all’interno dei precedenti contesti storici. Difatti, nel primo capitolo, l’obiettivo sarà quello di indagare retrospettivamente quella che è stata nel tempo l’evoluzione della tutela di questo fondamentale diritto, partendo da un periodo storico risalente quale l’epoca romana, per passare, in seguito, ai periodi delle grandi pestilenze, fino ad arrivare ai giorni nostri. Nello specifico, questo capitolo intende analizzare la situazione del secolo scorso, in quanto, durante il Novecento, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, si sono riscontrati i più significativi passi in avanti sul tema della tutela della salute. Nello specifico, devono essere analizzate le più significative novità che, decennio dopo decennio, sono state apportate in materia; a tal fine, è necessario osservare come, durante gli anni ’50, si sia arrivati all’istituzione del Ministero della Sanità2, così

1 Si pensi, a titolo di esempio, all’importanza assunta dalle linee guida per la definizione della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria. 2 Oggi Ministero della Salute.

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come deve meritare attenzione la c.d. “riforma ospedaliera”, che porterà, sul finire degli anni ’70, alla creazione del Servizio Sanitario Nazionale con legge n. 833/1978. In conclusione al capitolo serve che la riflessione si sposti sui c.d. processi di regionalizzazione ed aziendalizzazione degli anni ’90, per osservare poi, infine, in maniera rapida, la riforma del Titolo V° del 2001.

Ad un simile primo capitolo né seguirà un secondo dedicato esclusivamente all’analisi dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che rappresentano una specificazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), previsti all’interno dell’art. 117 Cost. I LEA, che altro non descrivono che quelle prestazioni e quei servizi che il Servizio Sanitario Nazionale deve erogare a tutti i cittadini, devono essere esaminati allo scopo di analizzarne l’attuazione da parte delle diverse Regioni, nonché il loro rapporto con il vincolo economico-finanziario, previsto anche a livello europeo. Inoltre, è opportuno dedicare un paragrafo a parte ai decreti presidenziali che si sono occupati di definirli: in quest’ottica, in prima battuta deve essere analizzato il D.P.C.M. 29 novembre 2001, poi, più sommariamente, il D.P.C.M. 23 aprile 2008 nonché, infine, il D.P.C.M. 12 gennaio 2017, ovvero quel decreto presidenziale che attualmente regola la materia.

Il terzo capitolo, invece, rappresenta la parte centrale del nostro elaborato, in quanto il suo fine è quello di analizzare le più significative modifiche introdotte dalla legge n. 24 del 2017 (c.d. “legge Gelli-Bianco”) per quanto riguarda l’ambito pubblicistico. A tal proposito, le novità non inerenti a questa tematica apportate da tale riforma devono essere richiamate velocemente, mediante un breve paragrafo ad esse dedicato. Successivamente, sarà fondamentale approfondire l’esame dei primi cinque articoli della predetta legge, che trattano temi molto importanti quali, nell’ordine, la sicurezza delle cure (art. 1), l’attribuzione della funzione di garante per il diritto alla salute al Difensore civico regionale e provinciale, l’istituzione del Centro per la

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gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente (art. 2), l’istituzione dell’osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (art. 3), la trasparenza dei dati (art. 4) nonché, infine, le linee guida e le buone pratiche clinico assistenziali (art. 5). In particolare, è importante che sia approfondito quest’ultimo argomento (ovvero delle linee guida), perché permetterà di spostare l’attenzione sul quarto ed ultimo capitolo del nostro elaborato. Infine, per comprendere meglio le funzioni e le finalità delle predette linee guida, deve essere dedicato un paragrafo, nello specifico, all’analisi delle linee guida AIOM per il 2019.

In conclusione, nell’ultimo capitolo, si deve procedere all’analisi di due distinti argomenti, entrambi connessi, in qualche modo, alle predette linee guida. In particolare, tramite il primo cercheremo di analizzare le conseguenze pubblicistiche relative alle modifiche immesse dalla legge Gelli, partendo dalla verifica di alcuni casi di giurisprudenza, per osservare come il mancato rispetto delle linee guida non sempre sia sufficiente per poter affermare la responsabilità del medico, allo stesso modo per cui, specularmente, l’attenersi alle linee guida non permette all’esercente la professione sanitaria di esentarsi in ogni caso da responsabilità. Nel paragrafo successivo, invece, dovremo osservare alcuni possibili profili di incostituzionalità introdotti dalla riforma, partendo, per prima cosa, da una rapida indagine sul tema della responsabilità medica, per poi esplorare le tematiche dei possibili conflitti della legge Gelli con gli articoli 3 e 24 Cost. Infine, prima di esaminare le conclusioni alle quali ci avrà condotto questo elaborato, dovranno essere valutati anche altri profili di possibile contrasto della riforma con la carta costituzionale, inerenti ai fenomeni di produzione di norme private, con riferimento alle linee guida, nonché al rispetto dei principi sul giusto processo.

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1) L’EVOLUZIONE STORICA DELLA TUTELA

DELLA SALUTE IN ITALIA: DAI ROMANI FINO

ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2001.

1.1) DALLE ORIGINI FINO AI PRIMI ANNI ‘40

Il tema della tutela della salute, nella sua fase “embrionale”, era rappresentato dalla tutela igienico-sanitaria ed emerse addirittura in epoca romana, in quanto già in quegli anni vigevano leggi che regolavano le fognature, la nettezza urbana, la manutenzione delle strade e lo svuotamento dei pozzi neri. Gli ospedali, intesi nel senso odierno del termine, non esistevano ancora: erano presenti soltanto

valetudinaria3, ovvero infermerie nelle quali i patrizi curavano familiari e schiavi, e medicatrinae, luoghi in cui i malati venivano tenuti in osservazione da parte dei medici.

La Chiesa cattolica, dopo la caduta dell’Impero Romano, è stato l’ente che ha dovuto preoccuparsi di risolvere i problemi riguardanti l’assistenza sanitaria. Nello specifico, durante il Medioevo, in Italia, si consolidarono una serie di normative sull’igiene pubblica, inerenti a disposizioni circa le fiere ed i mercati, il deflusso di acque sporche, i trasporti e il commercio di derrate, la bonifica di terre paludose, la pulizia delle piazze e la costruzione di acquedotti, anche se queste misure venivano prese non tanto in un’ottica “sanitaria”, quanto nell’ottica di rispondere ad esigenze di prelievo fiscale. Con il Cristianesimo, in seguito, nacque la pratica dell’assistenza caritativa ad ammalati e poveri: nei primi secoli dell’anno Mille, difatti, erano presenti gli Ordini e le Congregazioni religiose che amministravano strutture di ricovero per anziani, malati di malattie gravi e croniche e mentecatti, e furono proprio questi i primi impianti nei confronti dei

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quali iniziò ad essere utilizzata la parola “hospes”. Ogni struttura, in particolare, aveva un proprio nome: si parlava, difatti, di ptochia per quelle riservate ai poveri, di xenodochia per quelle dedicate agli stranieri, di brefotrofi per quelle che curavano i bambini, di

gerontocomi per quelle che prestavano assistenza agli anziani e, infine,

di orfanotrofi per le strutture che accoglievano bambini che erano sprovvisti di genitori. All’epoca tutti gli ospedali erano nati come opere pie da donazioni di benefattori, e il primo ospedale in Italia diretto da associazioni religiose (i c.d. “Ordini ospedalieri”) lo costruì Papa Innocenzo III° a Roma; ad esso seguirono gli ospedali di Firenze e Pistoia, dopodiché, a catena, gli ospedali proliferarono un po’ in tutta la penisola.

Il Trecento è stato il secolo caratterizzato dalla grande pestilenza, che colpì l’Italia tra il settembre del 1347 e l’agosto del 1348 e che fu una catastrofe di dimensioni enormi: a causa di essa morì circa 1/5 della popolazione che viveva all’epoca nella nostra penisola, che contava allora 11 milioni di abitanti4. Le prime “risposte” alla grande tragedia

rappresentata dalla peste del ‘300 furono fuga ed aggressività, comportamenti istintivi di reazione all’angoscia provocata dalla morte che si andava diffondendo in maniera incontrastabile. Con la venuta della pestilenza si manifestò da subito la necessità di separare dal resto della comunità i malati, nei cui confronti furono prese misure rigide, come l’espulsione dalla città e l’impossibilità di praticare funerali ai morti a causa della peste; si aveva, inoltre, un obbligo di denuncia della malattia, mentre le persone che avevano assistito i malati erano obbligate a restare fuori dalla città per almeno 10 giorni. In questo periodo storico, ad Orvieto, si puniva lo sciacallaggio nelle case abbandonate, e fu inserita l’obbligatorietà di annoverare, tra i controllori della peste, anche un medico, reclutato con un incarico di

4 G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea

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sorveglianza sanitaria civile. Nel 1377 nacque, a Ragusa, l’istituto della quarantena, ritenendosi allora che il quarantesimo fosse l’ultimo giorno nel quale potesse manifestarsi una malattia così acuta come la peste, e attorno al 1423 nacquero i primi lazzaretti, luoghi di ricovero a spese dello Stato dedicati alla cura dei malati di peste, all’interno dei quali i malati dovevano trascorrere il periodo di quarantena. Il nome derivava dal primo lazzaretto, realizzato a Venezia sull’isola di Santa Maria di Nazareth, ma rapidamente i lazzaretti si diffusero anche nel resto d’Italia, dovendo tutti rispettare alcune norme inerenti alla distanza dal centro abitato per evitare il contagio. È evidente come, in quest’epoca, non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa, la salute non fosse vista propriamente come un diritto che lo Stato si faceva carico di tutelare, perché i municipi e le congregazioni caritatevoli sarebbero intervenuti solo nel caso di pubblica indigenza: la salute, invece, veniva ancora percepita come una condizione personale, e la sua tutela rappresentava un’iniziativa privata. La cura della malattia, in altri termini, assolveva ad esigenze di ordine interno e non di sanità pubblica5.

A Milano, poco dopo l’inizio del loro governo, i Capitanei et

Defensores della Repubblica Ambrosiana emisero, nel settembre 1447,

un decreto pro hospitalibus et pauperis alogiandis, nominando in seguito i deputati sopra le provvisioni dei poveri, per rendere più incisiva l’assistenza tramite il controllo delle amministrazioni ospedaliere e dei modi di gestione dei possedimenti fondiari. Il 9 marzo 1448 l’arcivescovo Rampini nominò una commissione di ventiquattro delegati per sovrintendere all’erogazione delle entrate, accertandosi che fossero destinate solo agli assistiti. L’ordinamento rampiniano è stato importante sotto il profilo giuridico-amministrativo, poiché ha dettato alcune norme che hanno regolamentato compiti, funzioni e comportamenti degli amministratori ospedalieri, modificando i criteri

5 G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea

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di gestione degli ospedali. La soluzione rampiniana contribuì alla proliferazione degli ospedali6.

Nel Cinquecento, invece, il problema della salute da difendere si intrecciava con quello della prevenzione della povertà. Dalla metà del Cinquecento, infatti, gli Uffici di sanità italiani erano istituti molto imitati dal resto d’Europa, e contribuirono a salvaguardare, nel modo più unitario possibile, la tutela di tutta la penisola dal punto di vista sanitario, anticipandola di secoli.

Nel ‘600 una buona parte dei medici militava fuori dai ranghi della sanità pubblica: basti pensare, difatti, che a Milano soltanto una trentina di essi prestavano la loro opera nella pubblica amministrazione. Ad ogni modo, in un secolo di grandi trasformazioni come il Seicento ebbe inizio il lungo percorso verso la formazione dell’ospedale moderno, inteso quale luogo elettivo di diagnosi e cura. Dalla metà del XVII° secolo molti visitatori stranieri iniziarono a celebrare la grandezza degli ospedali in Italia, parlando di essi come di “palazzi principeschi”7. In questo arco temporale, l’organizzazione interna dell’attività ospedaliera non aveva ancora la struttura piramidale che l’avrebbe caratterizzata successivamente.

In ogni caso, abbiamo potuto constatare come, fino a tutto il Settecento, la salute abbia continuato a raffigurare un fatto personale al quale ciascun privato ha sempre dovuto provvedere a proprie spese. La cura era indirizzata solamente a cercare di tamponare la malattia, senza preoccuparsi né di ciò che accadeva prima né di quel che sarebbe potuto succedere dopo, mentre salute, sanità ed igiene rimanevano estranei all’organizzazione sociale.

6 G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea

alla Guerra Mondiale 1348-1918, Bari, Editori Laterza, 1987, pp. 54 ss.

7 Così si espresse J. Ray, secondo quanto riportato da G. COSMACINI, Storia della

medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla Guerra Mondiale. 1348-1918, Bari, Editori Laterza, 1987, p. 194.

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Durante l’800, in tutta Europa, si ebbero importanti cambiamenti sociali, culturali e politici, e ciò provocò, dapprima in Inghilterra, laddove Sir. E. Chadwick attuò il programma di risanamento delle principali città inglesi ed istituì, nel 1848, il Servizio nazionale di sanità pubblica inglese, e poi nel resto d’Europa, un interesse sempre più crescente verso il tema della tutela della salute.

Invero, osservando il comportamento degli altri paesi europei, è da tener presente come in Francia, con la Rivoluzione, si sia avuta, nel 1789, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nella quale si proclamò solennemente che il diritto alla salute era un bene non solo del singolo, ma anche della società. Durante l’epoca napoleonica si ebbe la c.d. epoca d’oro della vaccinazione, ed anche nella Repubblica Cisalpina furono promosse campagne vaccinali che interessarono in una decina di anni (1800-1810) pressoché 1.5 milioni di persone8. Durante la Restaurazione (1815-1830), tuttavia, le vaccinazioni furono soppresse. Da metà ‘800 la Francia diventò un punto di riferimento importante per tutte le politiche sociali che attuavano un contributo statale alle organizzazioni previdenziali volontarie esistenti.

In Germania, invece, a fine Ottocento, la questione sociale assunse

maggiore importanza per merito dello sviluppo

dell’industrializzazione, e, nel 1883, fu istituita per gli operai l’assicurazione obbligatoria contro le malattie, prevedendosi in questa maniera che un operaio avesse diritto, in caso di malattia, ad un’indennità per le prime tredici settimane. Nel 1885, in seguito, fu istituita l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro a totale carico del datore di lavoro; in caso di morte, la vedova avrebbe ricevuto il 60% dello stipendio. Nel 1889 si ebbe, infine, la legge per la tutela della vecchiaia e dell’invalidità.

8 Il diritto alla salute nella storia e nei sistemi sanitari, in unife.it, 7 aprile 2016, slide 15.

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In Italia la situazione, durante l’Ottocento e prima dell’Unità, era critica: basti pensare, ad esempio, al fatto che in media si vivesse circa 16/17 anni in meno rispetto a quel che vivevano in un paese più avanzato dal punto di vista sanitario come la Svezia9. Per conferire

organicità alla materia fu fondamentale la legge n. 2248/1865, ovvero una delle leggi d’unificazione, con la quale le competenze in ambito sanitario furono affidate al Ministro dell’Interno in sede centrale ed a Prefetti e Sindaci a livello periferico. L’allegato C della suddetta legge prevedeva, inoltre, l’istituzione del Consiglio Superiore di sanità quale organo di consulenza del Ministro dell’Interno edei consigli provinciali sanitari, ai quali era attribuito il compito di vigilare sulla conservazione della salute pubblica. Si prevedeva che, tra le spese obbligatorie del Comune, dovessero rientrare anche quelle per il servizio sanitario per i poveri, mentre ai consigli provinciali era affidato il mantenimento dei mentecatti. Le Ferrovie dello Stato ed il Ministero della guerra, divenuto poi Ministero della Difesa, disponevano dei propri servizi sanitari. Il servizio di sanità marittima, invece, ai sensi del r.d. n. 2289/1865, passava alle dipendenze del Ministero dell'interno.

Dopo alcune modifiche scarsamente rilevanti, si arrivò ad un riassestamento del sistema con la legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (c.d. “legge Pagliani-Crispi”), per la tutela dell'igiene e della salute pubblica, cui fece seguito il regolamento approvato con r.d. 9 ottobre 1889, n. 6442. Con questa legge, in particolare, si imponeva una prima organizzazione nei servizi sanitari, nell'esercizio delle professioni ad essi attinenti, nei servizi di profilassi e d'igiene dei cittadini e dei generi alimentari. In seguito, la materia sanitaria fu riorganizzata con il testo unico delle leggi, approvato con r.d. 1° agosto 1907, n. 636, senza alterare troppo la struttura dell'organizzazione precedente. Con successivi provvedimenti furono in seguito creati e posti alle

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dipendenze della direzione generale alcuni istituti aventi la finalità di curare e studiare le c.d. “malattie sociali”10: nel 1918, con d.lgt. 4 aprile n. 483, furono creati i comitati provinciali antitubercolari, mentre con il d.lgt. 17 ottobre n. 1691 dello stesso anno, il Comitato centrale antitubercolare. Questi comitati furono successivamente soppressi per effetto del r.d. 30 dicembre 1923, n. 2889, che riformò gli organi consultivi e periferici dell’amministrazione sanitaria, contribuendo al proliferare di disposizioni miranti ad un decentramento di funzioni amministrative e tecnico-sanitarie dagli organi dell'amministrazione centrale a quelli dell'amministrazione provinciale ed istituendo i laboratori provinciali di igiene e profilassi. Con r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, in seguito, fu approvato un nuovo testo unico delle leggi sanitarie, anche se il legislatore non intaccò la struttura dell'ordinamento della sanità pubblica che rimase, dunque, costituita da organi centrali: la Direzione generale della sanità rimaneva, ad ogni modo, alle dipendenze del Ministero dell'interno, ed era affiancata dal Consiglio superiore; gli organi periferici erano ancora il prefetto, il consiglio provinciale di sanità, il medico provinciale, i laboratori provinciali di igiene e profilassi, gli ufficiali sanitari marittimi, di frontiera e ora anche degli aeroporti, il sindaco e l'ufficiale sanitario. Accanto all'assistenza gratuita, riservata agli indigenti, si sviluppò quella a base assicurativa; difatti, dal 1929, furono istituite: la Federazione nazionale delle casse mutue lavoratori agricoli, la Cassa nazionale malattie lavoratori del commercio, la Federazione casse mutue lavoratori dell'industria (nel 1934) e, infine, l'Istituto nazionale lavoratori del credito (nel 1938). Dalla fusione di questi istituti nacque, nel 1943, l'INAM11, mentre nel

10 Ministero dell’Interno. Direzione generale della sanità pubblica, in Archivio

centrale dello stato.

11 “Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie”; era un ente pubblico al quale veniva affidato la gestione dell’assicurazione obbligatoria, per provvedere, qualora i lavoratori dipendenti privati o i loro familiari fossero stati malati, alle cure mediche. Fu sciolto nel 1977, in previsione della nascita del Servizio Sanitario Nazionale.

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1942 era stato istituito l'ENPAS12. Con r.d. 6 luglio 1933, n. 1033, fu creato l'INAIL13, mentre nel 1935, con r.d.l. del 4 ottobre, n. 1827, l'INPS14. In questo periodo storico fu la mutualità a contribuire all’evoluzione di un simile fenomeno, intrinsecamente correlato allo sviluppo industriale. In questo modo, iniziarono a prendere forma le società di mutuo soccorso, inizialmente finanziate da soci-lavoratori e benefattori privati. L’ascesa del Fascismo mutò le carte in tavola per quel che riguarda il mutualismo operaio, che fu sottoposto al controllo statale del regime. Nel 1943 fu creato l’Ente Mutualità Fascista – Istituto per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori - e in esso furono accorpate tutte le casse, istituti ed enti di assicurazione sanitaria. Questo sistema, tuttavia, si limitava a far emergere le disuguaglianze, fornendo a ciascuno una protezione proporzionale ai contributi versati ed alla posizione assunta nel mercato del lavoro, e ciò comportò, per i più poveri, l’impossibilità di accedere alle adeguate cure. Con la caduta del Fascismo fu istituito l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità pubblica (ACIS)15, che dipendeva dalla Presidenza del Consiglio dei

ministri; esso aveva compiti di tutela della salute pubblica e di coordinamento delle organizzazioni sanitarie, quali la Croce Rossa e l’ONMI (Opera Nazionale per la tutela della Maternità e dell’Infanzia). In conclusione, possiamo notare come, in questo periodo storico, la salute in Italia fosse concepita ancora come semplice assenza di una

12 “Ente Nazionale Previdenza e Assistenza ai dipendenti Statali”; era un ente pubblico che provvedeva alla previdenza ed all’assistenza dei dipendenti delle amministrazioni statali e dei loro familiari. È stato sciolto nel 1977, in vista della nascita del Servizio Sanitario Nazionale.

13 “Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro”; ente pubblico non economico sottoposto alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

14 “Istituto Nazionale della Previdenza Sociale”; ente previdenziale presso il quale sono obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori dipendenti, pubblici o privati, nonché la maggior parte dei lavoratori autonomi privi di una propria cassa previdenziale autonoma; è sottoposto alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 15 Mediante d.lgt. 12 luglio 1945, n. 417.

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patologia, e come i rapporti tra Stato ed individuo ostacolassero il pieno sviluppo di un diritto alla tutela della salute dell’individuo.

1.2) LA TUTELA DELLA SALUTE IN COSTITUZIONE

Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, la quale al suo interno dedica specificamente l’articolo numero 32 alla tutela del diritto alla salute, il quale così recita: “1. La

Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. 2. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

È rilevante il fatto che il diritto alla salute venga qualificato per prima cosa come diritto fondamentale, andando in questo modo a recuperare la definizione che di esso era stata data nel Preambolo del Trattato istitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1946. Inoltre, è da rilevare come in questo articolo vi sia un interesse della collettività a preservare la salute intesa quale bene comune, e ciò fa sì che all’interno di esso si ritrovino almeno due posizioni giuridiche: da un lato, in una dimensione individuale, il diritto alla salute è visto come diritto all’integrità psico-fisica e come diritto a prestazioni terapeutiche erogate da organi pubblici; dall’altro, in una dimensione di tutela dell’interesse collettivo, permette l’apposizione di vincoli alle scelte individuali che possono pregiudicare la salute vista come bene comune indivisibile16.

Per quanto più interessa la nostra trattazione, il “versante positivo” dell’art. 32 Cost. riconosce un diritto a ricevere cure in capo ad ogni

16 F. CLEMENTI, L. CUOCOLO, F. ROSA, G. E. VIGEVANI (a cura di), La

Costituzione italiana: commento articolo per articolo, Bologna, Il Mulino, 2018, p.

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individuo, impegnando lo Stato ad assicurare terapie gratuite agli indigenti. In particolare, il diritto ai trattamenti sanitari è tutelato come diritto fondamentale nel suo “nucleo irrinunciabile del diritto alla

salute, protetta dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto” 17. Ad ogni modo, il termine “indigenza” non va inteso come totale indisponibilità di mezzi materiali, ma, in termini relativi, come indigenza medica, rapportabile all’impossibilità oggettiva di contribuire al pagamento di cure costose ma imprescindibili per la sopravvivenza. Al di fuori di tale nucleo, il diritto di ricevere trattamenti sanitari è garantito ad ogni persona come diritto costituzionale condizionato all’attuazione che di esso dà il legislatore, tramite il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con altri interessi costituzionalmente protetti.

Un passo importante verso l’obiettivo di garantire per tutti un livello minimo di prestazioni sanitarie in misura eguale è stato raggiunto con la legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che ha fornito attuazione concreta al diritto di ricevere assistenza sanitaria, ponendone il finanziamento a carico della collettività. Inoltre, come analizzeremo meglio in seguito, l’art. 117, comma 2, lettera m) Cost. definisce i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, volendo così evitare che le Regioni possano fornire servizi inferiori ad alcuni standard minimi imposti a livello statale. I livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA), in particolare, obbligano le Regioni a compiere scelte organizzative e di bilancio che devono garantire lo stesso trattamento a tutti i soggetti

17 Cfr. sent. Corte cost. nn. 432/2005, 233/2003, 252/2001, 509/2000, 309/1999, 267/1998.

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che versino nella medesima situazione di bisogno, in virtù del principio di eguaglianza sostanziale18.

L’erogazione delle prestazioni è subordinata ad una formale prescrizione a cura del Servizio Sanitario Nazionale, tuttavia il privato assistito ha un diritto soggettivo alla scelta del medico e del luogo di cura19; ha, inoltre, diritto a ricevere prestazioni sanitarie da parte di strutture private non convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale nel caso in cui queste strutture siano le sole a disporre delle attrezzature necessarie per prestazioni dal costo elevato, e qualora le analisi in questione si rivelino indispensabili20. Anche tale diritto, però, non è incondizionato, in quanto si deve mantenere in equilibrio la spesa pubblica in relazione alle risorse disponibili. In ogni caso, il bilanciamento tra diritto alla salute e vincoli di spesa non può intaccare mai il nucleo irriducibile del diritto.

Tuttavia, all’interno del diritto alla salute, è da ritenersi incluso anche un profilo “negativo”, inteso quale libertà di non curarsi, che deriva, secondo la Corte costituzionale, dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dall’art. 32, 2° comma Cost. Sul punto, è utile ricordare la sentenza n. 438/2008 della Corte Costituzionale, la quale ha precisato che “il consenso informato, inteso come espressione

della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge””.

Dunque, salvi i trattamenti sanitari obbligatori, è illegittimo ogni

18 Sent. Consiglio di Stato n. 3297/2016.

19 Sent. Corte di Cassazione a Sezioni unite n. 15717/2001. 20 Sent. Corte costituzionale n. 992/1988.

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trattamento somministrato senza il consenso o con l’espresso dissenso del paziente, ed il medico che somministri un simile trattamento contro la volontà dell’interessato risponderà per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Il secondo comma dell’art. 32 Cost. consente, invece, di imporre trattamenti sanitari anche contro la volontà del paziente, qualora ciò serva per “preservare lo stato di salute degli altri”21. I trattamenti

sanitari obbligatori sono previsti per le patologie mentali22 e per le vaccinazioni per i nuovi nati. La vaccinazione obbligatoria del minore o dell’incapace d’intendere e di volere non trova un limite nel rifiuto dei genitori e non può neppure essere configurata come trattamento coattivo “quando sia disposta, in loro sostituzione ed anche contro la

loro volontà, dal giudice dei minori”23. Oltre alle vaccinazioni dei nuovi nati, vi sono le coperture vaccinali e gli accertamenti sanitari obbligatori imposti agli adulti che svolgono attività rischiose per la salute dei terzi, come coloro che prestano servizi negli ambiti della sanità, assistenza o pubblica sicurezza24. La Corte costituzionale, inoltre, ha precisato che “nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria

salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri” 25. Secondo la

Corte, dunque, il trattamento sanitario è finalizzato anche al miglioramento dello stato di salute della persona alla quale quel trattamento è somministrato, e non solo al mantenimento della salute pubblica. In altri termini, un trattamento sanitario può essere imposto solo qualora non incida in maniera negativa sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato; quando, invece, il suddetto trattamento produce conseguenze spiacevoli, il danneggiato ha diritto ad un equo

21 Sent. Corte costituzionale n. 307/1990. 22 Legge n. 180/1978, c.d. “legge Bussaglia”. 23 Sent. Corte costituzionale n. 132/1992.

24 Così si è espressa la Corte costituzionale nella sent. n. 399/1996, su di un rifiuto di un’operatrice sanitaria di sottoporsi ad esami di accertamento dell’infezione da HIV. 25 Sent. Corte costituzionale n. 118/1996.

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indennizzo26, riconosciuto non solo quando la vaccinazione avrebbe dovuto essere obbligatoria, ma anche quando essa sarebbe stata fortemente consigliata dalle autorità pubbliche sanitarie27. Nel caso in cui, invece, il trattamento sanitario, oltre ad essere obbligatorio, sia anche coattivo, ovvero qualora venga somministrato con l’uso della forza, il dettato dell’art. 32 si intersecherebbe con quello dell’art. 13, che consente restrizioni della libertà personale nei soli casi e modi previsti dalla legge e solo tramite un atto motivato dell’autorità giudiziaria, andandosi così a determinare la “prevalenza” dell’art. 13, come per il caso di ricovero coattivo di un soggetto sospettato di malattie mentali28 o di prelievo del sangue coattivo a fini di perizia29. In ogni caso, contro provvedimenti che dispongono trattamenti sanitari coercitivi è sempre previsto il ricorso in Cassazione per violazione di legge, secondo quanto previsto dall’art. 111, 7° comma.

1.3) IL PERIODO 1948-1958: L’ISTITUZIONE DEL MINISTERO DELLA SANITA’

Per mezzo dell’avvento dell’art. 32 Cost. aumentarono le speranze, nel campo dell’assistenza, di superare il sistema centralistico e mutualistico-corporativo ereditato dal Fascismo. A tal proposito, fu la Consulta veneta di sanità, operante all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) del Veneto, ad analizzare, tramite una commissione, l’ordinamento sanitario esistente, nonché le sue carenze, acuite dalla guerra, indicando i “concetti ispiratori della riforma

proposta” e l’inquadramento generale della “nuova organizzazione sanitaria”30. Si cercava, in questa maniera, di configurare, tramite il

26 Sent. Corte costituzionale n. 27/1998. 27 Sent. Corte costituzionale n. 107/2012.

28 Sent. Corte costituzionale nn. 74/1968, 29/1973, 223/1976, 54/1986, 471/1990. 29 Sent. Corte costituzionale n. 238/1996.

30 CLN REGIONALE VENETO (a cura di), Atti della Consulta Veneta di Sanità, Padova, Zanocco, 1945, pp. 55-56 e 61.

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decentramento amministrativo e la gestione loco-regionale della sanità, un servizio sanitario pronto a rispondere ai bisogni della popolazione. Con la caduta del governo Parri, tuttavia, il “progetto di riforma” fu accantonato, e poco tempo dopo, nel febbraio 1948, fallirono anche le mozioni elaborate dalla “Commissione D’Aragona”31, la quale si occupò, tramite un’apposita sottocommissione, della ristrutturazione della sanità. In particolare, il piano D’Aragona prevedeva l’estensione dell’assicurazione di malattia a tutti i lavoratori, nonché l’estensione delle prestazioni sanitarie ai familiari degli assicurati e ai pensionati. Questo piano, però, escludeva ancora dall’assistenza sanitaria “proprio

quelle categorie di cittadini…che di una tutela del genere…avrebbero per converso maggior bisogno”, prevedendo invece l’inclusione “delle categorie del lavoro indipendente che, in quegli anni, sembrano invece ancora piuttosto restie… …a sottoporsi a forme solidaristiche obbligatorie”32. Pur con i suoi punti deboli, si trattava senza dubbio di

un piano innovativo che, tuttavia, venne rigettato a causa dei diverbi tra lavoratori e datori di lavoro. Quindi, inizialmente, si scelse di non cambiare il tipo di assistenza e previdenza, optando per la continuazione nel vecchio mutualismo.

Negli anni Cinquanta, tuttavia, non si erano riscontrate ancora grandi riforme dal punto di vista sanitario, anche se, in questo periodo, furono rafforzati gli istituti e gli enti preesistenti: difatti, ai tre massimi enti, ovvero l’INAM per le malattie “generiche”, l’INPS per la tubercolosi e per l’invalidità di vecchiaia e l’INAIL per gli infortuni sul lavoro e le

31 Così chiamata dal nome del suo presidente, Ludovico D’Aragona, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale durante i governi De Gasperi I e II.

32 F. ILLUMINATI, La tutela della salute e l’assicurazione di malattia, Firenze, Vallecchi, 1970, p. 28.

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malattie professionali, si aggiunsero anche l’INADEL33, l’ENPDEP34, l’ENPALS35 e l’ENPAS36.

Nel 1957 ebbe inizio la c.d. “piccola riforma”, che aveva l’intenzione di cambiare la situazione, che persisteva dal 1949, dei prodotti medicinali prescrivibili, stabilita tramite un elenco dell’INAM, che comprendeva tutti i farmaci fondamentali. Per rendere più funzionale il sistema sarebbe bastato colmare i buchi dell’elenco, mantenendolo aggiornato, ed abolire ogni discriminazione ingiustificata; invece, dopo otto anni ed una compilazione lunghissima ed assai costosa, fu stilato un elenco con 17000 specialità medicinali, quando ne sarebbero state sufficienti appena 2500/300037.

Allo stesso tempo, il 1° febbraio 1956, in Senato, iniziò la discussione parlamentare, conclusasi poco più di un anno dopo, e ripresa alla Camera il 28 febbraio 1958, per l’istituzione del Ministero della Sanità Pubblica. Fu così che, un anno dopo la “piccola riforma”, con legge 269 del 13 marzo 1958, fu istituito il Ministero della Sanità, dotato di cinque direzioni generali, di un organico centrale con centinaia di dipendenti e di un’articolazione periferica che andava a diramarsi negli uffici dei medici provinciali e negli uffici sanitari dei Comuni. Come organo “tecnico-scientifico” aveva il Consiglio superiore di sanità, con funzioni decisionali. Tale Ministero diede una risposta efficace a quanti ormai da tempo già bramavano una direzione unica della politica sanitaria dell’Italia, ed il suo compito fondamentale era quello di attuare

33 “Istituto Nazionale Assistenza Dipendenti Enti Locali”, istituito nel 1925 e soppresso con l. 349/1977.

34 “Ente Nazionale di Previdenza per i Dipendenti da Enti di diritto Pubblico”. 35 “Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza ai Lavoratori dello Spettacolo”. 36 “Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza ai dipendenti Statali”, istituito con l. 22/1942 e soppresso nel 1994, andando a confluire nell’INPDAP.

37 Questo è quanto riteneva G. Frassanito, dirigente sanitario di una sede provinciale dell’INAM ai tempi della “piccola riforma”; cfr. G. COSMACINI, Storia della

medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, pp.

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l’art. 32 Cost. sovrintendendo ai servizi sanitari e provvedendo anche al loro coordinamento.

1.4) LA RIFORMA OSPEDALIERA

Agli albori degli anni ’60 la questione ospedaliera si configurava come questione tecnologica e pubblica: si pensava, difatti, ad una medicina che si potesse realizzare come servizio d’interesse collettivo che si evolvesse in dovere sociale, finalizzato all’assistenza. La crisi ospedaliera si aprì nel secondo dopoguerra, ed era riconducibile innanzitutto ad una carenza nella disponibilità di posti-letto ed attrezzature. Volendo elencare qualche numero, risulta evidente come il rapporto tra posti-letto ed abitanti in Italia fosse all’epoca uno dei più bassi in Europa, in quanto erano disponibili, in media, soltanto 3.76 posti-letto ogni 1000 abitanti; a ciò doveva aggiungersi anche il fatto che vi fosse una grande differenza anche all’interno delle diverse aree del nostro Paese, poiché al Nord il quoziente era di 5.32 posti-letto ogni 1000 abitanti, al Centro di 4.33 ed al Sud e nelle isole di appena 1.6438.

Per i malati cronici, lungodegenti o sempredegenti, la situazione era ancor peggiore, visto che a fronte di un quoziente europeo standard di 2 posti-letto per 1000 abitanti, il quoziente italiano era pari allo 0.50, ed anche in questo caso la situazione era peggiore al Sud e nelle isole, posti in cui si raggiungeva addirittura il quoziente di 0.07 posti-letto ogni 1000 abitanti39.

La crisi ospedaliera, in ogni caso, non era riconducibile soltanto a questa “crisi di mezzi” alla quale abbiamo fatto riferimento, lamentata

38 Per i numeri e le percentuali si veda A. TIZZANO, Gli istituti di cura in Italia, in

Notiziario dell’Amministrazione sanitaria, gennaio 1956. Cfr. G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza,

1994, p. 238.

39 Per i numeri e le percentuali si veda NUZZOLILLO, L’istituto ospedaliero, oggi, in Notiziario dell’Amministrazione sanitaria, marzo-aprile 1965. Cfr. G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, p. 238.

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anche da diversi vertici del mondo medico dell’epoca, poiché riguardava anche, e, forse, soprattutto, l’organizzazione, la programmazione e la regolamentazione del lavoro ospedaliero. Lo stato di dissesto in cui versavano molti ospedali era il frutto di una crisi normativa che l’Italia si portava dietro ormai da decenni, tant’è che, dal punto di vista legislativo, le strutture interne degli ospedali erano ancora “regolate dalla legge Crispi del 189040 sulle Opere Pie”41. Per dare

un’idea della crisi, basti pensare che, mentre nel 1930 i medici ospedalieri erano circa 20000 a fronte di un numero di pazienti annuo che sfiorava il milione, nel 1960, quando il numero di pazienti annuo era prossimo ai cinque milioni, il numero di medici ospedalieri era sceso a 1200042. Le ragioni di una simile fuga dagli ospedali andavano ricercate, probabilmente, nei criteri concorsuali arbitrari, nello stato giuridico insoddisfacente e nelle retribuzioni inadeguate.

Nel 1962 i medici ospedalieri scesero in piazza, dando vita ai c.d. “scioperi bianchi”, che scossero l’opinione pubblica ed il governo, rivendicando la stabilità di carriera e proponendo una riforma ospedaliera che mettesse al centro dell’assistenza sanitaria proprio l’ospedale, il quale doveva essere “un grande concentrato di uomini e

di mezzi attraverso il quale si esplica la parte più importante… …delle attività preventive, diagnostiche e terapeutiche di una moderna medicina ispirata a criteri sociali”. Si stava diffondendo l’idea di una

“riforma senza spese” 43, dato che la riforma ospedaliera non avrebbe

dovuto richiedere, in teoria, molti finanziamenti, proponendosi di tenere immutata la quota di bilancio destinata all’assistenza sanitaria. Si cercava, in particolare, di indirizzare il mondo sanitario verso una

40 Legge n. 6972/1890.

41 V. GHETTI, Guida CIBA per il giovane medico, Milano, CIBA, 1966, p. 185. 42 Le cifre sono indicate da G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità

nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, p. 240.

43 G. GIANNELLI e V. RAPONI, Libro bianco sulla riforma ospedaliera, supplemento del Notiziario dell’Amministrazione sanitaria, Roma, Tipografia regionale, dicembre 1965, pp. 6 ss.

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concezione giuridico-statale finalizzata ad intendere l’ospedale quale pubblico servizio prestato a tempo pieno. L’ospedale, negli intenti della riforma, avrebbe dovuto prendere le distanze da un modello di produttività sanitaria basato solo su atti riparativi “ad personam”, dovendosi rapportare anche “ad societatem”.

Nel 1964 ebbe inizio la c.d. “riforma ospedaliera”, grazie all’operato del medico Giovanni Berlinguer, il quale elaborò un piano44 che prevedeva un servizio sanitario ramificato su tutto il territorio nazionale tramite 2118 Unità Sanitarie Locali (USL), che avevano il dovere di svolgere attività igienico-preventive, di difesa ambientale e di erogare assistenza.

Nell’ottobre 1964 la Commissione Dogliotti per la riforma ospedaliera, insediata sei mesi prima dal ministro della sanità Mancini, con a capo il clinico chirurgo Achille Mario Dogliotti, portò a termine il proprio lavoro, e le conclusioni furono le seguenti: “La riforma ospedaliera,

pur dovendo inquadrarsi nella più vasta riforma sanitaria, ha una sua propria menzione costituzionale che vale a sottolinearne l’urgenza e l’importanza. Occorre procedere alla razionalizzazione del settore con il decentramento alle Regioni delle funzioni normative e amministrative. Il finanziamento del servizio dovrà essere assicurato con una quota parte del bilancio nazionale” 45. Questa relazione andò a prevedere, tra le cose più importanti della futura riforma, l’abbandono della concezione caritativa dell’assistenza ospedaliera.

Il ministro della sanità Mariotti, succeduto a Mancini, in una conferenza del febbraio 1965 disse che sarebbe stato opportuno creare la categoria degli enti ospedalieri come enti sanitari, cosicché avrebbero potuto esserci “ospedali su scala intercomunale, ospedali provinciali e

44 C.d. “piano Berlinguer”.

45 Passi tratti dal riassunto della relazione della Commissione Dogliotti, cfr. G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, p. 250.

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interprovinciali e ospedali regionali” 46. Nel luglio 1965 il progetto di Mariotti fu presentato al Governo, ed era basato fondamentalmente su quattro “pilastri”:

a) Per prima cosa, prevedeva la realizzazione degli enti sanitari ospedalieri, la cui caratteristica principale avrebbe dovuto essere il requisito della territorialità.

b) In seconda battuta, si cercava anche di erogare l’assistenza ospedaliera gratuitamente, ponendola a carico dello Stato tramite un fondo nazionale ospedaliero.

c) In seguito, prospettava l’elaborazione di piani ospedalieri regionali di durata quinquennale, coordinati tra loro tramite un piano ospedaliero nazionale.

d) Infine, si proponeva di dettare una nuova disciplina delle case di cura private.

La presentazione di questo progetto provocò la reazione da parte della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM), il cui presidente, Raimondo Bariatti, si rivolse ai medici italiani affinché si opponessero alle manovre di Mariotti, le quali, a suo dire, cercavano di porre fine all’autonomia degli ospedali italiani. Accanto a queste resistenze del mondo medico c’erano anche quelle di buona parte del mondo politico, che avrebbe voluto che ogni ospedale fosse rimasto un ente autonomo, sottraendo le case di cura private al criterio vincolante previsto dall’art. 24 dello schema di disegno di legge, che recitava: “Le

case di cura private sono sottoposte al controllo del Ministero della Sanità”. Questa fazione politica avrebbe bramato una riforma

ospedaliera intesa quale primo passo verso l’estensione del diritto al ricovero a tutti i cittadini, e così la pensava anche il ministro Mariotti, il quale diceva che “la riforma ospedaliera è un primo passo importante

46 Frasi riportate in G. GIANNELLI e V. RAPONI, Libro bianco sulla riforma

ospedaliera, supplemento del Notiziario dell’Amministrazione sanitaria, Roma,

Tipografia regionale, dicembre 1965, p. 111.

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verso un sistema di sicurezza sociale da attuarsi nel corso di un certo periodo di tempo” 47.

Dopo circa un paio di anni fu approvato il progetto di riforma ospedaliera, che diventò così la legge “Enti ospedalieri e assistenza

ospedaliera”, (c.d. “legge Mariotti”, dal nome del ministro

proponente), del 12 febbraio 1968, n. 132. A tal proposito si possono richiamare alcuni punti fondamentali fissati da questa riforma, quali:

a) La classificazione degli ospedali in zonali, provinciali e regionali.

b) Il trasferimento dei poteri sugli ospedali dal Ministero degli Interni a quello della Sanità.

c) La trasformazione degli ospedali da enti con finalità di diagnosi e terapia in enti con finalità sanitarie molto più estese.

d) L’inizio di una programmazione ospedaliera con attribuzione alle nascenti Regioni dei compiti di evidenziare i fabbisogni, pianificare ed istituire nuovi enti.

Questa nuova legge ha determinato, inoltre, un aumento esponenziale della frequenza dei ricoveri, che si sono addirittura triplicati dal 1951 ad oggi, allungando anche la durata media della degenza, tant’è che si arrivò a dire, ironicamente, che, se prima della riforma a scioperare erano stati i medici, dopo lo sarebbero stati i malati48. Le cause di un simile ingolfamento degli ospedali erano sia interne che esterne: dal primo punto di vista, difatti, sorsero problemi di raccordo tra i reparti di degenza, mentre fuori dall’ospedale molti ricoveri non avevano una sufficiente motivazione clinica, essendo dovuti all’invecchiamento progressivo della popolazione, tant’è che spesso persone anziane erano portate in ospedale solo perché ritenute “ingombranti” in casa dai

47 La frase del ministro Mariotti è tratta da G. GIANNELLI e V. RAPONI, Libro

bianco sulla riforma ospedaliera, supplemento del Notiziario dell’Amministrazione sanitaria, Roma, Tipografia regionale, dicembre 1965, p. 117.

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familiari. Il sovraffollamento degli ospedali cui si andò incontro in questo periodo era conseguenza di una visione miope della questione sanitaria e di una risposta soltanto parziale ad una tale questione. Questa classificazione degli ospedali in categorie ha aperto una lotta per ottenere la qualifica migliore anche da parte di ospedali che oggettivamente non avrebbero avuto i requisiti per ottenerla, e per far questo si ricorse alla creazione di nuovi reparti specialistici anche in zone in cui di tali reparti non vi era effettiva necessità.

In conclusione, i medici, tramite questa riforma, ottennero un’alternativa al tempo pieno, potendo optare per il tempo definito, un rapporto di lavoro che li coinvolgeva meno e che permetteva loro di osservare un orario ridotto, intrattenendo, al di fuori di questo orario, attività professionali extra-ospedaliere, in cambio di una decurtazione dello stipendio.

1.5) LA RIFORMA SANITARIA E GLI SVILUPPI SUCCESSIVI

Per tracciare a grandi linee gli sviluppi che ha avuto nel tempo la riforma sanitaria, la quale ha trovato il suo punto culminante con la legge 23/12/1978, n. 883, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, giova partire dagli inizi degli anni Settanta, periodo in cui, se è vero che vi era una stasi evidente a livello centrale, è vero anche che qualcosa si stava iniziando a muovere a livello regionale, dato che, poco tempo dopo l’istituzione delle Regioni, gli assessori regionali alla Sanità presentarono un documento in cui, dopo aver riaffermato l’articolazione centrale e periferica dell’istituendo Servizio Sanitario Nazionale, ribadirono le funzioni di prevenzione, cura e riabilitazione delle Unità Sanitarie Locali (USL). Una volta elaborato il documento, alcune Regioni iniziarono a legiferare seguendo le ambizioni della riforma, anticipando così il governo centrale: tra fine 1972 ed inizio

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1973 in Emilia-Romagna, in Friuli-Venezia Giulia ed in Lombardia furono creati i Consorzi di base, embrioni delle USL.

A questa spinta periferica seguì una mossa dal centro, durante il governo Rumor, da parte del ministro della sanità Luigi Gui, osteggiato da Luigi Bertoldi, che era in quel governo il ministro del lavoro e che riteneva l’iniziativa eccessivamente timida. Il successore di Gui, Vittorino Colombo, riuscì a portare in Parlamento, il 12 agosto 1974, il disegno di legge per la creazione del Servizio Sanitario Nazionale. A partire da questa data emerse un dibattito parlamentare sulle varie proposte susseguitesi nel tempo, e nel dicembre 1975 la Commissione Sanità intraprese l’esame del testo unificato, riportando però il tutto alle condizioni di partenza a seguito dello scioglimento anticipato delle camere.

Nel frattempo, con una sorta di “pre-riforma”, il Parlamento convertì in legge n. 386 del 17 agosto 1974 un regolamento governativo, fissando le “Norme per l’estinzione degli enti mutualistici nei confronti degli enti

ospedalieri” e decidendo il finanziamento della spesa ospedaliera e

l’avvio della riforma sanitaria. Così facendo, lo Stato si accollò i debiti accumulati dalle mutue nei confronti degli ospedali, e con il passaggio delle competenze in materia di assistenza ospedaliera alle Regioni dal 1° gennaio 1975, fu sancito il blocco delle convenzioni mutualistiche e fissato lo scioglimento delle mutue entro il 30 giugno 1977.

Il 23 dicembre 1978, Tina Anselmi, prima donna nella storia del nostro Paese a rivestire la carica di ministro della Sanità, appose la propria firma alla legge n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Questa legge, conosciuta come “legge di riforma sanitaria”, aveva come fine principale quello di rendere gratuitamente49 accessibili moltissime

49 Quando si dice che l’assistenza sanitaria “non costa nulla” all’assistito, si intende dire che esso non paga niente all’atto della prestazione, perché ha già versato in precedenza, tramite i contributi, quando doveva versare. Ad esempio, il lavoratore dipendente, pagando i contributi sulla busta-paga, rinuncia ad incassare una parte del

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prestazioni sanitarie a tutti i cittadini, operando un evidente salto di qualità rispetto al sistema precedentemente in vigore e superando il principio per il quale avevano diritto all’assistenza solo gli iscritti agli enti mutualistici. Il nuovo sistema doveva realizzarsi nelle strutture previste dalla legge, e ciò accadde grazie all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, definito dalla l. 833 come “il complesso delle

funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al ricupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Dalla riforma, dunque, è sorto un organismo che rappresenta un servizio svolto mediante un insieme di strutture rese efficienti dal punto di vista tecnico-scientifico grazie all’elevata specializzazione professionale del personale infermieristico e tecnico ed al profondo rafforzamento del controllo sui farmaci. Le funzioni di questo nuovo servizio, articolate a livello statale e regionale, si decentrano, a livello locale, nelle USL, modellate ognuna su un numero di cittadini variabile da 50.000 a 200.000, per servire efficacemente ai loro bisogni in vari campi, quale quelli della prevenzione delle malattie e degli infortuni, dell’educazione sanitaria, della sicurezza nel lavoro, della promozione della salute, della salvaguardia della salubrità ambientale e del superamento dell’arretratezza sanitaria.

Tuttavia, all’interno di questa riforma era evidente una lacuna di tipo economico-finanziario, dato che non erano stati indicati i tempi del passaggio dal sistema contributivo, tipico delle vecchie mutue, al sistema basato sul prelievo fiscale previsto dal nuovo ordinamento. Nell’ambito delle Strutture Amministrative Unificate di Base (SAUB), create temporaneamente per assicurare un passaggio soft dalle mutue

suo salario o stipendio per accantonarlo presso l’organizzazione previdenziale-assistenziale.

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alle USL, si ebbe un abbassamento, anziché un innalzamento, dei livelli di assistenza. L’attuazione della legge di riforma, dunque, non partì bene, e la legge stessa, almeno nelle sue prime battute, si dimostrò una buona legge che ebbe, tuttavia, una cattiva realizzazione50.

La legge 833/1978 ha ottenuto un consenso quasi unanime da parte del “paese reale”, anche se, in ogni caso, la sua importanza non è coincisa con il suo successo. Il Servizio Sanitario Nazionale fu inizialmente realizzato senza il coinvolgimento delle persone e senza stimoli all’autoeducazione sanitaria. Una parte cospicua del mondo medico degli anni ’80 dissentì dalla riforma e dal Servizio Sanitario Nazionale per come era stato strutturato. In particolare, il presidente della FNOM, Eolo Parodi, criticò l’indeterminatezza del piano sanitario nazionale 1980-82 che, a suo dire, lasciava troppo spazio alle Regioni nella definizione del piano stesso, facendo sì che si andasse a rischiare “una

grave eterogeneità sanitaria”, in contraddizione con uno dei grandi

obiettivi del Servizio, quale il superamento degli “squilibri

territoriali”51.

Il Servizio Sanitario Nazionale è un sistema complesso le cui “componenti” sono le USL, cui spetta il controllo e la gestione di tutto ciò che riguarda la salute e che presentano molte disfunzioni, una delle quali è rappresentata dall’averne voluto fare degli organismi universali. Per quanto riguarda gli addetti, i dirigenti di nomina politica solitamente non avevano le qualità necessarie per svolgere un ruolo così delicato; la legislazione, invece, non riusciva a definire bene il rapporto tra amministrazione politica e gestione tecnica. A tutto il 1983 la popolazione non aveva ancora avvertito i cambiamenti positivi

50 G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, p. 276.

51 Parole di Parodi riportate nell’editoriale La riforma sanitaria, in TM, n. 179, febbraio 1980.

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introdotti dalla riforma, essendosi invece già accorta di molti fattori negativi52.

A questo proposito, il vocabolo “controriforma” iniziò ad essere utilizzato con frequenza sempre maggiore per definire la cornice entro la quale inquadrare la sanità pubblica durante gli anni ’80. Nell’ideologia della controriforma, la sanità era vista come un settore economicamente poco produttivo, tuttavia l’assistenza sanitaria non poteva essere considerata come un bene di lusso, dunque non era valutabile in base al solo parametro della produttività.

In questo modo, nella seconda metà degli anni Ottanta, si iniziarono a scontrare due opposte concezioni, la prima delle quali faceva riferimento alle ideologie introdotte dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, mentre l’altra si fondava sulle idee riformatrici della controriforma. In particolare:

a) Da una parte, c’erano coloro che auspicavano un’applicazione integrale della legge di riforma; essi, in particolare, attribuivano le inefficienze alla distorta attuazione dei contenuti programmatici di quella legge e ribadivano a più riprese l’esigenza del monopolio pubblico su un servizio sociale come quello sanitario.

b) Dall’altra parte stavano, invece, coloro che ritenevano che la riforma fosse culturalmente ed economicamente “tutta sbagliata”, che lo slogan “tutto ciò che è sociale è pubblico” andasse sostituito con “meno Stato e più mercato” e che la controriforma dovesse concretizzarsi in un libero mercato della salute con un ampio spazio al privato.

In un simile scenario, il ministro della sanità Donat Cattin redasse un progetto di legge allo scopo di configurare ospedali plurifunzionali e

52 G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Bari, Editori Laterza, 1994, pp. 329-330.

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USL come aziende sanitarie autonome. Questa concezione “aziendalistica” iniziò ad avere molti sostenitori, ma ebbe come principale antagonista il medico Giovanni Berlinguer, il quale esplicitamente affermò che “la salute non è una merce vendibile, ma un

valore vitale che si acquista migliorando le condizioni di vita, trasformando l’ambiente. Nessuno di questi fattori può rientrare in un calcolo aziendale”53. In ogni caso, l’aziendalizzazione sarebbe stata accettabile se con quest’espressione fosse stata modernizzata la metodologia della gestione, e qualora non si fosse inciso in modo sfavorevole sulle modalità del rapporto tra curati e curanti.

Tuttavia, il disegno di legge Donat Cattin decadde con la fine anticipata del governo Andreotti, e si iniziò, sul finire degli anni ’80, a sentir parlare di “riforma della riforma”.

In particolare, questo fu il periodo in cui entrò in scena il nuovo ministro della sanità, Francesco De Lorenzo. All’atto della sua investitura, nel 1989, promise che in cinque anni avrebbe ristabilito il sistema sanità. Secondo il ministro, la politica degli anni ’80, che aveva riempito le USL di uomini di partito, avrebbe dovuto lasciare il passo ad una sana economia che trasformasse le USL in aziende. Per raggiungere gli obiettivi che si era prefissato, il ministro elaborò un progetto di legge con il quale propose la depoliticizzazione delle USL, nonché la loro aziendalizzazione. La grande novità era rappresentata dalla proposta di un amministratore straordinario alla guida delle USL, dotato di moltissimi poteri e con la competenza di gestire meglio e riorganizzare i servizi. Tale figura avrebbe dovuto sottrarsi all’influenza dei partiti, poiché l’accesso a quella carica era previsto solo per titoli. Al nuovo dirigente sarebbero spettati, sulla carta, pieni poteri di gestione, ma in realtà egli veniva scelto da una commissione amministratrice aziendale che si faceva influenzare quanto i vecchi comitati di gestione delle USL;

53 Parole riportate nell’intervista a “uno dei padri del servizio sanitario pubblico”, in

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un altro elemento limitativo, con riguardo ai poteri dell’amministratore straordinario, era dato dal fatto che egli avrebbe dovuto motivare le sue decisioni qualora fossero state divergenti rispetto ai pareri degli organi direttivi e consultivi che lo affiancavano.

Il disegno di legge, inoltre, era caratterizzato dal fatto che le nuove aziende sanitarie avrebbero dovuto garantire almeno la metà delle prestazioni richieste, mentre l’altra metà sarebbe spettata alla sanità privata; ciò, secondo quanto sosteneva De Lorenzo, non significava, a differenza di quanto volevano far credere i suoi avversari politici, che si sarebbe andati incontro ad un ridimensionamento del Servizio Sanitario Nazionale, ma avrebbe voluto dire, al contrario, fissare un tetto massimo al proliferare dei centri privati di terapia. Secondo il ministro, in definitiva, un sistema pubblico-privato paritario avrebbe potuto rappresentare la soluzione ai problemi della sanità.

Ad ogni modo, il disegno di legge decadde con la caduta del governo Cossiga. Nel successivo governo Amato, tuttavia, De Lorenzo era sempre in carica come ministro della sanità, ed iniziò a progettare un nuovo elaborato, che culminò, il 30 dicembre 1992, nell’approvazione del decreto delegato per la sanità numero 502. In molti accusarono tale decreto di smantellare il servizio sanitario pubblico, mentre il ministro De Lorenzo lo esibiva come l’unico modo di rafforzarlo, in quanto esso avrebbe assicurato dei “livelli uniformi di assistenza” su tutto il territorio nazionale, di cui erano chiamati a farsi carico i nuovi manager.

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36 1.6) I PROCESSI DI REGIONALIZZAZIONE ED

AZIENDALIZZAZIONE

Dunque, come abbiamo avuto modo di analizzare anche in precedenza, la riforma del 1978 è andata incontro ad un insuccesso attuativo perché, pur restando valida dal punto di vista dei principi, ha fallito in maniera evidente nella sua realizzazione, scontrandosi con difficoltà legate alle spinte politiche controriformatrici, ed ai problemi finanziari, in quanto il sistema di finanziamento era basato soltanto sul Fondo Sanitario Nazionale. Inoltre, altri elementi quali la crescita della spesa sanitaria pubblica negli anni ’80 e l’incremento della spesa sanitaria pro-capite, uniti alle disuguaglianze presenti tra le diverse Regioni, indussero il legislatore a ripensare ai meccanismi sui quali si fondava tutto il sistema. I motivi di questa “seconda riforma sanitaria” sono, dunque, da ricondurre essenzialmente a due fattori: da una parte, l’aver voluto creare una tutela collettiva della salute, senza però aver formato previamente una “mentalità collettiva dei cittadini”54; dall’altra, nella

smodata burocratizzazione del sistema. Iniziava a manifestarsi, in questo periodo, la necessità di disporre di una pubblica amministrazione efficiente, quindi emergeva la necessità di creare organismi di controllo. Un primo ed importante passo verso l’aziendalizzazione della sanità avvenne addirittura quattordici anni dopo la prima legge di riforma sanitaria del 1978, nel 1992, con la legge delega 421/1992, finalizzata alla responsabilizzazione delle Regioni per la gestione del loro budget, nonché alla razionalizzazione della spesa per il Servizio Sanitario Nazionale. In particolare, l’art. 13 della suddetta legge, al primo comma, così prevede: “Le Regioni fanno fronte con risorse proprie agli

effetti finanziari conseguenti all’erogazione di livelli uniformi di assistenza, all’adozione di modelli organizzativi diversi da quelli

54 G. ZANETTA, P. C. CASALEGNO, Le leggi della nuova sanità. La riforma delle

aziende sanitarie locali. I contratti del personale sanitario. Leggi e giurisprudenza commentate, Milano, Il sole 24ore, seconda edizione, 1999.

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