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Closed innovation vs Open innovation: cambiamenti nei modelli di business. Il caso LEGO

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Strategia, Management e Controllo

Tesi di Laurea

Closed Innovation vs Open Innovation: cambiamenti nei modelli di

business.

Il caso LEGO

CANDIDATO RELATORE

Annamaria Perrotta Dott.ssa Alessandra Rigolini

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INDICE

Introduzione ... 4

CAPITOLO 1 L’innovazione chiusa e aperta: cenni introduttivi ... 7

1.1 La letteratura in tema di innovazione: una review sintetica ... 7

1.2 Il modello di innovazione chiusa – closed innovation ... 12

1.2.1 Definizione e caratteristiche ... 12

1.2.2 Fattori di erosione e declino del modello ... 14

1.3 Il modello di innovazione aperta – open innovation ... 16

1.3.1 Definizione e caratteristiche ... 16

1.3.2 Nuove vie di accesso e di uscita del sapere ... 18

1.3.3 Le condizioni di successo ... 22

1.4 User-driven innovation ... 26

1.4.1 Caratteristiche del fenomeno ... 26

1.4.2 Spiegazioni del fenomeno ... 27

CAPITOLO 2 L’impatto dell’innovazione nei modelli di business ... 29

2.1 I tre pilastri dell’innovazione ... 29

2.1.1 Innovation competence and innovation commitment ... 30

2.1.2 Innovation management ... 40

2.1.3 Il collegamento tra strategia e innovazione ... 45

2.2 Modelli di business ... 45

2.2.1 Il modello di business e la creazione del valore ... 45

2.2.2 Business model innovation ... 50

2.2.2.1 Business model design ... 50

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CAPITOLO 3

Il caso LEGO Group ... 61

3.1 Nascita ed espansione ... 61

3.2 Turbinio di idee e crisi ... 67

3.3 Nuova business strategy e rinascita ... 82

3.3.1 Ritorno alle origini e ripristino della stabilità finanziaria ... 83

3.3.2 Riconfigurazione del modello di business e Open Innovation ... 85

CONCLUSIONI ... 98

BIBLIOGRAFIA ... 100

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INTRODUZIONE

L’innovazione può essere genericamente definita come il risultato dell’elaborazione e adozione di nuove idee, ed è rappresentata da “ogni novità o mutamento che provochi un efficace svecchiamento”1 nello stato attuale dell’arte. La performance innovativa, in altre parole, si realizza a partire dall’analisi delle necessità e opportunità di un certo contesto, e implica un ribaltamento delle condizioni di partenza.

L’innovazione aziendale, nello specifico, si configura come la messa a punto di una “nuova concezione del processo di creazione del valore”2 (Riccaboni, Busco, Maraghini, 2005) che si genera dalla trasformazione di una nuova idea – input – in un nuovo prodotto/servizio – output. Affinché tale valore si crei, occorre impostare il processo innovativo in maniera mirata e consapevole, coinvolgendo l’azienda nella sua interezza: si renderanno necessarie decisioni di investimento in Ricerca e Sviluppo, di implementazione di nuovi metodi di produzione e distribuzione, di cambiamento nei modelli organizzativi e gestionali, e di modifica nell’infrastruttura tecnologica.

Oggigiorno, in un contesto notevolmente dinamico e turbolento, il tema dell’innovazione assume un particolare significato, soprattutto alla luce dell’avvento oramai consolidato del fenomeno della digitalizzazione che ha profondamente ridefinito le regole della competizione. Per avviare un processo innovativo di successo non è possibile ignorare gli impulsi dell’economia digitale, né bisogna limitare l’accezione di innovazione a quella di mera invenzione tecnologica. Al contrario, le aziende sono chiamate ad intervenire a monte sulle variabili strategiche dei modelli di business. I cambiamenti sociali, organizzativi ed individuali si susseguono ad un ritmo talmente elevato che la flessibilità strategica è oramai una prerogativa, e l’ottenimento del vantaggio competitivo è subordinato alla continua capacità di rimodellarsi.

1 Vocabolario Treccani

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È sulla base di queste considerazioni che si è inserito il dibattito circa le implicazioni della digitalizzazione sul processo innovativo, in particolare sugli effetti dell’affermazione del modello dell’innovazione aperta sulla configurazione dei modelli di business.

In forza di quanto detto, il primo capitolo dell’elaborato si propone di analizzare le caratteristiche e i limiti dell’innovazione chiusa, quindi le dinamiche ambientali che hanno condotto alla diffusione del nuovo paradigma dell’open innovation. Con la fine del monopolio del sapere detenuto dai dipartimenti di Ricerca e Sviluppo e per effetto della propagazione della conoscenza, il processo innovativo non si esaurisce integralmente entro i confini organizzativi, ma implica il coinvolgimento – in entrata e in uscita – di numerosi soggetti esterni, compresi i consumatori finali (user-driven innovation).

Nel secondo capitolo vengono presentati e descritti i tre pilastri dell’innovazione dai quali dipende l’efficacia del processo innovativo: le imprese fanno derivare il successo delle loro idee dal potenziamento delle innovation competences, dalla gestione differenziata e oculata di un innovation portfolio e dal rafforzamento del collegamento che c’è tra strategia e innovazione. Inoltre, dal momento che l’innovazione pervade ogni ambito della gestione aziendale, la messa a punto di una soluzione innovativa richiede una corretta impostazione del modello di business. Il business model assolve, dunque, ad una duplice funzione: supporta lo svolgimento del processo di innovazione, consentendo alle imprese di adeguarsi alle nuove condizioni ambientali, e può allo stesso tempo costituire esso stesso una nuova dimensione di innovazione grazie alle attività di business model innovation (declinata in business model design e business model reconfiguration).

Il terzo capitolo, infine, ruota attorno al caso LEGO Group, emblematico delle tematiche introdotte nei due capitoli precedenti. Il noto produttore di giocattoli danese conosciuto in tutto il mondo, dopo diversi decenni di crescita incontrastata, ha sperimentato non molto tempo fa una terribile crisi. Tuttavia, quando l’avvento della digitalizzazione sembrava aver decretato la fine del successo dei mattoncini di plastica, un nuovo approccio – di tipo open

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– al processo innovativo e una ridefinizione di alcune delle variabili del modello di business ha consentito a LEGO Group di rinascere più forte di prima.

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CAPITOLO 1

L’innovazione chiusa e aperta: cenni introduttivi

1.1 La letteratura in tema di innovazione: una review sintetica

In letteratura è possibile individuare un numero pressoché infinito di contributi apportati in materia di innovazione, che fanno riferimento ad autori diversi appartenenti ad epoche storiche diverse.

Convenzionalmente, Schumpeter viene identificato come il primo grande economista che si è pronunciato sul tema e le cui riflessioni scaturiscono dall’introduzione di un nuovo concetto, quello di sviluppo. Nel 1912, nel suo lavoro intitolato “Teorie dello sviluppo economico” l’autore descrive il fenomeno come uno “spontaneo e improvviso mutamento”, nonché una “perturbazione dell’equilibrio che altera lo stato esistente” (Schumpeter, 1912). A differenza delle teorie proposte fino ad allora – che ruotavano intorno al principio dell’equilibrio economico generale – Schumpeter suggerisce ora una nuova visione della vita sociale, in cui ogni aspetto è sottoposto ad una trasformazione continua.

In questo nuovo scenario, si afferma il ruolo dell’imprenditore - innovatore che, prendendo coscienza delle mutevoli richieste del mercato, si adopera per la messa a punto di nuovi prodotti e servizi e/o l’introduzione di un nuovo metodo di produzione; dal canto suo, realizza un profitto in grado non solo di remunerare i costi di coordinamento dell’attività produttiva, ma anche di creare una nuova forma di ricchezza.

Innovazione e imprenditorialità, dunque, vanno di pari passo ed innescano all’interno del sistema un circolo virtuoso: l’innovazione si presenta come la risposta ad una nuova esigenza del mercato – che scaturisce da un’alterazione dello status quo – e allo stesso tempo determina essa stessa un’ulteriore “perturbazione” ogni qualvolta un imprenditore ne introduce una diversa.

Schumpeter spiega la ciclicità del fenomeno della continua proliferazione dell’innovazione ricostruendone a ritroso le dinamiche: inizialmente, quando l’innovazione viene introdotta

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sul mercato, si genera una fase di benessere ed espansione; successivamente, uno “sciame di imitatori che sono attratti dal profitto come le apri dal nettare” (Schumpeter, 1912) comincia ad operare nello stesso settore nelle vesti di concorrenti, determinando una progressiva riduzione dei prezzi fino a che questi assorbono il profitto creato. Poiché il profitto ha una natura transitoria, che sopravvive fino a quando l’innovazione conserva la sua natura esclusiva, per ritornare ad ottenere una posizione di vantaggio l’imprenditore - innovatore è tenuto a sviluppare una nuova soluzione, quindi a dare avvio ad una nuova fase di sviluppo. Ed è per questo che l’imitazione viene rinominata dall’autore come “distruzione creatrice”: perché consente alla collettività di usufruire di qualcosa di nuovo, “che è al di fuori della pratica esistente” (Schumpeter, 1912) e spazza via quelle imprese che non riescono ad essere adeguatamente al passo con i tempi.

Un altro importante contributo è stato quello apportato da Freeman, economista inglese che ha supportato nella seconda metà del Novecento la rinascita della tradizione neo-schumpeteriana.

Pur muovendosi dalle teorie di Schumpeter, che hanno considerevolmente influenzato il pensiero economico, Freeman cerca di distaccarsi dal puro riferimento al sistema capitalistico e, innanzitutto, individua i principali fattori che danno impulso all’innovazione nella società industrializzata3. Questi coincidono con la mutevolezza della domanda dei consumatori, che risente delle principali evoluzioni economiche e sociali, e con la spinta tecnologia dovuta al progresso scientifico.

In secondo luogo, l’autore classifica l’innovazione in alcune categorie fondamentali:

- le innovazioni incrementali sono il frutto del perfezionamento di soluzioni già presenti sul mercato e scaturiscono da specifiche necessità palesate dai consumatori. Sebbene nell’immaginario collettivo il successo di un’innovazione sia associato al suo grado di rottura rispetto agli standard esistenti, non è da sottovalutare la portata di tali innovazioni incrementali. Esse, infatti, risultano perfettamente in linea con i principi del miglioramento continuo e si avvalgono in

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maniera del tutto efficiente del patrimonio di conoscenze tecnologie e di mercato già sviluppato internamente;

- le innovazioni radicali sono quelle in grado di rivoluzionare completamente le regole del gioco competitivo e, a differenza di quelle incrementali, si presentano in maniera discontinua e sporadica poiché risentono meno dell’influenza della domanda dei consumatori. La loro messa a punto, che deriva da appositi programmi di ricerca, risulta sicuramente più profittevole, ma è allo stesso tempo più rischiosa dal momento che non è detto che il nuovo potenziale mercato si costituisca effettivamente;

- i mutamenti del sistema tecnologico non riguardano una specifica tecnologia di una specifica impresa operante in uno specifico settore, ma trasversalmente rivoluzionano l’attività di più settori dell’economia. L’esempio descritto da Freeman è quello del mutamento del sistema tecnologico generato dall’introduzione delle nuove tecniche per la produzione di materiali sintetici;

- i mutamenti che impattano sull’andamento generale dell’economia, infine, sono quelli i cui effetti rivoluzionari sono notevoli e destinati a perdurare nel tempo. Si pensi alla diffusione dell’energia elettrica e alle innovazioni informatiche.

L’ultimo contributo che si intende menzionare è quello apportato da Markides a cui si attribuisce il passaggio dal focus sull’innovazione tecnologica a quello sull’innovazione strategica.

Nella letteratura preesistente si tendeva a limitare l’innovazione alla sola sfera tecnica, intendendo con innovazione tecnologica “l’attività tesa ad introdurre nuovi prodotti e servizi, nonché nuovi metodi per produrli, distribuirli ed usarli”4. Tuttavia, è stato osservato come nel tempo tale innovazione di prodotto e di processo non sia sufficiente a garantire di per sé l’ottenimento di un vantaggio competitivo sostenibile. Per pervenire ad un output innovativo di successo e che duri nel tempo, occorre risalire e intervenire sulle variabili che determinano il posizionamento strategico.

4 Enciclopedia Treccani

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Le tre dimensioni costitutive del posizionamento strategico sono5:

- who (is going to be our consumer), ovvero i consumatori a cui viene rivolta l’offerta; - what (products or services should we offer to the chosen consumer), cioè i prodotti e

servizi offerti al consumatore;

- how (should we offer these products cost efficiently), vale a dire i metodi di produzione e distribuzione dell’offerta più efficienti.

È frequente che si generi un gap tra il posizionamento desiderato e quello effettivo o che l’organizzazione voglia fare della riconfigurazione del posizionamento stesso una nuova dimensione di innovazione. Una modifica sostanziale che si muove lungo le tre direzioni sopraelencate determina, in altre parole, un’innovazione strategica (vedi Figura 1).

Figura 1 Strategic Positioning Map.

Markides C. Strategic Innovation – Sloan Management Review, 1997

- Una corretta ridefinizione del mercato di riferimento dovrebbe tenere in considerazione il fatto che il “cliente ideale” non coincide banalmente con chiunque sia disposto a pagare, ma al contrario, le organizzazioni dovrebbero rivolgersi a quei consumatori che esse sono in grado di servire in maniera più soddisfacente ed efficiente rispetto alla concorrenza – dato un patrimonio di risorse e conoscenze.

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Una ridefinizione di questo tipo può condurre all’individuazione di un nuovo segmento di mercato o alla combinazione di segmenti preesistenti;

- Un approccio innovativo alla gestione della seconda componente presuppone che le aziende monitorino costantemente i cambiamenti delle necessità e delle priorità dei consumatori poiché è da queste che deriva l’individuazione del migliore sistema di prodotto da offrire. Intercettati tali nuovi bisogni, infatti, le organizzazioni sono chiamate a sviluppare nuovi prodotti e servizi in grado di soddisfarli. Inoltre, l’autore osserva come sarebbe più opportuno innanzitutto identificare la migliore offerta e poi, sulla base di questa, definire il segmento di mercato più coerente con essa (e non al contrario, come avviene tradizionalmente);

- Infine, per quanto attiene all’ultima variabile dell’how, la riconfigurazione è volta ad individuare il modo più efficiente di produrre e distribuire il sistema di prodotto. Affinché tale processo produca risultati concreti e di successo, si rende necessario combinare attività di exploiting (delle conoscenze già sviluppate) ed exploring (di nuove competenze).

È possibile concludere che il significato attribuire al concetto di innovazione è cambiato nel tempo, coerentemente con l’evoluzione economica, culturale e sociale del nostro contesto. Negli ultimi decenni, in particolare, si è affermata una visione più “sistemica” del processo innovativo che implica non solo un adeguamento delle conoscenze tecnologiche, ma anche uno stravolgimento dello stesso modo di innovare. E a partire da queste considerazioni è scaturito il dibattito circa il declino del modello dell’innovazione chiusa e l’affermazione di un nuovo paradigma, quello dell’innovazione aperta.

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1.2 Il modello di innovazione chiusa – closed innovation 1.2.1 Definizione e caratteristiche

Agli inizi del XX secolo, le imprese consolidate sul mercato concepivano l’innovazione – intesa come ideazione, sviluppo e commercializzazione di nuovi prodotti e servizi – come uno tra gli strumenti più efficaci per il mantenimento e il rinvigorimento delle posizioni di leadership. Agendo da first mover, infatti, i grandi player ritenevano di poter potenziare la propria reputazione presso i consumatori, differenziarsi dalla concorrenza, e realizzare economie di scopo sfruttando i benefici della produzione congiunta.

Affinché il processo innovativo garantisse effettivamente tale vantaggio competitivo, erano cruciali – come lo sono tuttora – le attività di ricerca e concepimento delle nuove idee (le cosiddette front-end activities dell’innovazione), poiché è da queste che dipendono i risultati e l’efficacia delle successive fasi di sviluppo e commercializzazione. Il primo e determinante passo da compiere, dunque, coincideva con l’identificazione e selezione delle idee che, in termini di fattibilità concettuale, tecnologica ed economica, potessero essere tradotte in prodotti e servizi da collocare sul mercato.

Sebbene il patrimonio scientifico nel corso del XIX secolo si fosse significativamente arricchito, accedervi non era affatto semplice:

- A quel tempo molti scienziati e ricercatori rifiutavano l’idea della commercializzazione delle idee, rinnegandone ogni proficuo sfruttamento da parte delle imprese;

- Le università possedevano poche risorse da destinare alla ricerca e non partecipavano in alcun modo ai processi innovativi delle organizzazioni;

- Le istituzioni pubbliche si interessavano in maniera molto marginale alla strumentalizzazione del sapere scientifico per soddisfare i bisogni della collettività. In assenza di fonti a cui attingere, venne a delinearsi un modello di innovazione verticalmente integrato in cui l’intero processo innovativo, a partire dal concepimento delle nuove idee, si esaurisce entro i confini organizzativi seguendo un andamento progressivo: le idee generate nei dipartimenti di Ricerca e Sviluppo vengono filtrate, e

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quelle che sopravvivono vengono sviluppate internamente in nuovi prodotti da destinare al mercato attualmente presieduto.

Tale modello è noto come paradigma dell’innovazione chiusa - closed innovation - poiché i nuovi progetti non hanno altri impulsi che non siano l’inventiva e l’ingegno dei ricercatori, né altra via di uscita che non sia il mercato di riferimento (Figura 2).

Figura 2 The Closed Innovation Paradigm.

Chesbrough H. Open Innovation: the New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business School Press, 2003

Le organizzazioni che si rifanno al paradigma dell’innovazione chiusa risultano in grado di alimentare autonomamente il processo di innovazione senza ricorrere ad alcuna forma di collaborazione con l’esterno grazie prevalentemente ai massicci investimenti nel reclutamento delle “migliori menti”. Ed infatti, in un contesto in cui il panorama del sapere si costituisce di un numero ristretto di idee, assorbire personale di talento garantisce di per sé un differenziale competitivo positivo.

È evidente, dunque, che la logica di fondo del modello pone l’enfasi su barriere non solo organizzative, ma anche finanziarie, essendo la sopravvivenza alla guerra competitiva

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subordinata alla disponibilità di risorse da destinare agli investimenti in ricerca e all’assunzione e retribuzione del personale.

Per quanto attiene alle cosiddette vie d’uscita del sapere, nel paradigma è predominante il principio “Successful innovation requires control”6. I sostenitori del modello dell’innovazione chiusa ritengono che il controllo esclusivo sui frutti della ricerca, e quindi sulla proprietà intellettuale, sia in grado di neutralizzare il rischio di appropriazione delle idee da parte dei competitors; inoltre, tale controllo non riguarda le nuove idee e tecnologie da impiegare nelle attività di sviluppo, ma anche quelle scartate perché non in linea con il modello di business corrente. Ed infatti, le idee prodotte vengono trattenute fino a quando la funzione Sviluppo non deciderà eventualmente di servirsene, non ammettendo alcuna forma di condivisione ed esternalizzazione del sapere.

Escludendo rapporti di collaborazione sia in fase di ingresso sia in fase di uscita, secondo il paradigma della closed innovation i confini organizzativi sono demarcati in maniera precisa, e il dipartimento di Ricerca e Sviluppo è il solo locus of innovation 7. In altre parole, il patrimonio di conoscenze si genera all’interno di “castelli fortificati”8 perfettamente autonomi – che coincidono con le funzioni organizzative interne – e la totalità delle attività viene svolta all’interno delle mura di ciascuno di essi.

1.2.2 Fattori di erosione e declino del modello

La closed innovation nel corso del secolo scorso ha guidato numerose imprese verso il successo e la sua efficacia è rimasta indiscussa per quasi un intero secolo. Tuttavia, nel tempo il paradigma è divenuto progressivamente obsoleto e inadeguato.

Il principale fattore di erosione del modello dell’innovazione chiusa coincide con la fine del monopolio del sapere detenuto dai dipartimenti di Ricerca e Sviluppo che, a sua volta,

6 Chesbrough H. The Era of Open Innovation – MIT Sloan School of Management, Management Review, 2003: http://media.library.ku.edu.tr

7 Lakhani K. R., Assaf H. L., Tushman M. L. Open innovation and organizational boundaries: task decomposition, knowledge distribution and the locus of innovation – Harvard Business Review: http://www.hbs.edu

8 Chesbrough H. Open Innovation. The New Imperative for Creating and Profiting from Technology- Harvard Business

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trova spiegazione nella propagazione della conoscenza. L’aumento del numero di persone che si dedica agli studi e al perfezionamento della formazione, l’accrescimento della mobilità dei lavoratori, l’incremento della disponibilità di risorse da destinare ad investimenti in ricerca, l’accesso sempre più diffuso ad Internet e la proliferazione di articoli e ricerche scientifiche hanno, infatti, profondamente ridefinito il panorama del sapere.

In particolare, in riferimento alla mobilità dei lavoratori, è stato osservato che il mercato del lavoro è governato, oggi, da un vero e proprio meccanismo d’asta9: da una parte, ricercatori altamente qualificati vendono il proprio talento al miglior offerente; dall’altra, le imprese gareggiano per aggiudicarsi i professionisti più attraenti, riconoscendo nell’assunzione di nuove figure la possibilità di accedere ad un patrimonio di conoscenze inesplorate (learning by hiring).

Tutte queste dinamiche hanno generato una nuova realtà in cui il sapere non costituisce più un asset su cui è possibile esercitare un controllo esclusivo, né una risorsa accessibile alle sole grandi imprese in possesso di capitali da investire.

Il declino del paradigma dell’innovazione chiusa è altresì riconducibile ai cambiamenti apportati dall’avvento della digitalizzazione, che impongono oggi di adeguare il processo innovativo ai trend della cosiddetta economia digitale.

In letteratura 10 sono stati identificati alcuni tratti salienti che caratterizzano tale economia digitale e che hanno ridefinito in maniera profonda le regole della competizione:

- La società odierna incarna sempre più realisticamente il modello della knowledge-based society in cui conoscenza e informazione sono i due principali pilastri;

- Poiché, grazie allo sviluppo tecnologico, le limitazioni alla capacità produttiva sono sempre meno rilevanti e le imprese sono in grado di replicare i propri prodotti ad un

9 Kaiser U., Kongsted H. C., Ronde T. Does the Mobility of R&D Labor Increase Innovation? - ZEW – Centre for European Economic Research, 2014; Crescenzi R., Gagliardi L. Moving People with Ideas Innovation - SERC Discussion Paper 174, 2015

10 Hirt M., Willmott P. Strategic principles for competing in the digital age - McKinsey, 2014; Bankewitz M., Aberg C., Teuchert C. Digitalization and Boards of Directors: A new Era of Corporate Governance? - Sciedu Press, 2016; Chesbrough H. Open Innovation. The New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business School Press, 2003; Chesbrough H., Vanhaverbeke W., West J. Open Innovation. Researching a New Paradigm – Oxford University Press, 2006

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costo marginale molto vicino allo zero, la competizione basata sul prezzo da sola non basta a garantire vantaggio competitivo;

- Nei mercati odierni le barriere d’ingresso vengono progressivamente ad indebolirsi e i competitors sono molto spesso concorrenti inaspettati (trattandosi di frequente non di attori già consolidati, ma di piccole o medie imprese);

- Grazie alla diffusione di tecnologie sofisticate e alla facilità di accesso e condivisione delle informazioni, i consumatori sono sempre più abili nel comparare prezzi e qualità di prodotti e servizi, e i loro bisogni diventano sempre più specifici;

- I confini organizzativi vanno via via sfumandosi, consentendo alle imprese di “assorbire conoscenze e tecnologie dall’esterno e, allo stesso tempo, valorizzare il proprio portafoglio tecnologico in forme diverse” (Di Minin, 2016) 11.

Tali meccanismi hanno quindi creato le basi per l’affermazione del modello dell’innovazione aperta, conosciuto anche come paradigma della open innovation, che ingloba a pieno gli effetti della propagazione della conoscenza.

Le caratteristiche e le potenzialità dell’innovazione aperta verranno approfondite nel prossimo paragrafo.

1.3 Il modello di innovazione aperta – open innovation 1.3.1 Definizione e caratteristiche

Con l’espressione open innovation - coniata da Henry Chesbrough 12, direttore esecutivo del Center of the Open Innovation e professore alla Haas School of Business, California - si fa riferimento ad un nuovo modo di intendere il processo innovativo, secondo il quale nuove idee vengono recepite dall’azienda attingendo tanto all’interno quanto all’esterno dei confini organizzativi, e analogamente le stesse idee possono raggiungere destinazioni diverse dal mercato attualmente presieduto, servendosi di nuovi canali.

11 Di Minin A. L’innovazione è un’opera aperta - Nòva, IlSole24ore, 2016

12 Chesbrough H. Open Innovation. The New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business

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Le riflessioni dell’autore 13, che hanno aperto la strada a numerosi studi e applicazioni pratiche, propongono dunque un paradigma “aperto” così definito perché, in sostanza, riconosce nuove vie di accesso e di uscita del sapere, alternative a quelle finora contemplate nel modello della closed innovation.

Nella Figura 3 viene rappresentato il funzionamento del modello dell’innovazione aperta.

Figura 3 The Open Innovation Paradigm.

Chesbrough H. Open Innovation: the New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business School Press, 2003

13 Chesbrough H. Open Innovation. The New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business

School Press, 2003; Chesbrough H., Vanhaverbeke W., West J. Open Innovation. Researching a New Paradigm – Oxford University Press, 2006; Chesbrough H. Open Business Models: How to Thrive in the New Innovation Landscape - Harvard Business School Press, 2006; Richards H. Interview: Talking Open Innovation with Prof. Henry Chesbrough – 2013: http://www.intelligenthq.com

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1.3.2 Nuove vie di accesso e di uscita del sapere

In passato, le imprese guardavano alla conoscenza e alle progressive “accumulazioni” del sapere come una risorsa distintiva e, in quanto tale, esercitavano su di essa un controllo esclusivo, imprigionandola entro le mura dei laboratori di Ricerca e Sviluppo. Ad oggi, con l’intensificarsi della propagazione delle informazioni, le aziende non solo non riescono a limitare la diffusione delle idee, ma sono fortemente consapevoli della necessità di dover interagire con l’esterno e integrare le lacune scientifiche e tecnologiche. Infatti, nel tempo l’indebolimento dei confini organizzativi e l’abbattimento dei costi di collaborazione e networking hanno favorito il logorarsi delle mura di cinta delle imprese, che non riescono (e non vogliono) più demarcare il limite per difendersi dalle intrusioni esterne.

Poiché il mercato si sviluppa più rapidamente di quanto progredisca la ricerca, spesso le organizzazioni necessitano di tecnologie non ancora messe a punto internamente, e per non perdere terreno competitivo, non possono aspettare fino a che queste vengano realizzate.

Ed è così che la cooperazione, quindi, che si realizza mediante rapporti di intesa occasionali o alleanze strategiche di lungo termine, consente di scorgere opportunità fino ad ora ignorate.

Nonostante il concepimento delle nuove idee non sia più posto esclusivamente in capo ai ricercatori interni, ma si avvale anche del contributo apportato da soggetti esterni, ciò non implica che la ricerca debba scomparire né che il dipartimento di Ricerca e Sviluppo debba essere eliminato dall’architettura organizzativa. Al contrario, i ricercatori hanno ora un nuovo compito, cioè quello di identificare e selezionare le conoscenze esterne - in funzione del loro grado di compatibilità con quelle già sviluppate internamente - e garantirne l’accesso.

Già alla fine degli anni Ottanta, in letteratura (Hippel, 1988)14 si cominciò a discutere sulla presenza di fonti esterne per l’implementazione delle attività innovative: si tratta di università, laboratori di ricerca privati, fornitori, clienti, unità governative, fino a professionisti provenienti da altre realtà lavorative. Processi di apprendimento e

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acquisizione di conoscenza scaturiscono anche dalle strategie di supporto e finanziamento alle giovani start-up: da una parte, le imprese emergenti riescono a costruirsi una reputazione e ad entrare su mercati caratterizzati da alte barriere all’ingresso; dall’altra, i grandi player, facendo leva su “forti capacità contrattuali e disponibilità di risorse manageriali e finanziarie” (De Marco, Marullo, 2016)15 riescono a sopperire alle lacune interne.

Sui rapporti di collaborazione con l’esterno si sono pronunciati di recente anche due autori italiani, Lazzarotti e Manzini, che all’interno del loro lavoro 16 propongono una matrice risultante dalla combinazione di due variabili: partners variety, il cui livello dipende dal numero e dalla eterogeneità dei partner coinvolti,

e innovation funnel openess, laddove il grado di apertura dell’“imbuto” del processo innovativo dipende dal numero e dalla criticità delle fasi condivise con l’esterno.

Figura 4 Adattato da Lazzarotti V., Manzini L. Different modes of open innovation: a theoretical framework and an empirical study - International Journal of Innovation Management, 2009

15 De Marco C., Marullo C. Manager ai tempi dell’ecosistema - Nòva, IlSole24ore, 2016

16 Lazzarotti V., Manzini L. Different modes of open innovation: a theoretical framework and an empirical study - International Journal of Innovation Management, 2009

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- I closed innovators sono coloro che, in linea con quanto già detto, coinvolgono un numero molto ridotto di soggetti esterni e dischiudono un numero minimo delle fasi - scarsamente cruciali - del processo innovativo.

Le attività di ricerca, sviluppo e commercializzazione delle nuove idee sono ancora vincolate al vecchio paradigma dell’innovazione chiusa, e ogni forma di apertura con l’esterno viene temuta;

- Si definiscono open innovators le imprese che integrano nello svolgimento delle attività di innovazione un numero molto alto di collaboratori, molto differenti tra loro; per quanto attiene alle fasi del processo innovativo, un numero consistente di esse - anche le più critiche, vengono concluse con il supporto esterno.

Oltre alla netta contrapposizione tra innovazione chiusa e aperta, la matrice coglie alcune sfumature intermedie, introducendo due ‘varianti’:

- Gli integrated collaborators sono collaboratori numericamente poco rilevanti e poco eterogenei tra loro, tuttavia intervengono su diverse e numerose fasi del processo produttivo. Generalmente si tratta di clienti e fornitori che, per quanto siano relativi entrambi alla dimensione commerciale, apportano tuttavia un contributo significativo in diverse fasi, anche le più critiche;

- Infine, gli specialised collaborators costituiscono una sorta di evoluzione rispetto alla fattispecie dei closed innovators che, pur dischiudendo di poco le fasi del processo innovativo (di solito, tra le poche fasi condivise vi è quella del concepimento delle nuove idee), decidono di avvalersi della collaborazione di numerosi partner.

Spostando il focus sulle cosiddette vie di uscita del sapere dall’imbuto del processo innovativo che non siano il consueto sviluppo e commercializzazione di prodotti e servizi, occorre tenere in considerazione i cambiamenti intervenuti nella gestione economica della proprietà intellettuale.

Mentre nel paradigma della closed innovation si esercitava un forte controllo sui frutti della ricerca per evitare che i competitors potessero trarre vantaggi dall’utilizzo delle idee

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generate internamente, nel modello dell’innovazione aperta la proprietà intellettuale viene intesa come fonte di profitto anche se ceduta all’esterno e non sfruttata per finalità interne.

In particolare, con riferimento alle idee e alle tecnologie scartate perché non in linea con il modello di business, nel tempo le imprese sono divenute consapevoli del fatto che queste costituiscono un patrimonio dinamico che non può essere trattato alla pari di qualsiasi altro bene, “riponendolo su di uno scaffale nella speranza che prima o poi possa tornare utile”17. Data la rapidità e l’intensità con cui le informazioni trapelano e si diffondono, sempre più organizzazioni hanno introdotto e adottato forme di condivisione del sapere. Ricorrendo a strategie di brevettazione e licensing, ad esempio, riescono a tutelarsi dal rischio che tali idee e tecnologie vengano derubate ed utilizzate dai competitors per mettere a punto nuovi prodotti e servizi da destinare allo stesso mercato.

Con la cessione del brevetto, pur liberandosi della titolarità della tecnologia, le imprese ottengono un corrispettivo economico che compensa le possibili perdite che potrebbero manifestarsi, in termini di riduzione della quota di mercato e della base clienti.

Le imprese più restie che non intendono rinunciare alla titolarità dell’idea ricorrono, invece, a strategie di licensing che prevedono la cessione del solo diritto di sfruttamento economico temporaneo della nuova tecnologia, anch’esso dietro corrispettivo.

Oltre che tutelarsi dal rischio di perdita economica, attraverso le forme di esternalizzazione della conoscenza le imprese intendono preservare anche il clima organizzativo il cui deterioramento potrebbe generare effetti e costi nel lungo termine irrecuperabili. Se, infatti, i ricercatori che hanno lavorato a lungo e intensamente su una tecnologia scoprissero che su quella stessa idea sta lucrando qualcun altro, ciò sarebbe molto demotivante. Non solo i ricercatori in futuro saranno poco incentivati ad impegnarsi, ma potrebbero anche decidere di migrare verso altre imprese che sono più abili nello sfruttare il loro talento.

17 Chesbrought H. Open Innovation. The New Imperative for Creating and Profiting from Technology - Harvard Business

School Press, 2003 (“it cannot assume that the result will always remain on the shelf, available whenever the development chooses to work with it”).

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1.3.3 Le condizioni di successo

Il modello dell’open innovation, così come è stato descritto, consente alle imprese che lo implementano di incrementare la capacità di adattamento ai nuovi mercati, e apporta benefici in termini di nuove possibilità di profitto grazie alla riduzione dei costi di sviluppo – di cui si fanno carico anche gli altri soggetti coinvolti – e di diminuzione del time to market. La Figura 5, mettendo a confronto i due paradigmi, riproduce graficamente quanto detto finora.

Figura 5 Il nuovo modello dell'innovazione aperta.

Serio L., Quarantino L. L'innovazione aperta, la prospettiva dell'innovazione aperta e le nuove logiche organizzative e manageriali - Sviluppo & Organizzazione, 2009

Affinché ciò effettivamente avvenga, occorre tenere ben presente una serie di considerazioni che potremmo definire come le condizioni di successo del paradigma:

- In primo luogo, è necessario garantire contemporaneamente “flessibilità dei processi di Ricerca e Sviluppo e controllo della conoscenza critica”18.

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Se, da una parte, il successo del modello dell’innovazione aperta si fonda sull’integrazione tra competenze interne e know-how/asset provenienti dall’esterno, dall’altra vale il principio dell’“open but controlled”19. In altre parole, l’impresa che decide di trasferire e integrare nei processi di Ricerca e Sviluppo nuova conoscenza, deve comunque essere in grado di esercitare un controllo sui risultati ottenuti e di appropriarsi dei vantaggi dell’innovazione condivisa;

- In secondo luogo, occorre prestare una particolare attenzione alla gestione strategica delle risorse umane coinvolte nel processo innovativo, siano queste interne all’azienda, siano esse parte di comunità esterne. Dal momento che il modello dell’innovazione aperta si fonda sul knowledge sharing, tale conoscenza deve essere continuamente arricchita e affinata, ed è per questo che è necessario investire in formazione e motivare il personale a partecipare alle attività di knowledge enrichment;

- Infine, bisogna adoperarsi per un adeguato allineamento culturale e organizzativo a quelle che sono le conseguenze che derivano dall’implementazione di un processo di tipo open, obiettivamente difficoltoso e rischioso.

Alla luce delle significative contaminazioni che scaturiscono dall’adozione del paradigma dell’open innovation, la cultura organizzativa deve risultare consapevole e aperta al cambiamento, in cui tutti gli attori aziendali condividono principi di cooperazione interfunzionale e interorganizzativa. Poiché il processo innovativo si avvale del contributo apportato da diverse persone, poste all’interno e all’esterno dei confini organizzativi, è necessario che tutti accettino e gestiscano le diversità culturali e professionali.

L’introduzione del nuovo sistema genera notevoli conseguenze anche dal punto di vista organizzativo-strutturale. Ed infatti, per effetto dell’“aumento della complessità di funzionamento del sistema, della crescita dei costi di coordinamento e della formazione di una rete relazionale estremamente articolata” (L. Serio, L. Quarantino, 2009), si registra un affaticamento delle attività di controllo. Si

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consideri il modello raffigurato in Figura 6, le cui dimensioni d’analisi sono il numero di soggetti coinvolti nella collaborazione e il locus del processo di innovazione. A differenza del modello d’innovazione chiusa in cui il numero di soggetti coinvolti nel processo innovativo è molto esiguo e il locus dell’innovazione è delimitato alle mura del dipartimento di Ricerca e Sviluppo, con l’affermazione dell’open innovation il processo ora si sposta verso l’esterno causando un aumento del grado di complessità. Ed infatti, laddove le iterazioni si accrescono e il centro del processo innovativo è sempre più decentrato, sorge l’esigenza di progettare un sistema di controllo per il coordinamento delle nuove reti di rapporti.

Figura 6 Tipologie strategico-organizzative di gestione dell'innovazione.

Fredberg, Elmiquist, Ollila. Managing Open Innovation - Present Findings and Future Directions - Vinnova, 2008

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Alla domanda su come tale sistema di controllo debba essere strutturato, è possibile rispondere considerando due livelli di analisi all’interno della relazioni innescate: o Il primo livello di analisi coincide con il “cuore” dell’innovazione, rappresentato

da tutti quei soggetti che continuamente interagiscono e dalle cui attività dipende in sostanza il successo del processo innovativo;

o Il secondo livello, che coesiste parallelamente al primo, è costituito da tutti gli altri attori della rete innovativa i quali una tantum o sistematicamente apportano un contributo innovativo.

Perché l’attività di controllo risulti efficace, senza un enorme dispendio di risorse ed energie, occorre che questa sia tarata sul livello di analisi a cui essa si rivolge: da una parte è necessario assicurarsi che nel nucleo dell’innovazione si instauri e consolidi una cultura comune, che funga da collante tra quei soggetti determinanti del processo innovativo; dall'altra, il secondo livello deve essere lasciato libero di agire perché un eccessivo controllo potrebbe ostacolare il libero flusso di idee.

In conclusione, il processo innovativo ispirato al paradigma dell’open innovation interessa tutta l’organizzazione, e non si limita alle sole decisioni e attività svolte all’interno dei laboratori di Ricerca e Sviluppo. Al contrario, implica una serie di aggiustamenti anche e soprattutto di tipo strategico, cultura e organizzativo che occorre adottare affinché le imprese riescano ad ottenere il maggior numero di benefici competitivi.

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1.4 User-centered innovation 1.4.1 Caratteristiche del fenomeno

Si è a lungo parlato nel paragrafo precedente delle nuove fonti del processo innovativo che si alimenta non più soltanto delle conoscenze create internamente, ma coinvolge un numero disparato di soggetti esterni.

In seguito al delinearsi di questo nuovo scenario, alcuni autori si sono soffermati in particolare sul fenomeno dell’innovazione guidata dagli utenti (user-centered innovation) in cui gli utenti in prima persona, laddove il mercato non offra alcun prodotto o servizio che li soddisfi, dedicano tempo e risorse per idearne e svilupparne di nuovi.

Il nuovo modello si pone in netto contrasto con gli schemi tradizionali di tipo manufactured-centered in cui, invece, spetta al produttore intercettare i bisogni dell’utente e proporre una soluzione adeguata. In altre parole, in un sistema in cui è il produttore ad occuparsi di innovazione e sviluppo, l’utente finale, o meglio “consumatore”, assolve – per sua stessa definizione – alla sola funzione di “consumare” quello che gli viene proposto. Oggi, invece, gli utenti diventano parte integrante del processo innovativo che avvantaggia da una parte i consumatori, che riescono ad ottenere prodotti esattamente in linea con le loro richieste, dall’altra le imprese, che ampliano la loro base conoscitiva di idee, bisogni e soluzioni.

Tra i contributi più significativi in materia di innovazione user-centered rientra quello apportato da Eric von Hippel20, professore di Management e Innovazione presso la MIT Sloan School, che nello specifico fa riferimento ai cosiddetti lead-users. L’utente innovatore non coincide con il consumatore medio, che generalmente non è interessato al processo innovativo né intende essere coinvolto, ma si identifica nel lead user, che anticipa le tendenze di mercato nonché i bisogni che presto verranno espressi dalla collettività.

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1.4.2 Spiegazioni del fenomeno

Ci si è interrogati a lungo sul perché il fenomeno della user-driven innovation si sia diffuso in maniera così insistente. La motivazione più ragionevole risiede nella progressiva differenziazione della domanda e nel contrasto tra l’eterogeneità dei fabbisogni e le strategie di produzione di massa.

In passato, attraverso la segmentazione del mercato si tendeva a scomporre la popolazione dei consumatori in segmenti omogenei tra loro, laddove ciascun segmento identificava un insieme di utenti con bisogni molto simili (e dunque, un interesse ad acquistare e consumare lo stesso prodotto). Successivamente è stato notato come i bisogni e gli interessi dei singoli utenti appartenenti ad uno stesso segmento si discostassero sempre di più dai bisogni e dagli interessi medi. E così nel tempo si è rafforzata la convinzione che soggetti diversi versano in una condizione di partenza diversa, dispongono di un ammontare di risorse diverso, hanno una diversa disponibilità a pagare e mirano a raggiungere una condizione finale diversa. Di conseguenza, ricercano prodotti e servizi diversi.

Dal canto loro, i produttori, per meglio ripartire i costi di Ricerca e Sviluppo e di produzione, preferiscono realizzare prodotti molto simili tra loro e in grandi quantità. Alla luce di questa di incompatibilità, si è affermata la cosiddetta user-centered innovation che consente agli utenti di occuparsi personalmente dell’ideazione e sviluppo di prodotti che rispondano alle loro (diverse) necessità.

Il contrasto tra l’eterogeneità della domanda e le strategie di produzione di massa non basta, in realtà, da solo a spiegare l’affermazione del fenomeno. Assumendo che consumatori diversi abbiano esigenze diverse e quindi siano interessati ad ottenere prodotti e servizi diversi, questi per lo stesso scopo potrebbero decidere di affidarsi a produttori artigianali invece che innovare in prima persona. Tuttavia, è stato osservato che nelle decisioni di tipo innovate or buy gli utenti continuano ad essere più inclini alla prima soluzione. Due sono le principali spiegazioni: la presenza di costi di transazione e il valore attribuito al processo di innovazione in sé, oltre che al prodotto.

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In riferimento ai costi di transazione, si tratta nello specifico dei costi di agenzia in uno schema in cui l’utente è il mandante/principale, e il produttore artigianale è il mandatario/agente.

L’insorgenza dei costi di agenzia è una conseguenza dalla divergenza di interessi e dell’asimmetria informativa che sussiste tra artigiano e utente. Ed infatti, mentre il consumatore è interessato ad ottenere esattamente ciò di cui ha bisogno pur pagando un prezzo elevato, il produttore tende ad ottimizzare l’ammontare di costo, ad esempio incorporando nel nuovo prodotto soluzioni già esistenti, rischiando di non soddisfare a pieno le esigenze dell’utente. Inoltre, momento che l’utente dispone di minori informazioni rispetto al produttore, si generano tali costi di agenzia che derivano essenzialmente

- dal monitoraggio esercitato dal principale sull’agente, per accertarsi che agisca nel suo interesse;

- dall’impegno dell’agente a non agire contro gli interessi del principale (i cosiddetti bounding costs);

- dall’eventualità che l’output non soddisfi il principale.

In secondo luogo, molti utenti preferiscono innovare loro stessi invece che affidarsi ad un produttore artigianale, anche se ciò implicherebbe il sostenimento di maggiori costi e il dispendio di maggiori risorse (fisiche e di tempo). Ciò accade perché essi attribuiscono un certo valore non solo al prodotto in sé, ma anche al processo di innovazione e all’apprendimento che deriva dalla partecipazione al processo innovativo.

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CAPITOLO 2

Il processo innovativo e modelli di business

2.1. I tre pilastri dell’innovazione

La decisione di definire e implementare un processo innovativo scaturisce dall’intenzione di introdurre sul mercato un prodotto o servizio che rappresenti per l’utente una soluzione soddisfacente ad un problema concreto, sia che si adotti un modello di innovazione chiusa sia che si faccia riferimento al paradigma dell’innovazione aperta.

Dunque, l’elaborazione di un’idea, affinché sia di successo non può essere svincolata dall’individuazione di un certo problema di cui essa stessa rappresenti la soluzione. Ed infatti, oggigiorno chiunque sembra avere grandi idee per nuovi prodotti o servizi, ma, poiché non sempre tali idee rappresentano una soluzione ad un problema reale, queste finiscono con l’essere accantonate21.

Occorre considerare che:

- L’individuazione di un problema non è sempre agevole, dal momento che gli utenti non sempre palesano una necessità;

- I potenziali approcci di risoluzione al problema sono molteplici, e lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi rappresenta soltanto una delle soluzioni possibili;

- Qualora si implementi un processo innovativo come strumento di risoluzione a un problema, bisogna fare riferimento ai cosiddetti “tre pilastri” dell’innovazione: competenze – innovation competence; gestione dell’innovazione – innovation management, collegamento tra innovazione e strategia – the linkage between strategy and innovation22.

21 Aaron Shapiro. Real innovation is about solving problems, not having ideas: http://thenextweb.com - 2015

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2.1.1 Innovation competence and innovation commitment

Con “competenza innovativa” si intende la capacità di un’impresa di generare nuove idee e dare alle stesse un seguito reale e di successo. Il livello di innovation competence non solo rispecchia il numero di idee generate e sviluppate proficuamente, ma risente anche dell’adeguatezza e coerenza con cui vengono impostate e si susseguono le fasi del processo innovativo, e di quanto sia diffusa una cultura aziendale propensa alla sperimentazione di nuove soluzioni. Dunque, affinché il processo d’innovazione produca risultati concreti, lo sviluppo di competenze innovative costituisce una prerogativa.

Nel modello proposto da Tim Kastelle23 la dimensione della innovation competence viene affiancata da un’ulteriore variabile, l’innovation commitment che riflette il coinvolgimento e l’attenzione rivolta dall’organizzazione all’innovazione. Tipicamente in un’impresa innovation-committed l’innovazione è ricompresa tra i principali core values, vengono predisposti opportuni strumenti a supporto di ciascuna delle fasi del processo innovativo, notevoli risorse vengono dedicate alle attività di Ricerca e Sviluppo e il top-management è pienamente coinvolto nei processi di innovazione.

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Dalla combinazione delle due variabili scaturisce una matrice dell’innovazione: a seconda del grado di innovation competence e innovation commitment, ciascuna impresa viene a collocarsi in uno specifico quadrante, e per ogni posizionamento viene proposto un percorso strategico di miglioramento.

Figura 7The Innovation Matrix

Kastelle T. The Innovation Matrix Explained - timkastelle.org/blog, 2012

a. Not innovating very much: le organizzazioni che presentano un livello di innovation commitment molto basso e competenze innovative altrettanto ridotte si posizionano nel quadrante “Not innovating very much”. Per queste, l’innovazione non rappresenta un valore cardine a cui ispirarsi, non viene impostato alcun processo innovativo consapevole e controllato, né vengono allocate specifiche risorse (di personale o capitali) da destinare alle attività di Ricerca e Sviluppo. Inoltre, il numero di idee generate e sviluppate con successo è esiguo e manca una cultura organizzativa orientata alla sperimentazione. In altre parole, il tema dell’innovazione viene completamente ignorato.

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Per esprimere un giudizio circa il posizionamento in questo quadrante e per definire il miglior percorso strategico, occorre tenere conto dell’eventuale presenza di un performance gap (inteso come differenza tra quello che le imprese ottengono e quello che vorrebbero ottenere dallo svolgimento delle loro attività) e del grado di stabilità del mercato in cui le organizzazioni operano. Ed infatti:

- Se una data organizzazione è consapevole di un certo performance gap e/o opera in un mercato caratterizzato da un sostenuto cambiamento, allora il posizionamento in questo quadrante è da ritenersi poco sostenibile. Senza intraprendere alcun percorso d’innovazione, infatti, il performance gap inevitabilmente si amplia e, in alcuni casi, l’impresa rischia di scomparire definitivamente perché non è in grado di adeguarsi ai cambiamenti imposti dal mercato.

Queste imprese, dunque, non possono in alcun modo continuare a disinteressarsi all’innovazione, e sono pertanto chiamate ad incrementare il livello di innovation commitment e a perfezionare le competenze innovative. Al contrario, ci sono organizzazioni per le quali il performance gap è pressoché nullo e il mercato in cui operano è particolarmente stabile.

Per esse l’innovazione non rappresenta una prerogativa e risultare “non innovative” non costituisce affatto un problema. Occorre precisare, tuttavia, che ciò è ammesso a patto che rimangano valide allo stesso tempo le due condizioni di performance gap nullo e inalterabilità del mercato.

Si pensi alle imprese di successo consolidate su mercati stabili: poiché conseguono esattamente gli obiettivi prefissati e agiscono in un settore molto poco dinamico, possono completamente disinteressarsi all’innovazione. Analogamente, per oligopolisti e monopolisti il posizionamento in questo quadrante non costituisce una condizione problematica. Poiché non hanno concorrenti, il mercato per queste imprese è molto poco variabile; e anche qualora rilevassero un performance gap, sarebbero comunque legittimati a non interessarsi all’innovazione (almeno

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da un punto di vista economico). Non solo non c’è alcun rischio che i consumatori si rivolgano ad un concorrente più innovativo che fornisca loro lo stesso prodotto o servizio, ma avviare un processo d’innovazione intaccherebbe quei profitti che essi realizzano grazie ad una posizione dominante e favorevole.

b. Thinking about innovation: focalizzando l’attenzione su quelle imprese che decidono di intraprendere un percorso innovativo – perché consapevoli di un certo performance gap e/o perché operanti in un mercato dinamico ed instabile – queste cominciano a guardare all’innovazione con maggiore interesse e coinvolgimento, mettono a punto diversi strumenti di supporto al processo innovativo, dedicano adeguate risorse da destinare alle attività di Ricerca e il top-management è discretamente coinvolto nelle discussioni in materia di innovazione. In altre parole, per tali organizzazioni si rileva un accrescimento nel livello di innovation commitment ed uno spostamento dal quadrante “Not innovating very much” al quadrante “Thinking about innovation”.

Mentre il posizionamento nel quadrante precedente non rappresentava di per sé una condizione problematica, lo stesso non si può dire in questo secondo caso. Le imprese, infatti, poiché non fanno corrispondere ad un aumento del livello di innovation commitment un adeguamento delle innovation competences, finiscono con trovarsi nella tipica situazione da “Air sandwich”24: si ha una visione ben precisa di ciò che si vuole ottenere in futuro, a partire dalla consapevolezza concreta di ciò che si è nel presente, ma manca è qualcosa che metta in contatto le due dimensioni (da qui l’espressione “Air Sandwich”), ovvero le competenze che consentono di transitare da un certo stato delle cose – passato – ad un altro – futuro. Ed infatti, le idee generate sono ancora troppo “inconsistenti”, il processo innovativo non è

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ancora impostato in maniera completa e consapevole e lo slancio verso la sperimentazione è ancora troppo timido.

Un corretto percorso di miglioramento che consenta di apprezzare risultati concreti e ridurre al minimo il tempo di permanenza in questo quadrante richiede, dunque, un potenziamento delle innovation competences e, in primo luogo, impone che si guardi all’innovazione come ad un processo sistematico di cui il momento di generazione e raccolta delle nuove idee rappresenta solo una fase. Ed infatti, il processo innovativo si compone delle fasi25 di

- Idea generation, in cui vengono generate e raccolte nuove idee avvalendosi spesso di attività di brainstorming: facendo leva sul loro senso di creatività e partecipazione, gruppi di persone vengono coinvolti per la messa a punto di nuove idee;

- Idea selection and implementation, in cui le idee di maggiore valore vengono selezionate e sviluppate. Frequenti sono le innovation jams in cui gruppi di persone interagiscono per individuare e filtrare le idee che verosimilmente sono in grado di soddisfare concretamente il consumatore;

- Idea diffusion, che consiste nella traduzione concreta di tali nuove idee in prodotti e servizi. Alla fase di selezione delle idee segue quella di elaborazione delle stesse, fino allo sviluppo di nuovi prodotti o servizi. A tal proposito, un tipico strumento adottato è lo Stage-gate model 26 definito come un modello che “rapidamente e in maniera profittevole consente di trasformare le migliori idee in nuovi prodotti di successo” (S.J. Edgett, 2015): il processo di sviluppo dei nuovi prodotti si articola in un numero ben definito di fasi (stages) e si conclude con la validazione e il lancio del nuovo bene o servizio; il passaggio da una fase all’altra è consentito soltanto se il progetto supera i singoli gates posti proprio in corrispondenza di ciascuna di queste fasi.

25 Kastelle T. Innovation is the process of idea management - timkastelle.org/blog, 2010

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Dunque, se è vero che per dare avvio al processo innovativo la fase di generazione delle nuove idee è indispensabile, è altrettanto vero che questa da sola non è in grado di garantirne il successo e l’efficacia del processo.

In secondo luogo, come conseguenza di quanto appena detto, occorre destinare maggiori risorse a sostegno delle fasi di selezione, sviluppo e diffusione delle idee poiché il miglior modo per costruire una cultura orientata all’innovazione è adoperarsi affinché tali nuove idee siano rese concrete.

c. Bewildered: come già detto, il percorso di evoluzione ideale segue, all’interno della matrice, una direzione diagonale: l’incremento dell’innovation commitment deve essere sostenuto in egual misura da un aumento delle innovation competences. Qualora ciò non avvenga, il posizionamento nel quadrante “Thinking about innovation” inevitabilmente induce le imprese nella trappola del Bewilderment. Con l’intenzione di raggiungere traguardi concreti, le imprese spesso tendono (invano) ad insistere sulla dimensione dell’innovation commitment e ad ignorare quella dell’innovation competence. Ma, di contro, continuano a non ottenere alcun risultato e si rivelano pertanto demotivate e frustrate (appunto, bewildered).

Le organizzazioni che si collocano in questo quadrante predispongono un’ottima impalcatura al processo innovativo (formalmente l’innovazione rientra tra i principali core values, vengono adottati appositi strumenti di supporto a ciascuna delle fasi del processo, vengono dedicate notevoli risorse alle attività di Ricerca e il top-management è pienamente partecipe alle discussioni sul tema innovazione). Tuttavia, tale apparato non è in grado di condurre l’impresa verso il successo.

Le “istruzioni” strategiche di cui si è già detto per le imprese Not Innovating Very Much risultano ora ancora più adeguate. Per uscire dalla trappola del bewelderment e poter apprezzare realmente dei risultati occorre, quindi, approcciarsi al processo innovativo in maniera sistematica e consapevole, rafforzare concretamente le

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innovation competences per ridurre gli “Air sandwiches” e allocare adeguate risorse per supportare le fasi di reale sviluppo e diffusione delle idee.

È frequente, tuttavia, che a risultare inadeguata o insufficiente sia anche l’impalcatura formale che si è instaurata a seguito dell’incremento dell’innovation commitment. In questi casi, oltre ad intervenire sulla variabile delle innovation competences è necessario assicurarsi che anche il livello di innovation commitment rispecchi un apparato effettivamente funzionante.

d. Accidental innovators: le imprese accidental innovators presentano formalmente una scarsa sensibilità all’innovazione (basso innovation commitment), tuttavia sono dotate di buone innovation competences. Si configurano come innovatori fortuiti (appunto accidental) perché, pur non definendo esplicitamente alcuna struttura a cui attenersi, risultano discretamente abili nel generare, selezionare, sviluppare e diffondere nuove idee.

Si collocano in questo quadrante quelle imprese che, per la natura del settore di appartenenza, possiedono intrinsecamente una cultura organizzativa propensa alla sperimentazione e adottano una filosofia gestionale di tipo learning by doing. Ne sono un esempio i laboratori di ricerca scientifica: le persone, per lo più creative, vengono lasciate libere di sperimentare e imparare autonomamente, anche dagli errori, senza attenersi a strutture e processi vincolanti.

Analogamente, la maggior parte delle start-up dispone di strutture a supporto del processo innovativo inadeguate e le risorse, soprattutto finanziarie, scarseggiano. Nonostante ciò, il loro livello di innovation competence è discretamente sostenuto, dal momento che la loro sopravvivenza è legata alla capacità di proporre soluzioni innovative.

Infine, appartengono alla stessa categoria tutte quelle imprese che innovano senza averne neppure la consapevolezza, definite come innovatori letteralmente accidentali. Gli spunti innovativi provengono dal basso, cioè dai livelli organizzativi gerarchicamente inferiori e, nonostante l’innovazione non rappresenti un core

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value, di fatto tali organizzazioni riescono a sviluppare e concretizzare con successo nuove idee.

Dal momento che gli innovatori accidentali riescono a raggiungere traguardi soddisfacenti senza particolari sforzi, il loro posizionamento all’interno della matrice sembrerebbe quasi invidiabile. Tuttavia l’assenza di equilibrio tra innovation competence e innovation commitment nasconde delle insidie. In particolare, poiché le attività innovative vengono eseguite in maniera quasi inconsapevole, le imprese difficilmente riusciranno a riprodurle e a replicare nel tempo gli stessi risultati. E in un contesto così dinamico, che continuamente chiede alle imprese nuove soluzioni per nuovi problemi, non è possibile limitare l’innovazione a degli episodi sporadici, né affidarsi alla creatività e al caso. Come già detto, lungo il percorso innovativo le due variabili devono evolversi in pari misura: le imprese altamente innovation-committed, ma con scarse competenze innovative, non riescono a raccogliere frutti concreti, sperimentano un forte senso di frustrazione e guardano all’impostazione di tutte le strutture di supporto come uno spreco di tempo e risorse (sbilanciamento verso la dimensione innovation commitment); allo stesso modo, le imprese che riescono a produrre e sviluppare con successo idee innovative, ma senza alcuna impalcatura solida di fondo, inverosimilmente riusciranno a sostenere tali vantaggi nel tempo (sbilanciamento verso la dimensione innovation competence).

e. Fit for purpose e World class innovators: il quadrante “Fit for purpose” si trova lungo

la diagonale della matrice, dunque le imprese qui collocate godono di una condizione di equilibrio in cui le due variabili sono bilanciate. Come per le imprese che iniziano a pensare all’innovazione, anche quelle di tipo Fit for purpose guardano a questa con interesse e coinvolgimento, adottano alcuni strumenti di supporto al processo innovativo, dedicano modeste risorse alle attività di Ricerca e il top-management è discretamente coinvolto nelle discussioni in materia di innovazione. Pur non essendo il livello di innovation commitment particolarmente sostenuto, esso è coerente con il grado di innovation competence. Ed infatti, le organizzazioni

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poste in questo quadrante sono in grado, anche se non in maniera eccellente, di elaborare e sviluppare con successo le idee innovative.

Le imprese che si trovano nella situazione appena descritta godono di un certo equilibrio e, dunque, il posizionamento nel quadrante Fit for purpose può essere sostenuto anche nel lungo periodo. Il discriminante, a questo punto, è dato dal rapporto che le organizzazioni hanno con l’innovazione. In altre parole, se per queste l’innovazione è il punto di forza, allora dovrebbero puntare in alto, incrementando le due dimensioni – in eguale misura – fino a diventare World class innovators. Al contrario, se la fonte del vantaggio competitivo non è data dall’innovazione, allora è possibile continuare ad operare con lo stesso livello di innovation commitment e innovation competence (a patto che, come per il quadrante “Not innovating very much”, non sopraggiunga un performance gap e/o una condizione di environmental change).

f. Potential stars: le imprese definite Potential stars o Nearly good innovators si distinguono per il loro alto livello di innovation commitment non abbinato, tuttavia, ad un altrettanto alto livello di innovation competence. Le organizzazioni che si posizionano in questo quadrante, infatti, ricomprendono l’innovazione tra i core values, adottano appropriati strumenti di supporto alle fasi del processo innovativo, dedicano notevoli risorse alle attività di Ricerca e Sviluppo e il top-management dedica tempo ed attenzione a tutte le questioni che ruotano attorno all’innovazione. Le Potential stars, inoltre, sono in grado di ottenere anche risultati di discreto successo, ma non coerenti con il livello di innovation commitment. Molto spesso, infatti, sono abili solo limitatamente a certe aree (ad esempio, alcune spiccano nella sola innovazione di prodotto), non sfruttando a pieno i benefici che potrebbero derivare dalle infrastrutture tecniche e culturali messe a punto.

Affinché le potenziali stelle dell’innovazione diventino veri e propri World class innovators devono arricchire le loro prospettive, accogliendo una visione di innovazione a tutto tondo.

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g. Unicorns: il quadrante “Unicorns” descrive una situazione in cui, pur senza compiere alcuno sforzo (livello di innovation commitment molto basso), si ottengono risultati innovativi di grande successo (livello di innovation competence molto alto).

In realtà, nessuna impresa presenta queste caratteristiche. A differenza degli innovatori accidentali che, pur avendo un’infrastruttura molto debole, fanno leva su una certa cultura organizzativa predisposta alla sperimentazione per ottenere risultati discreti – non eccellenti, gli Unicorns sono innovatori leggendari che, di fatti, non esistono (da qui, l’analogia con gli unicorni). È pressoché impossibile generare e sviluppare idee di grande successo senza destinare risorse alle attività di Ricerca e Sviluppo, senza definire alcuno strumento a supporto del processo innovativo e senza coinvolgere il top-management nelle discussioni in materia di innovazione. Dunque, in breve, più che descrivere una situazione reale, questo quadrante costituisce per le imprese una sorta di richiamo affinché siano consapevoli del fatto che l’innovazione, perché di successo, richiede un’adeguata predisposizione e attenzione.

h. Stars at risk: le imprese definite nel modello come Stelle a rischio sono in grado di generare nuove idee e dare a queste un seguito concreto e di grande successo (dunque, per questo “stars”). Tuttavia, il livello di innovation commitment non è altrettanto rilevante quanto le innovation competences, generalmente perché l’ammontare degli investimenti – sia di tipo finanziario che di capitale umano – è insufficiente, o perché le infrastrutture formali di fondo sono inadeguate.

Se si guardasse solo agli output del processo innovativo e a quanto questi siano in grado di garantire alle imprese ampi ritorni, il posizionamento nel quadrante “Stars at risk” sembrerebbe quasi la migliore delle posizioni: minimo sforzo, massima resa. Tuttavia, il successo costruito sulla base di un così basso innovation commitment è “a rischio”, perché non è supportato da un processo consapevole e, dunque, non sempre replicabile.

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