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I bienni rossi del Novecento: una lettura sociologica

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Academic year: 2021

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Intervento alla Tavola Rotonda di Paolo Giovannini

1. Credo sia nostro compito tirare le fila del convegno e metterne in luce i punti critici e le zone d’ombra, anche se affrontando un tema così vasto non si poteva pretendere di essere esaustivi. Comincio con alcune osservazioni di carattere generale, poi seguirò la traccia stessa del convegno, che si è snodato attraverso un’analisi dei soggetti sociali e politici che stavano dietro i due movimenti, per passare a una riflessione sui luoghi dove si è svolto il conflitto sociale e infine guardando alle culture e alla memoria, che è stato a mio parere qualcosa di più di una considerazione pur importante sull’eredità simbolica, culturale, archetipa di questi bienni.

Una prima riflessione è stata portata avanti soprattutto dai giovani ricercatori, ed è quella della periodizzazione dei movimenti. Noi avevamo scelto, come recita il titolo del convegno, una periodizzazione che identificava i due bienni rispettivamente negli anni ’19-’20 e ’68-’69. Molti hanno fatto presente l’opportunità di identificare all’interno dei due bienni dei sotto-periodi con caratteristiche diverse. Qualcuno ha proposto, per esempio, di includere nel biennio ’19-’20 anche l’ultima parte del 1918; altri hanno sottolineato l’utilità di distinguere il ’68 dal ’69, essendo il ’68 caratterizzato soprattutto dalla presenza del movimento studentesco e il ’69 da quella della classe operaia. Altri ancora hanno rilevato che limitare lo spazio di azione dei movimenti collettivi a questi due anni, rispettivamente del primo e del secondo biennio, poteva essere fuorviante e hanno proposto una considerazione di cicli più lunghi (vedi ad es. Bianchi). Soprattutto per il ’68-’69 molti hanno segnalato come il ciclo della conflittualità sia arrivato fino al 1973 (per tutti, vedi Francescangeli e Loreto) e come ci siano state anticipazioni consistenti del movimento fin dai primi anni ’60. Tutte cose naturalmente vere. Vorrei però difendere, per quanto vale, questa scelta fatta dagli organizzatori del convegno, perché i movimenti, se di questo vogliamo parlare, hanno io credo una natura tutta particolare. Qui c’è un’esperta come Donatella Della Porta, che potrà dire più autorevolmente di me la sua. Sono fasi storiche di effervescenza collettiva, per loro natura eccezionali e per loro natura relativamente brevi. Hanno certo fasi di ascesa, di consolidamento, di prime manifestazioni, a cui seguono poi fasi di declino e di istituzionalizzazione. Ma la fase da identificare come movimentista, di movimento collettivo, è sempre relativamente breve, e a mio parere è dunque opportuno che

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questa periodizzazione sia mantenuta, anche perché altrimenti si perde il carattere di eccezionalità del movimento. Lo diceva ieri Gianprimo Cella, quando affermava: “Attenzione, qui siamo in presenza di movimenti che hanno un carattere di grande eccezionalità storica”. Non possiamo pensare che esistano o fioriscano con grande frequenza in Italia o nel mondo movimenti che hanno questa natura, questa portata storica, queste conseguenze sociali, questo spessore culturale. I due bienni, insomma, hanno avuto un carattere di eccezionalità, e questa eccezionalità va mantenuta e non annacquata.

Una seconda riflessione di carattere generale che ha caratterizzato la discussione di questi tre giorni è quella che ha voluto collocare i due bienni in questo strano secolo tormentato e problematico, che è il ’900: e non solo per motivi cronologici. Molti, e su questo sono d’accordo, hanno rilevato come il primo biennio costituisca in un certo senso una sorta di porta d’ingresso nel ’900. Scaturito dalla grave crisi bellica e post-bellica della Prima guerra mondiale, il biennio ’19-’20 si manifesta in quella fase storica che interessa tutti i paesi europei e gli stessi Stati Uniti, e che segna l’ingresso delle masse sulla scena storica. Questo è il dato che caratterizzerà tutto il ’900, il secolo dei grandi movimenti politici, dei regimi e delle dittature di massa. Credo che questo aspetto, che lega il primo biennio alle prime massicce manifestazioni dell’ingresso delle masse sulla scena storica debba essere sottolineato con forza. Che il secondo biennio sia una sorta di fase di chiusura del “secolo breve” è invece a mio parere più discutibile. Il ’68-’69 non è andato incontro a una sconfitta rapida e a un ridimensionamento politico e culturale, come è successo al primo biennio con lo squadrismo nero che ne è seguito e l’avvento del fascismo. Esso ha chiuso, è vero, una fase storica importante, ma sicuramente ne ha aperta un’altra, quella fase che potremmo definire della modernità, con però tratti consistenti di post-modernità, se mi è concesso usare il linguaggio dei sociologi, perché ha portato avanti tutta una serie di valori, interessi, bisogni radicalmente nuovi, in linea con il processo di modernizzazione che stava interessando tutta l’Europa, ma per molti versi favorendo l’introduzione nei meandri e nelle cellule della società italiana di quei valori della post-modernità che prenderanno poi pienamente piede a partire dalla fine degli anni ’70. Assai più che nel primo biennio, la sua azione si è dipanata in tutte le sfere della vita pubblica e privata, sul piano economico e sociale, civile e politico, personale e sessuale, con una ricaduta a tutto tondo dei messaggi e dei valori portati avanti dal movimento.

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Vorrei a questo punto ripercorrere rapidamente i tre filoni di riflessione che abbiamo seguito in questi giorni per avanzare qualche considerazione e introdurre nuovi elementi di discussione. Comincerei dai soggetti. Qui non posso che fare delle scelte, perché sono tantissimi e tutti di grande interesse i punti che sono stati sollevati nella discussione. Mi fermo anch’io sull’intervento per molti versi eccezionale di Elio Giovannini, che a mio parere ha posto una delle questioni di maggiore interesse, sulle quali sono d’accordo solo parzialmente, ma che va presa seriamente in considerazione in questa riflessione finale sui soggetti dei movimenti. Quale è stato il soggetto sociale cruciale, sul piano economico e politico, dei due bienni? Sostanzialmente, e andando contro molta letteratura e anche in direzione diversa da quello che sia io che Ginsborg avevamo sostenuto nelle nostre relazioni introduttive, Elio Giovannini afferma che nel primo biennio al centro delle lotte del movimento c’era la classe contadina, in particolare nella sua variante bracciantile: mentre la classe operaia è stata meno centrale e persino in qualche misura storicamente subalterna nel movimento. Nel secondo biennio Elio Giovannini, che su questo terreno è stato seguito da molti, ha sostenuto che al centro del movimento ci sono stati gli operai meccanici, e più in generale quella classe operaia che però era (e su questo secondo me ha pienamente ragione) strettamente legata alla vecchia classe operaia di mestiere; mentre andrebbe ridimensionato il ruolo di quelli che ho chiamato ceti medi inconsapevoli, e cioè gli studenti universitari con la loro carica di modernizzazione, e più in generale di tutte quelle forze nuove che in quel biennio si erano manifestate.

Per rispondere ad Elio Giovannini, provo ad introdurre un elemento che c’entra con quello che è poi il secondo tema del convegno, cioè il luogo. Ritengo, e altri lo hanno detto in questi tre giorni, che dovremmo complicare il quadro dell’analisi dei movimenti, introducendo un po’ più pesantemente di quanto abbiamo fatto finora e un po’ meno astrattamente la variabile territoriale. L’Italia, allora più di oggi, era un paese profondamente diviso e diversificato al suo interno, e dunque l’analisi dei protagonismi e la stessa nostra capacità interpretativa cambia molto a seconda di quale parte d’Italia guardiamo. Elio Giovannini guarda soprattutto all’Emilia, alla Padania, a certe zone del Veneto, e certamente così facendo coglie aspetti importanti dei processi in esame. Guarda anche a sud, intendiamoci, ma il cuore del suo discorso è riferito alle aree settentrionali. Persino il problema della composizione sociale delle classi, poniamo delle classi contadine come classi determinanti e soggetti principali dello scontro nel primo biennio, andrebbe a

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mio parere specificato territorialmente. Faccio proprio l’esempio dell’Emilia di Elio Giovannini, ma che vale anche per altre regioni italiane. E’ vero che lì c’era una forte componente bracciantile, e una forte presenza della Federterra. Ma la storia del movimento socialista e operaio di quelle aree e il fatto che là non ci fossero forze di grande industria, ma ci fosse un’articolazione e una frammentazione produttiva di tipo artigianale-industriale, terziario, cittadino molto importante, come Giovannini sa meglio di me, le Camere del Lavoro hanno avuto un ruolo molto importante nella conduzione e nella gestione del conflitto, con un’azione che partiva dalle città e andava verso le campagne. In questo senso, sì, i braccianti hanno giocato un ruolo molto importante, ma lo hanno giocato all’interno di un’azione territorialmente dispiegata e governata in gran parte dalle Camere del Lavoro. Insomma, come hanno dimostrato emblematicamente le relazioni dei giovani ricercatori sulle città dell’Italia dei bienni, cioè le analisi su Milano, Torino, Firenze, Napoli, l’Italia era una realtà molto variegata e i soggetti sociali protagonisti dei movimenti si definivano, si articolavano e si declinavano in forma diversa anche a seconda del territorio.

Faccio un altro esempio, che conosco bene essendo di Firenze. L’esempio si presta ad una considerazione di carattere generale, a cui mi sembra che accennasse anche Ginsborg nella sua presentazione. Questo convegno è stato organizzato dalla fondazione Di Vittorio e dall’Associazione Biondi Bartolini, cioè è stato organizzato da due istituti di studi e di ricerca molto vicini al sindacato e al movimento operaio e credo che questo si sia sentito. Nel senso che, per esempio, la sessione sui luoghi del pomeriggio del ’21 è stata una sessione da cui è scomparso il luogo Università. Il movimento studentesco è stato studiato e analizzato nella seduta precedente sui soggetti, ma pochissimo in quella sui luoghi, mentre io credo che le Università e soprattutto le città universitarie (Pisa, Firenze, Trento, ecc.) siano state un luogo importante e direi determinante di quegli anni. Diciamo che si è prestata molta più attenzione, forse per la natura di questo incontro, alle classi operaie o comunque alle classi lavoratrici nel suo complesso che non ad altri soggetti sociali: mentre si è dato poco spazio all’articolazione territoriale del conflitto e alle diversità dei soggetti che intervengono e danno il segno delle diverse aree. Ad esempio a Firenze, abbiamo avuto un movimento operaio relativamente meno combattivo rispetto ad altre aree del paese, ma abbiamo avuto invece un movimento studentesco che è stato all’avanguardia delle lotte del ’68 in tutta Italia, specialmente in alcune facoltà universitarie, da architettura

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a lettere a scienze politiche. Non vorrei che il discorso giusto di Elio Giovannini ci portasse insomma a dimenticare alcuni protagonisti che ci sono stati e che sono stati di tutto rilievo.

Chiudo con un’ultima riflessione sulla terza sessione: le culture e la memoria. Qui c’è materia grande di riflessione sotto almeno due aspetti. Il primo è l’invito che ne deriva a tutti noi di riflettere sull’eredità e gli insegnamenti di questi movimenti, e in particolare su quello del secondo biennio, per capire quanto esso sia entrato nel patrimonio genetico, negli archetipi culturali, nella cultura e nell’universo simbolico del movimento operaio e delle forze politiche che si rifanno al movimento operaio, e che uso ne possiamo fare oggi, che insegnamenti ne possiamo trarre, per esempio sul rapporto tra movimenti e forze organizzate nelle nuove condizioni della società italiana, di una società cioè proiettata nell’epoca della globalizzazione.

Il secondo aspetto è direi più analitico e interpretativo. La ricchezza stessa delle tematiche affrontate nell’ultima sessione ci dice che i movimenti, come è nella loro natura, anche se nascono dall’azione di determinati soggetti, anche se si svolgono principalmente o magari esclusivamente in certi luoghi e intorno a certe tematiche, mettiamo la fabbrica e il lavoro, in realtà hanno per loro natura un effetto diffusivo delle risorse simboliche, culturali, di ideazione, di innovazione che nascono dall’effervescenza collettiva che li caratterizza. I loro effetti si estendono a tutte le dimensioni della vita con un effetto propagativo molto forte. I cambiamenti che si producono, che toccano nel profondo le persone, il loro modo di essere, il loro modo di vivere quotidiano, sono insomma quasi di tipo antropologico. E’ questo, in particolare, l’effetto che ha avuto, a mio parere, il secondo biennio.

2. Tra gli scopi di questo Convegno, c’era anche quello di ricavare dall’analisi e dalla comparazione dei due bienni qualche spunto di riflessione sull’oggi, in particolare sui rapporti tra i movimenti sociali (o supposti tali) di questi anni, e le forze sindacali e politici della sinistra. L’attesa non è andata delusa, come si è più volte registrato nelle relazioni e soprattutto nei dibattiti che le hanno seguite.

La parte finale di questa Tavola Rotonda è esplicitamente dedicata al tentativo di attualizzare la ricerca storico-sociologica sui due bienni. Da parte mia, proverò a ragionare su tre punti. Prima di tutto, la dimensione internazionale: che ruolo ha giocato e che ruolo gioca oggi. Credo che si possano fare riflessioni di vario tipo. I due bienni si collocano entrambi nel ’900 – e non solo cronologicamente, come diceva Ginsborg con apparente

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ovvietà – e del 900 portano ancora con sé tutta una serie di questioni che rimangono nazionali anche se si esprimono sul piano internazionale. Non a caso le forze protagoniste dei movimenti si sono espresse, anche nel secondo biennio, soprattutto in alcuni paesi e – cosa ancora più importante – con obiettivi nella sostanza circoscritti al piano nazionale e a interessi e valori di classi e gruppi sociali definiti da appartenenze nazionali. Il movimento di questi primi anni del Duemila – se di movimento si tratta – evoca la dimensione internazionale ma in forma radicalmente nuova. Non a caso si parla di dimensione globale, intendendo con questo non soltanto che è coinvolto tutto il globo, ma che sono coinvolte molte e diverse dimensioni della vita del pianeta: le nuove tecnologie, la società dell’informazione, i rapporti economici internazionali modellati dall’azione delle multinazionali, il problema della pace e della guerra; tutte dimensioni che affollano e definiscono uno scenario di cui tutti volenti (o più spesso nolenti) siamo partecipi. Il movimento del 2001-2004 deve essere inserito e capito all’interno di questo processo, perché solo così possiamo capire anche certe differenze rispetto ai movimenti precedenti. Parliamo, ad esempio, dell’intermittenza che li caratterizza, il loro apparire e sparire, la struttura reticolare della mobilitazione, ma aggiungerei anche la struttura a rete della loro presenza sociale. Mentre come ho detto nei movimenti sociali del ’900 erano fortemente presenti le classi sociali strutturate vecchie e nuove con i loro interessi e i loro valori, qui siamo in presenza di un reticolo organizzativo di natura diversa, di una mobilitazione e di un protagonismo sociale che ha poco o nulla a che fare con le classi sociali tradizionali. Vi si individuano aggregazioni di tipo diverso, vi si fondono appartenenze che sono non solo e magari residualmente di classe, ma sono di generazione, di genere, di istruzione, e di mille altre voci e sensibilità individuali e collettive.

DA QUI

Seconda questione. Se è movimento, mah! Sono un sociologo è vero ma ho frequentato abbastanza la storia per avere un certo timore a pronunciarmi sugli eventi che mi stanno passando sotto gli occhi e quindi stento a prendere posizione. Stento a prendere posizione, perché potremmo essere in presenza di qualche cosa che non ha quelle caratteristiche che siamo venuti definendo in questi tre giorni ma che a sua volta si presenta come movimento in forma nuova, e quindi credo che su questo ci voglia un supplemento di

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indagine e di riflessione, probabilmente utilizzando quelle categorie interpretative nuove che ci ha proposto nella sua bella relazione Donatella Della Porta e che abbiamo, io lo confesso autocriticamente, poco utilizzato in questi tre giorni di convegno, ma la prossima voltale utilizzeremo di più.

Ancora una riflessione sul confronto, sempre evocato ma difficile da definire, fra movimenti e forze organizzate, se volete movimenti sociali e politica che è un po’ il filo rosso di tutti questi nostri incontri. Ma oggi sottolineava Donatella siamo in presenza come un po’ accade sempre nei movimenti, come abbiamo visto accadere anche nei movimenti del 19-20 e più decisamente nel movimento del 68-69, cambia i modi e le forme della politica, forse cambia persino il senso della politica e la definizione di politica: la politica non è più quella cosa ufficiale, paludata, riservata a determinati ceti della politica ma è qualcosa che ha una dimensione più coinvolgente eccetera eccetera. Probabilmente oggi il movimento nuovo, chiamiamolo, si presenta con una capacità più radicale di mutare le forme e i modi della politica. Io ho però un timore, dato come dire dalla condizione un po’ deprimente della politica contemporanea nazionale e internazionale, e cioè che mentre in alcuni periodi soprattutto nel 68-69 ci sono stati perlomeno parziali tentativi riusciti di far propri i messaggi diciamo che venivano dal movimento proprio relativamente alle forme e ai modi della politica e della rappresentanza. Oggi quasi mi sembra che la reazione – ma è quasi una domanda che faccio – che la reazione sia diversa cioè che ci sia un progressivo allontanamento della politica ufficiale da queste nuove richieste e che invece di mutare – come potrebbe essere logico sotto la forza delle nuove proposizioni che vengono dai mutamenti – si adottano dei modelli che queste domande le negano completamente: modelli di tipo populista, demagogico, manipolatorio eccetera eccetera, no? diciamo la politica va per conto suo. Va per conto suo e questo è estremamente pericoloso perché fa di un movimento minoritario come sono tutti i movimenti sociali ha fatto bene Paul Ginsborg a sottolinearlo fa di un movimento minoritario un movimento a rischio di isolamento, a rischio di marginalità, perché diciamo non è riuscito a muovere e a coinvolgere la politica.

Ancora un’osservazione sull’interrogativo successi e fallimenti dei movimenti. Ma io mi sono come si sa pronunciato in modo diverso da quello di Paul, però sono venute varie domande a questo tavolo che diciamo hanno posto la questione del perché in Italia si sono avuti determinati esiti e perché in altri paesi si sono avuti esiti differenti. Mah, insomma, una prima risposta mi pare che fosse anche introdotta dall’intervento [detti ieri??]. cioè in

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alcuni contesti nazionali si è avuto da parte delle classe dirigenti si è avuto da parte delle classi dirigenti una capacità di risposta a istanze che venivano dal movimento. La Francia per esempio ha agito, se vuoi, se volete, in forma anche furbesca eccetera eccetera, ma ha reagito in qualche misura al movimento del maggio francese e ha dato delle risposte, per esempio, sull’università le ha date, cosa che non è avvenuta in Italia. non le ha date su tutta la società francese ma sul quel luogo del movimento in cui agivano principalmente gli studenti francesi lo ha dato eccome e questo ha voluto dire anche un esaurimento. Un esaurimento perché in parte certe istanze, richieste del movimento sono state accettate.

Però, vorrei fare un ultima osservazione, però non capisco tanto ripeto il pessimismo di Ginsborg, perché in effetti non si può pensare, non è nella logica e nella natura dei movimenti che abbiano successo in tutto e per tutto. Nella logica dei movimenti che hanno un carattere come abbiamo detto molte volte anche di tipo utopistico e millenaristico è ovvio che tutta una serie di istanze di bisogni rimangono non realizzati, non accettati non fatti propri dalla società e dalle forze organizzate a cui si riferiscono. Quindi diciamo non si può valutare il successo o il fallimento di un movimento da, il successo o il fallimento nell’adozione delle proprie idee delle proprie proposte. Bisogna fare, dare una valutazione, come dire, contestualizzata, su quanta ricaduta c’è stata da parte del movimento collettivo in termini di idee, di valori e di bisogni, sulle dimensioni più quotidiane e più politiche della società a cui si riferisce. Grazie.

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