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La ricerca universitaria verso il mercato per il trasferimento tecnologico e rischi per l’”open science”: posizioni teoriche e filoni di indagine empirica

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Università degli Studi di Salerno

DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE E STATISTICHE

Roberto Iorio*

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MPIRICA

WORKING PAPER 3.166

Luglio 2005

* Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche – Università degli Studi di Salerno – via Ponte Don Melillo – 84084 Fisciano (Salerno), riorio@unisa.it

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Abstract

...3

Introduzione

...5

1. I dati del fenomeno: brevetti universitari e collaborazioni tra università e industria

...9

2. Modalità di trasmissione della conoscenza dalla ricerca pubblica all’impresa

...14

3 .Tipologie e motivazioni delle relazioni università-industria

...16

4. L’impatto di brevetti e collaborazioni industriali sulle

pubblicazioni dello scienziato

...20

5. Due posizioni critiche sull’estensione dei diritti di proprietà intellettuale alla ricerca universitaria

...24

Conclusioni

...27

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La ricerca universitaria verso il mercato tra benefici per il trasferimento tecnologico e rischi per l’ “open science”: posizioni teoriche e filoni di indagine empirica.

Abstract

Da oltre un ventennio la ricerca universitaria è decisamente uscita dalla tradizionale “torre d’avorio” e le collaborazioni di ricerca con l’industria e la tutela della proprietà intellettuale sui risultati della ricerca sono diventati fenomeni consistenti ed in crescita. Ne è derivato un ampio dibattito sul possibile trade-off tra incremento dei benefici per la trasmissione diretta della conoscenza tra accademia e industria e rischi per la qualità e il grado di diffusione della conoscenza universitaria. Perché il dibattito non si riduca a un mero confronto ideologico è necessario tenere presenti i principi teorici di paradigmi alternativi della ricerca pubblica e richiamare e implementare gli ambiti di studio empirico sul problema. Questo articolo richiama appunto alcune posizioni del dibattito teorico e fa una sintetica rassegna dei principali filoni di ricerca empirica attinenti a questo dibattito.

Keywords: University-Industry Relationships; Technological Transfer; Intellectual Property Rights

JEL Classification: 03, L3

Questo articolo rappresenta una rielaborazione di parti della mia tesi di

Dottorato “La ricerca universitaria verso il mercato tra opportunità e rischi per la “open science”, discussa presso l’Università di Ferrara. Ringrazio pertanto in modo particolare il mio tutor prof. Lucio Poma. Una versione ridotta e rivista di questo articolo è in corso di pubblicazione sul n.3/2005 de “L’Industria”. Per i suggerimenti e il supporto ringrazio il prof. Patrizio Bianchi, il prof. Marco Di Tommaso e il prof. Pasquale Persico

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Introduzione

A partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti prima, quindi nel resto del mondo industrializzato, vi è stato un progressivo allontanamento da quello che si potrebbe definire il “paradigma tradizionale” della ricerca, secondo cui tra istituti pubblici e imprese private vi sarebbe una netta distinzione di ruoli: agli istituti pubblici spetterebbe la cosiddetta ricerca di base, i cui risultati di carattere generale vengono divulgati tramite pubblicazioni e conferenze; tali risultati sarebbero poi utilizzati dall’industria per ottenere, tramite la ricerca applicata e lo sviluppo, innovazioni tecnologiche, la cui diffusione viene invece limitata mediante il brevetto o il segreto industriale. Per quanto la realtà non abbia mai rispecchiato fedelmente questa distinzione concettuale, è a partire dagli anni ’80 che questo scenario è diventato realmente obsoleto: le collaborazioni dirette tra docenti universitari e imprese private non rappresentano più un evento relativamente raro e il fenomeno di docenti che risultano inventori o titolari di brevetti ha raggiunto dimensioni ragguardevoli; è inoltre crescente il fenomeno della creazione di imprese spin-off da istituti pubblici della ricerca1. Non appare quindi improprio parlare dell’avvento di un “nuovo paradigma” della ricerca.

Le ragioni alla base di questo avvicinamento dell’università al mercato sono molteplici. Una spinta decisiva è data dalla riduzione di fondi pubblici destinati all’università, che spingono quest’ultima alla ricerca di finanziamenti privati, e dunque in particolare dal mondo imprenditoriale. L’avvicinamento è favorito dalla progressiva riduzione della distanza tra ricerca di base e ricerca applicata, i cui confini sono sempre più sfumati, soprattutto in alcuni campi emergenti, come le biotecnologie.

Dal punto di vista teorico, l’accento posto sulla conoscenza tacita ha dato una giustificazione razionale all’incremento dei contatti diretti e personali. Decisivo è stato poi un contesto legislativo e teorico che ha visto un’estensione dei diritti di proprietà

1 Secondo Piccaluga (2003) la conoscenza universitaria può essere diffusa o

valorizzata; nel primo caso si ha la pubblicazione, nel secondo caso, se la conoscenza è codificabile si dà vita a un brevetto, se non è codificabile si dà vita ad uno spin-off.

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intellettuale ad ambiti per cui non era precedentemente ammessa, al fine di aumentare gli incentivi ad innovazioni industrialmente applicabili anche in campi science based. In questo contesto si è affermata l’idea che brevettare la ricerca universitaria e concedere quindi una licenza esclusiva sul brevetto potesse essere la via migliore per favorire il trasferimento tecnologico dall’università all’industria, perché dà all’impresa i giusti incentivi per lo sviluppo di un’innovazione ancora allo stato embrionale dal punto di vista dello sfruttamento commerciale. Quest’idea è stata alla base del Bayh-Dole Act, la normativa statunitense che nel 1980 ha ampliato per l’università la possibilità di proteggere la proprietà intellettuale sui risultati della ricerca. Questa normativa è stata la prima non solo in ordine cronologico ma anche come pervasività di effetti di una serie di analoghi mutamenti legislativi avvenuti in materia in tutti i paesi industrializzati.

Lo strumento legislativo è stata una manifestazione della forte spinta dell’autorità pubblica all’avvicinamento tra università e industria, non solo per compensare la riduzione di fondi pubblici concessi alla ricerca, ma anche perché, prima negli Stati Uniti nei primi anni ’80, poi in Europa sul finire degli anni ’80 e nei primi anni ’90, si è riscontrata una carenza di trasferimento tecnologico tra università ed industria, che rallentava il tasso di innovazione del sistema economico e dunque la crescita economica.

Questi mutamenti concreti sono stati accompagnati da riflessioni teoriche che hanno, se non stravolto, certo arricchito il tradizionale quadro concettuale di riferimento.

Secondo la visione affermatasi con Arrow (1962) ogni forma di ricerca genera conoscenza, che è un bene non appropriabile. Di qui l’esistenza di un fallimento di mercato, e dunque la necessità dell’intervento pubblico. La diversa natura della conoscenza generata dalle due tipologie di ricerca (di base e applicata) genera due modalità diverse di intervento: il carattere di maggiore generalità della ricerca di base, e quindi l’elevato danno che si avrebbe da una sua “privatizzazione”, fa sì che sia più efficiente finanziare la ricerca di base con fondi pubblici, a condizione che i risultati vengano immediatamente pubblicati; invece la ricerca applicata viene incentivata tramite il sistema dei brevetti, che garantiscono un’appropriazione temporanea dei risultati della ricerca. Gli inventivi e le regole di comportamento vigenti nelle due

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istituzioni, università ed impresa, sono coerenti con questa suddivisione razionale. Infatti, nell’ambito dell’università e degli istituti pubblici di ricerca, la carriera si fonda sulla quantità e qualità delle pubblicazioni: di qui l’incentivo per il ricercatore a pubblicare in maniera abbondante e rapida. Secondo quanto afferma la “nuova economia della scienza” (Dasgupta e David, 1994) l’incentivo “utilitaristico” del ricercatore coincide con la norma etica dell’istituzione di cui fa parte, per cui la nuova conoscenza va resa immediatamente disponibile per il beneficio collettivo. Diverso è invece il comportamento nell’industria, dove l’esigenza del profitto spinge a non divulgare il risultato raggiunto, onde non favorire i concorrenti, ovvero a proteggerlo tramite il brevetto.

Questo elegante quadro concettuale è stato messo in discussione dall’individuazione di un carattere non perfettamente appropriabile della conoscenza: la distinzione tra conoscenza codificata e tacita ha messo in luce la necessità di relazioni personali e dirette per una piena trasmissione della componente tacita, da cui l’utilità delle ricerche in collaborazione e dei network di ricerca. L’idea dell’utilità di concedere licenze esclusive sui brevetti da ricerca universitaria come incentivo al trasferimento tecnologico è invece giustificabile alla luce della stessa teoria “tradizionale”: solo disponendo di diritti esclusivi l’impresa sarà incentivata a sviluppare una ricerca ancora embrionale, senza il rischio che altri giungano prima al risultato commercialmente utile.

Dunque, dall’incremento delle relazioni dirette tra università ed impresa derivano vantaggi chiari, quali un incremento dei fondi e una possibile interazione tra forme di ricerca che può essere foriera di stimoli e produttiva di risultati. Tuttavia non mancano le preoccupazioni: l’estensione dei diritti di proprietà intellettuale alla ricerca accademica e il contatto con l’industria che ha incentivi diversi da quello della divulgazione immediata dei risultati possono portare ad un indebolimento dei principi della open science, i quali non sono solo norme etiche autoreferenziali, ma hanno anche un valore sociale, essendo la circolazione della conoscenza funzionale allo sviluppo economico. Il timore è che la necessità di tutelare i risultati della ricerca tramite il segreto o il brevetto porti ad una dilazione, se non ad una riduzione tout-court del numero delle pubblicazioni, nonché della loro qualità. Inoltre, per quanto i confini tra ricerca di base e applicata siano sempre meno netti ed

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in molti settori addirittura evanescenti, essi non sono tuttavia del tutto annullati: l’incremento della collaborazione con l’industria può spingere sempre più l’università a spostarsi sul versante della ricerca applicata, il che può essere un fenomeno negativo nel lungo periodo.

Il tema è dunque controverso e non mancano né sostenitori né detrattori del “nuovo paradigma” e le considerazioni teoriche si affiancano alle indagini empiriche.

Poiché spesso il dibattito sull’argomento rischia di diventare puramente “ideologico” appare dunque opportuno un richiamo ai “fatti”. L’obiettivo di questo articolo è dunque quello di inquadrare in senso quantitativo il fenomeno considerato e soprattutto richiamare i principali filoni di indagine empirica che si muovono attorno a questo problema, esponendo, più che altro a fini esemplificativi, i risultati più interessanti.

Innanzitutto il fenomeno in oggetto viene identificato sinteticamente nella sua portata, con dati sull’entità della brevettazione universitaria, delle pubblicazioni congiunte tra università e industria e della creazione di spin-off (par.2).

L’affermazione ricorrente da parte dei sostenitori di un contatto più stretto tra università e imprese e della brevettazione dei risultati della ricerca è che i contatti interpersonali e la vendita di licenze su brevetti universitari siano diventati canali necessari ad implementare il trasferimento di conoscenze dall’università all’industria. Un filone di studi empirici tenta appunto di verificare quali siano i canali effettivi della trasmissione di conoscenza dalla ricerca pubblica all’impresa (par.3).

Un altro filone di indagine cerca di qualificare meglio il concetto di rapporto tra università e industria, da un lato identificandone le svariate tipologie, dall’altro indagando le motivazioni e i benefici che ne derivano (par.4).

Un filone empirico piuttosto consistente analizza quindi la relazione tra il coinvolgimento del personale accademico in attività di ricerca applicata, che può portare al brevetto, e la quantità e qualità delle loro pubblicazioni; i risultati non sono univoci, ma in linea generale sembrano allontanare le previsioni più funeste di un impatto decisamente negativo dei brevetti sulle pubblicazioni degli scienziati accademici (par.5).

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L’articolo si conclude con l’esposizione delle recenti considerazioni di due profondi studiosi di “vecchia generazione” della relazione tra scienza e tecnologia, come Richard Nelson e Paul David, i quali hanno espresso il loro scetticismo verso un’estensione dei diritti di proprietà intellettuale ai risultati della ricerca universitaria, per il timore che questo possa ridurre il ventaglio delle traiettorie di ricerca liberamente disponibili (par.6).

1. I dati del fenomeno: brevetti universitari e collaborazioni tra università e industria

Un’importante misura della commercializzazione della ricerca universitaria è rappresentata dal numero di brevetti detenuti dalle università.

Gli Stati Uniti sono il paese in cui il fenomeno della brevettazione universitaria è diventato più significativo ed è stato più largamente studiato. Nel 1979 i brevetti rilasciati alle università americane sono stati circa 250 e il loro numero è raddoppiato nel 1984, per poi raddoppiare ancora nel 1989, fino a raggiungere il numero di circa 2500 nel 1997. Nel 1975 le università detenevano l’1% dei brevetti nazionali, nel 1990 questa quota è salita al 2,5%, nel 1999 al 5% (dati riportati da Balconi, Breschi e Lissoni, 2003).

Se il coinvolgimento delle università in attività di ricerca applicata nasce dalla necessità di reperire fondi privati e viene incontro all’esigenza di un più intenso trasferimento tecnologico dall’università all’industria, i brevetti non possono che essere una parte del fenomeno complessivo. Infatti sono le royalties derivanti da licenze sul brevetto o la vendita stessa del brevetto a generare fondi aggiuntivi.

Ebbene, negli USA tra il 1991 e il 1997 i redditi da licenze sono cresciuti da 220 a 698 milioni di dollari. Inoltre, se nel 1980 solo 25 università avevano un ufficio di trasferimento tecnologico, questo numero è cresciuto a 200 nel 1990 e nel 2000 praticamente tutte le università ne hanno uno (dati ripostati da Balconi, Breschi e Lissoni, 2003).

Il processo innescato o amplificato negli Stati Uniti è stato ritenuto assai interessante in Europa, e considerato come il modo migliore per uscire dal cosiddetto “paradosso europeo”, per cui la scienza europea sarebbe ad un livello paragonabile a quello americano,

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ma sarebbe carente il processo di trasferimento tecnologico dalla ricerca di base verso il mondo produttivo. Favorendo i brevetti in università si stimola quest’ultima ad effettuare una maggiore quantità di ricerca applicata ed inoltre le licenze ottenibili sui brevetti consentono un agevole trasferimento tecnologico (in assenza di licenze esclusive ogni singola impresa non è incentivata ad investire nello sviluppo dei risultati della ricerca accademica, perché i concorrenti possono precederla nell’ottenere un risultato commercializzabile). Proprio la vendita di licenze dovrebbe poi rappresentare un’importante fonte di reddito per le università, particolarmente preziosa in un’epoca di riduzione dei fondi pubblici2.

Le analisi e gli approfondimenti condotti hanno dimostrato che queste argomentazioni peccano di un certo eccessivo ottimismo.

In primo luogo la tesi del paradosso europeo appare discutibile: il ritardo europeo non sarebbe soltanto nell’applicazione tecnologica di una ricerca di base competitiva a livello mondiale, ma vi sarebbe un ritardo nella stessa scienza di base, come i confronti sulle pubblicazioni internazionali dimostrerebbero (Piccaluga, 2001)

Poi, i guadagni derivanti dalla vendita di licenze per quanto siano, come visto, in crescita, si sono rivelati di entità non molto elevata e spesso addirittura non sufficienti a coprire le spese amministrative che l’ottenere un brevetto comporta (Mowery e Sampat, 2005). Infine, un’altra voce problematica è quella di chi sostiene che alla crescita quantitativa del numero di brevetti è corrisposto un calo della loro qualità media. Henderson, Jaffe e Trajtenberg (1998) analizzano la qualità dei brevetti universitari tra il 1965 e il 1992: essi notano nel tempo un calo delle citazioni da essi ottenute, indicatore di un calo della qualità, intendendo quest’ultima soprattutto in termini di generalità. Dunque l’aumento del numero di brevetti sarebbe dovuto soprattutto ad un aumento dei brevetti di qualità inferiore, cresciuti più rapidamente di quelli di qualità

2 Naturalmente alle stesse logiche risponde l’incentivo alla ricerca in

collaborazione tra università e industria anche quando questa ricerca non ha il brevetto come esito.

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superiore; in effetti l’espansione della brevettazione ha interessato in misura più grande le università minori, che raggiungono dunque mediamente risultati di minore portata. Mowery et alii (2001) aggiornano l’indagine al 1999, trovando una conferma del trend, rilevandone anzi un aggravamento.

In ogni caso anche in Europa si è riscontrata a partire dalla metà degli anni ’80 una crescita consistente dei brevetti detenuti da istituti pubblici di ricerca, sia pure con un calo in molti paesi alla metà degli anni ’90.

Per quanto riguarda l’Italia, il peso dei brevetti provenienti dall’ambito della ricerca pubblica, inferiore al livello statunitense, non è tuttavia a livelli bassi in ambito europeo.

La tavola 1 sviluppa un confronto della situazione italiana con quella francese e statunitense: si tratta dei brevetti registrati presso l’ufficio brevetti statunitense (lo USPTO) di titolarità di enti pubblici di ricerca nell’arco di tempo 1990-2001, suddiviso in tre sottoperiodi di quattro anni ciascuno. Per ogni paese viene indicato il numero totale di brevetti registrati, il numero di brevetti di titolarità di enti pubblici di ricerca (EPR) e la percentuale di brevetti detenuta dagli enti pubblici di ricerca.

Tavola 1 - Brevetti degli enti pubblici di ricerca e totali presso lo USPTO 1990-2001

USA Francia Italia Brevetti totali 775.537 38.534 16.255

Brevetti EPR 26.713 383 246

Quota brevetti EPR 3,44% 0,99% 1,51%

Fonte: Piccaluga e Patrono (2001); OECD, Main Science and Technological Indicators (2001); dati USPTO.

Nell’arco di tempo 1990-2001 gli enti pubblici di ricerca italiani risultano titolari dell’1,51% dei brevetti depositati presso lo USPTO. Questa percentuale è più bassa di quella statunitense, che è pari al 3,44%, ma è più alta di quella di un paese di dimensioni e struttura economica in qualche modo paragonabili all’Italia, quale è la Francia, per cui la percentuale di brevetti di enti pubblici di ricerca è pari allo 0,99%. (Il numero assoluto è comunque più basso per l’Italia, 246 contro 383).

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Importante è poi l’indagine condotta da Balconi, Breschi e Lissoni (2003). Essi affermano che prendere in considerazione solo i brevetti di cui istituzioni di ricerca pubbliche o singoli docenti risultino titolari fornisce un quadro limitato della brevettazione in università. Accade infatti frequentemente che, a seguito di una collaborazione con l’industria, il docente risulti unicamente inventore del brevetto, mentre l’impresa con cui si è collaborato mantiene la titolarità del brevetto stesso. Per avere dunque una mappatura più precisa della collaborazioni università-industria è necessario guardare anche i brevetti di cui i docenti universitari risultino firmatari. Balconi, Breschi e Lissoni (2003) forniscono dati relativi alle domande di brevetto presso lo European Patent Office (EPO) dal 1979 al 1999, consentendo di rilevare il “peso” dei brevetti universitari in Italia: essi rilevano il numero complessivo di brevetti aventi come inventore almeno un individuo residente in Italia e il numero di brevetti che hanno tra gli inventori almeno un docente residente in Italia. In questo arco di tempo sono stati avanzate 38.868 domande di brevetto; di queste, 1.486 hanno tra gli inventori un docente: la percentuale è del 3,7%. E’ importante notare la decrescita del peso complessivo dei brevetti di “paternità” di docenti: negli anni ’80 la percentuale è del 3,9% e tale percentuale scende al 3,2% negli anni ’90.

Per quanto riguarda una disaggregazione settoriale, il settore tecnologico in cui è più forte la presenza di docenti-inventori, in termini relativi rispetto al totale delle domande di brevetti, è quello delle biotecnologie: in questo ambito il 28% delle domande di brevetto ha come firmatario almeno un docente universitario. Si osserva anche che questa percentuale è notevolmente salita nell’ultimo decennio: se infatti tra il 1979 e il 1989 la percentuale di domande di brevetti presentate all’EPO aventi un docente come inventore era del 21%, questa percentuale è salita al 30,3% nel decennio successivo.

La tavola 2 indica i brevetti di “paternità” di docenti, i brevetti totali e la quota dei primi sui secondi, per l’intero intervallo temporale considerato (1979-99) e quindi nei due sottoperiodi (1979-89 e 1990-99).

Un altro importante indicatore delle collaborazioni tra università e industria è rappresentato dalle pubblicazioni a firma congiunta, che includano cioè almeno un accademico ed un esponente del mondo

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industriale tra i firmatari (in pratica presentano almeno un indirizzo di università e uno di impresa). Nel loro studio Hicks e Hamilton (1999) affermano che, considerando tutti gli articoli di autori statunitensi inclusi nello Science Citation Index dal 1981 al 1994, questi sono complessivamente aumentati del 38%, mentre gli articoli che presentano sia un indirizzo di università sia uno di impresa sono più che raddoppiati. Gli articoli a firma congiunta rappresentavano nel 1981 il 5% del totale delle pubblicazioni in ambito scientifico, mentre nel 1994 rappresentano il 25% del numero complessivo degli articoli di interesse industriale.

I dati qui elencati, relativi a brevetti e pubblicazioni congiunte, forniscono un’importante indicazione sul coinvolgimento dell’università nella ricerca applicata ma, riguardo all’incremento dei rapporti tra università ed industria, rappresentano soltanto una

proxy dei rapporti di collaborazione. Come si vedrà in seguito le

forme di collaborazione diretta sono molteplici e non sempre formalizzate, ma anche nel caso di rapporti di ricerca spesso non vi è alcun esito in termini di brevetto o di pubblicazione. Bisognerebbe allora indagare i contratti di collaborazione, i seminari, ecc, ma su questi fenomeni esistono soltanto studi parziali, relativi a singole università.

Importanti strumenti di trasferimento tecnologico tra università e industria sono altresì gli spin-off e i parchi scientifici, anch’essi in significativa crescita. Nella seconda metà degli anni ’90 la creazione di spin-off ha conosciuto negli Stati Uniti un significativo incremento: secondo la rassegna AUTM su un campione di 179 istituti pubblici di ricerca nordamericani (159 statunitensi e 20 canadesi), dal 1980 al 1993 sono state create 1169 imprese tramite licenze, con una media di 0,6 imprese per istituzione e di 83 imprese all’anno. Dal 1994 al 1998 questa media sale a 281 imprese l’anno. A livello internazionale questo dato è superato solo dalla Germania, con una media di 467 imprese start-up da università tra il 1990 e il 1995; altri paesi europei hanno numeri medi a due cifre, ma con un trend comunque crescente negli anni ’90 (OECD, 2002).

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Tavola 2 - Peso dei brevetti firmati da universitari sul totale dei

revetti nelle diverse classi tecnologiche - 1979-89 e 1990-99

Classe tecnologica Brevetti

di docenti 1979-99 Brevetti di docenti 1979-89 Brevetti di docenti 1990-99 Brevetti totali 1979-99 Brevetti totali 1979-89 Brevetti totali 1990-99 Quota dei brevetti dei docenti 1979-99 Quota dei brevetti dei docenti 1979-89 Quota dei brevetti dei docenti 1990-99 Elettricità 35 14 21 2413 622 1521 1,6 % 2,3 % 1,4 % Tecnologie dell’informazione, comunicazione e controllo 280 97 183 5530 1560 3970 5,1 % 6,2 % 4,6 % Tecnologie mediche 99 42 57 1493 410 1083 6,6 % 10,2 % 5,3 % Chimica organica 319 145 174 2658 1217 1441 12 % 11,9 % 12,1 % Polimeri 107 31 76 1400 471 929 7,6 % 6,6 % 8,2 % Farmaceutica 195 49 146 1146 313 833 17 % 15,7 % 17,5 % Biotecnologie 119 22 97 425 105 320 28 % 21 % 30,3 % Materiali di base 58 23 35 1252 405 847 4 % 5,7 % 4,1 % Tecnologie di processo e dell’ambiente 107 42 65 5488 1747 3741 1,9 % 2,4 % 1,7 % Ingegneria meccanica e mezzi di trasporto 53 18 35 11144 3740 7404 0,5 % 0,5 % 0,5 % Ingegneria nucleare 12 1 11 90 17 73 13,3 % 5,9 % 15,1 % Ingegneria civile 18 6 12 1951 613 1338 0,9 % 1 % 0,9 % Beni alimentari e di consumo 18 7 11 4148 1382 2766 0,4 % 0,5 % 0,5 % Totale 1420 402 923 38868 12602 26266 3,7 % 3,9 % 3,2 %

Fonte: Balconi, Breschi e Lissoni (2003)

2. Modalità di trasmissione della conoscenza dalla ricerca pubblica all’impresa

Il precedente paragrafo illustra sinteticamente l’entità del fenomeno considerato, cioè la valorizzazione della ricerca universitaria in termini di tutela della proprietà intellettuale, di collaborazione diretta con le imprese e di creazione di imprese dall’ambito accademico. Al di là dell’enfasi posta sui vantaggi di questo fenomeno, una domanda cruciale è quanto “serva” al mondo produttivo questo coinvolgimento della ricerca universitaria in attività più legate al mercato e quali siano i benefici della collaborazione con le imprese.

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La ricerca di Arundel, Van de Paal e Soete (1995)3 riporta che la ricerca congiunta e i contratti di ricerca con l’università si collocano al quinto e sesto posto in ordine di importanza tra le diverse fonti di conoscenza derivanti dalla ricerca pubblica: il 40% ha definito importati le ricerche congiunte, il 36% considera importanti i contratti di ricerca. La fonte di conoscenza ritenuta importante dalla maggior numero di intervistati è rappresentata dalle pubblicazioni (il 58% le ritiene importanti), seguita dai contatti informali (52%), dall’assunzione di personale laureato (44%) e dalle conferenze (44%). Si impone dunque una riflessione: per quanto siano importanti gli scambi di conoscenza tacita, la conoscenza codificata, quale è per eccellenza quella contenuta nelle pubblicazioni, mantiene il posto di primo piano. Tuttavia è significativo che seguano immediatamente i contatti informali, che, in termini di codificazione dello scambio di conoscenza, si pongono all’estremo opposto rispetto alle pubblicazioni.

Secondo lo stesso studio il grado di importanza attribuito alle diverse forme di contatto con la ricerca pubblica si differenzia notevolmente a seconda del settore tecnologico: nei settori fortemente science-based l’importanza attribuita alle pubblicazioni è altissima (il 90% delle imprese farmaceutiche ritiene importanti le pubblicazioni) e tuttavia gli stessi settori attribuiscono grande importanza anche ai contatti informali, il che sembra confermare che per una piena acquisizione della conoscenza la lettura delle pubblicazioni vada integrata con scambi più diretti e informali. In effetti è da notare che il settore farmaceutico attribuisce grande importanza a tutte le forme di contatto con l’università: in un settore spiccatamente science-based la piena acquisizione della conoscenza avviene tramite un’interazione globale.

La complementarità tra modalità diverse di interazione ed in particolare tra pubblicazioni ed interazioni personali è confermata dall’indagine empirica di Cohen, Nelson e Walsh (2003) che utilizzano i dati della Carnegie Mellon Survey condotta nel 1994, restringendo però il campione a 1267 imprese del settore manifatturiero, con almeno 25 impiegati. La “graduatoria” delle forme di interazione è molto simile alla precedente, con le

3 Essi utilizzano i dati dell’indagine PACE condotta negli anni ’90 presso 649

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pubblicazioni al primo posto e le interazioni informali subito dopo. Anche qui contratti di ricerca e ricerca congiunta appaiono modalità importanti per la trasmissione di conoscenza, senza tuttavia ricoprire un ruolo di assoluto spicco. E’ importante sottolineare come brevetti e licenze provenienti dall’università siano ritenute di importanza non particolarmente elevata, anche inferiore all’importanza attribuita ai contratti di ricerca e alle ricerche congiunte. Quest’ultimo dato getta in qualche modo un’ombra sul preteso ruolo dei brevetti universitari nel favorire il trasferimento tecnologico.

3 .Tipologie e motivazioni delle relazioni università-industria

In sede teorica è possibile individuare diversi benefici possibili derivanti dall’interazione tra università e industria, come pure diversi possibili ostacoli. Naturalmente è necessario confrontare le considerazioni teoriche con la realtà effettiva, sia essa “oggettivamente” misurata, sia valutata nella percezione degli agenti.

Filoni specifici di studi empirici esistono sui differenti possibili canali di collegamento tra università e industria. Finora si è parlato, e si continuerà a farlo in seguito, di collaborazioni tra università e industria, ma in effetti questa definizione raccoglie una serie di canali specifici di comunicazione.

Molto interessante è la distinzione concettuale effettuata da Piccaluga (2003) tra scelta di diffusione e di valorizzazione della conoscenza prodotta in università. La prima scelta coincide con la pubblicazione, la seconda si distingue a sua volta tra possibilità o meno di codificazione della conoscenza; nel primo caso (valorizzazione di conoscenza codificata) si dà vita ad un brevetto, nel secondo caso (valorizzazione di conoscenza non codificata) viene incoraggiata o promossa la creazione di un’impresa spin-off. A sua volta il brevetto può essere ceduto ad un’impresa spin-off, privilegiando quindi una via “interna” all’università, o ad un’impresa non spin-off, ed in questo caso l’attesa di una remunerazione consistente è chiaramente una motivazione fondamentale. La creazione di uno spin-off massimizza l’effetto di trasferimento tecnologico, perché sono gli stessi inventori a gestire la conoscenza che conoscono approfonditamente (e se non tutta la

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conoscenza è trasmissibile, sono gli unici a poterla possedere interamente); tuttavia non è detto che possiedano le conoscenze di tipo commerciale e aziendale sufficienti al successo imprenditoriale.

Più nello specifico va la classificazione effettuata da Scott et alii (2001). Essi distinguono:

• Codificazioni/artefatti: pubblicazioni, brevetti, prototipi • Cooperazione: joint ventures, scambi di personale

• Contatti: incontri e conferenze, interazioni informali, parchi scientifici, industrial liaison office, network di ricerca

• Contratti: licenze, contratti di ricerca, consulenze

Assai interessante e dettagliata è l’indagine condotta da Balconi, Borghini e Moisello (2003) presso l’Università di Pavia. Ai docenti viene chiesto di dare una valutazione di importanza di diverse forme di interazione con le imprese. Li elenchiamo qui di seguito secondo il punteggio riportato, avendo così sia una mappatura delle forme concrete di interazione (a cui in sede teorica ci siamo riferiti come categoria generale, mentre esse sono di natura assai diversa tra loro), sia una sorta di graduatoria dell’importanza che viene loro riconosciuta:

• Contatti informali • Contratti di ricerca

• Ricerca in collaborazione

• Borse di studio finanziate dalle imprese • Tesi di dottorato

• Pubblicazioni a firma congiunta • Tesi di laurea con stage

• Collaborazione nel reclutamento di personale • Organizzazione di seminari per l’industria • Consulenza

• Partecipazione a consorzi • Scambio di ricercatori

• Utilizzo dei laboratori delle imprese da parte di ricercatori universitari

• Doni dell’industria

• Utilizzo dei laboratori universitari da parte di ricercatori delle imprese

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Assai significativa è la prima posizione ottenuta dai contatti informali, a dimostrazione dell’importanza della conoscenza “incorporata” negli individui, non interamente trasmissibile tramite le pubblicazioni, a causa della sua componente tacita.

Una domanda cruciale riguardo alle collaborazioni tra università e industria è se la necessità di trovare finanziamenti per l’università sia la motivazione predominante e il beneficio principale ottenuto o se invece non si ricavino nuovi stimoli di natura conoscitiva dal contatto con le imprese. L’indagine rivela che le motivazioni di carattere “strumentale” sono molto importanti (il 76,2% degli intervistati le ritiene “importanti” o “molto importanti”), ma non sono più importanti delle motivazioni di carattere conoscitivo: il 78,6% degli intervistati dichiara che la ricerca di stimoli interessanti per la ricerca è una motivazione importante o molto importante per intraprendere rapporti di collaborazione perché: la percentuale è del 61,9% riguardo allo scambio di conoscenze con ricercatori esterni. Nel questionario si domandano le motivazioni e dunque i risultati attesi, ma poiché verosimilmente la maggior parte degli intervistati ha intrapreso molteplici rapporti con le imprese, si può ritenere che nelle risposte siano riflessi i risultati effettivamente conseguiti. A conferma dell’idea che vi sia una positiva interazione tra ricerca condotta per le imprese e ricerca “di base” sta poi la constatazione che il 73,8% degli intervistati ritiene i risultati della ricerca finanziata dalle imprese utili a livello scientifico.

L’indagine conferma comunque anche l’esistenza di fattori di attrito tra le due realtà: tra i docenti che pure hanno rapporti di collaborazione con le imprese (gli autori li chiamano gli spanning

researhers), il 40,5% e il 33,3% ritengono che rispettivamente la

pressione per la ricerca a breve termine con scarso interesse scientifico e le restrizioni alla libertà di pubblicare costituiscano importanti fattori di ostacolo alla collaborazione. Tra coloro che invece non collaborano con l’industria (gli university bound

researchers) il 53,9% considera la differente natura della ricerca la

causa della mancata collaborazione.

Naturalmente perché un docente universitario collabori con l’industria è necessario che esista una base industriale che esprima una domanda in questo senso: la debolezza della base industriale è riconosciuta come il principale fattore di ostacolo alla collaborazione. E’ interessante segnalare l’importanza attribuita ai

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problemi amministrativi relativi ai contratti come fattore di ostacolo alla collaborazione.

Interessante è anche uno studio empirico condotto in Austria (Schibany e Schartinger, 2001), secondo il quale la motivazione principale ad intraprende rapporti di collaborazione sarebbe la possibilità di avvalersi della capacità di problem solving posseduta dagli scienziati accademici. Le imprese dimostrano quindi di volersi avvalere di quella che è una capacità propria del personale accademico, quella di avere una formazione generale ed una metodologia di indagine rigorosa, che garantisce flessibilità intellettuale di fronte ai problemi nuovi. Questa capacità è riconosciuta come ancora più importante delle competenze specialistiche. Dallo studio emerge altresì l’importanza della conoscenza tacita e quindi della relazione individuale: il 68,3% delle imprese rispondenti considera un beneficio molto importante delle collaborazioni la possibilità di accedere allo stato dell’arte della disciplina, dimostrando implicitamente che il semplice accesso alle pubblicazioni non è sufficiente per comprendere gli avanzamenti della conoscenza, ma è necessario il contatto diretto. Altrettanto interessante è la motivazione fornita dal 51,3% delle imprese rispondenti: esse sostengono che le collaborazioni possono accrescere le loro capacità interne di ricerca: la collaborazione non genera dunque soltanto un arricchimento dei risultati di una specifica ricerca, ma addirittura un ampliamento delle capacità, che può quindi avere benefici effetti anche per ricerche successive.

Più tradizionali e coerenti con le motivazioni “classiche” per la collaborazione sono i risultati ottenuti da Schűtze (2000): una motivazione importante che spinge ad intraprendere progetti di R&D comuni è la divisione del rischio. Dal punto di vista delle università i benefici delle collaborazioni stanno nel reperimento di fondi aggiuntivi e nell’accesso a nuove idee e tecniche, oltre all’utilità di sviluppare progetti in campi specifici.

Riguardo alla natura e dimensione delle imprese che hanno rapporti con l’università, il livello tecnologico determina la prevalenza per una forma di relazione piuttosto che per un’altra: le imprese a più basso livello tecnologico privilegiano scambi di

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personale mentre, prevedibilmente, le imprese high-tech sono maggiormente propense alla collaborazione nella R&S.

4. L’impatto di brevetti e collaborazioni industriali sulle pubblicazioni dello scienziato

Come si è visto nel par. 3, le pubblicazioni mantengono la loro fondamentale importanza come strumento di trasmissione della conoscenza dall’università al mondo produttivo. E’ dunque necessario che il “nuovo paradigma” della ricerca universitaria non provochi un effetto negativo su quantità e qualità delle pubblicazioni, vanificando così i benefici per il trasferimento delle conoscenze dato dai brevetti sulla ricerca universitaria e dai contatti diretti tra università e industria. Il timore che questo effetto negativo ci sia è giustificato dal fatto che la concessione di un brevetto comporta l’obbligo di non pubblicazione dei risultati anteriormente alla domanda; inoltre svolgere ricerca applicata, in ambito accademico o in collaborazione con l’industria, può spingere lo scienziato ad occuparsi di tematiche meno rilevanti sotto il profilo strettamente scientifico; infine, l’industria può imporre dei limiti di contenuto o dilazioni sui risultati di ricerca svolta congiuntamente con le imprese.

In particolare gli studi empirici si concentrano sulla relazione tra attività brevettuale dei docenti e quantità e/o qualità delle pubblicazioni.

Zucker, Darby e Armstrong (1998) riferiscono che gli scienziati accademici “di vertice” con legami con l’industria pubblicano ad un tasso più alto (prima, durante e dopo i rapporti di collaborazione) di coloro che non hanno mai avuto questi legami.

Un recente studio empirico di Stephan et alii (2004) mette in evidenza una relazione positiva tra pubblicazioni e brevetti. Si tratta però di uno studio condotto su dati cross-section, la qual cosa può portare ad una significativa distorsione nell’interpretazione dei risultati, come si vedrà più diffusamente in seguito.

Infatti uno studio condotto su dati panel, ma relativo al solo MIT, da Agrawal e Henderson (2002) conduce ad una relazione incerta tra brevetti e numero di pubblicazioni, mentre la relazione sarebbe positiva tra brevetti e qualità delle pubblicazioni; il risultato si può

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leggere come un segno del fatto che il brevetto derivi da una ricerca di buona qualità, da cui l’elevato numero di citazioni in conseguenza del brevetto, mentre il numero delle pubblicazioni sarebbe limitato dalle dilazioni necessarie ad effettuare la domanda di brevetto, poiché non è possibile brevettare se il risultato è stato reso in qualunque modo pubblico e dunque anche tramite una pubblicazione.

Tuttavia Markiewicz e DiMinin (2004), analizzando un panel più ampio e su un arco temporale più lungo, riscontrano un effetto positivo dei brevetti sul numero delle pubblicazioni, anche se questo effetto è decrescente all’aumentare dei brevetti (gli inventori abituali), mentre l’effetto sulle citazioni è più incerto. Per quanto riguarda la realtà europea, Geuna e Nesta (2003) nella loro survey sull’argomento, riscontrano sovente che il brevetto ritarda la pubblicazione. Ciò è quanto si rileva in un questionario effettuato dalla Commissione Europea (European Commission, 2002). Tale dilazione è dovuta alla legislazione stessa sui brevetti. Tuttavia nell’analisi del loro ampio panel di docenti italiani4 Calderini e Franzoni (2004) riscontrano che il numero di pubblicazioni, nonché la qualità degli articoli, misurata tramite le citazioni, aumenta in media nell’anno in cui si brevetta ed aumenta anche nell’anno successivo al brevetto. Se si considera che le norme sui brevetti impongono di non aver effettuato pubblicazioni prima del brevetto, mentre naturalmente è possibile pubblicare

dopo, la relazione positiva tra pubblicazioni e brevetti nello stesso

momento appare sorprendente, mentre era prevedibile il secondo risultato. In ogni caso le conclusioni dei due autori sembrano un tantino affrettate, nel momento in cui deducono dalle relazioni da loro stimate una sicura presenza di complementarità tra ricerca di base e applicata ed un rovesciamento della prospettiva della “New economics of science”, secondo la quale la scelta tra ricerca accademica e ricerca industriale si muove inevitabilmente su un piano di alternativa e significa scegliere tra diffondere i risultati della ricerca oppure secretarli e/o appropriarsene tramite il brevetto. Questo studio conferma altresì la relazione positiva tra l’età e gli indicatori quantitativi e qualitativi delle pubblicazioni in

4 1323 professori appartenenti a 42 istituzioni di ricerca pubbliche, per un arco di

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virtù dell’esperienza, dei vantaggi cumulati e di un effetto di coorte, (Allison e Stewart, 1974; Levin e Stephan, 1991).

Breschi, Lissoni e Montobbio (2004) prendono in considerazione, sempre rispetto ad un panel di docenti italiani, sia il problema della riduzione tout court delle pubblicazioni (visto come indicatore di una sostituzione della ricerca di base con la ricerca applicata), sia quello del rinvio delle pubblicazioni e cercano di considerare i diversi effetti che può provocare un aumento dell’attività di ricerca applicata, come il reperimento di fondi aggiuntivi e l’effetto di segnalazione per il singolo docente che risulti inventore o titolare di un brevetto. A tale scopo fanno uso dell’analisi dei residui su dati panel. I loro risultati sono meno ottimistici degli studi precedentemente citati, non potendo escludere una riduzione delle pubblicazioni almeno nell’anno del conseguimento di un brevetto: la dilazione delle pubblicazioni su una ricerca che genera un brevetto appare dunque evidente; tuttavia emerge anche un picco nel numero delle pubblicazioni stesse nell’anno che precede e che segue il brevetto, segno verosimile di una complementarità di risultati (una “buona” ricerca genera pubblicazioni nello stadio preliminare, quindi un brevetto se la scoperta lo consente e poi ancora, dopo una dilazione, un altro flusso di pubblicazioni, per quanto queste debbano essere dilazionate)

Le indagini fin qui considerate valutano la relazione tra pubblicazioni e brevetti, sovente considerando questi ultimi come una proxy delle collaborazioni con l’industria. Poche sono le analisi empiriche che valutano direttamente l’impatto sulle pubblicazioni delle collaborazioni di ricerca con l’industria. Di particolare interesse è l’indagine condotto sull’università di Leuven, in Belgio da Van Looy et alii (2004): essi concludono che le collaborazioni di ricerca con l’industria comportano un incremento delle pubblicazioni di natura applicata, ma senza ridurre il numero degli articoli di ricerca “di base”. Non si può dunque parlare di complementarità tra ricerca fondamentale e applicata, perché non aumenta la prima, ma nemmeno di un rapporto di sostituzione: l’effetto globale è comunque positivo.

Gli autori di queste analisi empiriche evidenziano in sede teorica come possano esservi effetti sia di sostituzione che di complementarità tra pubblicazioni da un lato e brevetti (o ricerche in collaborazione con l’industria). Le indagini empiriche sembrano

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generalmente mostrare una prevalenza del secondo effetto, anche se si rilevano degli effetti di dilazione delle pubblicazioni.

Questi rapporti di sostituzione e complementarità possono essere sintetizzati secondo i punti successivi.

• Ci può essere una sostituzione di tipo temporale tra ricerca accademica e industriale; tuttavia, poiché anche altre forme di allocazione del tempo possono rientrare nel vincolo temporale, non è detto che questa sostituzione sia completa.

• Ci può essere una complementarità tra ricerca accademica e industriale, per cui la seconda dà spunti alla prima.

• Ci può essere una complementarità di tipo finanziario tra ricerca accademica e industriale, nel senso che la ricerca in collaborazione con l’industria possono produrre fondi aggiuntivi per la ricerca, aumentandone la qualità.

Come si è accennato, una relazione positiva tra pubblicazioni e brevetti (ricerca industriale) dei professori universitari può aversi in dati cross section, senza che questo significhi un effetto positivo dei secondi sulle prime. La relazione positiva tra pubblicazioni e brevetti può infatti essere frutto sia di fenomeni di correlazione spuria (i più capaci pubblicano di più e brevettano di più), sia di endogenità (chi ha più pubblicazioni è considerato più abile, quindi riceve più domande da parte dell’industria, quindi collabora di più e brevetta di più).

Questi problemi possono essere superati se si fa ricorso a dei dati

panel che infatti sono ormai la prassi in questo tipo di indagine.

Questi consentono di cogliere il profilo temporale dei dati e quindi “controllare” per gli effetti distorsivi sopra detti. Tuttavia anche questo tipo di dati non è esente da limiti, perché anche all’interno dell’unità di tempo considerata può verificarsi endogenità. C’è poi il problema del brevetto come proxy imperfetta della ricerca applicata, non solo perchè spesso una ricerca applicata non conduce al brevetto, ma anche perché la relazione tra ricerca applicata e brevetto è di tipo casuale, e può quindi verificarsi che chi fa più ricerca applicata abbia meno brevetti e che quindi la

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relazione tra pubblicazioni e brevetti non rifletta quella tra pubblicazioni e ricerca applicata5.

La presenza di questi problemi non sminuisce il valore di questo filone di indagine, ma ne rende opportuno in futuro un ampliamento verso la considerazione di un maggior numero di variabili (ad esempio brevetti e pubblicazioni congiunte come variabili indipendenti della stessa equazione di regressione) e suggerisce di affiancare all’indagine econometrica su dati “oggettivi” dei questionari, che meglio possono chiarire le dinamiche dei differenti effetti di complementarità e sostituzione di cui si è detto in precedenza.

5. Due posizioni critiche sull’estensione dei diritti di proprietà intellettuale alla ricerca universitaria

Ad una spinta a livello “politico” sempre più ampia verso la facilitazione del brevetto in università, fanno da contraltare, in ambito accademico, voci più problematiche o addirittura critiche. Una posizione critica verso la spinta alla “commercializzazione” della ricerca universitaria viene da due autorevoli studiosi della realtà della ricerca in università e industria e della loro relazione, Paul David e Richard Nelson. Nelle opinioni di entrambi non si possono escludere delle latenti posizioni di tipo “etico”, per cui l’open science, intesa come attitudine del ricercatore accademico a divulgare i risultati delle sue ricerche e, di più, il perseguimento degli stessi per fini esclusivamente conoscitivi sono valori in sé, a prescindere dalla ricaduta in termini di progresso tecnologico che un loro superamento può avere. Tuttavia molte loro considerazioni sono senz’altro importanti.

La preoccupazione di Nelson (2003 e 2004) è verso il fenomeno, che egli individua già in atto nella realtà statunitense, di un’eccessiva estensione dei diritti di proprietà intellettuale ai risultati della ricerca di base. La conseguenza temuta di questa espansione può essere la preclusione, almeno temporanea, di una

5 Per una più dettagliata discussione di questi punti si veda Iorio (2004). Per

un’analisi sui rapporti di sostituibilità e complementarità tra pubblicazioni e brevetti si veda Iorio (2005).

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linea di ricerca ad altri soggetti, di fatto minando la base del progresso scientifico che si fonda storicamente sull’esistenza di una comunità internazionale in cui circolano i risultati della ricerca ed in cui la ricerca di ogni studioso non può prescindere dai risultati ottenuti nel passato e dallo “stato dell’arte”. Precludere alcuni risultati della ricerca significa interrompere in alcuni campi questo canale di comunicazione internazionale, con conseguenze imprevedibili, ma probabilmente negative. Questo svantaggio, secondo Nelson, non è compensato dai presunti maggiori incentivi alla ricerca, né dalle prospettive di un più agevole trasferimento tecnologico, grazie alla vendita delle licenze. Infatti Nelson riflette sul rapporto tra scienza e tecnologia: sulla base di un dato risultato scientifico sono possibili molteplici sviluppi di tipo tecnologico, che possono essere esplorati se la conoscenza scientifica rimane disponibile pubblicamente; ma se la circolazione della stessa è limitata, di una scoperta “di base” non saranno esplorate le molteplici possibili conseguenze. In questo modo, osserva Nelson, viene meno una dei principali fattori del progresso tecnologico occidentale, la scienza come opportunità per una pluralità di sviluppi. La soluzione legislativa proposta da Nelson non è l’eliminazione della proprietà intellettuale sui risultati della ricerca (che funziona come incentivo almeno in termini di prestigio e di segnalazione), ma l’obbligatorietà di licenze che consentano la massima diffusione6.

La posizione di David (2004) è, se possibile, ancora più critica, anche se forse più esplicitamente condizionata da considerazioni di tipo “etico”. David interviene nel dibattito sull’opportunità di estendere ai paesi europei la normativa e la prassi statunitense e dunque il coinvolgimento istituzionale delle università nel processo di trasferimento tecnologico, come risposta ad una presunta debolezza della risposta della ricerca accademica alle necessità dell’impresa ed anche per apportare fondi aggiuntivi che sopperiscano alla riduzione dei fondi pubblici. David rileva come in realtà il numero di brevetti universitari in Europa non sia modesto e dunque forse non c’è nemmeno un problema di scarsa

6 In tema di riforme legislative va segnalata la proposta di introdurre un “periodo

di grazia” per i ricercatori pubblici, per cui si allenterebbe il vincolo alla non pubblicazione prima della domanda di brevetto (Geuna e Nesta, 2003).

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“inventività” della ricerca universitaria europea, da stimolare con mutamenti legislativi. Poi rileva come negli Stati Uniti gli effetti in termini di remunerazioni delle licenze sui brevetti siano stati modesti ed in ogni caso la motivazione di consentire più guadagni dalla ricerca pubblica per compensare il calo dei fondi pubblici non è una motivazione “sana” e non era comunque lo scopo del Bayh-Dole Act statunitense. Semmai, sostiene David, dagli Stati Uniti c’è da imparare una lezione opposta: un forte fattore di successo dell’economia statunitense è stato il finanziamento pubblico in campi specifici ed emergenti, come quello biotecnologico, di cui poi le imprese hanno saputo cogliere gli spillovers, come dimostra l’elevato numero di citazioni dei paper scientifici nei brevetti in questo settore. Ne viene dunque un invito a non abbandonare il “paradigma” tradizionale della ricerca universitaria finanziata dal settore pubblico, i cui risultati “fluiscono” poi alle imprese. Sullo sfondo di queste considerazioni si muove comunque il timore verso un mutamento delle norme di comportamento, dei sistemi di valori dell’università, dell’amore della ricerca della verità come finalità propria della ricerca accademica.

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Conclusioni

Il mantenimento di un livello elevato di innovazione tecnologica è, per i paesi più industrializzati, un imperativo sempre più pressante nell’attuale contesto di competizione economica globale. L’interazione stretta tra università e industria viene sovente indicata come una delle vie principali per garantire questo risultato. Dall’altro lato i fondi che derivano alle università dai rapporti con l’industria e dalla commercializzazione dei risultati della ricerca vengono visti come una fonte di finanziamento importante per un’istituzione il cui ruolo si ritiene appunto che debba rimanere centrale, ma che non è più possibile finanziare con la generosità di un tempo.

A favore di questa visione non mancano posizioni che potremmo definire “ideologiche”, che tuttavia non mancano neppure nel campo avverso. Diventa allora necessario valutare con rigore ed ampiezza di prospettive gli effetti di quello che si è definito il “nuovo paradigma” della ricerca universitaria. E’ dunque necessario innanzitutto quantificare il fenomeno, vedere cioè quanto l’università si sia effettivamente avvicinata al mercato e valutarne gli effetti finanziari sull’università stessa. Ma soprattutto è necessario valutare l’impatto che il nuovo modello ha avuto sull’industria. Perché l’indagine abbia la dovuta ampiezza di visione è necessario però volgere lo sguardo anche all’università stessa, onde verificare che l’accresciuta possibilità di brevettare i risultati della ricerca universitaria, l’aumentata frequenza delle relazioni con l’università, non comporti per l’università uno stravolgimento delle sue regole tradizionali, rappresentate dalla diffusione dei risultati della ricerca tramite pubblicazioni e dalla prevalenza data a tematiche di ricerca fondamentale, regole che si sono rivelate cruciali per il progresso economico e culturale.

Il quadro che emerge da queste indagini è complesso, tanto da rendere difficili posizioni nette e risposte assolutamente definite. Riguardo all’effettiva entità del fenomeno della “commercializzazione” della ricerca universitaria, se è vero che il numero di brevetti universitari “esplode” a partire dagli anni ’80, prima negli Stati Uniti, poi in Europa, è pur vero che il trend non ha mantenuto una crescita costante negli Stati Uniti, e in alcuni paesi europei, come l’Italia, ha conosciuto una vera e propria flessione

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negli anni ’90. Inoltre gli introiti ricavati dalle università a seguito del processo di brevettazione e di vendita delle licenze si sono rivelati inferiori alle aspettative. In ogni caso, soprattutto grazie al peso crescente di settori in cui i confini tra ricerca di base e applicata sono sottili, la realtà di un’università che si avvicina al mercato si può considerare consolidata e soggetta ad un’ulteriore espansione.

L’enfasi posta sulla necessità di avvicinare l’università al mercato viene motivata con la superiore efficacia, in termini di vantaggi per il mondo industriale, dei contatti personali, della vendita di licenze su brevetti universitari rispetto ai meccanismi tradizionali di comunicazione del sapere accademico all’industria, quali le pubblicazioni. Anche qui il quadro si presenta articolato: se le imprese riconoscono l’importanza dei contatti diretti con personale accademico e molti sono i vantaggi dichiarati dalle imprese da un rapporto di collaborazione con l’università, dall’altro lato i brevetti universitari e le licenze sugli stessi non appaiono tra le più importanti fonti di conoscenza per l’industria: le pubblicazioni mantengono il posto di preminenza nei canali di comunicazione tra università e industria. Dunque il quadro della comunicazione tra università e industria sembra essersi arricchito rispetto a quanto prospettato dal tradizionale “modello lineare”, ma non è stravolto e non sembra pertanto giustificato un allontanamento dell’università dalle forme storiche di trasmissione delle conoscenze.

Dunque diventa cruciale valutare l’impatto della nuova realtà sulle regole tradizionali dell’ “open science”: la domanda chiave è cioè se queste regole siano minate dall’estensione dei diritti di proprietà intellettuale alla ricerca accademica, dal rapporto più stretto con l’industria che ha finalità per sua natura diverse dall’università e se un sacrificio parziale di queste regole possa essere giustificato dai benefici di un’università che esce dalla “torre d’avorio”.

Un problema del genere può essere suscettibile di una misurazione, per quanto non si possa che far ricorso a delle proxy: i brevetti, i contratti di ricerca, le pubblicazioni congiunte sono le misure dell’avvicinamento dell’università al “nuovo paradigma” della ricerca, la quantità e la qualità (anch’essa misurata con delle

proxy, come le citazioni ricevute da un articolo) delle pubblicazioni

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Il quadro che emerge dalle valutazioni empiriche esistenti sembra in questo caso confortante: studi sulla realtà statunitense mostrano che i docenti “inventori” hanno mediamente un maggior numero di pubblicazioni dei “non inventori”. A livello di singolo scienziato sono possibili effetti di dilazione delle pubblicazioni dovute alla procedura di brevettazione, ma la maggior parte degli studi empirici non mostrano effetti negativi della nuova realtà della ricerca sulle antiche regole; sembra anzi che i brevetti, le ricerche applicate si affianchino ma non sostituiscano la ricerca “di base”, facendo salire il numero e la qualità degli articoli di chi ha rapporti più frequenti con l’aspetto “commerciale” della ricerca.

Questi risultati non si presentano però così convincenti da persuadere i critici del “nuovo paradigma”. La posizione di due studiosi del livello di Richard Nelson e Paul David non può non far riflettere: sia pure con sfumature diverse, entrambi sottolineano la necessità di non confondere i ruoli di università e industria. Il loro non è uno sterile appello alla buona volontà dei singoli o delle istituzioni, ma un invito all’autorità politica a stabilire regole che garantiscano la libera circolazione del sapere prodotto in accademia. Il rischio che altrimenti si corre è quello di un restringimento del ventaglio di opportunità di sviluppo tecnologico che l’effettuazione di una libera e liberamente disponibile ricerca fondamentale da parte dell’università ha storicamente garantito.

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I modelli econometrici sul mercato del lavoro in Italia. 1990, 3.10 Concetto Paolo VINCI

Il dibattito sul tasso di partecipazione in Italia: una rivisitazione a 20 anni di distanza.

1990, 3.11 Giuseppina AUTIERO

Limiti della coerenza interna ai modelli con la R.E.H.. 1990, 3.12 Gaetano Fausto ESPOSITO

Evoluzione nei distretti industriali e domanda di istituzione. 1990, 3.13 Guido CELLA

Measuring spatial linkages: input-output and shadow prices. 1990, 3.14 Emanuele SALSANO

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1990, 3.15 Emanuele SALSANO

Investimenti, valore aggiunto e occupazione in Italia in contesto biregionale: una prima analisi dei dati 1970/1982.

1990, 3.16 Alessandro PETRETTO- Giuseppe PISAURO

Uniformità vs selettività nella teoria della ottima tassazione e dei sistemi tributari ottimali.

1990, 3.17 Adalgiso AMENDOLA

Inflazione, disoccupazione e aspettative. Aspetti teorici dell'introduzione di aspettative endogene nel dibattito sulla curva di Phillips.

1990, 3.18 Pasquale PERSICO

Il Mezzogiorno e le politiche di sviluppo industriale. 1990, 3.19 Pasquale PERSICO

Priorità delle politiche strutturali e strategie di intervento. 1990, 3.20 Adriana BARONE - Concetto Paolo VINCI

La produttività nella curva di Phillips. 1990, 3.21 Emiddio GALLO

Varianze ed invarianze socio-spaziali nella transizione demografica dell'Ita-lia post-industriale.

1991, 3.22 Alfonso GAMBARDELLA

I gruppi etnici in Nicaragua. Autonomia politica ed economica. 1991, 3.23 Maria SCATTAGLIA

La stima empirica dell'offerta di lavoro in Italia: una rassegna. 1991, 3.24 Giuseppe CELI

La teoria delle aree valutarie: una rassegna. 1991, 3.25 Paola ADINOLFI

Relazioni industriali e gestione delle risorse umane nelle imprese italiane. 1991, 3.26 Antonio e Bruno PELOSI

Sviluppo locale ed occupazione giovanile: nuovi bisogni formativi. 1991, 3.27 Giuseppe MARIGLIANO

La formazione del prezzo nel settore dell'intermediazione commerciale. 1991, 3.28 Maria PROTO

Risorse naturali, merci e ambiente: il caso dello zolfo. 1991, 3.29 Salvatore GIORDANO

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