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Il ruolo del Terzo settore nelle prospettive di Welfare generativo e di amministrazione condivisa

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

GIURISPRUDENZA

Tesi di laurea

IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELLE PROSPETTIVE DI WELFARE GENERATIVO E DI

AMMINISTRAZIONE CONDIVISA

La Candidata Il Relatore

BENEDETTA FENZI PROF. EMANUELE ROSSI

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“In tutto amare e servire” (S. Ignazio)

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INDICE

INTRODUZIONE ... 1

Capitolo I ... 6

1. Premessa ... 6

2. Le origini e l’evoluzione del Terzo settore in Italia ... 7

3. La dimensione costituzionale del Terzo Settore ... 11

4. La dimensione normativa del Terzo settore... 17

5. Definizione di Terzo settore ... 20

6. Le finalità del Terzo settore ... 25

7. Il ruolo del Terzo settore nei servizi alla persona ... 26

7.1 La programmazione ... 28

7.2 L’erogazione dei servizi ... 30

7.3 La verifica e il controllo ... 31

8 Considerazioni conclusive ... 32

Capitolo II ... 35

1. Premessa ... 35

2. Le origini del Welfare State ... 37

3. Crisi del Welfare State ... 39

4. Dal Welfare State al Welfare Mix ... 43

5. Cosa significa Welfare generativo ... 46

6. I principi costituzionali di riferimento ... 49

7. Azioni a corrispettivo sociale (ACS) ... 51

8. Ruolo del Terzo settore ... 55

9. Considerazioni conclusive ... 58

Capitolo III ... 61

1. Premessa ... 61

2. Definizione di beni comuni ... 63

3. La tragedia dei beni comuni ... 67

(4)

5. Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni . 75

6. I Patti di collaborazione ... 77

7. Il ruolo del Terzo settore ... 81

8. Considerazioni conclusive ... 83

CONCLUSIONI ... 84

BIBLIOGRAFIA ... 88

SITI CONSULTATI ... 89

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1

INTRODUZIONE

In un momento storico così complesso come quello dell’ultimo decennio, caratterizzato da una crisi economico-finanziaria e valoriale, i modelli che sono stati guida dell’idea di sviluppo socio-economico hanno dimostrato la loro debolezza. Al contrario l’universo di organizzazioni rientranti nel concetto di “Terzo settore”, viene riconosciuto come componente essenziale dell’economia, soprattutto nel sistema di protezione sociale. Il settore non-profit se connesso in modo efficace con gli altri settori del mercato, profit e pubblico, ha la potenzialità di garantire un welfare universale elevato, in grado di rispondere ai bisogni reali ed emergenti di tutti gli agenti del sistema economico.

Il desiderio di dedicare questo lavoro di ricerca al Terzo settore nasce dall’esperienza maturata nel volontariato nel corso degli anni, in particolare svolgendo servizio presso la commissione Caritas per i problemi dell’handicap fin dall’estate 2005.

Le considerazioni che propongo, riguardano il ruolo del Terzo settore nelle nuove prospettive di attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, quarto comma, Costituzione. Il lavoro è articolato in tre capitoli. Il primo capitolo si pone come principale finalità quella di delineare un profilo di base delle organizzazioni delle Terzo settore, descrivendo in primo luogo le fasi di sviluppo del Terzo settore in Italia, proseguendo poi con l’inquadramento costituzionale e normativo del settore,

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fino a tentare, in un contesto sempre più dinamico e flessibile, di definire un’idea dell’identità di tali tipi di organizzazione.

La ricerca di una denominazione e di una definizione appropriate, infatti, era una questione a cui per anni non si è riusciti a dare una risposta. Questo perché il Terzo settore è un fenomeno complesso e variegato al punto che è difficile riuscire a tracciarne un profilo unico e condiviso. È difficile, quindi, riuscire a individuare quali esperienze rientrano nella categoria anche per l’informalità che caratterizza molte attività riconducibili al settore. A livello legislativo il problema potrebbe essere stato risolto dalla legge delega di riforma del Terzo settore, che ne individua una definizione consentendo di trasferire la nozione di Terzo settore dal campo delle scienze economiche e della sociologia a quello giuridico. Nella parte finale del primo capitolo vengono descritte le finalità del Terzo settore, soffermandosi in particolare sulla funzione di erogazione dei servizi alla persona.

I soggetti del Terzo settore hanno un ruolo decisivo in questo campo, partecipando alla tutela dei diritti sociali, alla programmazione e al controllo e valutazione dei servizi volti a rispondere e ad assolvere ai bisogni e alle difficoltà della persona.

Nel secondo capitolo vengono trattate brevemente le origini e le cause della crisi del Welfare state; cercando di confutare come le soluzioni fin qui adottate non sono sufficienti a rispondere ai bisogni dei cittadini, in quanto si ritiene errata la concezione

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3

stessa di welfare come sistema assistenzialistico piuttosto che abilitante.

Viene poi dedicata particolare attenzione alla proposta, elaborata dalla Fondazione Zancan, di adottare il paradigma del cd. “Welfare generativo”. Si tratta di una proposta che, prendendo spunto dalla crisi dello Stato Sociale, si caratterizza per l’enfasi posta non solo nel corretto bilanciamento tra diritti e doveri, ma anche sulla necessità di promuovere, attraverso il coinvolgimento di soggetti pubblici, privati e singoli cittadini, una responsabilizzazione da parte delle persone che si trovano in “stato di bisogno”, affinché le risorse impiegate possano trasformarsi in un vero e proprio investimento per l’intera collettività. L’analisi riguarderà nello specifico i principi costituzionali di riferimento, le modalità di realizzazione e il ruolo assunto dal Terzo settore in questo ambito.

La prima parte del terzo capitolo è dedicata ai beni comuni, alla loro definizione e alle loro criticità. Quest’ultimo aspetto viene descritto dalla teoria della “tragedia dei beni comuni” proposta da Hardin nel 1968 e dalle possibili soluzioni che sono state individuate nel tempo. Le soluzioni sono tre: la privatizzazione, il controllo pubblico e la gestione collettiva. La terza soluzione è rimasta in secondo piano per un lungo periodo, ma grazie al lavoro di ricerca di Elinor Ostrom, la gestione collettiva è stata rivalutata. La sociologa ed economista americana ha dimostrato che le diverse modalità di gestione auto-organizzata e comunitaria delle risorse creano dinamiche sociali, ecologiche ed economiche più efficaci e sostenibili rispetto alla

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privatizzazione o all'affidamento all'ente pubblico. Ostrom ritiene che azioni cooperative volte al perseguimento dell'interesse collettivo, indipendentemente dall'interesse individuale di breve periodo, siano possibili, a differenza di quanto sostenuto da Hardin.

Nella seconda parte del capitolo terzo, si presta attenzione alle

modalità di risposta ai drammi dei beni comuni.

Tradizionalmente essi sono stati affidati all'ente pubblico oppure privatizzati mediante le dinamiche di mercato. Ma queste sembrano non essere più sufficienti, tanto che cresce la diffusione di soluzioni alternative. Tra queste, vi sono proposte che, fondate sul principio di sussidiarietà (art. 118 comma 4

della Costituzione), guardano ad un modello di

amministrazione condivisa.

Per perseguire questo modello, uno dei possibili strumenti è il

“Regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed

amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” che permette alle Amministrazioni Comunali di riconoscere i cittadini come portatori di risorse e di facilitare i progetti con finalità di interesse generale. Nella parte conclusiva del capitolo si esplicita il ruolo che il Terzo settore assume in questa prospettiva di amministrazione condivisa.

Infine, nella parte conclusiva, si è cercato di fornire delle prospettive di interazione tra il modello di Welfare generativo e le riflessioni relative alle modalità di gestione dei beni comuni. Entrambe le prospettive hanno come scopo quello di favorire un coinvolgimento dei “cittadini attivi”, ovvero di coloro che, a

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prescindere da vincoli di carattere associativo stabile, intendono mettersi insieme per la cura dei beni comuni e per lo svolgimento di attività di utilità sociale, in attuazione diretta del principio di sussidiarietà. In tal modo, alle persone destinatarie di interventi e prestazioni sociali verrebbe offerta l’opportunità di esprimere la propria “autonoma iniziativa per lo svolgimento di attività di interesse generale”, favorendo in tal modo anche la loro creatività e le loro competenze da porre a servizio di tutti. La realizzazione di questo sistema richiede un intervento sinergico di vari soggetti e fondamentale è l’apporto degli enti del Terzo settore, come attori partecipi della governance nel nuovo assetto di Welfare, con una valenza economica ed occupazionale tale per l’accresciuto ruolo gestionale. Essi hanno, inoltre, il compito di diffondere la cultura della cittadinanza attiva a partire dalla valorizzazione del capitale sociale e del valore della solidarietà.

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Capitolo I

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le origini e l’evoluzione del Terzo settore in Italia; - 3. La dimensione costituzionale del Terzo Settore; - 4. La dimensione normativa del Terzo settore; - 5. Definizione di Terzo settore; - 6. Le finalità del Terzo settore; - 7. Il ruolo del Terzo settore nei servizi alla persona; - 7.1 La programmazione; - 7.2 L’erogazione dei servizi - 7.3 La verifica e il controllo – 8. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

La ricerca di una denominazione e di una definizione appropriate per “quell’insieme eterogeneo di aggregazioni collettive che erogano e producono servizi di pubblica utilità senza scopo di lucro” ha impegnato molti autori che raramente si sono trovati concordi nelle soluzioni trovate. Questo spiega come mai si ritrovino in letteratura termini diversi per indicare lo stesso fenomeno socio-economico come “terzo sistema”,

“terzo settore”, “settore non-profit”, “volontariato”,

“associazionismo”, “economia sociale”, “economia civile”, “privato sociale”1. Ed anche, a livello internazionale sono in uso

le seguenti terminologie alternative: “non profit sector” e “independent sector” (USA), “charitable sector” e “voluntary sector” (Gran Bretagna), “philantropic sector” (area culturale

1 Le varie locuzioni coniate nel tempo dalla dottrina (sociologica, economica e

giuridica) hanno diverse implicazioni in ordine sia al ruolo del Terzo settore, sia alla sua estensione sotto il profilo soggettivo ed oggettivo. Il termine “privato sociale”, ad esempio, indica il terreno delle relazioni interpersonali da cui emerge il Terzo settore, come volto istituzionale con il quale si presenta alla società; l’espressione “non profit” (contrazione di not for profit organizations, dove “not for” è correttamente tradotto in “non”) privilegia un approccio aziendale-economico, richiamando l’esperienza del volontariato anglosassone ove il settore in esame è visto come un soggetto operativo del mercato, che si confronta con le leggi di quest’ultimo, pur nel rispetto di proprie “regole etiche”; il concetto di “economia civile” attribuisce al Terzo settore il compito ulteriore di concorrere ad umanizzare l’economia, generando reti di solidarietà reciproca nella società.

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anglosassone), “économie sociale” (area culturale francofona), “intermediary sistem”(Germania, Olanda).

Ciò che invece è riconosciuto da tempo e in modo unanime da tutti gli studiosi è la presenza nell’economia di due ampi settori dai confini sufficientemente definiti e dalle caratteristiche distinte: il Mercato da un lato e lo Stato dall’altro.

Si è cominciato, quindi, a parlare di “terzo settore” per denominare quella varietà di enti e organizzazioni che si è sviluppata in modo sensibile negli ultimi cinquant’anni, con caratteristiche diverse in termini di struttura organizzativa e di scopo, che sotto un profilo strettamente funzionale si collocano su una “terza via” rispetto allo Stato e al Mercato.2

Questo fenomeno polivalente tenta di dare risposta, spesso riuscendoci, ai fallimenti - o comunque alle insufficienze - tanto dello Stato quanto del Mercato.3

2. Le origini e l’evoluzione del Terzo settore in Italia

In Italia, la presenza di aggregazioni che possiamo ricondurre a tale settore trova le sue origini soprattutto nelle istituzioni filantropiche e caritative cattoliche di tradizione ottocentesca4.

Accanto a queste istituzioni secolari, se ne individuano altre, più recenti, frutto della nascita e dello sviluppo del movimento dei lavoratori.

2 E. ROSSI, Significato e valore del Terzo settore, in M. PELLEGRINI, Corso di Diritto

pubblico dell’economia, Cedam, Padova, 2016, 274.

3 E. ROSSI, Cosa intendiamo con “Terzo settore”?, in Areté: Quadrimestrale

dell’Agenzia per le ONLUS, Maggioli, Rimini, 2010, 23.

4 Per una ricostruzione storica del ruolo del Terzo settore nella storia italiana v. E.

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Tali organizzazioni rispondevano ad esigenze e bisogni della società civile, di cui lo Stato italiano non si faceva carico. Si fa riferimento soprattutto a quei servizi tesi alla garanzia dei diritti sociali5, quali il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, solo

per citarne alcuni.

Di fronte a questo fenomeno sociale, che raggiunse notevoli dimensioni, l’atteggiamento dello Stato fu quello di favorire il ruolo di queste organizzazioni attraverso il loro riconoscimento giuridico ed una normativa che promuovesse questo mondo. La legge n. 3702 del 1859, la cosiddetta «legge Rattazzi» identificò tali aggregazioni come Istituzioni di Carità o Opere Pie, successivamente venne recepita dalla l. n. 753 del 1862, che dettò una disciplina rispettosa dell’autonomia di tali organizzazioni e finalizzata a favorire un collegamento tra

5 La definizione di “diritti sociali” è di difficile identificazione, nonostante il recente

esplicito riconoscimento costituzionale in seguito alla riforma del 2001 (art. 117, comma 2, lett. m; art. 120 Cost.).

I diritti sociali, che erano già individuati a livello costituzionale prima della riforma all’interno dell’insieme dei diritti che l’art. 2 definisce inviolabili, si riferiscono a quelle situazioni soggettive tese a garantire alla persona la tutela di alcune dimensioni della propria sfera personale e di vita (la salute, il lavoro, l’istruzione, e così via), nel rispetto e nella prospettiva di realizzazione piena della propria dignità. All’interno di questa categoria possiamo distinguere i diritti sociali c.d. “a prestazione” e i diritti sociali c.d. “di libertà”.

I primi si sostanziano in una pretesa giuridica verso altri soggetti, solitamente pubblici (almeno per quanto attiene alla responsabilità di garantirli, non tanto in ordine alla loro erogazione) affinché questi pongano in essere dei comportamenti o delle condotte finalizzati alla loro tutela. I secondi, invece, sono caratterizzati dall’esistenza, in capo al singolo individuo, di un interesse, cui segue la pretesa che tutti gli altri soggetti della comunità si astengano da indebite interferenze.

Mentre questi ultimi, una volta riconosciuti, sarebbero per definizione auto applicabili (e quindi tutelabili di fronte ad un giudice, al pari dei classici diritti di libertà), i primi, invece, sarebbero condizionati, non solo finanziariamente ma legislativamente, nel senso che necessitano di una legge, che inquadri gli aspetti fondamentali quali la titolarità del diritto, il contenuto dello stesso e la relazione giuridica intersoggettiva che lega il soggetto obbligato al destinatario dell’intervento.

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queste realtà e le istituzioni pubbliche, in particolare quelle locali.

Con questi interventi legislativi, si nota da parte dello Stato un riconoscimento dell’importanza della funzione svolta in materia di tutela dei diritti sociali e di lotta alla povertà da parte di questi enti e una loro valorizzazione.

Con la legge Crispi del 1890, il legislatore modifica parzialmente l’impianto della legge precedente con lo scopo, da un lato, di accrescere il peso delle istituzioni pubbliche sul versante dell’assistenza e della beneficenza e, dall’altro, introdurre strumenti di controllo e regolazione uniforme degli enti privati che svolgevano queste attività.

Tutte le Opere Pie divennero così Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab)6, vennero riorganizzate e, pur

dotate di autonomia statutaria e gestionale, sottoposte al controllo pubblico.

La legge Crispi segnò un’evoluzione culturale e un crescente intervento pubblico coerente con il passaggio dello Stato liberale verso uno Stato sociale. Si va oltre una mera esigenza di regolazione di un sistema privato, l’intento è quello di affiancare un sistema privato di assistenza a un sistema pubblico di

6 In seguito all’entrata in vigore della Costituzione, il sistema delle IPAB venne a

scontrarsi con la libertà dell’assistenza privata ex art. 38 Cost. Pertanto, nelle more di un intervento di modifica legislativa, la Corte costituzionale, con la nota sent. 396/1988, ha dichiarato l’illegittimità dell’art.1 della Legge Crispi, nella parte in cui non prevedeva che le IPAB regionali e infraregionali potevano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora ne avessero i requisiti. Successivamente il d.lgs 207/2001, in attuazione della delega contenuta nella l. 328/2000, ha disposto che entro due anni le IPAB dovevano trasformarsi in una delle seguenti tipologie: aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP), con personalità giuridica di diritto pubblico; associazioni o fondazioni di diritto privato disciplinate dal codice civile.

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assistenza nell’ottica di un sistema misto che si realizzerà successivamente.

Il periodo storico che si aprì con la legge Crispi e che andò sviluppandosi con l’inizio del XX secolo, incontrò una brusca frenata con l’avvento del Fascismo e l’apertura di una fase

storica istituzionale di contrapposizione tra Stato e

organizzazioni sociali.

Gli interventi che caratterizzarono questo periodo rispondevano a due finalità precise: da un lato si realizzò una pubblicizzazione di alcune di queste organizzazioni sociali, le quali vennero trasformate in enti pubblici snaturandone la conformazione, il ruolo e la finalità; dall’altro, invece, si tese all’eliminazione e al divieto di altre forme organizzative della società civile; si sciolsero quindi le associazioni, i sindacati e le congregazioni di carità, che vennero sostituite con gli enti comunali di assistenza. L’intento portato avanti dall’ideologia fascista era quello di realizzare uno Stato sociale in cui vigeva il monopolio della mano pubblica per la cura dei diritti della persona, con la conseguenza che dove lo Stato non riusciva a coprire interamente i bisogni sociali richiesti e necessari, il cittadino rimaneva privo di tutela.

Dopo la caduta del regime fascista, la prospettiva che guidò i lavori dell’Assemblea costituente fu quella, non solo di superamento delle idee fasciste, ma di completo rovesciamento dell’ordinamento precedente.

Per quanto nella Costituzione del 1948 non si riconoscano – almeno fino alla riforma costituzionale del 2001 del Titolo V

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della parte II della Costituzione, che ha introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale – espliciti riferimenti alla esperienza di ciò che va sotto il nome di Terzo settore, ciò nondimeno molteplici agganci nella Parte Prima della Costituzione ne hanno fornito «copertura costituzionale»: il riconoscimento e la garanzia della «libertà di associazione» recata dall’art. 18 della Costituzione ma, ancor prima, la tutela delle formazioni sociali prevista dall’art. 2 della Costituzione.

Il termine Terzo Settore è stato utilizzato per la prima volta a partire dalla metà degli anni Settanta con il rapporto "Un progetto per l'Europa" del 19787, ha poi cominciato a diffondersi

in ambito europeo ed è entrato nel linguaggio comune in Italia alla fine degli anni ’80.

3. La dimensione costituzionale del Terzo Settore

I primi articoli della Costituzione di riferimento per il Terzo Settore, come detto, sono gli artt. 2 e 18. In particolare, l’art. 2 Cost. stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

7 Per una panoramica storica della costituzione di reti organizzate della società civile

in ambito europeo v. L. JAHIER, La dimensione europea del Terzo settore: situazione

attuale e prospettive per il futuro, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul terzo settore, Bologna, 2011, 418 ss.

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In tale formulazione si possono riconoscere tre principi: il principio personalista, il principio pluralista e il principio di solidarietà.

Il principio personalista evidenzia la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella componente dei suoi valori e dei suoi bisogni, non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato, in discontinuità con la prassi affermatasi durante il regime fascista. Viene quindi riconosciuto e affermato il valore del singolo individuo, la possibilità che possa sviluppare pienamente la propria personalità, che possa fare le proprie scelte, facendo valere i propri diritti e adempiendo ai propri doveri.

La disposizione in esame, però, riconosce e garantisce i diritti inviolabili non solo al singolo, in quanto individuo, ma anche alla “persona”, che, in quanto relazione, essa stessa domanda, in virtù della sua dignità, come dei suoi bisogni, di esser membro di formazione sociale.

La società pluralista non si compone solo di una sommatoria di individui isolati, ma si articola in una molteplicità di formazioni intermedie (così chiamate, perché si frappongono fra l’individuo e lo Stato), che risultano strumentali alla realizzazione della personalità di ogni individuo.

Quanto appena detto sta alla base del riconoscimento del principio pluralista, che l’art. 2 esprime con le parole “sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità”.

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Dalla formulazione della disposizione si potrebbe ritenere che l’atteggiamento del costituente sia, non di favorire il pluralismo, ma di mettere in guardia contro i rischi che questo può produrre nei confronti della persona e di limitarne i possibili effetti negativi.

In realtà, il significato del disposto costituzionale deve essere colto su due piani: da un lato, garantisce i diritti del singolo non solo verso lo Stato, ma anche all’interno di queste associazioni, perché è possibile che all’interno delle formazioni sociali vi possa essere una limitazione dei diritti inviolabili; dall’altro, tende a salvaguardare i diritti delle formazioni intermedie verso lo Stato, assicurando il pluralismo sociale nonché una sfera di autonomia a tali formazioni.

Inoltre, sempre all’art 2, è introdotto il principio di solidarietà, che si afferma come ratio giustificatrice dell’imposizione di doveri. In base al principio personalista, all’individuo non possono essere imposti limiti allo sviluppo della sua personalità, se non per garantire diritti altrui. I doveri di solidarietà non sono violazioni del primato della persona, ma contemperamento di tale primato al fine di garantire l’apporto di tutti per contribuire allo sviluppo sociale e al raggiungimento dell’obiettivo di cui all’art.3, II comma, della Costituzione. I doveri di solidarietà politica si riferiscono a situazioni in cui la persona è chiamata a partecipare alla vita della comunità di cui fa parte. Adempiere ai doveri di solidarietà economica significa agire non pensando solo al tornaconto personale, ma considerando anche i bisogni degli altri consociati. Adempiere

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ai doveri di solidarietà sociale significa mettersi a disposizione gratuitamente di chi ha bisogno.

Per quanto riguarda i diritti inviolabili richiamati all’art. 2, ci si interroga ancora su quali siano questi diritti che la Repubblica riconosce e garantisce. Ci si chiede se tale disposizione costituisca una clausola “chiusa”, e quindi faccia riferimento solo ai successivi singoli diritti nominati dalla Costituzione, oppure se debba intendersi quale clausola “aperta”, che fornirebbe copertura costituzionale anche a nuovi diritti non menzionati espressamente nel testo della Costituzione ed emersi nel progresso e nell’evoluzione della coscienza sociale. Tale questione rimane ancora aperta e non chiarita espressamente dalla Corte costituzionale.

L’art. 18 Cost., invece, riconosce che: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”.

Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, la tutela della libertà di associazione, così com’è espressa nell’art. 18, rappresenta «la proiezione, sul piano dell’azione collettiva, della libertà individuale come risulta riconosciuta e tutelata dalla Costituzione stessa»8.

8 Cfr. Corte cost. 15 novembre 1993, n. 417

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La previsione costituzionale italiana si colloca nella scia della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”9 che attribuisce

ad ogni persona il diritto di riunione e di associazione pacifica (oltre alla garanzia negativa in base alla quale nessuno può essere obbligato contro la propria volontà a fare parte di una qualsivoglia associazione).

Da evidenziare è come la previsione costituzionale offra al fenomeno associativo un duplice livello di tutela: anzitutto la garanzia della libertà del singolo ed in secondo luogo anche la piena garanzia della libertà collettiva accordata al gruppo nel suo insieme.

La libertà di associazione trova il solo limite nel divieto di perseguire fini vietati ai singoli dalle leggi penali e scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Infine, altro punto di grande interesse e implicazioni per il Terzo Settore che si può trarre dalla nostra Costituzione è l’art. 118 circa il riconoscimento del principio di sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà è stato inserito all’interno della Costituzione con la legge di riforma del Titolo V (legge cost. n. 3 del 2001), e risulta definito giuridicamente in due accezioni: sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale. Il secondo comma dell’art. 118 si riferisce al principio di sussidiarietà verticale, disponendo che: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e

9 Dispone l’art 20 commi 1 e 2 della “Dichiarazione Universale dei Diritti

dell'Uomo”, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, “1. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. 2. Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.”

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di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

Ai livelli superiori di governo sono quindi destinate solamente funzioni che il livello locale non è in condizioni di fare o che non sono di sua stretta competenza.

Lo stesso art. 118, al comma 4, prevede che: “Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni riconoscono e favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. L’enunciato qui riportato, si riferisce al principio di sussidiarietà orizzontale, in base al quale ciascun soggetto privato è incoraggiato ad intervenire nello svolgimento di un’attività posta in essere per soddisfare un interesse della collettività.

La norma sembra riferirsi innanzitutto a quelle realtà private sociali, di carattere per lo più aggregativo e che per definizione non hanno una finalità lucrativa, ma questa autonoma iniziativa può esercitarsi anche in forma spontanea ed individuale da parte di cittadini attivi che decidono di svolgere attività a favore della collettività.

Questo principio ha forza rivoluzionaria tale da fondare un nuovo paradigma pluralista e paritario, poiché si va a sostituire il paradigma della funzione amministrativa di tipo bipolare e gerarchico e a riconosce ai cittadini il ruolo di soggetti

autonomamente attivi nel perseguimento dell’interesse

generale.

E’ bene sottolineare che la sussidiarietà orizzontale, non comporta un arretramento dello Stato di fronte alle sue

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responsabilità e obblighi, ma ne ridisegna le modalità d’intervento: una modalità che promuove e sostiene l’autonoma capacità dell’azione dei cittadini singoli e delle formazioni sociali.

4. La dimensione normativa del Terzo settore

La legislazione riguardante il Terzo settore è sempre stata confusa, poco coerente, di non facile interpretazione e applicazione. Un tale risultato è dovuto al fatto che la disciplina in questione deve essere ricostruita mettendo insieme frammenti contenuti ora nel Codice civile, ora nelle leggi speciali succedutesi nel tempo.

Le norme del Codice Civile che disciplinano gli enti collettivi sono gli articoli 11- 42 del Codice Civile del 1942. In particolare, gli articoli 11 e 13 sono disposizioni generali riguardanti le persone giuridiche pubbliche e private; gli articoli 14-35 disciplinano le associazioni riconosciute e le fondazioni, vale a dire enti con personalità giuridica a seguito di riconoscimento dello Stato, in cui prevale l’aspetto personale (gli associati nelle associazioni) o quello patrimoniale (il patrimonio destinato al perseguimento di uno scopo nelle fondazioni). Gli articoli 36-42 del Codice Civile disciplinano, invece, le associazioni non riconosciute (quelle senza personalità giuridica) ed i comitati (organizzazioni di cittadini che perseguono un unico scopo in un tempo limitato).

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Questo settore della normativa codicistica pare non essere stato in grado, a differenza di altri, di adattarsi al mutamento dei tempi e delle esigenze sociali. Emerge ancora oggi dalla disciplina codicistica degli enti collettivi una forte diffidenza nei confronti di quelle formazioni sociali che si frappongono tra lo Stato e i cittadini, che caratterizzava l’ideologia dell’epoca fascista10.

A partire dai primi anni ’90, invece, sono state emanate norme statali che hanno previsto e disciplinato le molteplici ed eterogenee figure soggettive di cui si compone il Terzo settore, regolandone soprattutto i tratti organizzativi e delineando in maniera alquanto generica anche gli aspetti relativi alle modalità e agli strumenti del loro rapporto con gli enti pubblici e i loro profili tributari.

Si pensi, ad esempio, alla legge quadro sul volontariato (l. 266/1991), alla legge sulle cooperative sociali (l. 381/1991), al decreto legislativo sulle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (d.lgs. 460/1998), alla legge sulle associazioni di promozione sociale (l. 383/2000), ed ancora alla legge sugli istituti di patronato e di assistenza sociale (l. 152/2000), al decreto legislativo sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza e al più recente decreto legislativo sull’impresa sociale (d.lgs. 155/2006).

A tali interventi normativi si sono aggiunte poi le leggi regionali attuative della legislazione nazionale sui soggetti non profit,

10 G. DONADIO, Riforma del Terzo settore e Codice civile, in Non profit, Maggioli,

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nonché quelle che hanno disciplinato settori di attività nei quali la presenza di tali soggetti è rilevante11.

Il quadro normativo complessivo che ne scaturisce è caratterizzato da una forte disorganicità e da molti anni vi era la convinzione diffusa che fosse necessario riformare la legislazione in materia di Terzo settore.

A tal proposito è intervenuto il legislatore con la legge delega per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale12.

Mediante tale legge si intende rispondere all’esigenza di riordino e di revisione organica della normativa relativa ai soggetti non profit e alle attività che si svolgono per finalità di interesse generale.

La legge in questione stabilisce i criteri per la revisione e semplificazione della disciplina dei profili civilistici e individua principi chiari per regolare i rapporti fra enti non profit e pubbliche amministrazioni, definendo i rispettivi ruoli, le loro modalità di collaborazione e individuando i relativi strumenti giuridici.

Questa operazione riguardante la legislazione sul Terzo settore parte dalla sua definizione, che risulta essere altresì la pre-condizione logica e giuridica perché il riordino e la revisione organica possa avvenire con successo.

11 A. ALBANESE, I rapporti fra soggetti non profit e pubbliche amministrazioni nel

d.d.l. delega di riforma del Terzo settore: la difficile attuazione del principio di sussidiarietà, in Non profit, Maggioli, Rimini,3, 2014, 153 ss.

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20 5. Definizione di Terzo settore

Almeno fino ad oggi, è sempre mancata una definizione a livello normativo di cosa si intenda con l’espressione “Terzo settore”, nonostante siano presenti, nella normativa vigente ed anche in quella passata, numerosi riferimenti agli “enti del Terzo settore”13. Questa circostanza ha provocato e provoca incertezza

e confusione, inoltre nel linguaggio comune spesso vengono utilizzati altri termini come fossero sinonimi dell’espressione “Terzo settore”. Ad esempio , frequentemente il Terzo settore è assimilato alla categoria degli “enti non profit”. Per “enti non profit” si devono intendere (con una certa approssimazione) quegli enti che non distribuiscono gli utili della propria gestione tra i soci, e che in linea generale sono disciplinati e regolati dal Libro primo del codice civile.

Ci si è chiesti se tale categoria è del tutto sovrapponibile a quella del Terzo settore, ma secondo molti, la risposta deve essere negativa. La categoria degli enti non profit contiene quella del Terzo settore (nel senso che tutti gli enti del Terzo settore sono - o dovrebbero essere - non profit), ma vi sono alcuni enti non profit che non appartengono al Terzo settore. Per fare solo un

13 L’espressione “Terzo settore” è impiegata in alcuni testi normativi, tra i quali si

ricorda, in particolare, l’art. 5 della l. 328/2000, rubricato “Ruolo del terzo settore” e il DPCM del 21 marzo 2001, “Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona previsti dall’art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328”, che definisce soggetti del terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli organismi della cooperazione, le cooperative sociali, le fondazioni, gli enti del patronato e altri soggetti privati senza scopo di lucro.

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esempio, i partiti politici e i sindacati sono enti non profit, ma non sono Terzo settore, così come molte altre organizzazioni.14

Talvolta il Terzo settore è identificato anche con il volontariato: ma anche questo è un errore evidente, perché le organizzazioni di volontariato sono una parte del Terzo settore, ma non lo esauriscono, essendo il termine in questione riferibile anche alle c.d. cooperative sociali, alle fondazioni che svolgono determinate attività, alle associazioni di promozione sociale, e così via.

Secondo molti, poi, nella categoria generale in questione vengono anche ricomprese le imprese sociali, organizzazioni che possono anche ripartire utili tra i propri soci, e che comunque svolgono attività lucrative.

Con l’entrata in vigore della legge delega di riforma del Terzo settore, si è cercato di definire cosa sia “Terzo settore” e, di conseguenza, di individuare criteri utili al fine di stabilire chi ne faccia legittimamente parte.

A riguardo, l’art. 1 stabilisce che “Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”. A tale enunciazione in positivo ne segue una in negativo: “Non fanno parte del

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Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche”.

È utile, al fine di analizzare tale definizione, far riferimento ai tre elementi indicati dall’Agenzia per le Onlus15 nel documento

contenente “proposte per una riforma organica della legislazione sul Terzo settore”: elemento soggettivo (“chi fa”), elemento oggettivo (“cosa fa”) ed elemento finalistico (“perché lo fa”)16.

Con riguardo al primo elemento, la legge delega individua tale profilo negli enti privati e senza scopo di lucro, a prescindere dalla loro forma giuridica. In merito alla natura privatistica dell’ente, questa sembra in linea di massima corretta, sebbene qualche problema potrebbe sorgere in relazione a quelle fondazioni (dette di partecipazione) costituite da soggetti privati ed enti pubblici.

Anche la nozione di “senza scopo di lucro” andrebbe precisata, in quanto il suo concetto si nasconde dietro non semplici

15 L'Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Agenzia per le

Onlus), in seguito denominata Agenzia per il terzo settore, è stata istituita con D.P.C.M. 26 settembre 2000, in attuazione della l. 23 dicembre 1996 n. 662.

Si tratta di un organismo governativo di diritto pubblico operante sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, cui era tenuta a inviare una relazione annuale sull'attività svolta. Con D.P.C.M. 21 marzo 2001 n. 329 sono state specificate le competenze dell’Agenzia, la sua composizione e le principali regole di Funzionamento. Secondo quanto stabilito nel regolamento, all'Agenzia venivano attribuite funzioni di indirizzo, promozione e verifica sull'applicazione della disciplina in materia di terzo settore. Tali competenze sono state poi trasferite al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e in particolare la Direzione Generale del Terzo Settore e della Responsabilità Sociale delle Imprese, dopo la soppressione dell'Agenzia per il terzo settore (disposta dall'articolo 8, comma 23, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla decreto-legge 26 aprile 2012, n. 44).

16 Da ultimo da P. L. CONSORTI, Nozione di Terzo settore, in Non Profit, Maggioli,

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distinzioni come quelle fra “lucro oggettivo” e “lucro soggettivo”, fra “divieto di distribuzione degli utili” e “attività economiche” o “attività connesse”, e via dicendo. Inoltre la legislazione vigente declina tale nozione in modo diversificato in relazione alle diverse normative esistenti.

Con riguardo invece all’aspetto oggettivo, la legge delega individua tale elemento nella promozione e realizzazione17 di

“attività di interesse generale”, che possono essere perseguite “mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità”, ovvero attraverso la produzione e lo scambio di “beni e servizi”.

Qui il problema principale sta nell’individuare quali siano le attività che possano rientrare in tale nozione e quali invece debbano ritenersi escluse. Parte della legislazione esistente definisce in via generale gli ambiti all’interno dei quali l’attività svolta può essere definita di interesse generale (ad esempio, la normativa in materia di Onlus contiene un elenco di attività che possono essere svolte dalle organizzazione che intendano iscriversi nella relativa anagrafe18), mentre la previsione attuale

potrebbe consentire che ogni ente possa definire liberamente il proprio ambito di attività, con una successiva valutazione ad opera di soggetti esterni circa la ricomprensione di quel tipo di attività nell’ambito delle previsioni di legge.

17 La previsione dei due verbi, e perciò delle due azioni (“promuovono” e

“realizzano”), può essere letta in due modi: o in senso disgiuntivo (nel senso che possono esservi enti che “promuovono” e altri che “realizzano”, e che quindi può accadere che un ente promuova attività di interesse generale ma non le realizzi), ovvero nel senso che entrambe le attività sono richieste perché un ente possa definirsi di Terzo settore.

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Un aspetto che deve essere sottolineato, sempre in relazione alle attività svolte dagli enti del Terzo settore, è il riferimento alla “coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi”: si tratta di un vincolo che sta a indicare che l’attività di interesse generale non può essere svolta in maniera episodica o collaterale, ma deve essere prevista come obiettivo proprio dell’ente. In sostanza, se un ente finalizzato ad altri scopi svolge un’attività di interesse generale, ma questa attività non costituisce la sua finalità statutaria, quell’ente non potrà essere considerato appartenente al Terzo settore.

Per quanto riguarda, infine, l’elemento finalistico, la legge delega riconosce come finalità proprie del Terzo settore quelle civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

Il termine “finalità civiche” fa riferimento alla partecipazione consapevole e attiva delle persone alla vita sociale e collettiva, mentre la finalità solidaristica è quella spinta altruistica, che si concretizza nell’attenzione ai bisogni sociali e che sta alla base di ogni sviluppo o ricostituzione della famiglia umana nel suo complesso. Essa trova diretto riscontro negli artt.2 e 3 della Costituzione.

La finalità di utilità sociale, invece, riguarda il raggiungimento della maggior quantità di benessere per l'intera collettività, il miglioramento della qualità della vita e la promozione dell'aggregazione sociale.

Ci si è chiesti poi se tali finalità siano da considerarsi unite o disgiunte, se cioè un ente del Terzo settore possa svolgere o attività solidaristiche o attività civiche o attività di utilità sociale,

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oppure se debbano essere perseguite tutte dallo stesso ente per essere considerato appartenente al Terzo settore. La risposta corretta, stando alla lettera dell’art. 1, sembra essere la prima. Si ritiene, però, che alcuni profili accennati nell’attuale legge delega restino non risolti.

6. Le finalità del Terzo settore

Per approfondire il tema delle finalità del Terzo settore, occorre far riferimento alla Costituzione e alle finalità che il costituente ha inteso attribuire alle formazioni sociali ed alle funzioni che queste sono venute assumendo nella realtà costituzionale italiana.

Sulla base del principio del pluralismo sociale stabilito dall’art. 2 della Costituzione, possiamo individuare una prima funzione propria di tutte le formazioni sociali, ovvero quella di favorire la socialità della persona, il suo inserimento nel contesto sociale mediante una rete di relazioni capace di favorirne la partecipazione alla vita collettiva e la sua piena realizzazione19.

A questo obiettivo ben presto se ne è affiancato un altro, meno finalizzato alla persona singola e più rivolto alla società complessivamente considerata: le formazioni sociali, infatti, hanno la funzione di creare luoghi di sintesi e rappresentanza diretti alla mediazione di interessi e volontà politiche, i quali sono tesi alla definizione di quella che è la volontà generale.

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Gli enti del Terzo settore si inseriscono e collaborano in questa funzione svolgendo un ruolo di advocacy, ovvero di promozione e tutela dei diritti, in particolare dei soggetti deboli, svolta mediante un’azione di “influenza” sui sistemi e le istituzioni politiche, economiche e sociali.

L’emergere del “volontariato di advocacy per obiettivi di etica globale” si fa risalire alla fine degli anni Novanta soprattutto a seguito della c.d. battaglia di Seattle ed ai successivi eventi del c.d. dopo Seattle20. Secondo Ardigò, tale funzione comprende

quelle “azioni volontarie per perorare la causa di persone, famiglie e gruppi in stato di marginalità e bisogno, e per sollecitare riforme perequative e riparative nei confronti delle autorità incaricate di funzioni ridistributive del prodotto sociale”21.

Infine, vi è un’altra finalità che si è venuta realizzando e che vede il Terzo settore come soggetto attivo nell’erogazione di servizi alla persona, in attuazione del principio di sussidiarietà che ha trovato nel novellato art. 118 della Costituzione uno specifico riconoscimento.

7. Il ruolo del Terzo settore nei servizi alla persona

Riguardo questo ultimo aspetto, ovvero il ruolo del Terzo settore nell’erogazione dei servizi alla persona, è utile alla nostra analisi prendere come modello l’ambito dell’assistenza sociale e

20 A. ARDIGÒ, Volontariati e globalizzazione, EDB, Bologna, 2001.

21 A. ARDIGÒ, Riflessioni critiche e idee per gli sviluppi possibili del volontariato di

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sanitaria, ambito sul quale maggiore è la presenza e l’attività degli enti non profit.

La prima legge organica nazionale sull’assistenza è la legge quadro sui servizi sociali 8 novembre 2000 n. 328, che ha istituito un “sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Tale sistema viene definito “integrato” perché nella realizzazione delle reti dei servizi vengono coinvolti sia soggetti del pubblico che del privato. L’articolo 1 della Legge 328/2000 stabilisce infatti che “gli enti locali, le Regioni e lo Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”22.

All’interno del sistema di regolazione socio-sanitario disciplinato dalla legge in questione, è possibile individuare tre differenti fasi in cui i soggetti privati assumono ruoli specifici: programmazione degli interventi da realizzare, offerta degli interventi sul territorio e valutazione e controllo dell’offerta dei servizi socio-sanitari erogati.

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28 7.1 La programmazione

Attraverso la programmazione, l’amministrazione indaga il mercato, con l’aiuto dei soggetti pubblici e privati operanti sul territorio, al fine di individuare il fabbisogno e definire le aree di intervento, nei limiti delle risorse disponibili.

La programmazione rappresenta uno strumento fondamentale per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa, la concorrenza nel mercato e, per tali vie, prevenire la corruzione e

garantire il corretto funzionamento della macchina

amministrativa. Infatti, l’assenza di un’adeguata

programmazione comporta la necessità di far fronte ai bisogni emersi ricorrendo a procedure di urgenza che, oltre a rivelarsi poco rispettose dei principi che governano l’azione amministrativa e a non garantire la qualità dei servizi resi, possono originare debiti fuori bilancio.23

Tutti i livelli di governo, enti locali, Regioni e Stato, ognuno nell'ambito delle proprie competenze, concorrono alla programmazione degli interventi e delle risorse del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Lo Stato provvede alla programmazione e al relativo finanziamento della politica sociale e sanitaria, la Regione elabora il Piano sociale e sanitario regionali24, le istituzioni locali

23 Cfr. Delibera n. 32 del 20 gennaio 2016 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione,

“Determinazione linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali”.

24 Il Piano sociale e sanitario regionale è lo strumento triennale di programmazione

con cui la Regione “definisce politiche integrate tra i diversi settori della vita sociale ed in particolare in materia di politiche sociali, sanitarie, educative e formative, del lavoro, culturali, urbanistiche ed abitative”.

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(comuni ed a.s.l.) si occupano, invece, dei piani attuativi locali e di zona25. Con la legge di riforma del Titolo V della

Costituzione, approvata con la legge costituzionale n. 3/2001, è venuto meno il livello nazionale, almeno per quanto riguarda il campo dell’assistenza sociale, che è passato alla competenza legislativa regionale. Tale modalità di programmazione ha un carattere fortemente gerarchico, che viene in parte attenuato dalla partecipazione, con proprie risorse alla realizzazione della rete, “degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”26.

Oltre che nell’attività di programmazione, le organizzazioni del terzo settore hanno un ruolo di rilievo anche in materia di progettazione di interventi innovativi e sperimentali. Si tratta

In particolare il Piano regionale definisce gli obiettivi di benessere sociale da perseguire, le caratteristiche quantitative e qualitative dei servizi e degli interventi e i criteri generali di accesso e fruizione dei servizi. Definisce inoltre le modalità per il raccordo tra la pianificazione regionale e quella zonale (distrettuale), definendo in particolare linee di indirizzo e strumenti per la pianificazione di zona.

25 Lo strumento di programmazione locali è il Piano di zona per la salute e per il

benessere sociale, di durata triennale.

Il Piano di zona per la salute e il benessere sociale viene approvato dal Comitato di distretto e dalla Giunta comunale sulla base del Profilo di comunità comprensivo dell’analisi dei bisogni e dell'Atto di indirizzo e coordinamento triennale assunto dalla Conferenza Territoriale Sociale e Sanitaria. Il suo scopo è individuare gli obiettivi generali e settoriali per la pianificazione locale in un'ottica di integrazione degli interventi nelle diverse aree: sociale, sociosanitaria, compresa l'area della non autosufficienza e sanitaria relativa ai servizi territoriali.

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della c.d. attività di co-progettazione, attraverso la quale l’amministrazione sarà adiuvata dai soggetti del Terzo settore nella ricerca di soluzioni tecniche utilizzabili per l’attuazione di progetti innovativi finalizzati al soddisfacimento della domanda dei servizi predefinita dalla parte pubblica.

In sede di programmazione, ogni Comune, ai sensi dell’art. 13 della l. 328/2000 e del d.p.r. 3 maggio 2001, deve adottare una «carta dei servizi sociali» (intesa come «carta per la cittadinanza sociale»), volta a delineare le modalità con cui si intende rispondere ai bisogni degli utenti dei servizi, tenendo conto dei propri orientamenti e possibilità.

7.2 L’erogazione dei servizi

In questa seconda fase, il Terzo settore svolge un ruolo attivo di offerta e gestione dei servizi.

Le organizzazioni del Terzo settore garantiscono l’erogazione di servizi essenziali per la tutela dei diritti delle persone, ed in particolare di quei diritti che vengono definiti “sociali”. Il ruolo svolto dal Terzo settore non è solo un ruolo di supplenza per coprire le insufficienze del pubblico e del privato, si tratta piuttosto della capacità di produrre relazioni e creare le condizioni affinché possano trovare compimento nuove politiche di comunità27.

Gli strumenti giuridici, attraverso i quali avviene l’erogazione dei servizi da parte di questi attori, sono diversi: autorizzazione

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e accreditamento (art. 11, l. 328/2000); convenzione con le organizzazioni di volontariato di cui alla l. 266/1991 (art. 3, d.p.c.m. 30 marzo 2001); acquisto di servizi e prestazioni (art. 5, d.p.c.m. 30 marzo 2001); affidamento ai soggetti del terzo settore (art. 6, d.p.c.m. 30 marzo 2001).

Attraverso l’autorizzazione e l’accreditamento vengono individuati gli operatori economici (appartenenti al terzo settore) che possono erogare il servizio, mentre è l’utente finale che sceglie la struttura cui rivolgersi, sulla base della qualità del servizio offerto. Per le altre tre tipologie di affidamento, in deroga al Codice dei Contratti, l’amministrazione deve selezionare, sulla base del progetto presentato, l’operatore economico che eroga il servizio. Per queste ultime tre modalità di erogazione dei servizi è essenziale che l’amministrazione attribuisca una rilevanza maggiore alla verifica della qualità del servizio effettivamente reso, non operando i meccanismi di selezione tipici del mercato.

7.3 La verifica e il controllo

La terza ed ultima fase di questo sistema di regolazione socio-sanitario è quella che riguarda la verifica e il controllo dell’attività posta in essere dagli enti pubblici e dagli altri soggetti privati.

Le amministrazioni devono, infatti, verificare la sussistenza dei requisiti soggettivi dei soggetti affidatari, la qualità delle

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prestazioni, il raggiungimento degli obiettivi sociali prefissati e il rispetto delle particolari condizioni di esecuzione.

In questo caso, la funzione di verifica e controllo sull’attività amministrativa posta in essere dalle istituzioni può essere svolta dalle organizzazioni non profit attraverso l’esperienza delle “Consulte” del Terzo settore, organismi istituiti in alcune Regioni composte da soggetti rappresentativi del Terzo settore (associazioni di promozione sociali, volontariato, cooperative sociali, imprese sociali).

Tale strumento rappresenta un mezzo giuridico di

partecipazione sia nella fase di programmazione, per l’apporto propositivo che può essere fornito da tali soggetti, sia nella verifica e controllo dell’attività amministrativa.

In generale, è possibile notare come l’attività programmatoria sia strettamente collegata con quella di verifica e controllo, poiché quest’ultima si ritiene funzionale ad una valutazione rispetto al perseguimento degli obiettivi e rispetto ai criteri qualitativi stabiliti nella prima fase di questo sistema28. In

particolare, le considerazioni finali effettuate in quest’ultima fase sono finalizzate ad apportare eventuali cambiamenti ritenuti necessari alla programmazione successiva.

8 Considerazioni conclusive

Questo sistema è riferito specificatamente all’ambito

dell’assistenza socio-sanitaria, poiché è il settore dove maggiore

28 E. ROSSI, op. cit., 30.

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è la percentuale dei servizi erogati da organizzazioni del Terzo settore, ma la presenza del Terzo settore è riconosciuta anche in numerosi altri settori del vivere sociale (tutela ambientale, tutela dei beni culturali, attività sportive e ricreative, e così via).

La prospettiva che ne deriva, relativa ad un modello di welfare comunitario e "collaborativo”, è stata confermata e rafforzata dal principio di sussidiarietà orizzontale e verticale.

Il principio di sussidiarietà, come già detto, è stato introdotto dalla legge di riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con la legge costituzionale n. 3/2001. Secondo la sua accezione orizzontale, il principio di sussidiarietà rappresenta uno strumento di promozione, coordinamento e sostegno che permette alle formazioni sociali di esprimere al meglio, e con la piena garanzia di libertà di iniziativa, le diverse e specifiche potenzialità.

Per quanto riguarda, invece, l’accezione verticale del principio in questione, l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini, producendo in questo modo un maggior coinvolgimento delle comunità locali.

Il principio di sussidiarietà, inteso nelle sue due accezioni orizzontale e verticale, è il principio fondante il modello di welfare community, che attribuisce all’amministrazione pubblica una nuova funzione di "regolazione" dei servizi, piuttosto che di “gestione” degli stessi, da realizzare attraverso una molteplicità di azioni di controllo e di garanzia. Ciò non sta a significare il “ritiro” dell’ente pubblico e un ritorno a un

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passato in cui il welfare era in larga parte gestito dalla società civile organizzata, bensì l’ente pubblico dovrà essere garante dell’equità e facilitatore del rinnovamento del sistema, investendo sulla conoscenza dei bisogni e sull’aggiornamento continuo delle risorse (in modo particolare degli operatori sociali).

In questo senso ha cercato di operare la legge delega di riforma del Terzo settore, in particolare all’art. 4, comma 1, lett. o) dove, tra i criteri direttivi cui i decreti delegati dovranno ispirarsi, indica il seguente: “valorizzare il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socio-assistenziali nonché di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale e individuare criteri e modalità per l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale, improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione e nel rispetto della disciplina europea e nazionale in materia di affidamento dei servizi di interesse generale, nonché criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni”. La disposizione in esame sembra riconoscere la necessità di un coinvolgimento degli enti del Terzo settore in tutte la fasi dell’attività programmatoria, di organizzazione e di verifica dei servizi. Inoltre, sembra auspicare un allargamento degli ambiti di coinvolgimento oltre la sfera dei servizi socio-assistenziali.

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Capitolo II

SOMMARIO: 1 Premessa. – 2. Le origini del Welfare State; - 3. Crisi del Welfare State; - 4. Dal Welfare State al Welfare mix; - 5. Cosa significa Welfare generativo; - 6. I principi costituzionali di riferimento; - 7. Azioni a corrispettivo sociale (ACS); - 8. Il ruolo del Terzo settore; - 9. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

In parallelo allo sviluppo del Terzo settore si è assistito ad una progressiva trasformazione del sistema di welfare. A partire dagli anni ’60 si era diffusa l’idea che solo un modello di welfare universalistico e a prevalente presenza pubblica potesse garantire lo sviluppo e l’erogazione uniforme di servizi indispensabili alla crescita sociale ed economica della comunità. Proprio sulla base di questa idea, lo Stato italiano organizzò le proprie istituzioni per rispondere in modo esclusivo ad una domanda di prestazioni socio-assistenziali sempre più crescente, limitando l’intervento del settore privato. La situazione riuscì a mantenersi in sostanziale equilibrio per qualche decennio, ma già nei primi anni ’80, per ragioni economiche, politiche, sociali e culturali, il sistema di welfare prevalentemente o esclusivamente pubblico lascia un maggior spazio a un sistema di welfare plurale.

Si manifesta così un’inversione di tendenza, causata dalla necessità di arrestare la dinamica espansiva della spesa pubblica e dalla consapevolezza della grave inefficienza del sistema pubblico. In questo contesto si ha il passaggio da un sistema di erogazione dei servizi tipicamente centralizzato (welfare state),

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ad uno in cui si integrano le risorse possedute dalle istituzioni pubbliche con quelle disponibili nei soggetti del cosiddetto privato sociale (welfare mix).

In particolare, il modello di welfare mix si concretizza con un ruolo dello Stato nell’organizzazione della “cornice”, individuando gli obiettivi da raggiungere e i livelli essenziali delle prestazioni, e un ruolo dei soggetti dell’economia sociale nella gestione concreta dei servizi, a cui viene riconosciuta pari dignità e rilevanza rispetto alle istituzioni pubbliche.

Recentemente si è osservato come le soluzioni fin qui adottate faticano a rispondere in modo adeguato ai cambiamenti della nostra società e a comprendere i relativi bisogni, sempre più multiproblematici e complessi. Si ritiene, invece, che sia necessario promuovere sperimentazioni di modelli di welfare in cui i soggetti privati partecipano e sono coinvolti anche nella fase della progettazione e della verifica degli interventi. È questo

il concetto di Welfare community, che attribuisce

all’amministrazione pubblica la funzione di regolazione dei servizi e non più di gestione degli stessi.

Una declinazione di questo modello è la proposta avanzata nel Rapporto 2012 sulla lotta alla povertà realizzato dalla Fondazione “Emanuela Zancan”29, ovvero quella di un Welfare

generativo, che trova nella generatività il suo paradigma metodologico e la sua esplicazione operativa.

29 Cfr. Vincere la povertà con un welfare generativo – La lotta alla povertà. Rapporto

2012, Bologna 2012. La Fondazione Zancan è un centro di studio, ricerca e

sperimentazione che opera da oltre cinquant'anni nell'ambito delle politiche sociali, sanitarie, educative e dei servizi alla persona, con l’intento di contribuire alla riduzione delle disuguaglianze e alla lotta alla povertà.

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37 2. Le origini del Welfare State

Il modello di Welfare State30 nasce alla fine del 1800 come

politica in grado di far accettare il funzionamento del mercato capitalistico. Infatti la sua logica si basa sulla contrapposizione forte che si crea nella società moderna, quella tra Stato e mercato, in cui al mercato è affidata la massimizzazione della produzione utilizzando come unico criterio l’efficienza (attraverso il perseguimento dell’interesse personale), e allo Stato è affidata la redistribuzione delle risorse in modo da

ovviare alle diseguaglianze prodotte attraverso il

funzionamento del mercato, e alle necessità dei soggetti dei quali il mercato non si interessa.

In realtà, se vogliamo parlare di Welfare State nel moderno senso del termine, non si può non ricordare l’approvazione del pacchetto Beveridge in Inghilterra (1942) con il quale nasce il primo Sistema Sanitario Nazionale, l’educazione diventa gratuita per tutti fino ad una certa età e si fornisce assistenza a portatori di handicap e anziani non autosufficienti. Il welfare

30 Il concetto Welfare State è oggetto di svariate definizioni e interpretazioni.

Titmuss (1986) lo definisce come “l'insieme di decisioni e azioni, attribuibili a vari soggetti, tra di loro connesse e mirate alla soluzione dei problemi collettivi”. Donati (1998) invece lo qualifica come l'insieme più o meno coerente di principi ed azioni che determinano la distribuzione ed il controllo sociale del benessere di una popolazione per via politica. Ed ancora, Colozzi (2002,) afferma che la politica sociale è l'insieme di specifiche norme e modalità operative con cui nei vari stati-nazione si produce e si distribuisce il benessere dei cittadini da parte delle sfere sociali differenziate (Stato, mercato, terzo settore, famiglie). Per Ferrera (2006) lo Stato Sociale è determinato dalle politiche sociali come corsi d’azione volti a definire norme, particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere garantite dall'autorità dello Stato.

Tutte queste diverse definizioni sono comunque accomunate dall'idea che la politica sociale abbia a che fare con la risposta ad una serie di bisogni collettivi, attraverso i quali, se soddisfatti, lo Stato e altre entità cercano di risanare le diseguaglianze sociali ed economiche, tutelando i diritti considerati essenziali in uno stato di diritto.

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