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Profili giuridici dei legami diversi dal matrimonio dall'eta arcaica a Giustiniano

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO I. IL CONCUBINATO DAGLI ALBORI

AL BASSO IMPERO ... 6

1. Premessa... 6

2. La paelex e la lex regia di Numa Pompilio ... 7

3. La testimonianza paolina in D. 50.16.144 ... 12

4. Il concubinato secondo la lex Iulia et Papia e la lex

Iulia de adulteriis coercendis ... 20

5. Requisiti del concubinato ... 28

6. Effetti giuridici del concubinato ... 35

CAPITOLO II: L’OMOSESSUALITÀ NEL DIRITTO

ROMANO DALLE ORIGINI ALL’ETÀ POST

CLASSICA ... 43

1. Premessa... 43

2. Mos Maiorum - Mos Graecorum e pederastia ... 43

3. Omosessualità passiva: il problema terminologico 49

4. Per una storia dello stuprum tra repressione

dell’omosessualità e tutela del fanciullo ... 53

5. Potere politico e legami omosessuali: casi di

matrimonio tra gli imperatori pagani ... 71

6. Accenni sull’omosessualità femminile ... 77

CAPITOLO III: IL CONCUBINATO DAL BASSO

IMPERO A GIUSTINIANO ... 83

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2

2. La repressione del concubinato durante il basso

impero ... 85

3. La legislazione giustinianea ... 102

CAPITOLO IV: L’OMOSESSUALITÀ DALLA

LEGGE MOSAICA ALLA REPRESSIONE TOTALE

... 111

1. Premessa... 111

2. Il basso impero ... 112

3. La repressione totale di Giustiniano ... 119

BIBLIOGRAFIA ... 127

(3)

3

INTRODUZIONE

Modestino1 scrive: “Le nozze sono la congiunzione di un maschio

e di una femmina e la condivisione dell’intera vita, punto d’incontro tra diritto divino e diritto umano”2.

Nel diritto romano il matrimonio veniva chiamato matrimonium o

iustae nuptiae ed era essenzialmente monogamico. La sua struttura

rimane invariata fin dalle origini ed era caratterizzato da due elementi fondamentali, uno soggettivo, l’affectio maritalis, che consisteva nella reciproca volontà dell’uomo e della donna di considerarsi marito e moglie e, un elemento oggettivo, ovvero la manifestazione dell’affectio, che poteva essere desunto anche semplicemente dalla convivenza3.

Nel momento in cui cessava l’elemento soggettivo, ovvero l’affectio maritalis, il matrimonio cessava. Tuttavia, solo nel diritto arcaico e in quello successivo a Costantino erano previste fattispecie tipiche di divorzio unilaterale.

Gli elementi dell’affectio e della sua manifestazione esteriore, benché essenziali, non erano sufficienti a qualificare un matrimonio come legittimo, come ci dice, infatti, Ulpiano:

Tit. ex corp. Ulp. 5.2: De his qui in potestate sunt: Iustum se inter eos qui nupta contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt.

1 Mod. lib. 1 reg., D. 23.2.1: Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et

consortium omnis vitae, divini et humani iuris comminicatio.

2 M. BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, 2011, p. 204. 3 A. PETRUCCI, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, p. 13.

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4 L’autore ci dice che il matrimonio è legittimo se coloro che lo contraggono hanno lo ius connubii, sia la donna che il maschio siano in grado di generare dei figli e che siano consenzienti o che lo siano i loro genitori, se sono ancora sotto la loro potestà. Nel testo Ulpiano ci parla come primo requisito dello ius connubii. Il connubium era la capacità giuridica degli sposi di contrarre matrimonio reciprocamente4. Nell’ordinamento romano, però, solo

i cittadini sono in possesso del connubio e possono, quindi, contrarre un matrimonium iustum, facoltà che venne successivamente accordata a varie comunità locali decentrate e poi a tutti i sudditi dell’impero solo nel 212 d.C., con la Constitutio

Antoniniana dell’imperatore Caracalla5.

La capacità di contrarre matrimonio, però, doveva anche essere reciproca:

Tit. ex corp. Ulp. 5.6, De his qui in potestate sunt: Inter parentes et liberos infinite cuiuscumque gradus conubium non est. Inter cognatos autem ex transverso gradu olim quidem usque ad quartum gradum matrimonia contrahi non poterant: nunc autem ex tertio gradu licet uxorem ducere; sed tantum fratris filiam, non etiam sororis filiam, aut amitam vel materteram, quamvis eodem gradu sint. Eam, quae noverca vel privigna vel nurus vel socrus nostra fuit, ducere non possumus.

Tra i parenti in linea retta non vi è connubium. Non si poteva contrarre matrimonio tra i cognati in linea collaterale entro un certo grado. Il divieto riguardava, nell’età più antica, i matrimoni tra parenti collaterali entro il sesto grado, ridotto poi al quarto grado. Il requisito del quarto grado viene abbassato al terzo consentendo così a Claudio di sposare Agrippina. Con Teodosio si ritorna al

4 A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 14. 5 A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 14.

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5 limite di quarto grado. Tale divieto è eliminato definitivamente da Giustiniano6.

Vi era, inoltre, tra i requisiti, quello della capacità naturale al matrimonio, ovvero, la capacità di procreare che si raggiungeva con la pubertà, sostituita, successivamente, con la fissazione di un’età minima. Infine, l’ultimo requisito era il consenso del pater familias, qualora gli sposi fossero ancora sotto la loro potestà.

Questi requisiti e, in particolare, la necessaria sussistenza del

connubium per la contrazione di iustae nuptiae, portarono alla

nascita di altre relazioni diverse dal matrimonio, come il concubinato.

Nel V secolo d.C., ad opera di Giustiniano, il matrimonio verrà riformato richiedendo, per la sua contrazione, solo il consenso iniziale, creando così un vincolo che perdurerà fino allo scioglimento dello stesso per morte, divorzio o annullamento, avvicinando tale istituto alla concezione moderna7.

Con l’avvento del Cristianesimo, inoltre, ogni altro rapporto, diverso dal matrimonio, verrà o vietato, come nel caso delle unioni omosessuali, o annesso al matrimonio, come nel caso del concubinato.

6 A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 14. 7 A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 14.

(6)

6

CAPITOLO I. IL CONCUBINATO DAGLI ALBORI

AL BASSO IMPERO

1. Premessa

“Tutte le relazioni a scopo sessuale tra uomo e donna, che non fossero strette con intenzione maritale, avevano il carattere di mere unioni di fatto, che non originavano di per sé alcun rapporto giuridico tra le parti. Fra queste i Romani ne distinsero ab antico una, cui diedero il nome di concubinato”8.

Il concubinato è un istituto che ha subito numerose evoluzioni nel corso dei secoli a seguito del cambiamento sia del diritto che della società romana.

Tramite le fonti giuridiche e letterarie, che tratteremo di seguito, analizzeremo questo cambiamento osservandone il mutamento terminologico, con il passaggio dal termine di derivazione greca

paelex alla locuzione ben più conosciuta di concubina, ma

soprattutto ci soffermeremo sull’evoluzione normativa che ha interessato questa figura passando dalla lex Regia di Numa Pompilio, dove vi è il primo riferimento al termine paelex, fino alle

leges Iuliae di Augusto che, più o meno involontariamente,

contribuirono alla diffusione di questo istituto. Le leggi che hanno trattato questo argomento hanno radicalmente cambiato il ruolo della donna all’interno del rapporto di concubinato, trasformando la concezione iniziale di concubina da “moglie di serie B”, accanto ad un uomo già sposato, a unica donna all’interno della casa, senza però la possibilità, prima, e la volontà, poi, di contrarre matrimonio.

(7)

7

2. La paelex e la lex regia di Numa Pompilio

Grazie alle fonti di epoca più risalente sappiamo che il concubinato era una pratica molto diffusa nel mondo antico e le prime documentazioni in proposito ci parlano di una figura in particolare: la paelex9.

La paelex fu presa in considerazione nel diritto romano classico in relazione al problema del concubinato, ma la sua origine antichissima e i dati testuali non lineari avevano fatto sorgere dubbi agli studiosi sulla sua qualificazione giuridica e in ordine al ruolo sociale dalla stessa rivestito nell’epoca arcaica. Come abbiamo già avuto modo di accennare, i primi riferimenti alla paelex10 figurano in una lex regia, attribuita a Numa Pompilio, databile tra il 715 e il 673 a.C.

Conosciamo la portata di questa lex grazie al richiamo di alcuni autori, i cui testi sono analizzati qui di seguito:

Paul. –Fest. s.v. Pelices (p.248 L): Pelices nunc quidem appellantur

alienis succumbentes non solum feminae, sed etiam mares. Antiqui proprie eam pelicem nominabant, quae uxorem habenti nubebat. Cui generi mulierum etiam poena constituta est a Numa Pompilio hac lege: Pelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni crinibus dimissis agnum feminam caedito.

9 B. RAWSON, Roman Concubinage and other “the facto” Marriages,

Philadelphia, 1974, pp. 279 ss.; S. TREGGIARI, Concubinae, in Papers

of the British School at Rome, 49, Cambridge, 1982, pp. 59 ss.

10 Nell’epitome festina troviamo “pelex” anziché “paelex”. Secondo B.

ALBANESE, Questioni di diritto romano arcaico, Roma, 2006, p. 52: “La forma pelex potrebbe essere meno antica di paelex”.

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8 In questo testo sono presenti due significati del termine, uno che si riferisce al tempo degli antichi (antiqui) e l’altro al tempo dell’autore (nunc). In epoca a lui prossima, ci dice Festo, sono chiamati pelices coloro che hanno relazioni, sia femmine che maschi, con persone già impegnate e si sottolinea l’aspetto fisico della relazione tramite il verbo succumbere11. Presso gli antichi, invece, la paelex non è una semplice amante, ma la compagna di un uomo sposato con cui è unita da una consuetudine di vita in comune, come descritto anche da Gellio:

Aulo Gellio, Noctes Atticae, 4.3.3: “Paelicem” autem appellatam

probrosamque habitam, quae iuncta consuetaque esset cum eo, in cuius manu mancipioque alia matrimonii causa foret, hac antiquissima lege ostenditur, quam Numae regis fuisse accepimus: “Paelex aedem Iunonis ne tangito; si tangit, Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito”. “Paelex” autem quasi παλλαξ, id est quasi παλλακις. Ut pleraque alia, ita hoc quoque vocabulum de Graeco flexum est.

Dal testo risulta che la paelex era colei che aveva un intenso legame con un uomo che aveva un’altra donna. Ella era simile, per posizione, a una uxor, ma senza esserlo; per questo, nonostante instaurasse con un uomo un legame stabile, il suo ruolo era visto in modo negativo12.

11 Il verbo viene usato anche in un brano di G.G. IGINO in riferimento al

congiungimento tra Callisto e Giove: De astron. 2.1.5: Hoc signum, ut

complures dixere, non occidit. Et qui volunt aliqua de causa esse institutum, negant Tethyn Oceani uxorem id recipere, cum reliqua sidera perveniant in occasum, quod Tethys Iunonis sit nutrix, cui Callisto succubuerit ut paelex.

12 Questa valenza negativa, legata più specificamente al profilo sessuale,

viene evidenziata da E. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, Padova, 1940, p. 820, s.v. consuesco: “Speciatim consuescere virum cum aliqua,

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9 Anche in questo passo di Gellio viene citata la lex regia di Numa Pompilio, che vietava alla paelex di praticare il culto di Giunone, riservato alle sole donne sposate; se ella, infatti, non avesse rispettato il divieto, avrebbe dovuto sacrificare con i capelli sciolti un’agnella alla Dea.

Secondo Astolfi13, la legge vieterebbe alla paelex di considerarsi moglie di un uomo già sposato e il sacrificio sarebbe stato offerto con i capelli sciolti a significare il pentimento della donna e la richiesta di perdono per aver pregato la dea protettrice delle iustae

nuptiae in veste di sposa. Per l’autore, procedere al sacrificio con i crines dimissi costituirebbe per la paelex il compimento di un actus contrarius alla pettinatura matrimoniale, simboleggiante la volontà

di considerare non equiparabile al matrimonio il rapporto avuto con l’uomo sposato. La legge di Numa, quindi, commina la pena alla

paelex perché aveva instaurato con l’uomo già coniugato un

rapporto analogo al matrimonio e voleva comportarsi come moglie. Ma tale ricostruzione non parrebbe pienamente condivisibile, poiché i sex crines, ovvero i capelli annodati in sei trecce, erano tipici delle spose, cioè delle donne in procinto di maritarsi. Sesto Pompeo Festo, che è l’unico autore a darci notizia di questa acconciatura, ci spiega che veniva usata per ornare i capelli delle

nubentes e che veniva inoltre usata anche dalle Vestali:

Sextus Pompeius Festo, s.v. senis crinibus (p. 454 L): Senis

crinibus nubentes ornantur, quod (h)is ornatus vetustissimus fuit. Quidam quod eo Vestales virgines ornentur, quarum castitatem viris suis.

13 R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Padova,

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10 Il collegamento con le Vestali, simbolo di verginità, ci dà quindi conferma che si tratti di un’acconciatura tipica della donna nel giorno delle nozze e non della uxor14.

Sulla questione si sono espressi numerosi autori, tra i quali la Giunti15, che, riesaminando la problematica socio-giuridica della paelex, è giunta alla conclusione che Numa, con la sua lex, avrebbe

indirettamente fissato la gerarchia delle possibili relazioni stabili tra uomo e donna, ponendo sul piano più alto la uxor e su di un piano inferiore, ma sempre lecito, la paelex. Si viene a creare, secondo l’Autrice, un quadro vario delle relazioni sessuali domestiche “a stregua di un regime poligamico nella sostanza ma la cui formale monogamia sopravvive grazie alla rigorosa distinzione, giuridico-sociale e terminologica, fra lo status di uxor e quello di paelex”16. Partendo proprio dal pensiero della Giunti, si esprime sulla lex di Numa e sul ruolo della paelex anche Leo Peppe17 che, benché ritenga nel complesso le conclusioni dell’Autrice accettabili, reputa importante un ampliamento della prospettiva in modo da poter meglio collocare la figura della paelex.

Secondo Peppe, è fondamentale il testo di Festo nella parte in cui sostiene che antiqui proprie eam pelicem nominabant, quae uxorem

habenti nubebat. Nelle altre fonti però non appare mai il termine nubere riferito alla paelex, ma si fa sempre riferimento all’unione

sessuale e alla vita in comune. In questa ultima prospettiva il criterio differenziale sembrerebbe essere la sussistenza o meno di

14 C. FAYER, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari, Roma,

2005, p. 485.

15 P. GIUNTI, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda,

Milano, 1990, pp. 141 ss.

16 P. GIUNTI, Adulterio, cit., p. 149.

17 L. PEPPE, Paelex e spurius, in Mélanges de droit romain et d’histoire

ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain, Paris, 1998, pp. 344

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11

nuptiae, ma, secondo l’autore, per capire meglio l’istituto bisogna

analizzare quanto detto da Gellio.

Mentre nel lemma di Festo la posizione dell’uomo è rapportata ad una uxor non meglio identificata, Gellio si riferisce alla paelex del passato, come emerge dall’uso dei tempi verbali esset e foret, qualificata come femina probrosa e contrapposta all’altra donna chiamata mater familias, quindi degna di onore. Con l’inciso in

cuius manu mancipioque alia matrimonii causa foret pone

l’attenzione sulla contrapposizione tra paelex/uxor in manu

mancipioque e non sulla più generica coppia paelex/uxor, poiché in

quest’ultimo caso il termine uxor può riferirsi sia a quella in manu che a quella sine manu. Dunque si deve concludere che Gellio, quando parla della paelex, voglia precisare che il giusto termine di confronto per la paelex sia la uxor in manu mancipioque matrimonii

causa.

Secondo Peppe, la differenza tra le due donne non è quindi, come ritiene invece la Giunti, che una sia uxor e l’altra no, ma che una sia in manu mancipioque e l’altra no.

Secondo Kaser18, invece, l’espressione in manu mancipioque individuerebbe la posizione della moglie sulla quale sarebbe stato acquistato il potere mediante coemptio, in questo caso ciò che dice Gellio dovrebbe essere interpretato nel senso che la paelex è la donna che abita stabilmente con un uomo che ha già acquistato la

manus su un’altra donna tramite la coemptio matrimonii causa. Ma

Peppe si chiede perchè Gellio non faccia alcun riferimento agli altri modi di convenire in manum, l’usus e la confarreatio, che dovrebbero risultare equiparati sotto questo profilo alla coemptio. È corretto sottolineare, in effetti, che al tempo di Gellio l’usus era ormai scomparso, mentre la confarreatio non faceva più sorgere la

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12

manus, ma che l’autore, quando scrive, si riferisce ad un periodo

risalente in cui sia usus che confarreatio erano ancora praticate, pertanto risulta quanto meno oscuro il perché non siano stati considerati.

Dal canto suo, quindi, Peppe corregge l’indicazione del Kaser nel senso che, stando a ciò che dice Gellio, nell’epoca arcaica, quale che fosse il motivo dell’uso dell’espressione in manu mancipioque, la “moglie che non avesse posto in essere confarreatio o coemptio, nell’anno successivo al matrimonio si trovava nella stessa condizione di una paelex, era una paelex”19. Questa equiparazione è rafforzata dalla terminologia ricorrente nelle fonti per descrivere la paelex, la quale è tale perchè, secondo lo stesso Gellio, è iuncta

consuetaque con l’uomo, in maniera non dissimile dalla moglie.

3. La testimonianza paolina in D. 50.16.144

Del termine paelex e dei suoi significati parla anche Paolo nel Digesto:

Paul. 10 ad leg. Iul. et Pap. D. 50.16.144: Libro memorialium

Massurius scribit "pellicem" apud antiquos eam habitam, quae, cum uxor non esset, cum aliquo tamen vivebat: quam nunc vero nomine amicam, paulo honestiore concubinam appellari. Granius Flaccus in libro de iure Papiriano scribit pellicem nunc volgo vocari, quae cum eo, cui uxor sit, corpus misceat: quosdam eam, quae uxoris loco sine nuptiis in domo sit, quam παλλακήν Graeci vocant.

In questo commento sulla lex Iulia et Papia, Paolo riporta due definizioni della parola paelex, una dei Memorialium libri di

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13 Masurio Sabino, giurista vissuto nel I d.C., e l’altra del de Iure

Papiriano del giurista Granio Flacco, vissuto nel I a.C.

Dal testo di Masurio Sabino apprendiamo che ai suoi tempi, nel I secolo d.C., si usavano i termini amica e concubina, e che concubina era paulo honestior rispetto ad amica, per indicare colei che apud antiquos20era chiamata paelex e abitava con l’uomo pur non essendo moglie. Nel testo riferito a Sabino non appare nessun riferimento alla condizione dell’uomo ma, considerando che l’autore si riferisce alla nozione di paelex presso gli antiqui, che si occupavano di costei commentando la lex di Numa, si può desumere che il diritto prenda in considerazione il fenomeno solo quando nasce un problema di rapporto con la uxor.

Nel secondo periodo del frammento, dove viene citato il pensiero di Granio Flacco, il giurista ci dice che nunc, quindi in epoca a lui contemporanea (I sec. a.C.), veniva comunemente (vulgo) chiamata

paelex colei che si univa carnalmente (corpus misceat) con un

uomo sposato (uxor sit). L’altra definizione, quella riferita agli antichi, parla di una donna che abita a casa come moglie senza cerimonie nuziali (uxoris loco sine nuptiis in domo sit), quella che i Greci chiamano παλλακήν. È plausibile pensare che Granio Flacco quando parla della paelex dei tempi antichi, anche se non specifica lo stato dell’uomo, intendesse fare riferimento alla compagna abituale di un uomo sposato e dunque alla paelex citata nella lex

regia di Numa Pompilio. Questa conclusione appare ancor più

condivisibile se si tiene conto del riferimento alla παλλακἡ greca; infatti, nel mondo greco antico παλλακή risponde a una nozione

20 “Il termine antiqui, con significato simile a quello di veteres, e forse

più incisivo, qui probabilmente allude a scrittori dell’età repubblicana, ma non necessariamente a giuristi”. Così A. DE BERNARDI, In Margine a

D.50.16.144, in G. Scherillo, Atti del convegno Milano 22-23 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 45; T.A.J. MCGINN, Concubinage and the lex Iulia on adultery, Nashville, 1991, p. 344.

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14 precisa: propriamente, designa la donna che il signore assume, ponendola accanto a sé in insidiosa concorrenza con la sposa legittima, con il rango di concubina21.

Il testo, nella seconda parte, ha creato non poche perplessità agli studiosi contemporanei a causa del termine quosdam, che risulta sintatticamente slegato rispetto al resto della frase. Alcuni studiosi, a partire dal giurista cinquecentesco Giulio Pace22, hanno suggerito

di correggere il termine quosdam in quondam: la seconda accezione del termine paelex, osserva infatti il De Bernardi “non sarebbe sostenuta da «alcuni» al tempo di Flacco, ma sarebbe stata «una volta» in voga”23. Una simile interpretazione è stata accolta dai

più24, ma non da altri Autori a giudizio dei quali “il termine

quosdam sta a significare con ogni probabilità che il termine è usato

in tal senso da un minor numero di persone”25.

Volendo riassumere le risultanze dei testi fin qui analizzati, ci rendiamo conto che sia le giuridiche che le letterarie parlano di due diverse nozioni della paelex: colei che conviveva con un uomo senza esserne sposa e colei che abitualmente si univa in senso carnale con uomo già sposato. Da un punto di vista temporale sembrerebbe lecito pensare che l’accezione originale indicasse colei che abitava in casa con un uomo sposato, ed è proprio a questo tipo di donne che Numa Pompilio vietò con lex regia di toccare l’altare di Giunone, dea delle iustae nuptiae, escludendole dal

21 Così S. TONDO, Introduzione alle leges regiae, Roma, 1971, p. 46. 22 MOMMSEN- KRUEGER, DIGESTA ad h.l., nt. 43.

23 A. DE BERNARDI, In Margine, cit. p. 72.

24 R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal

diritto classico al diritto giustinianeo, 1, Milano, 1951, p. 350; R.

ASTOLFI, Il matrimonio, cit., p. 3; B. ALBANESE, Questioni, cit., p. 52, nt. 5.

25 C. CASTELLO, D. 40.5.26.7 In tema di senatoconsulto Rubriano, in

Studi in onore di G. Scherillo, 1, Milano, 1972, p. 13; C. FAYER, La familia, cit., p. 14 nt. 16 e p. 16; T.A.J. MCGINN, Concubinage, cit., p.

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15 novero delle mogli legittime. Dopo la suddetta legge vi è una distinzione netta tra il ruolo della paelex, che viene vista in chiave negativa, ma sempre lecita e quello della uxor.

La disposizione è stata variamente spiegata in dottrina: secondo alcuni Autori26, la lex di Numa, proibendo alla paelex il culto di

Giunone, si limiterebbe a stabilire un rapporto gerarchico tra le “mogli” di uno stesso uomo. Secondo il Peppe27, in particolare, “il

punto di partenza sembra possa essere individuato in un regime di poligamia nel quale la seconda moglie si presenta come ‘aggiuntiva’ alla prima; da questa situazione, nella quale entrambe le mogli sono qualificate uxores ed i figli di entrambe sono pienamente legittimi, si passa ad una situazione di poligamia diseguale, nella quale la seconda moglie ha uno status inferiore: ad indicarla viene introdotto il termine paelex. Numa, con la sua lex, sancisce questa realtà, escludendo la paelex dal culto di Iuno”28. Secondo Astolfi, invece, la lex regia, “proibendo di comportarsi come una seconda moglie sancisce ed applica il principio monogamico”29. La legge di Numa, continua l’Autore, vieterebbe

all’uomo di avere due mogli: “se un uomo sposa due donne, la seconda non diviene sua moglie, ma resta soltanto la sua concubina e viene inoltre punita per aver offeso Giunone, se la prega come sposa di un uomo già ammogliato”30.

Concordo con il Cristaldi31 nel ritenere che la disposizione di Numa

non faccia un riferimento diretto all’avvenuta celebrazione di un

26 P. GIUNTI, Adulterio, cit., p. 147; C. FAYER, La familia, cit., pp. 18

ss.; L. PEPPE, Storie di parole, storie di istituti sul diritto matrimoniale

romano arcaico, Logroño, 1997, pp. 181 ss.

27 L. PEPPE, Paelex, cit., pp. 358 ss.; della stessa opinione G.

PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2012, p. 103.

28 L. PEPPE, Pealex, cit., p. 358.

29 R. ASTOLFI, Sintesi della storia della bigamia, Roma, 2010, p. 282. 30 R. ASTOLFI, Il matrimonio, cit., p. 1.

31 S.A. CRISTALDI, Unioni non matrimoniali a Roma, Torino, 2014, p.

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16 secondo matrimonio, come invece dice Astolfi. Della stessa opinione anche l’Albanese, per il quale, la chioma sciolta (demittere crines) non è “un atto autonomamente rilevante”, ma ci può far pensare ad una “valenza rituale fortemente significativa di contrapposizione sacrale tra lo stato d’una donna che si trova in situazione di conformità rispetto alle norme sacrali e giuridiche in tema di nozze, e lo stato d’una donna che invece si trova, rispetto a quelle norme, in una condizione di irregolarità che deve essere sanata”32.

Stabilendo, quindi, che la paelex compisse il rito con i capelli sciolti si voleva rimarcare pubblicamente la differenza di status tra la moglie e la paelex. Il senso del precetto di Numa è probabilmente quello di introdurre una distinzione tra la moglie e l’altra donna, la

paelex, riconoscendo a quest’ultima un ruolo sociale e religioso

diverso da quello della uxor, gerarchicamente subordinato, ma accettato e tollerato dalla società.

Nel periodo immediatamente dopo Servio Tullio33 la paelex sparisce come uxor e diventa la concubina: il matrimonio è ormai rigorosamente monogamico34.

Alcune fonti letterarie ci mostrano come i due significati del termine paelex convissero nello stesso periodo tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C..

32 B. ALBANESE, Questioni, cit., p. 54.

33 “Il figlio nato dall’unione con la paelex è inizialmente pienamente

legittimo. La sua condizione comincia a mutare con il peggiorare della condizione della madre; già al tempo di Servio Tullio lo status del figlio della paelex comincia ad essere differenziato rispetto al nato da giuste nozze, fino poi a costituire il modello spurius”, Così L. PEPPE, Storie, cit., pp. 181 s.

34 G. PUGLIESE, Istituzioni, cit., p. 103; C. FAYER, La familia, cit., p.

19 nt. 37; S.A. CRISTALDI, Unioni, cit., p. 156 nt. 55; L. PEPPE, Paelex, cit, p. 359.

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17 Il significato più recente del termine lo ritroviamo, infatti, utilizzato da:

Livio, Ab Urbe Condita, 39.53: Dum ea in Peloponneso, a quibus

divertit oratio, geruntur, reditus in Macedoniam Demetrii legatorumque aliter aliorum affecerat animos. Vulgus Macedonum, quos belli ab Romanis imminentis metus terruerat, Demetrium ut pacis auctorem, cum ingenti favore conspiciebant, simul et spe haud dubia regnum ei post mortem patris destinabant. Nam etsi minor aetate, quam Perseus, esset, hunc tamen iusta matre familiae, illum pellice ortum esse; illum ut ex vulgato corpore genitum nullam certi patris notam habere, hunc insignem Philippi similitudinem prae se ferre, ad hoc Romanos Demetrium in paterno solio locaturos, Persei nullam apud eos gratiam esse.

In questo passo Livio ci racconta dei due fratelli Demetrio, nato da

iustae matre familiae, e di Perseo, figlio di una concubina che si era

congiunta carnalmente con Filippo, padre di entrambi. Perseo, in quanto figlio maggiore, avrebbe dovuto essere l’erede al trono, ma sia i Romani che i Macedoni guardavano a Demetrio come il migliore successore per il regno (Demetrium ut pacis auctorem cum

ingenti fauore conspiciebant), perché nato da moglie legittima,

senza tenere in considerazione il fratello maggiore (Persei nullam

apud eos gratiam esse), che, essendo figlio di una paelex, non dava

certezze su chi fosse il padre. Il termine viene qui usato per descrivere una donna che si era unita carnalmente con Filippo che era già sposato.

Ovidio, Metamorfosi, I, 622 ss.: Paelice donata non protinusexuit

omnem diva metum timuitque Iovem et fuit anxia furti, donec Arestoridae servandam tradidit Argo.

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18 II, 508: Intumuit Iuno, postquam inter sidera paelex fulsit.

In questi frammenti delle Metamorfosi viene narrata la storia di Giove che, a causa di un incantesimo lanciato da Iunce, si innamorò della giovane Io, che viene definita paelex dopo essersi unita con il dio, scatenando le ire della moglie Giunone.

Plauto, inoltre, utilizza il termine paelex in tre commedie diverse e sempre nella stessa accezione.

Nella Cistellaria, dove una mezzana si lamenta del fatto che le mogli accusano le meretrici di essere le paelices dei loro mariti:

Cistellaria, actus I, vv. 35 ss.: Viris cum suius praedicant nos solere, suas paelices esse aiunt, eunt depressum.

Nel Rudens, un marito teme che la moglie possa accusarlo di aver condotto a casa delle paelices:

Rudens, actus IV, scena IV, vv. 1045 ss.: Dae. Serio adepol, quamquam vobis quae voltis, mulieres, metuo, propter vos ne uxor mea med extrudat aedibus, quae me paelices adduxe dicet ante oculos suos. Vos confugite in aram potius quam ego.

Mentre nel Mercator una schiava associa l’avventura subita dalla sua padrona, che crede di aver scoperto il marito a tradirla, a quella di Giove e Alcmena (dalla quale unione nacque Ercole) quando furono scoperti da Giunone:

Mercator, actus IV, vv. 689 s.: Syr. Ei hac mecum, ut videas semul tuam Alcumenam paelicem, Iuno mea.

In tutti e tre i casi l’uomo è sposato e la paelex è colei che si congiunge carnalmente con lui.

In questi testi non si parla di un rapporto stabile tra la paelex e l’uomo, ma solo di un rapporto fisico tra i due.

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19 L’accezione più antica del termine, dove la paelex è una convivente stabile di un uomo, ma senza esserne sposa, la ritroviamo, invece, in Gellio:

Gellio, Noctes Atticae, 2.23.10: Caecilius autem sic: id demum

miser est, qui aerumnam suam nescit occultare ferre: ita me uxor forma et factis facit, si taceam, tamen indicium. Quae nisi dotem, omnia, quae nolis, habet: qui sapiet, de me discet, qui quasi ad hostes captus liber servio salva urbe atque arce. Quae mihi, quidquid placet, eo privatu vim me servatum. Dum ego eius mortem inhio, egomet vivo mortuus inter vivos. Ea me clam se cum mea ancilla ait consuetum, id me arguit, ita plorando, orando, instando atque obiurgando me obtudit, eam uti venderem; nunc credo inter suas aequalis et cognatas sermonem serit: “quis vestrarum fuit integra aetatula, quae hoc idem a viro impetrarit suo, quod ego anus modo effeci, paelice ut meum privarem virum?”

Nel brano l’erudito sta riferendo un frammento del Plocione di Cecilio Stazio. In esso si parla di un uomo sposato che viene accusato dalla propria moglie di incontrarsi di nascosto con l’ancilla. La moglie rimprovera dunque il marito ita plorando,

orando, instando atque obiurgando me obtudit e lo convince a

vendere la donna. La relazione tra l’uomo sposato e la paelex sembrerebbe una relazione stabile. Nel frammento, per altro, è chiara la disapprovazione sociale per questo tipo di relazione, come si evince dai pettegolezzi di cui è vittima il marito. La moglie, infatti, si lamenta per l’accaduto con amiche e parenti chiedendo loro se, in giovane età, avessero chiesto lo stesso ai loro mariti. Plauto precede di più di un secolo Ovidio e Tito Livio, eppure tutti e tre gli autori usarono la stessa definizione del termine paelex (quella considerata più recente), mentre Gellio, che visse dopo costoro, usò la definizione degli antiqui, a riprova della contemporaneità dei due significati.

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20

4. Il concubinato secondo la lex Iulia et Papia e la lex

Iulia de adulteriis coercendis

Il concubinato, già praticato in epoca repubblicana, ebbe una larga diffusione per tutta l’epoca classica. Nella società romana non era visto come qualcosa di indecoroso, tant’è che anche personaggi di specchiata moralità, come gli imperatori Vespasiano35, Antonino Pio36 e Marco Aurelio37, ebbero una concubina dopo la morte della moglie. In questo caso si può parlare di moglie sostitutiva poiché la moglie era deceduta. Questo istituto ebbe la sua massima diffusione nell’età di Augusto, anche se la dottrina si divide sui motivi; secondo alcuni Autori38, dipenderebbe dal fatto che la legislazione augustea avrebbe fatto divenire il concubinato un vero e proprio istituto giuridico, regolandolo in maniera nuova e definitiva, mentre, secondo altri39, la legislazione avrebbe fatto menzione del

35 SVET., De vit. Caes., Div. Vespasianus 8.3: Uxori ac filiae superstes

fuit atque utramque adhuc privatus amisit. Post uxoris excessum Caenidem, Antoniae libertam et a manu, dilectam quondam sibi revocavit in contubernium habuitque etiam imperator paene iustae uxoris loco.

36 Hist. Aug., Antonino Pio 8.9: sed Repentinus fabula famosa percussus

est, quod per concubinam principis ad praefecturam venisset.

37 Hist. Aug., Marco Aurelio 29.10: Enisa est Fabia ut Faustina mortua

in eius matrimonium coiret. Sed ille concubinam sibi adscivit procuratoris uxoris suae filiam, ne tot liberis superduceret novercam.

38 F. SCHUPFER, La famiglia secondo il diritto romano, Padova, 1876,

pp. 22 s.; T. MOMMSEN, Römisches Staatrecht, 3, Leipzig, 1887, p. 430, nt. 2.

39 Così A. GIDE, De la condition de l’enfant naturel et de la concubine

dans la législation romaine, in Étude sur la condition privée de la femme dans le droit ancien et moderne, 2, Paris, 1885, p. 553; G. BRINI, Matrimonio e divorzio, I, Roma, 1975, pp. 193 ss.; P. MEYER, Der Römische Konkubinat nach den Rechtsquellen und den Inschriften,

Leipzig, 1895, pp. 29 ss.; P. COSTA, Corso di storia del diritto romano

dalle origini alle compilazioni giustinianee, Bologna, 1901, p. 267, nt.

177. La tesi di recente è stata riproposta da A. CABALLERO, Notas

sobre la configuración de las uniones de hecho en Roma, in Feminismo/s. 8 dicembre 2006, Revista Universidad de Alicante, 2006, p. 82.

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21 concubinato solo per esentarlo dalle pene previste per lo stupro nella lex Iulia de adulteriis e per distinguerlo dal matrimonio di cui si parla nella lex Iulia et Papia, avendo quindi entrambe le leggi un effetto indiretto sull’istituto. Per questo motivo la dottrina maggioritaria40 ritiene che le leggi augustee non avrebbero voluto

disciplinare il concubinato, ma che la sua diffusione ne sarebbe stata una conseguenza inevitabile e, per così dire, naturalmente collaterale.

L’ultima tesi appare la più condivisibile soprattutto se si tiene in considerazione il quadro storico in cui si inseriscono le leggi augustee. Il loro scopo era, infatti, quello di un potenziamento demografico della società romana, la salvaguardia della sua dignità sociale e della stabilità patrimoniale della famiglia, con particolare riguardo a quella delle classi abbienti e più elevate socialmente. Augusto, nel tentativo di porre un freno al celibato e di accrescere il numero degli abitanti liberi di Roma, fece approvare la lex Iulia

40 G. CASTELLI, Il concubinato e la legislazione augustea, Roma, 1914,

p. 55; J.B. PLASSARD, Le concubinat romain sous le haut empire, Paris, 1921, pp. 53 ss.; F. SCHULZ, Classical Roman Law, rist., Aalen, 1992, p. 138; G. LONGO, Diritto Romano. Diritto di Famiglia, 2, Roma, 1953, p. 68; B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, 3, Milano, 1954, p. 126; P. BONFANTE, Corso di diritto romano, Milano, 1963, pp. 315 ss.; C. NARDI, Cenni storici del concubinato, in Archivio Penale, 19, 1963, p. 112; P. CSILLAG, Il concubinato e la legislazione di diritto familiare

dell’imperatore Augusto, in Quaderni di documentazione dell’accademia d’Ungheria di Roma, IV, 1, Roma, 1963, pp. 6 ss.; G. CASELLI, Concubina pro uxore. Osservazioni in merito al c. 17 del primo concilio di Toledo, Bologna, 1964-65, p. 164; O. ROBLEDA, El matrimonio en derecho romano. Esencia, requisitos de validez, efectos, disolubilidad,

Roma, 1970, p. 279; R. ASTOLFI, Note per una valutazione storica della

‘lex Iulia et Papia’, Roma, 1973, p. 192; C. PÉREZ-GÓMEZ, El concubinato en la experiencia jurìdica romana, Madrid, 2000, pp. 1467

ss.; J. ROSET, Uxoris loco … ex animi destinatione, Logrogño, 2002, p. 104; L. SANDIROCCO, Il concubinato nella tarda antichità, Teramo, 2004, pp. 202 s.; C. FAYER, La familia, cit., pp. 20 ss.; Scrive G. CASTELLI, Il concubinato, cit., p. 162, nt. 2: “Le leggi Giulie non dovettero nominare neppure per incidenza il concubinato. Si veda 50.16.144… Se veramente il concubinato fosse stato introdotto da Augusto, Sabino non avrebbe scritto paulo honestiore, ma ex lege Iulia

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22

de maritandis ordinibus e la lex Papia Poppea nuptialis, chiamate

dalla giurisprudenza lex Iulia et Papia per la loro quasi identità di contenuto41.

Proveremo ad esaminare quelle che erano le disposizioni di queste due leggi in relazione al concubinato cercando di separare i contenuti dell’una e dell’altra. Il disposto delle due leggi è di difficile distinzione poiché spesso le fonti sono contraddittorie e ci sono giunte scarse notizie di entrambe, ma è pacifico che la lex

Papia sia stata suggerita da Augusto per ampliare e potenziare la lex Iulia.

Lo scopo principale della lex Iulia de maritandis ordinibus era quello di costringere le persone a contrarre matrimonio, imponendo delle sanzioni ai celibes e rimuovendo determinati ostacoli al matrimonio: il pretore poteva in tal senso costringere il pater

familias ad acconsentire al matrimonio dei figli. Oltre a favorire i

matrimoni, Augusto cercò di limitare in alcuni casi i divorzi: la liberta, per esempio, non poteva divorziare dal patrono se egli non vi acconsentiva42.

41 R. ASTOLFI, La Lex Iulia et Papia, Padova, 1996, p. 325; A.

PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 19.

42 Come ci spiega Ulpiano nel Digesto: Ulp. 3 ad leg. Iul. et Pap. D.

24.2.11 pr.: Quod ait lex: "divortii faciendi potestas libertae, quae nupta

est patrono, ne esto", non infectum videtur effecisse divortium, quod iure civili dissolvere solet matrimonium. Quare constare matrimonium dicere non possumus, cum sit separatum. Denique scribit Iulianus de dote hanc actionem non habere. Merito igitur, quamdiu patronus eius eam uxorem suam esse vult, cum nullo alio conubium ei est nam quia intellexit legis lator facto libertae quasi diremptum matrimonium, detraxit ei cum alio conubium. Quare cuicumque nupserit, pro non nupta habebitur. Iulianus quidem amplius putat nec in concubinatu eam alterius patroni esse posse.

Nel testo Ulpiano inizia citando la lex Iulia et Papia (Quod ait lex), che ci dice che la liberta, che è sposata con il patrono, non ha la potestà di divorziare. La liberta, continua Ulpiano, ha in realtà il diritto di divorziare e quindi di sciogliere il matrimonio ma, come scrive Giuliano, non ha l’azione dotale (Denique scribit Iulianus de dote hanc actionem non

habere). Ella può quindi sciogliere il matrimonio ma non può contrarre

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23 Lo scopo della lex Iulia non era solo quello di spingere le persone a contrarre giuste nozze, ma contemplava anche due categorie di divieti matrimoniali: quelli che riguardavano l’ordine senatorio e quelli che riguardavano tutti coloro che erano nati liberi.

I divieti matrimoniali per i senatori erano contenuti in un caput della lex, di cui si conosce il dettato originale:

Paul. 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.44: Lege Iulia ita cavetur: qui

senator est, quive filius, neposve ex filio proneposve ex filio nato cuius eorum est erit, ne quis eorum sponsam uxoremve sciens dolo malo habeto libertinam aut eam, quae ipsa cuiusve pater materve artem ludicram facit fecerit. Neve senatoris filia neptisve ex filio proneptisve ex nepote filio nato libertino eive, qui ipse cuiusve pater materve artem ludicram facit fecerit, sponsa nuptave sciens dolo malo esto neve quis eorum dolo malo sciens sponsam uxoremve eam habeto.

La disposizione della legge risulta molto chiara e precisa: proibisce il matrimonio dei senatori e dei loro discendenti in linea retta maschile, e anche femminile, fino al terzo grado (quive filius,

neposve ex filio proneposve ex filio nato cuius eorum est erit) con

liberte (libertinam) o liberti e con donne o uomini che, essi stessi o i loro genitori, facciano o abbiano fatto teatro (quae ipsa cuiusve

pater materve artem ludicram facit fecerit). Tale disposizione era

volta ed evitare che gli esponenti dell’ordine sociale più elevato acquistassero le schiave più belle e, dopo averle liberate, le sposassero, turbando così la composizione della classe senatoria43. Gli stessi divieti li ritroviamo nei:

che resti sua moglie, in altri termini, viene sanzionata per mezzo della privazione della possibilità di sposarsi con un altro (detraxit ei cum alio

conubium).

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24

Tit. ex corp. Ulp., 13.1, De caelibe orbo et solitario patre: Lege Iulia prohibentur uxores ducere senatores quidem liberique eorum libertinas et quae ipsae quarumve pater materve artem ludicram fecerit, item corpore quaestum facientem.

Nel testo ci vengono elencate le donne con cui i senatori e i loro figli, senza però nominare questa volta i discendenti fino al terzo grado, non possono contrarre matrimonio, che sono le stesse che vengono menzionate da Paolo nel Digesto: liberte e attrici o figlie di persone che abbiano fatto o facciano teatro.

A questi divieti ne va aggiunto un altro, di incerta datazione, che ampliò gli impedimenti matrimoniali della classe senatoria, proibendo il matrimonio con una donna colpevole di un crimen e condannata con sentenza emessa da una quaestio perpetua44: Ulp. 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.43.10: Senatus censuit non

conveniens esse ulli senatori uxorem ducere aut retinere damnatam publico iudicio.

I divieti che riguardavano gli ingenui erano inseriti, sempre all’interno della della lex Iulia, in un capo diverso da quello che riguardava l’ordine senatorio:

Tit. ex corp. Ulp., 13.2: Ceteri autem ingenui prohibentur ducere lenam, et a lenone lenave manumissam, et in adulterio deprehensam, et iudicio publico damnatam, et quae artem ludicram fecerit: adicit Mauricianus et a senatu damnatam.

In questo testo Ulpiano ci dice che agli ingenui è fatto divieto di sposarsi con prostitute ed ex prostitute, il mezzano e la mezzana, l’adultera condannata o colta in flagrante e le esercenti l’arte teatrale. Questi divieti erano probabilmente elencati dopo quelli

44 “Il giudizio è pubblico perché può essere intentato da chiunque. Questa

è la definizione che spetta propriamente al procedimento delle

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25 della classe senatoria e valevano anche per loro, come è specificato in un testo, che ci dice, appunto, che ai senatori era vietato prendere come mogli le donne che era vietato sposare agli altri uomini nati liberi:

Paul., 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.44.8: Eas, qua ingenui ceteri

prohibentur ducere uxores, senatores non ducent.

La lex Papia Poppea nuptialis, invece, cercava di incrementare la procreazione presentandola come dovere sociale, ampliando quelle che erano le disposizioni della lex Iulia e suggerendo un’età convenzionale entro la quale avere figli, dai 25 ai 60 anni per gli uomini e dai 20 ai 50 per le donne.

A queste due leggi ne va aggiunta una terza, la lex Iulia de adulteriis

coercendis del 17 a.C., che prevedeva e disciplinava il crimen adulterii. Lo scopo di questa legge era di disciplinare l’adulterio e

le varie fattispecie che vi rientravano: incestum, stuprum e

lenocinium. La lex Iulia de adulteriis non si limitava a sottoporre a

nuova regolamentazione la violazione della fede coniugale, ma stabiliva che fosse punito come crimen qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio. Augusto con questa legge regolò per la prima volta il crimen stupri45, con cui si puniva la relazione

sessuale con donne non sposate (divorziate, vedove e nubili), favorendo così il matrimonio. Tale crimen non veniva commesso quando l’uomo si univa con donne che facevano un certo tipo di mestiere o molto in basso nella considerazione sociale, delle quali non si riteneva punibile la condotta riprovevole46, dunque, in tali casi “questa unione non poteva configurarsi come matrimonio ma

45 M. BRUTTI, Il diritto, cit., p. 226; A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 26. 46 R. ASTOLFI, Lex, cit, p. 341.

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26 nemmeno come ‘stupro’, costituendo invece un vincolo di concubinato”47.

Appare pertanto evidente che Augusto non volesse realmente legiferare sul concubinato, ma che la regolamentazione di tale istituto sia stata una conseguenza indiretta delle leggi da lui promulgate: si potevano infatti tenere come concubine solo le donne con le quali non si commetteva stuprum, secondo la lex Iulia

de adulteriis, e quelle con cui la lex Iulia et Papia proibiva il

matrimonio.

Anche in questo caso la situazione della liberta48 che avesse avuto un rapporto di concubinato con il proprio patrono risulta essere sottoposta ad una regolamentazione a parte: infatti, non solo non era vietato il concubinato, ma era considerato degno di rispetto e alla liberta era riservato il nomen di matrona, come ci spiega Ulpiano:

Ulp. 2 de adult. D. 48.5.14 pr.: Si uxor non fuerit in adulterio,

concubina tamen fuit, iure quidem mariti accusare eam non poterit, quae uxor non fuit, iure tamen extranei accusationem instituere non prohibebitur, si modo ea sit, quae in concubinatum se dando matronae nomen non amisit, ut puta quae patroni concubina fuit.

Una donna che non è moglie, ma concubina non può essere accusata di adulterio da colui che la tiene come se ne fosse il marito. Questa disposizione, però, non vale nel caso in cui la donna, dandosi come concubina, non abbia perso il nome di matrona (quae in

concubinatum se dando matronae nomen non amisit), quindi,

allorchè fosse stata concubina del patrono. Il rapporto di concubinaggio della liberta con il patrono non rientrava nelle

47 A. PETRUCCI, Lezioni, cit., p. 26.

48 M. MOLÉ, Stuprum, Torino, 1971, p. 13; C. FAYER, La familia, cit.,

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27 fattispecie incriminate per stuprum, ma veniva quasi equiparato al matrimonio, quindi, la donna poteva essere accusata di adulterio

iure extranei.

Grazie alle fonti da noi analizzate siamo stati in grado di delineare un quadro alquanto esaustivo sul concubinato, riuscendo a distinguere le tipologie di donne con le quali si poteva instaurare: meretrici, attrici o figlie di persone che lavoravano nel mondo del teatro, da quelle con le quali non era permesso, ingenuae ed

honestae.

Contro questo diffuso orientamento, tuttavia, sembra deporre un testo di Marciano:

Marcian. 12 inst. D. 25.7.3 pr.: In concubinatu potest esse et aliena

liberta et ingenua et maxime ea quae obscuro loco nata est vel quaestum corpore fecit. Alioquin si honestae vitae et ingenuam mulierem in concubinatum habere maluerit, sine testatione hoc manifestum faciente non conceditur. Sed necesse est ei vel uxorem eam habere vel hoc recusantem stuprum cum ea committere.

In questo testo, Marciano ci dice che si può tenere in concubinato la liberta altrui e la donna nata libera, in particolare (et maxime) quella di umili natali (obscuro loco nata49), non escludendo che

possa tenersi come concubina anche una donna ingenua non

obscuro loco nata, cioè ingenua ed honesta, come appare nel

prosieguo del testo, dove l’autore specifica che, se uno preferisce avere come concubina una donna onesta, deve ricorrere ad una

49 “L’espressione obscuro loco nata è stata intesa come indicante le donne

il cui padre o la cui madre avevano esercitato l’ars ludicra e che la lex

Iulia et Papia accomunava alle liberte e alle meretrici nel divieto di

sposare gli appartenenti alla classe senatoria; ma è più verosimile che tale espressione, con un significato meno rigido, indichi le donne di bassa estrazione e di costumi degradati, che rientravano, quindi, come le mezzane alle quali sono equiparate, nel novero di quelle donne in quas

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28

testatio50, in mancanza dovrà tenerla come moglie o incorrerà nel crimine di stuprum. Molti Autori51 ritengono però che il testo sia

stato interpolato, l’espressione “et maxime” in particolare è stata ritenuta un’aggiunta, eliminata la quale, il testo direbbe che si può tenere in concubinato la liberta aliena, l’ingenua obscuro loco nata e la meretrice, il che “corrisponde alle costanti dichiarazioni dei giureconsulti romani”52.

5. Requisiti del concubinato

Il concubinato non era lasciato fuori dalla legislazione romana formando oggetto di interventi normativi e di riflessione da parte dei giuristi, senza però mai uscire dall’ombra del matrimonio a cui veniva equiparato e da cui doveva rimanere diviso. Non era, quindi, un rapporto al di fuori del diritto, ma, come il matrimonio, vi erano specifici requisiti ulteriori necessari per una sua lecita costituzione, di cui troviamo descrizione nel Digesto.

Uno dei primi requisiti ricordati da Ulpiano era l’età, che non poteva essere inferiore ai dodici anni, ovvero al raggiungimento di quella che era considerata la maturità sessuale per una donna. Si trattava, in questo caso, dello stesso principio che vigeva per il matrimonio:

Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap. D. 25.7.1.4: Cuiuscumque aetatis

concubinam habere posse palam est, nisi minor duodecim sit.

50 C. FAYER, La familia, cit., p. 22; M. BRUTTI, Il diritto, cit., p. 230. 51 G. CASTELLI, Il concubinato, cit., p. 150; G. LONGO, Diritto, cit., p.

68; O. ROBLEDA, El matrimonio, cit., p. 280.

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29 Dovevano inoltre mancare impedimenti di natura parentale. Non potevano infatti unirsi in concubinato coloro che erano legati da un certo grado di parentela. Era vietato, infatti, unirsi in concubinato con la figlia della sorella, altrimenti si commetteva incesto (incestum committitur):

Ulp. 3 disp., D. 23.11.56: Etiam si concubinam quis habuerit

sororis filiam, licet libertinam, incestum committitur.

Secondo Ulpiano, inoltre, la concubina del patrono non avrebbe dovuto divenire concubina del figlio o del nipote e viceversa, pertanto anche questo tipo di unione andava vietata53:

Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap. D. 25.7.1.3: Si qua in patroni fuit

concubinatu, deinde filii esse coepit vel in nepotis, vel contra, non puto eam recte facere, quia prope nefaria est huiusmodi coniunctio, et ideo huiusmodi facinus prohibendum est.

Anche l’imperatore Alessandro Severo si occupa dei rapporti tra le concubine e i figli degli uomini con cui hanno instaurato un rapporto di concubinato. L’imperatore, infatti, vieta ai figli di prendere come mogli le concubine dei loro genitori altrimenti verranno accusati di stupro54:

C. 5.4.4, Imperator Alexander Severus: Liberi concubinas

parentum suorum uxores ducere non possunt, quia minus religiosam et probabilem rem facere videntur. Qui si contra hoc fecerint, crimen stupri committunt.

Un’altra condizione era la situazione sociale della donna.

53 P. BONFANTE, Corso, cit., p. 324; C. CASTELLO. In tema, cit., p.

76; C. FAYER, La familia, cit., p. 53.

54 Sul testo, A. GUARINO, Studi sull’incestum, Napoli, 1943, p. 201; B.

BIONDI, Il diritto, cit., p. 135; S. PULIATTI, Incesti crimina. Regime

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30 Partiamo riportando l’opinione di Atilicino, citata da Ulpiano e con cui quest’ultimo giurista concorda:

Ulp. 2 ad leg. Iul et Pap. D. 25.7.1.1: Cum Atilicino sentio et puto

solas eas in concubinatu haberi posse sine metu criminis, in quas stuprum non committitur.

Il testo ci dice che si possono tenere come concubine solo quelle donne con cui non si commetteva stuprum55: ovvero una serie di categorie di donne a cui possiamo risalire tramite alcuni testi giuridici.

Vi erano le donne condannate per adulterio, con cui si poteva instaurare un rapporto di concubinato, ma non si poteva contrarre matrimonio, secondo quella che era la disposizione della lex Iulia

de adulteriis:

Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap. D. 25.7.1.2: Qui autem damnatam

adulterii in concubinatu habuit, non puto lege Iulia de adulteriis teneri, quamvis, si uxorem eam duxisset, teneretur.

Le donne adultere, inoltre, equivalevano a coloro che erano state condannate in pubblico giudizio, poiché la donna era colpita da infamia non solo per essere stata colta sul fatto, ma anche perché condannata. La condanna in pubblici giudizi e l’adulterio sono entrambi casi in cui la donna viene colpita da nota d’infamia, sia quando sia condannata ma non colta in flagrante adulterio, sia nel caso in cui sia stata colta in flagranza ma non condannata56, come vediamo in:

55 C. FAYER, La familia, cit., p. 21. 56 R. ASTOLFI, Lex, cit., p. 98.

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31 Ulp. 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.43.12: Quae in adulterio

deprehensa est, quasi publico iudicio damnata est. Proinde si adulterii condemnata esse proponatur, non tantum quia deprehensa est erit notata, sed quia et publico iudicio damnata est. Quod si non sit deprehensa, damnata autem, idcirco notetur, quia publico iudicio damnata est, at si deprehensa quidem sit, damnata autem non sit, notata erit? ego puto, etsi absoluta sit post deprehensionem, adhuc tamen notam illi obesse debere, quia verum est eam in adulterio deprehensam, quia factum lex, non sententiam notaverit.

Altra categoria di donne con le quali si poteva solo avere un rapporto di concubinato erano le attrici57, come risulta in:

Pap. 2 de adult. D. 48.5.11.2: Mulier, quae evitandae poenae

adulterii gratia lenocinium fecerit aut operas suas in scaenam locavit, adulterii accusari damnarique ex senatus consulto potest.

Nello specifico, il giurista ci riferisce che, in forza di un senato consulto erano possibili l’accusa e la condanna per adulterio di quelle donne che evitandae poenae adulterii gratia si attivavano come meretrici o attrici, entrando così a far parte della categorie delle feminae probrosae con le quali non si commetteva stuprum58.

Dunque, in rapporto al concubinato possiamo dedurre che valesse il medesimo regime antielusivo.

Un’altra categoria di donne con cui non si commetteva stupro erano le meretrici, di cui ci parla Ulpiano:

57 C. FAYER, La familia, cit., p. 347; P. BONFANTE, Corso, cit., p. 317;

T.A.J. MCGINN, Prostitution, sexuality and the law in ancient Rome, Oxford, 2003, p. 198; M. MOLÉ, Stuprum, cit., p. 12.

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32 Ulp. 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.43.4: Non solum autem ea quae

facit, verum ea quoque quae fecit, etsi facere desiit, lege notatur: neque enim aboletur turpitudo, quae postea intermissa est.

La legge si riferisce non solo alle donne che fanno le prostitute, ma anche a coloro che lo avevano fatto in passato, perché neque enim

aboletur turpitudo, non si cancella la turpitudine. E, pertanto,

seppure abbiano fatto le prostitute in un tempo passato, con loro non si commetterà stuprum, e in caso di unione stabile vi sarà concubinato.

Un altro importante snodo problematico riguardava la questione della coesistenza tra matrimonio e concubinato. La maggior parte della dottrina59 ritiene che i due istituti non potessero convivere anche se, alla luce delle fonti, non vi sono chiari segni in senso contrario alla loro coesistenza, sia in epoca repubblicana, dove bastava che la donna appartenesse al novero delle donne in quas

stuprum non committitur, che in quella imperiale dove, secondo

Biondi60: “Mentre i Romani ripugnavano la poligamia qualora si trattasse di matrimonio, e la bigamia finì per essere considerata come delitto, poiché il concubinato era istituto di fatto, non ripugnava legalmente la coesistenza del matrimonio con il concubinato o più concubinati”.

59 F. SCHUPFER, La famiglia, cit., p. 25; C. FADDA, Diritto delle

persone e della famiglia, Napoli, 1910, p. 361; P. BONFANTE, Corso,

cit., p. 324; C. CASTELLO, In tema, cit., pp. 150 ss.; O. ROBLEDA, El

matrimonio, cit., p. 279; B. RAWSON, Roman concubinage, cit., p. 288;

S. TREGGIARI, Concubinae, cit., pp. 77 s.; R. SALLER, I rapporti di

parentela, Torino, 1989, p. 533; M. HUMBERT, L’individu, l’état: quelle stratégie pour le mariage classique?, in Parenté et stratégies familiares dans l’antiquité romaine. Actes de la table ronde des 2-4 octobre 1986, Paris, Maison des sciences de l’homme, p. 192.

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33 A sostegno dell’opinione di Biondi possiamo portare un brano di Papiniano che ci fornisce un’importante testimonianza per l’epoca imperiale. Il Biondi cita il testo anche se non è esplicito; la concubina potrebbe aver chiesto la stipulazione per allontanare l’amante che era una sua compagna di letto stabile:

Pap. 11 resp. D. 45.1.121.1: Stipulationis utiliter interponendae

gratia mulier ab eo, in cuius matrimonium conveniebat, stipulata fuerat ducenta, si concubinae tempore matrimonii consuetudinem repetisset. Nihil causae esse respondi, cur ex stipulatu, quae ex bonis moribus concepta fuerat, mulier impleta condicione pecuniam adsequi non possit.

In questo brano possiamo leggere di una moglie che, al momento

del matrimonio, aveva preteso dallo sposo la promessa di una somma (duecento) per il caso in cui il marito avesse ripreso la consuetudine della relazione con una concubina (si concubinae

tempore matrimonii consuetudinem repetisset). Secondo il Biondi,

l’espressione consuetudinem repetisset indica l’esistenza di un’antica consuetudine per cui moglie e concubina potessero convivere. Inoltre, dal costrutto stipulatio ex bonis moribus

concepta fuerant l’Autore desume che la coesistenza dei due

istituti, benché non fosse vietata dal diritto civile, fosse comunque considerata contraria ai boni mores. Come abbiamo già detto, però, il testo non è esplicito e il termine concubinae può significare “amante stabile” e non “moglie di serie B”. Probabilmente la moglie, mediante contratto, aveva preteso che il marito cessasse di avere l’amante nel corso del matrimonio.

Il termine concubinae, infatti, come abbiamo già visto, poteva riferirsi sia all’amante che ad una donna alternativa alla moglie. In età classica, a Roma, non era, infatti, vietato avere più amanti contemporaneamente; circostanza che ci viene suggerita anche da

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34 un passo di Plinio il Giovane, dove la presenza di più amanti non suscita nessuna nota di disprezzo, anzi sembra essere del tutto naturale:

Epist. 3.14.2-3: Repente eum servi circumsistunt. Alius fauces invadit, alius os verberat, alius pectus et ventrem, atque etiam (foedum dictu) verenda contundit; et cum exanimem putarent, abiciunt in fervens pavimentum, ut experirentur an viveret. Ille sive quia non sentiebat, sive quia se non sentire simulabat, immobilis et extentus fidem peractae mortis implevit. Tum demum quasi aestu solutus effertur; excipiunt servi fideliores, concubinae cum ululatu et clamore concurrunt. Ita et vocibus excitatus et recreatus loci frigore sublatis oculis agitatoque corpore vivere se (et iam tutum erat) confitetu.

In questa epistola Plinio racconta il crudele trattamento che subì Largio Macedone da parte dei suoi servi, che lo circondarono e iniziarono a percuoterlo e, credendolo morto, lo gettarono sul pavimento infuocato. Subito dopo arrivarono dei servi a lui fedeli per salvarlo e concubinae cum ululatu et clamore concurrunt, le concubine accorrono urlando e strillando.

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35 La presenza di più amanti è anche una pratica, attestata dalle fonti, in relazione a vari imperatori, come Commodo61, che ne aveva

addirittura trecento, Nerone62, Tigellino63 e Domiziano64.

6. Effetti giuridici del concubinato

Dopo le leggi di Augusto il concubinato ebbe una larghissima espansione, a causa dei divieti matrimoniali che erano stati introdotti dalla lex Iulia et Papia e delle pene per l’accusa di

stuprum della lex Iulia de adulteriis: si diffuse, infatti, come istituto

61Hist. Aug., Commodo 5.4: hac igitur lege vivens ipse cum trecentis

concubinis, quas ex matronarum meretricumque dilectu ad formae speciem concivit,trecentisque aliis puberibus exoletis, quos aeque ex plebe ac nobilitate vi pretiisque forma disceptatrice collegerat, in Palatio per convivia et balneas bacchabatur.

62SVET., De vit. Caes., Nero, 28.2: Hunc Sporum, Augustarum

ornamentis excultum lecticaque vectum, et circa conventus mercatusque Graeciae ac mox Romae circa Sigillaria comitatus est identidem exosculans. Nam matris concubitum appetisse et ab obtrectatoribus eius, ne ferox atque impotens mulier et hoc genere gratiae praevaleret, deterritum nemo dubitavit, utique postquam meretricem, quam fama erat Agrippinae simillimam, inter concubinas recepit. Olim etiam quotiens lectica cum matre veheretur, libidinatum inceste ac maculis vestis proditum affirmant.

63TACITO, Historia, 1.72.3: eo infensior populus, addita ad vetus

Tigellini odium recenti Titi Vinii invidia, concurrere ex tota urbe in Palatium ac fora et, ubi plurima vulgi licentia, in circum ac theatra effusi seditiosis vocibus strepere, donec Tigellinus accepto apud Sinuessanas aquas supremae necessitatis nuntio inter stupra concubinarum et oscula et deformis moras sectis novacula faucibus infamem vitam foedavit etiam exitu sero et inhonesto.

64SVET., De vit. Caes., Domit., 22.1: Libidinis nimiae, assiduitatem

concubitus velut exercitationis genus clinopalen vocabat; eratque fama, quasi concubinas ipse develleret nataretque inter vulgatissimas meretrices. Fratris filiam adhuc virginem oblatam in matrimonium sibi cum devinctus Domitiae nuptiis pertinacissime recusasset, non multo post alii conlocatam corrupit ultro et quidem vivo etiam tum Tito; mox patre ac viro orbatam ardentissime palamque dilexit, ut etiam causa mortis exstiterit coactae conceptum a se abigere.

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36 alternativo al matrimonio. Proprio per questo motivo fu oggetto di un grande lavoro interpretativo tra i giuristi dell’epoca che cercarono di individuarne con precisione le caratteristiche giuridiche, così da poterlo differenziare meglio dal matrimonio e poterlo regolare all’interno dell’ordinamento. Da un punto di vista sociale la concubina aveva una posizione molto diversa da quella della moglie. La prima differenza evidente è che a lei non spetta l’appellativo uxor, non partecipa, a differenza della moglie, al rango sociale del marito, non ha obblighi di fedeltà, non può avere aspettative ereditarie ab intestato, qualora fosse stata in manu65. Per quanto invece riguarda le donazioni, nonostante Ulpiano si mostri contrario, proponendo di estendere loro il divieto di donazione che esisteva per i coniugi, al fine di non avvantaggiare le concubine, esse sono da considerarsi valide e non revocabili66:

Pap. 12 resp. D. 39.5.31 pr.: Donationes in concubinam collatas

non posse revocari convenit nec, si matrimonium inter eosdem postea fuerit contractum, ad irritum reccidere quod ante iure valuit.

Nel testo Papiniano si pronuncia chiaramente: le donazione fatte alla concubina non si possono revocare, nemmeno nel caso in cui, successivamente, venga contratto matrimonio tra il donante e la donataria.

Si occuparono, in particolare, delle donazioni nei confronti della concubina anche gli imperatori, Settimio Severo, Caracalla e Alessandro Severo.

65C. FAYER, La familia, cit., p. 11.

66 F. SCHUPFER, La famiglia, cit., p. 25; S. TREGGIARI, Concubinae,

cit., p. 62; E. KARABÉLIAS, Rapports juridiques entre concubins dans

le droit romain tardif (donations, actio furti, successions), Perugia, 1990,

p. 440; da ultimo, M. BRUTTI, Il diritto, cit., p. 226; C. BUSACCA,

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