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Sempre in prima persona. Sulla poetica di Emmanuel Carrère

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Academic year: 2021

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Heteroglossia

n. 14| 2016

pianeta non-fiction

isbn 978-88-6056-487-0

eum x quaderni

a cura di Andrea Rondini

eum

edizioni università di macerata

Heteroglossia

n. 14

Andrea Rondini

eum edizioni università di macerata > 2006-2016

heteroglossia

Quaderni di Linguaggi e Interdisciplinarità. Dipartimento di Scienze Politiche, della

Comunicazione e delle Relazioni Internazionali.

n. 14 | anno 2016

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Pianeta non-fiction

a cura di Andrea Rondini

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isbn 978-88-6056-487-0 issn: 2037-7037

Prima edizione: dicembre 2016

©2016 eum edizioni università di macerata

Centro Direzionale, Via Carducci snc – 62100 Macerata info.ceum@unimc.it

http://eum.unimc.it

eum edizioni università di macerata > 2006-2016

Università degli Studi di Macerata Heteroglossia n. 14

Quaderni di Linguaggi e Interdisciplinarità. Dipartimento di Scienze Politiche, della Comunicazione e delle Relazioni Internazionali

Direttore:

Hans-Georg Grüning

Comitato scientifico:

Mathilde Anquetil (segreteria di redazione), Alessia Bertolazzi, Ramona Bongelli, Ronald Car, Giorgio Cipolletta, Lucia D'Ambrosi, Armando Francesconi, Hans-Georg Grüning, Danielle Lévy, Natascia Mattucci, Andrea Rondini, Marcello Verdenelli, Francesca Vitrone

Comitato di redazione:

Mathilde Anquetil (Università di Macerata), Alessia Bertolazzi (Università di Macerata), Ramona Bongelli (Università di Macerata), Edith Cognigni (Università di Macerata), Lucia D'Ambrosi (Università di Macerata), Lisa Block de Behar (Universidad de la Republica, Montevideo, Uruguay), Madalina Florescu (Universidade do Porto, Portogallo), Armando Francesconi (Università di Macerata), Aline Gohard-Radenkovic (Université de Fribourg, Suisse), Karl Alfons Knauth (Ruhr-Universität Bochum), Claire Kramsch (University of California Berkeley), Hans-Georg Grüning (Università di Macerata), Danielle Lévy (Università di Macerata), Natascia Mattucci (Università di Macerata), Graciela N. Ricci (Università di Macerata), Ilaria Riccioni (Università di Macerata), Andrea Rondini (Università di Macerata), Hans-Günther Schwarz (Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg), Manuel Angel Vasquez Medel (Universidad de Sevilla), Marcello Verdenelli (Università di Macerata), Silvia Vecchi (Università di Macerata), Geneviève Zarate (INALCO-Paris), Andrzej Zuczkowski (Università di Macerata)

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http://riviste.unimc.it/index.php/heteroglossia/index

Indice

9 Andrea Rondini

Introduzione Parte prima

Dalla verità alla vita Raffaello Palumbo Mosca

29 Oltre l’idea di realismo: scrittori della vita nel nuovo millennio. Primi appunti

Gianluca Vagnarelli

39 Verità e politica: democrazia, parrēsia e consiglio politico in

Michel Foucault

Marco Mongelli

53 Alle origini della non-fiction: le strade di Truman Capote e Norman Mailer

Claudio Milanesi

83 La svolta narrativa di Piazza Fontana

Antonio Tricomi

105 Sempre in prima persona. Sulla poetica di Emmanuel Carrère

Elena Frontaloni

133 L’arte di girare attorno. Il Regno di Emmanuel Carrère Parte seconda

Successo e affermazione Carlo Baghetti

145 Confini mobili della modalità non-fiction. Ermanno Rea,

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6 indice

Morena Marsilio

171 Inchiesta e reportage à la “minimum fax”: un paese inventato o sconosciuto?

Lorenzo Marchese

207 Storiografie del presente? Per una ridiscussione della non-fiction su esempi italiani degli anni ’90 (Covacich, Petrignani, Rastello)

Andrea Gialloreto

245 «Questo scritto non sarà un romanzo». L’azione letteraria di Vitaliano Trevisan

Sara Bonfili

273 Edoardo Albinati: Irrealtà o inganno della Realtà?

Lucia Faienza

291 La verità precaria come paradigma del reale: uno sguardo alla narrativa italiana di non-fiction

Francesca Strazzi 311 Virate leggendarie

Chiara Pietrucci

331 Una cosa divertente che non farò mai più? La non-fiction di David Foster Wallace

Parte terza

Esperienze contemporanee Giovanna Romanelli

345 I racconti, le voci, le storie della nuda vita dei migranti. La

catastròfa di Paolo di Stefano

Carla Carotenuto

369 Disabilità, fragilità, amore. Il tempo della consapevolezza in Valeria Parrella

Alessandro Ceteroni

391 La via italiana al non-fiction novel: Il costo della vita di Angelo Ferracuti

Isabella Tomassucci

419 «Non potevo fare altro». Retorica e rappresentazione dell’ossessione in ZeroZeroZero di Roberto Saviano

Donato Bevilacqua

441 Da Limonov a Srebrenica. Il conflitto nei Balcani attraverso la non-fiction di Marco Magini ed Emmanuel Carrère

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Parte quarta

Confini Gianluca Cinelli

465 Non-fiction tra storia e letteratura. Il caso della memorialistica di guerra

Franco Forchetti

505 La Realtà “catramosa” nelle pieghe del testo finzionale. Una lettura di Petrolio di Pasolini

Giorgio Cipolletta

523 Oltre la non-fiction. F for fake, così falso, così vero

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«HETEROGLOSSIA. Quaderni di Linguaggi e Interdisciplinarità», 14, (2016), pp. 105-131 ISSN 12037-7037 (print) © 2016 eum (Edizioni Università di Macerata, Italy) http://riviste.unimc.it/index.php/heteroglossia/index

Antonio Tricomi

Sempre in prima persona. Sulla poetica di Emmanuel Carrère

Una premessa…

Cosa vuol essere il non-fiction novel negli auspici di chi dà vi-ta a vi-tale sottogenere letterario pubblicando, nel 1966, A sangue freddo? Ha ragione Donnarumma: un romanzo il cui modello è «quello flaubertiano e naturalista, giacché la trama è costruita con abilità, la presenza del narratore è così discreta da essere im-percettibile, l’accesso all’interiorità dei personaggi è consentito solo quando è ceduta loro la parola». E, nondimeno, un testo in cui, salvo forse trascurabili eccezioni, «documento e testimo-nianza, più che essere esibiti come tali, rifluiscono nella narra-zione, oppure prendono la forma di quei generi intercalari (la lettera, il diario, la confessione autobiografica) che già trovano esplicita ospitalità nella tradizione del novel». In pratica, chiosa Donnarumma, a Capote «interessa far procedere il racconto», non dichiararne «le patenti di veridicità» e neppure «mettere in luce la propria diretta partecipazione o il proprio ruolo di media-tore», mirando egli a raggiungere una «classicità narrativa» e un «occultamento del narratore» che «rispondono a un principio di poetica oggettivista»1.

Come ha insomma spiegato Gigliola Nocera, in A sangue freddo «tutto – a partire dal titolo, tratto da un verbale di in-terrogatorio – deve essere “immacolatamente vero”», ragion per cui «i fatti devono essere esposti in modo assolutamente neutrale». E però, affinché «la sua definizione non appaia

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traddittoria – una non finzione in forma di romanzo, e dunque di finzione – Capote afferma che l’intervento dell’autore c’è, e consiste nella elaborazione di particolari tecniche narrative attra-verso le quali presentare gli eventi»: in più di un’intervista, «egli visualizza questo procedimento come una sorta di incrocio tra l’“orizzontale” oggettività dei fatti e la “verticale” soggettività di chi li racconta». Scelta espressiva – chiarisce ancora la studiosa – che può essere accostata a quelle compiute dal «New Journalism, o Higher Journalism, teorizzato da Tom Wolfe», ugualmente in-cline, negli anni Sessanta dello scorso secolo, ad adottare svariate strategie per dismettere «i modi tradizionali di narrare la storia» e quindi pronto a servirsi di precisi accorgimenti: ad applicare al reportage «tecniche proprie della narrativa»; a sostituire le usuali «sequenze cronologiche attraverso cui un fatto viene esposto» con «una giustapposizione non necessariamente cronologica di quadri drammatici»; a rimpiazzare «i testi documentali con ben più efficaci dialoghi». Sia il non-fiction novel sia il New Journali-sm, tanto Capote quanto Wolfe, «pur agendo sotto spinte diver-se», mostrano cioè di condividere la medesima «tensione “anti-interpretativa”» – ossia tesa a raggiungere «un nuovo “grado zero” della scrittura» – concettualizzata in quegli stessi anni da Susan Sontag «nel suo saggio Contro l’interpretazione (1966)»2.

E alla base di tali istanze, precisa sempre Gigliola Nocera, va rintracciata l’urgenza, per il romanzo come per la classica inchie-sta giornalistica, di interrogare i propri fondamenti epistemologi-ci in una fase che vede il «consolidarsi di nuovi mezzi espressivi» fra cui la televisione, «che sembra quasi sfidare lo scrittore sul suo stesso territorio». Da una parte, il non-fiction novel accetta allora di cimentarsi in questa contesa con i mass-media – e punta a rivendicare la superiore capacità della letteratura di catturare la complessità del reale – favorendo «un rinnovato approccio» del romanzo «alla storia e alla politica, come l’era kennediana inco-raggia peraltro a fare»; in più, avverte la necessità «di ridiscutere i confini che separano ciò che è vero da ciò che è inventato» senza tuttavia pretendere di abolirli. Dall’altra parte – così con-notandosi quale esito di una poetica coerentemente modernista,

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Sempre in prima perSona. Sulla poetica di emmanuel carrère

dunque restia a favorire spericolati processi di “testualizzazione” del mondo perché ancora incentrata sull’interiorizzazione dello scarto tra realtà e finzione, o meglio su una irriducibilità del con-flitto tra tali ambiti giudicata addirittura proficua giacché neces-saria premessa a ogni tentativo di promuovere l’opera d’arte a utopistica proposta di modificazione dell’esistente –, esso però si colloca sul versante opposto rispetto a quello occupato dal-l’«audace postmodernismo di Barth, Federman, Pynchon», che, reputandola lo strumento esegetico per antonomasia offerto al presente o la forma archetipica del reale, «esplora con forza i limiti stessi della fiction, facendola esplodere nelle mille scheg-ge di surfiction, transfiction, suprafiction, self-reflexive fiction, faction»3.

Ebbene, si devono proprio all’egemonia lungamente esercita-ta nella cultura occidenesercita-tale da strategie espressive come queste ultime appena ricordate, nonché dalla concezione della letteratu-ra e del reale ad esse sottesa, due fatti all’apparenza inconciliabi-li: l’emersione, a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, di scritture che, non solo in Italia, hanno rivendicato per sé l’e-tichetta di non-fiction; la frequente impossibilità di apparentare però quei testi al non-fiction novel, quale Capote lo intendeva, persino quando i loro autori vorrebbero il contrario. Ed è ancora Donnarumma a spiegare tale aporia.

Contro il postmoderno, propenso tanto ad affermare «che tutto è fiction», quanto a operare «per la trasformazione in essa degli elementi tratti dalla cronaca e dalla storia», scrittori come l’Affinati di Campo del sangue (1997), l’Albinati di Maggio sel-vaggio (1999) o, più tardi, il Saviano di Gomorra (2006) optano cioè per «una resistenza alla finzionalizzazione, che si compie (ma neppure lì incontrastata) nel dominio dei media vecchi e nuovi». Di rado, nota però Donnarumma, essi «riprendono la narrazio-ne obbligatoriamente orientata del romanzo», giacché il loro modello si dimostra abitualmente essere «il diario, ora esibito, ora nascosto»; il racconto «svaria di continuo in una riflessione e in un quaderno di letture»; anche l’autobiografia «è convocata non come struttura continua che ripercorre una vita intera, ma

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solo come modo di dizione». In altre parole, a contare, in libri simili, è che, «per una materia potenzialmente saggistica», i loro autori adottino «forme narrative» ma «non romanzesche», co-struendo testi che «non sono non-fiction novel perché non sono novel», ossia perché, lungi dall’ubbidire ai dettami di una poetica oggettivista, dichiarano la scelta di «fondare nell’esperienza» la credibilità «di chi analizza una porzione di realtà sociale o un problema di rilevanza pubblica»4.

Per Capote non si trattava di sabotare il romanzo impegnan-dosi nell’elaborazione di una forma di racconto in grado di sot-trarsi alle maglie di quel genere letterario, ma di raggiungere l’obiettivo opposto: conquistare territori nuovi per la tradizione romanzesca. Il motivo è presto chiarito: dal suo punto di vista, il romanzo in sé, o almeno quello che metta a frutto l’eredità dei capisaldi del naturalismo ottocentesco, non procede alla finzio-nalizzazione – ossia alla falsificazione in chiave estetizzante – del reale, giacché risulta invece lo strumento cognitivo meglio capa-ce di misurarsi col particolare per cogliervi, in maniera quando scoperta e quando indiretta, il riflesso dell’universale, o ad ogni modo per ricavare da una scrupolosa rivisitazione della crona-ca un accertamento, implicito o esplicito, di una più articola-ta, e magari rimossa, verità storica. Così, nel capolavoro dello scrittore statunitense, ci ricorda ancora Gigliola Nocera, «tra un indizio di sangue e un altro, tra i mille rivoli di una violenza “lo-calistica”, si fa strada una più globale visione della storia» che, ripensando i «modelli archetipici del gotico americano», intende ribadire «l’irrazionale imprevedibilità degli eventi» e denunciare «l’ennesimo fallimento dell’American Dream»5.

… e ancora un’altra

Grossomodo in concomitanza con la progressiva circolazio-ne di scritture cosiddette non-fiction, circolazio-negli ultimi decenni si è registrata, anche in questo caso non solo in Italia, la crescen-te diffusione di opere più o meno legittimamencrescen-te concepicrescen-te dai

4 Donnarumma 2014, pp. 117-120. 5 Nocera 1999, p. lxxi.

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propri autori, o ribattezzate dalla critica, quali esempi compiuti di autofiction. Formula coniata – è risaputo – da Serge Dou-brovsky, che, nella prefazione, così definisce un suo romanzo del 1977, Fils; ma anche designazione – non sbaglia Marchese – che denota non tanto «un genere letterario vero e proprio», quanto una «maniera» espressiva, come lascia intendere il commento dedicato da Philippe lejeune alle pagine in cui essa per la pri-ma volta appare. E dunque fenomenologia narrativa i cui esiti perlopiù somigliano al tipo di prodotto estetico per l’appunto ri-tratto da Marchese: «componimento in prosa di varia lunghez-za in cui un autore scrive quella che in apparenlunghez-za è la propria autobiografia, ma nel contempo fa capire attraverso strategie paratestuali e testuali che la materia della storia che si racconta è da interpretarsi come falsa, cioè non corrispondente alla realtà dei fatti avvenuti e non credibile come resoconto testimoniale»6.

Di conseguenza, l’autofiction va in primo luogo distinta da due generi con cui essa può venire talora confusa: l’autobiogra-fia, il memoir. Il perché può aiutarci a capirlo un volume davve-ro singolare, che si nutre di una poetica tipicamente modernista e che sembra affrontare tematiche in una certa misura parago-nabili, per esempio, a quelle trattate da Pirandello in testi come Sei personaggi in cerca d’autore. Il rimando è a un libro di Philip Roth del 1988, I fatti. Autobiografia di un romanziere, che cerca appunto di chiarire cosa distingua un lavoro genericamente me-morialistico da un’opera di fiction proponendosi alla stregua di un naufragato o, per meglio dire, costitutivamente inessenziale lacerto autobiografo al fine di rivendicare la superiore capacità dell’immaginazione romanzesca di cogliere, provando a rappre-sentare la verità profonda dell’universale, anche l’autentica na-tura di quel dato inevitabilmente particolare, cioè la soggettiva condizione autoriale, ritenuta insignificante quando (pur solo il-lusoriamente) testimoniata al grado zero, invece che liberamente trascesa in un’autonoma raffigurazione letteraria.

«Ciò che si sceglie di rivelare» in un’opera di finzione – affer-ma Nathan Zuckeraffer-man, ossia l’alterego cui Roth in molti suoi libri cede la scena e col quale, nei Fatti, dialoga attraverso uno

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scambio epistolare – «è governato da un motivo fondamental-mente estetico», sicché «noi giudichiamo l’autore di un roman-zo da come, bene o male, racconta la storia». Al contrario – spiega ancora la controfigura dello scrittore statunitense –, «giu-dichiamo moralmente l’autore di un’autobiografia il cui motivo dominante è soprattutto etico, e non estetico». Ci chiediamo, perciò, quanto «vicina» risulti la sua «narrazione alla verità»; se egli stia «forse nascondendo i suoi motivi»; se stia «presen-tando le sue azioni e i suoi pensieri per mettere a nudo la natura essenziale delle condizioni» che vive o stia invece «cercando di nascondere qualcosa, dicendo allo scopo di non dire». Perché, «in un certo senso», noi tutti – precisa Zuckerman – «diciamo sempre anche allo scopo di non dire», solo che «dallo storico di se stesso ci si aspetta che opponga la massima resistenza al comune impulso di falsare, distorcere e rinnegare»7.

Tautologicamente, un’opera di autofiction non è insomma un’autobiografia, e neppure un memoir, per l’ovvia ragione che è un testo di fiction. Casomai, ogni esercizio condotto da un autofinzionalista inclina a presentarsi anche alla stregua dell’im-plicito fantasma di siffatti generi, cui ricorda che, da un lato, un processo di inevitabile mistificazione della realtà è connaturato a qualsiasi forma di scrittura – dunque persino a quelle che per antonomasia si concepiscono veritative giacché tese a dar con-to delle specifiche esperienze soggettive dei loro aucon-tori – e che, dall’altro lato, quando chi li pratica non sa contrastare al meglio la spinta all’autoinganno che tende a governare ciascuno di noi, essi finiscono per paradosso con l’accogliere, all’interno della medesima famiglia che ne comprende i più sicuri esiti, inconsa-pevoli o artatamente camuffati lavori di autofiction.

Invece, a differenziare quest’ultima da un riconoscibile ma variegato gruppo di opere esplicitamente di finzione, cioè a dire i romanzi in prima persona (nei quali si cede la parola a un per-sonaggio che il più delle volte è quello principale) e i romanzi autobiografici (in cui il racconto non è necessariamente appan-naggio di quel modo verbale e che attingono in maniera palese all’esperienza di chi li ha concepiti) provvede anzitutto il fatto

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che in simili testi i nomi di autore, narratore e protagonista non coincidono. Al contrario, riassume Santoro, in tragitti narrati-vi come quello costituito dalla trilogia romanzesca confeziona-ta da un autentico maestro di autofiction qual è Walter Siti, e dunque in Scuola di nudo (1994), Un dolore perfetto (1996) e Troppi paradisi (2006), «lo scrittore “inventa” un personaggio autobiografico», gli dà il suo stesso nome, lo promuove a voce narrante di una storia che vede protagonista siffatto suo altere-go, trasforma costui in «una sorta di avatar» che, «al pari di un novello Dante, percorre un mondo fittizio, una vera e propria

realtà 2.0, anche al prezzo di uno spietato autodafé»8.

Ora, a voler essere precisi, qual è la logica che ispira una nar-razione in prima persona o un romanzo autobiografico? Il con-vincimento, al quale ci è già capitato di alludere, che raccontare voglia in fondo dire sottoporre all’attenzione del pubblico le vi-cissitudini di una traiettoria individuale in cui sia lecito scorgere le tracce di significati universali e di un destino generale. Un si-mile presupposto, che venga dichiarato oppure no, è convertito nella forma stessa del testo quando ci si offre un romanzo in pri-ma persona, a monte del quale possiamo rinvenire, non solo ide-almente, uno scrittore che, dopo aver inventato l’una e generato l’altro, ci regala una storia particolare per tramite di un io nar-rante non meno connotato e però richiesto, in maniera esplicita o implicita, di presentarci, apertamente o in via indiretta, sia quella vicenda sia se stesso come elementi in una qualche misura emble-matici. Meccanismo identico a quello che, rafforzato, troviamo all’orgine dei romanzi autobiografici, in prima persona oppure no che essi siano, giacché a risultare letterariamente reinventate, sì da proporsi quali episodi narrativi esemplari e come paradig-matiche maschere socioculturali o psicologiche, sono, in libri si-mili, esperienze davvero compiute dall’autore e identità con cui egli è realmente venuto a contatto o che ha persino assunto.

Ebbene, l’autofiction esibisce, invece di nascondere, e valoriz-za in maniera estremistica, invece di impegnarsi a disciplinare, questo preciso principio ri-creativo connaturato al romanzo in prima persona e a quello autobiografico.

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Da un lato, per dichiarare il perverso paradosso sul quale la tradizione romanzesca (o forse l’intera arte) si fonda, cioè a dire che essa può in ultimo giungere a dare forma compiuta a verità universali solo alterando in via preliminare, e soprattutto delibe-ratamente, quote particolari di realtà. Di qui l’intrinseca natura anche autoriflessiva, e insomma la costante tentazione a una pur non esclusiva autoreferenzialità, riscontrabile nell’autofiction. Che si caratterizza, nota Marchese, per un «alto tasso di me-tanarratività» – giacché, «tendenzialmente», l’autofinzionalista ragiona «sulla finta autobiografia che sta scrivendo» e ci offre i propri «ragionamenti nell’opera» – e, parimenti, «per il fatto che, a causa del suo statuto ambiguo, sospeso fra narrazione nonfinzionale e invenzione romanzesca (non di rado fortemente sbilanciata verso il fantastico e l’inverosimile)», nel testo «entra in gioco la critica di tre vaste funzioni», ossia «il ruolo dell’au-tore e dell’io testimoniale» in seno al libro, «le possibilità cono-scitive attuali del romanzo» e l’assoluta «convinzione di incidere maggiormente sul lettore in uno sforzo di realismo»9.

Dall’altro lato, l’autofiction svela ed esalta l’intrinseca forza demiurgica dell’immaginazione romanzesca per affermare che – dopo il crollo delle “grandi narrazioni” culturali in riferimento o in opposizione alle quali il romanzo tradizionale poteva orien-tare le sue pretese veritative e valutarne poi gli esiti in base a pa-rametri etico-civili supposti oggettivamente condivisi – oggi non resta – allo scrittore che punti a raffigurare l’essenza di indubbi significati generali riscontrabili nell’atomistica società dello spet-tacolo egemone – che convertire in rappresentazione letteraria nulla più che la propria esperienza soggettiva – sia moralmente sia intellettualmente ingiudicabile perché in nessun caso incline a convalidare o smentire un qualche ideale comunitario – di tali agglomerati di senso. In sostanza, il loro strutturarsi, tanto nel discorso pubblico quanto nella psiche di ogni cittadino, come inestricabili miscele di pragmatici richiami all’ordine e gauden-ti derive immaginarie, di scomposgauden-ti arroccamengauden-ti idengauden-titari e isteriche recitazioni egotistiche, di realtà adulterata e veritiera simulazione, di falso universale necessariamente ridotto a

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riante dell’autentico particolare e contraffatto particolare che di riflesso si pretende sincero universale.

Ecco perché, chiarisce Donnarumma, l’autofiction non ri-chiede che il lettore insegua l’impervia «strada della verifica dei fatti», sì da scoprire cosa in essa sia reale e cosa inventato, ma gioca «sull’ambivalenza», funzionando «sulla tensione fra veri-tà e menzogna» senza spingersi «a vanificarla neppure quando le mescola, le traveste e presta all’una i panni dell’altra»10. Il

punto infatti è che romanzi come quelli di Siti, diversamente da ciò che scrive Santoro, non svolgono «un’azione connotativa nei confronti del reale» o del vero11, reputando simili sfere non più

distinte da quelle opposte, ossia dal registro dell’immaginario e dall’ambito del falso. Essi perciò si vietano di alludere alterna-tivamente a questa o quella dimensione, ogni discrimine tra tali polarità avendo a parer loro cessato di conservarsi, e si limitano invece a ribadire che, pur irriconoscibili finanche per un autore di autofiction, ritagli di realtà e relitti di verità continuano a sussistere solo in quanto totalmente identificatisi con ingorghi di finzione e vortici di menzogna che, a propria volta, si qualificano per un’integrale assimilazione a quei monconi di segno origina-riamente contrario. Come spiega l’Avvertenza che apre Troppi paradisi, gli «avvenimenti veri» sono cioè «immersi in un flusso che li falsifica», ragion per cui, in un’opera di autofiction, «più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel modo», benché esso si sia realmente verificato12.

Un inevitabile travestimento adamitico

Con L’Avversario, nel 2000, la poetica di Emmanuel Carrère ha compiuto una svolta alla quale vanno ricondotti anche i libri in seguito pubblicati dallo scrittore, giornalista, sceneggiatore, ci-neasta francese: La vita come un romanzo russo, del 2007; Vite che non sono la mia, del 2009; Limonov, del 2011; Il Regno, del 2014. Testi che esplicitamente si presuppongono, interpretano

10 Donnarumma 2014, p. 131. 11 Santoro 2010, p. 33. 12 Siti 2006, p. 2.

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e addirittura correggono l’un l’altro, quasi a formare un unico work in progress il cui divenire rispecchi quello delle condizioni di vita e del profilo intellettuale dell’autore. Ma anche opere che po-trebbero essere giudicate, nell’insieme, l’esito coerente del mede-simo desiderio: rivisitare, per tradirli, ed evocare, per ripudiarli, i fondamenti teorici e i correlati moduli espressivi, rispettivamente, del non-fiction novel e dell’autofiction. Proviamo a capire perché.

Facciamo un gioco è il titolo italiano di una lettera erotica indirizzata alla propria compagna che Carrère, in prima battuta, destina a «le Monde» invece di spedire alla donna, allo scuro sia dell’esistenza, sia della pubblicazione di tale missiva e richiesta dallo scrittore di leggere quel giornale durante un suo viaggio in treno, cioè nell’identico intervallo di tempo in cui, almeno negli auspici dell’amato, più di un individuo intorno a lei si sarebbe dedicato alla medesima attività o magari, avendola da poco esple-tata, ne avrebbe considerato il valore. Ebbene, in quel testo, pub-blicato dapprima quale volume autonomo, ma più tardi confluito nella Vita come un romanzo russo, l’autore transalpino chiarisce che gli piace «che la letteratura sia efficace» e che anzi deside-rerebbe che essa «fosse performativa, nel senso in cui i linguisti definiscono un enunciato performativo», ossia quel tipo di co-municazione classicamente esemplificabile nella «frase “dichiaro guerra”», poiché, non appena tali parole vengono pronunciate, «la guerra è di fatto dichiarata». E, dopo aver precisato che «fra tutti i generi letterari la pornografia è quella che più si approssi-ma a un simile ideale», Carrère aggiunge: «Io sono per la real-tà, nient’altro che la realreal-tà, e per occuparsi di una sola cosa alla volta», evitando di lanciarsi in onnivore «associazioni» di senso guidate dal «principio che tutto rimanda a tutto in un sistema di echi e corrispondenze ineffabili» che «conduce inesorabilmente al romanticismo, dal romanticismo al bovarysmo e da lì alla nega-zione totale della realtà»13.

Impossibile non accogliere siffatta dichiarazione di poetica an-che come un implicito atto d’accusa mosso all’intrinseca teleolo-gia che caratterizza il romanzo, indirettamente ritenuto l’autisti-co duplicato di una realtà che esso però tradisce, e anzi falsifica,

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Sempre in prima perSona. Sulla poetica di emmanuel carrère

nell’attimo stesso in cui non si prefigge l’obiettivo di rendercene l’insopprimibile e ingiudicabile anarchia, ma ne addomestica le contraddizioni per offrircene una rappresentazione facilmente in-tellegibile e in genere ordinata solo perché del tutto autoreferen-ziale. Come pure difficile non ricavare, da tali convincimenti, uno dei presupposti essenziali di quella tecnica compositiva, scelta da Carrère, che ci stiamo sforzando di esplorare. Per lo scrittore francese, raccontare non significa cioè costruire autonomi uni-versi romanzeschi, ma mettere direttamente in gioco la propria identità autoriale, esprimersi con la propria voce, manifestare le proprie curiosità intellettuali ed esperienze di vita, verificare sul campo la fondatezza di ogni propria supposizione. Tutto ciò per proporsi quale garante della veridicità (o almeno della plausibi-lità) di narrazioni che traggono spesso alimento da una materia scopertamente saggistica, non si sottraggono mai all’imperativo dell’analisi introspettiva e si presentano come risultati di autenti-che inchieste (o di parzialmente documentate ipotesi interpretati-ve) in merito a significativi fatti di cronaca, personalità di pubbli-co rilievo, cruciali eventi storici che Carrère pubbli-confessa di sondare in primo luogo perché tali da interrogare i fondamenti stessi della sua formazione culturale o della sua specifica maniera di stare al mondo, e poi perché – se non altro nella sua ottica – indubbie cartine al tornasole di ciò che oggi l’Occidente è, pensa, vuole.

Ecco allora che, nel descrivere per esempio limonov, l’autore transalpino ci regala anche un sia pur non esaustivo autoritrat-to: «Non era un romanziere: sapeva raccontare soltanto la sua vita, ma la sua vita era appassionante e lui la raccontava bene, con uno stile semplice, concreto, senza vezzi letterari»14. È però

soprattutto alle pagine del Regno che Carrère affida il puntuale disvelamento della sua poetica. «Quando mi raccontano una sto-ria, mi piace sapere chi me la sta raccontando», egli spiega: «per questo», aggiunge, «mi piacciono le narrazioni in prima persona, per questo scrivo così, e anzi non sarei capace di scrivere in altro modo», dato che, «appena qualcuno dice “io” (ma “noi”, al limi-te, va bene lo stesso), mi viene voglia di seguirlo, e di scoprire chi

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si nasconde dietro questo “io”»15. Il desiderio è insomma quello

di rinnegare sia lo sforzo di formalistica astrazione dal reale che connota il romanzo, sia la troppo criticamente mediata assertività intrinseca alla saggistica, prediligendo un «modo di scrivere la storia», o di affrontare la cronaca, o di ragionare su fatti culturali e tendenze letterarie, o di interrogare il proprio mondo interiore, «non ad probandum, ma ad narrandum»: in definitiva, prenden-do la parola «non per dimostrare qualcosa, ma semplicemente per raccontare ciò che è accaduto», o che si ritiene sia vero, o che si crede di aver appreso su se stesso, in tutti questi casi presentan-dosi comunque quale testimone oculare delle circostanze riferite o come individuo legittimato a discorrerne per averle vissute o per-ché disposto a lasciarsi chiamare direttamente in causa da esse16.

Non per nulla, Carrère ammette di aver casomai tratto qualche spunto, al momento di cimentarsi con la stesura di un volume, per l’appunto Il Regno, concepito come un’inchiesta sulle radici culturali del cristianesimo, non dalle Memorie di Adriano – a suo giudizio corrivo proprio in quanto romanzo, per di più storico, che finisce col far sentire il lettore «catapultato dentro Asterix» –, ma dai «taccuini di lavoro» che Marguerite Yourcenar pubblicò in appendice al testo. «Da buon moderno», egli infatti puntualizza, «preferisco lo schizzo al grande affresco», anche se poi, aggiunge, «l’illusione di non sprecare il mio tempo su questa terra è sputare sangue per fondere quello che mi passa per la testa in un’unica materia omogenea, pastosa, con tanti strati sovrapposti» da cesellare e arricchire senza tregua per non «lasciare le cose libere di respirare, incompiute, transitorie, fuori del mio controllo». l’opera che deve risultarne trova così un corrispettivo figurale in un preciso tipo di «documentario», del resto praticato da Carrère: quello che non cerca «di far credere che si mostrano le persone come sono “veramente”, vale a dire come sono quando noi non siamo lì a riprenderle», ma nel quale «si ammette che il fatto di riprenderle modifica la situazione» e ci si impegna allora a filmare «proprio questa nuova situazione». E l’autore del Regno non ha dubbi: in favore di tale sua scelta

15 Carrère 2015, p. 107. 16 Ivi, p. 129.

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– che egli reputa fedele alla «scuola del sospetto, del dietro le quinte e del making of» – si può notare come essa risulti «più in sintonia con la sensibilità moderna» di quanto non si riveli esserlo «la pretesa allo stesso tempo altezzosa e ingenua di Marguerite Yourcenar di annullarsi per mostrare le cose come sono nella loro essenza e nella loro verità». In particolare, lo scrittore transalpino ribadisce di non poter seguire la via percorsa dalle Memorie di Adriano giacché figlio di una modernità che lo ha educato a vivere «nel culto e nella costante preoccupazione» della sua persona, di un “io” in cui credere «incrollabilmente» e che lo spinge a volersi in primo luogo accreditare alla stregua di un «ritrattista», sempre pronto a schizzare le parabole di individualità nel bene o nel male eccezionali anche per confrontarle con la sua, riconoscersene attratto o disgustato, giungere in ultimo ad ammettere o a decifrare, in virtù di siffatte comparazioni implicite o esplicite, verità su se stesso altrimenti inconoscibili o inconfessabili17.

Da un lato, ibridando i canonici moduli espressivi del reporta-ge con una preponderante inclinazione all’autobiografia e le clas-siche formule della saggistica con una propensione irrefrenabile tanto al narrare quanto al resoconto diaristico, Carrère lavora quindi in maniera sostanzialmente analoga a quella di non pochi autori che, lo si è detto, solo in apparenza ci hanno proposto, all’incirca negli ultimi due decenni, esempi di non-fiction novel tradizionalmente inteso. Come in loro, anche nello scrittore fran-cese non si può infatti scorgere alcun desiderio di aderire a una poetica oggettivista e, soprattutto, si nota un recupero di tecniche affabulatorie sistematicamente spese in opposizione al romanzo, cioè in ossequio all’idea che eludere o dissezionare quest’ultimo, fino a elaborare anti-romanzesche narrazioni in prima persona, sia l’unico modo per raccontare la realtà e contribuire di conse-guenza a ridefinirla, per testimoniare il vero e rivendicarne così l’i-neludibile ruolo socioculturale: insomma, per riscoprire la voca-zione sorgivamente performativa della letteratura. Che Carrère, in misura maggiore di molti suoi compagni di strada, appare convinto di poter dimostrare procedendo alla costruzione di testi che vadano anzitutto interpretati quali veicoli della propria voce

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di narratore e che, nell’insieme, risultino addirittura il duplicato dell’organismo biologico che ad essi ha dato forma. Quelle dello scrittore d’Oltralpe sono cioè opere che non aspirano semplice-mente ad essere sincere, ma pretendono il denudamento integrale del loro autore, sino al limite estremo dell’autodenigrazione per-sino esibizionistica e di un’ostentazione compulsiva che ha qual-cosa a che spartire, dal punto di vista esclusivamente simbolico, con la pornografia. Tutto ciò affinché egli per l’appunto confermi il legame indissolubile tra vita e letteratura ribadendo – in volumi che si presentino quali referti del tumultuoso e incessante divenire di tale rapporto – come l’una dia effettivamente corpo all’altra, ma la seconda modifichi a sua volta la prima in virtù della propria indubitabile natura gestuale.

Dall’altro lato, quanto fin qui detto dovrebbe bastare ad esclu-dere che si possano considerare quelle dello scrittore francese ope-re di autofiction: Carrèope-re vuole riferirci su di sé solamente la veri-tà e aspira ad offrirci, dei fatti o degli individui di cui ricostruisce e narra le dinamiche o le vicende, interpretazioni senza alcun dub-bio personali ma comunque documentate, quindi tanto legittime quanto degne di essere criticamente discusse, cioè assunte quali tentativi di decifrare unicamente la realtà. Il punto però è che, nel parlarci della sua evoluzione di individuo e di intellettuale in lavori che mettono in scena il loro farsi, egli finisce col trattare se stesso alla stregua di un personaggio trans-testuale di cui, pagina dopo pagina, ci viene costantemente ridefinita la configurazione del momento alla luce di quanto, alla voce narrante medesima, sembra di volta in volta lecito ricavare dall’ossessivo ripensamen-to di ciò che, sulla propria identità, essa ha avuripensamen-to modo di capire e di raccontarci in frammenti di libro o in volumi precedenti. l’io narrante riscrive insomma di continuo la sua storia, poco a poco intuendone (sempre provvisoriamente) il senso e talora accettan-do addirittura di contraddirsi, seconaccettan-do un procedimento che, in parte, ricalca quello in base al quale l’immaginazione romanzesca scolpisce gradualmente, e non per forza di cose in maniera univo-ca, i propri personaggi, tanto più riusciti, ossia verosimili, quanto più tridimensionali, cioè irriducibili a un’incontrovertibile valuta-zione ultima. Ed è, a ben guardare, questa stessa immaginavaluta-zione romanzesca che Carrère scopertamente convoca in proprio aiuto

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quando, vagliati i documenti reperibili sulle personalità storiche del cui operato vuole farsi esegeta o ripensati i suoi colloqui con interlocutori dei quali intende ugualmente ricostruire le parabo-le, egli trasforma simili oggetti di studio – si tratti, per esempio, dell’evangelista luca, nel Regno, o di limonov, nel volume omo-nimo – in plausibili personaggi di tracimanti narrazioni che, con pur disciplinata inventività, si spingono a raccontarci, di tali ma-schere, quanto, degli individui che le hanno ispirate, nulla ci è in-vece lecito sapere: cosa esse desiderano, fanno, credono ben al di là di ciò che, dei loro corrispettivi nella realtà passata o presente, possiamo conoscere e verificare in virtù di questo o quel riscontro critico, della consultazione di questo o quell’autoritratto conse-gnatoci da siffatti nostri antenati o contemporanei.

Ebbene, a mano a mano che procede nella fruizione dell’opera complessiva determinata da tali scelte di poetica, il lettore prende fisiologicamente a considerare vieppiù irrilevante domandarsi se il ritratto dell’autore e quelli dei vari personaggi storici o della cronaca da essa offertigli corrispondano del tutto a un vero em-piricamente accertabile, oppure siano, in larga o in minima parte, prodotti di una libera fantasia romanzesca. In pratica, egli si com-porta in maniera non troppo diversa da chi, nell’approcciare un testo di autofiction, sa quanto inutile e – soprattutto – concettual-mente sbagliato sia provare a stabilire cosa coincida con la realtà, e cosa invece no, nel libro che tiene aperto fra le mani. Sottomet-tendo il suo piglio di cronista e, ancor più, di saggista anzitutto interessato alla ricognizione storica, nonché la sua indubbia vena di biografo e, in misura ancora maggiore, di autobiografo, a una debordante vocazione di narratore, o meglio di romanziere senza romanzi e ad essi ostile, Carrère, al di là delle intenzioni che lo animano, ci spinge cioè inevitabilmente ad accostare i suoi lavori come esercizi di fiction e, sotto molti aspetti, di autofiction. Così, egli finisce inconsapevolmente con il dimostrare quanto sterile sia qualsivoglia polemica contro il romanzo condotta, in nome della presunta inadeguatezza di tale genere letterario a misurarsi con la realtà, da chi poi ambisca a dare conto di quest’ultima attra-verso modalità comunque di racconto, autobiografico o no. Ogni forma di narrazione – che l’autore lo desideri oppure no – tende infatti ad essere percepita da chi la fruisce – perché anzitutto in

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tal maniera costui riesce a decifrarne la logica interna e si sente dunque capace di coglierne il senso – nell’esito del lavorio sul re-ale operato da un’immaginazione romanzesca che, all’interno del testo, lo scrittore può sì tentare di mettere episodicamente all’an-golo grazie ai più disparati accorgimenti – per esempio, esibendo una serie di documenti e richiamandosi a vari fatti storici o di cronaca cui chiedere di certificare l’attendibilità del racconto –, ma che si rivela poi abile a ricondurre al suo impianto normativo – e quindi alle necessità di una simulazione veritativa che si offre quale libera decodifica dell’esistente, del passato o del pensabi-le, non come puramente immaginaria restituzione al pubblico di una del resto irreperibile realtà al grado zero – simili tecniche di contestazione di un’istanza finzionale sempre pronta a suggerire implicitamente al lettore la loro intrinseca artificiosità e perciò a riassorbirle nella propria strategia espressiva.

Per dirla con una battuta, certamente scontata: in qualsiasi narrazione antiromanzesca, incluse quelle fortemente sbilan-ciate in direzione dell’autobiografismo, la fiction, e non meno l’autofiction, cacciate dalla porta, rientrano inesorabilmente dalla finestra. Come pure è inevitabile che chiunque pratichi siffatte forme di scrittura guidato dal desiderio di mettere a nudo tanto se stesso, quanto i personaggi reali di cui i suoi libri ricostruiscono le vicende, debba in ultimo accettare di poter offrire alla propria identità, e a quelle di tali individui, non un’opportunità di autenti-ca svestizione integrale, ma nulla più che la chance di un credibile travestimento adamitico.

L’irresistibile tentazione dell’estremismo

Forse perché si rivela quello in cui l’immaginazione ro-manzesca, appunto per inverare il desiderio di comprende-re le peculiari e, agli occhi di molti, indecifrabili dinamiche di un orribile fatto di cronaca, più si dimostra ligia al tentativo di cogliere la specifica natura di tale evento e, al contempo, di trasfigurarlo liberamente nella cartina al tornasole di ricorrenti ossessioni indotte negli individui dall’odierno sistema sociocul-turale, L’Avversario, ad oggi, è senza dubbio il capolavoro di Carrère. Uno straordinario apologo tragico che, se non può

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serne ritenuto il testo fondativo, sta però all’infedele non-fiction novel di questi ultimi anni come A sangue freddo sta alla forma originaria di tale sottogenere letterario: alla stregua, cioè, del suo prodotto esemplare.

Come egli stesso chiarisce nel Regno – che si conferma dunque la sua opera fin qui più disponibile ad assecondarne l’inclinazio-ne all’autocommento –, Carrère sceglie di ricostruire l’incredibi-le storia di Jean-Claude Romand – condannato all’ergastolo per aver ucciso, prima di tentare il suicidio, la moglie, i figli e i ge-nitori il 9 gennaio del 1993 giacché terrorizzato dall’eventualità che essi scoprissero la menzogna raccontata dal congiunto per diciotto anni, ossia quella di essere un medico – allo scopo di esplorare «un’istanza presente in lui come in ciascuno di noi, con la differenza che in lui ha preso il sopravvento». In altri termini, per ribadire, attraverso l’analisi di una vicenda in cui tale paura ha determinato un esito catrastrofico, che anche «le persone più sicure» del fatto proprio avvertono «con angoscia lo scarto che esiste fra l’immagine di sé che bene o male cercano di dare agli altri» e l’idea «che hanno di loro stesse nei momenti d’insonnia, o di depressione, quando tutto vacilla». E, insomma, per ricordarci che «in ciascuno di noi c’è una finestra splancata sull’inferno» – cioè su una predisposizione a compiere il male, persino quando intenderemmo conservarci fedeli al bene, alla quale molti credenti riconducono l’identità del diavolo, denominato dalla Bibbia in vari modi, compreso quello di Avversario –, ma che, «con Cri-sto, uno può avere sterminato la famiglia, essere stato il peggiore farabutto del mondo», e però «niente è perduto», perché, «per quanto in basso siate caduti, lui verrà a prendervi». In prigio-ne, Romand – che non era mai stato spinto dalla «crudeltà», dal «desiderio di nuocere», dal «piacere di veder soffrire gli altri», ma aveva sempre voluto «compiacere» gli individui intorno a lui ed era giunto a temere «di dar loro un dispiacere» fino al punto di «sterminare la famiglia piuttosto che essere costretto a farlo» – trova «un rifugio» nell’amore di Cristo, «che non ha mai na-scosto di essere venuto per quelli come lui», vale a dire «esattori collaborazionisti, psicopatici, pedofili, pirati della strada che si danno alla fuga, tizi che vanno in giro parlando da soli, alcolisti, barboni, skinhead capaci di dare fuoco a un barbone, seviziatori

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di bambini, bambini martoriati che una volta adulti martirizzano a loro volta i propri bambini». Sicché il perverso, ipnotico fascino dell’Avversario scaturisce proprio dal duplice, insolubile mistero al cui margine esso sosta: come possa un uomo che «a detta di tutti era una persona gentile» trasformarsi in carnefice non per autentica malvagità o per cieca invidia sociale, bensì per vuota idiozia dostoevskijanamente intesa e per puerile ossessione bova-ristica di riconoscimento; come un individuo macchiatosi di colpe a tal punto oscene riesca a serbare una tanto ebete ingenuità delle intenzioni, una così scandalosa innocenza d’animo, da arrivare, non per calcolo ma per agghiacciata devozione, a ritenersi im-pegnato in una sincera ricerca spirituale che lo conduca infine a giudicarsi «in rapporti confidenziali con il Signore Gesù»18.

Che l’esplorazione del primo di questi enigmi sia da sempre il fulcro del mondo narrativo di Carrère lo conferma La settimana bianca, un romanzo breve del 1995 che racconta l’educazione alla vita di un ragazzo costretto in ultimo a fare i conti col materia-lizzarsi della solo apparentemente ontologica «paura tremenda», che ne aveva fin dal principio accompagnato la crescita, in un tangibile «orrore», nel quale egli si scoprirà realmente coinvol-to19, e la cui lettura – apprendiamo dal testo a lui dedicato –

per-suade non a caso Romand, colpito da un libro che ritiene descriva «esattamente la sua infanzia»20, ad accettare un lungo rapporto

di interlocuzione con l’autore francese. A meritare un ulteriore approfondimento è invece l’approccio di quest’ultimo al secondo sconvolgente paradosso di cui si è detto e che, rivelandosi il tema in parte implicito dell’uno e l’argomento esplicitamente trattato dall’altro, trasforma L’Avversario e Il Regno negli elementi di un dittico su ciò che, considerando anche quanto è lecito ricavare dall’esegesi di Limonov, potremmo definire la perlopiù intellet-tualistica fascinazione generata su Carrère da chiunque sappia integralmente incarnare – nel bene o nel male, e anzi rendendo indecibile il discrimine tra siffatti ambiti – ossessioni inguaribil-mente estremistiche.

18 Ivi, pp. 294-296.

19 Carrère 2014b, pp. 112-113. 20 Carrère 2013, p. 44.

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Uomo per sua stessa ammissione «di destra»21 e fedele lettore

di Nietzsche22, lo scrittore transalpino, membro di una famiglia

appartenente a una ricca e colta borghesia illuministicamente devota ai principi della democrazia e però al fondo conserva-trice ed educatasi ai valori del cattolicesimo come alle logiche dell’anticomunismo – il padre, racconta Carrère, «rispettava le forme ma non risparmiava battute sulla sostanza» del cristiane-simo23 e la madre, un’insigne studiosa di storia discendente da

immigrati georgiani fuggiti alla rivoluzione del ’17, avversava, «in quanto figlia di russi bianchi», quel «blocco sovietico» il cui «sgretolamento», da lei previsto con largo anticipo, la rese ol-tremodo «felice»24 –, appare costantemente attratto dal demone

di un cerebrale nichilismo perlopiù teppistico che gli suggeri-sce, sul piano culturale, l’esaltazione di un massimalismo spesso estetizzante e lo spinge, in ambito narrativo, all’incondizionata rivendicazione su cui ci siamo già soffermati: quella, contro il romanzo e ogni altro genere letterario supposto definitivamen-te codificato, del proprio anarchico oltranzismo espressivo. Del resto, è Carrère in persona a confessare di essersi lungamente «considerato non normale, eccezionale, al tempo stesso meravi-glioso e mostruoso», e a spiegare di aver continuato a vivere, an-che oltre i suoi quarant’anni, «prigioniero» del proprio «mondo interiore», pur nutrendo astrattamente il desiderio di «andare incontro al pericolo», di poter prima o poi sostenere «un com-battimento» con la realtà25. Ed è ancora Carrère a ricordarci di

aver «ceduto fino a un’età relativamente matura al culto roman-tico della follia», nonché di essersi sentito «terrorizzato» per molto tempo «dalla vita, dagli altri», dalla propria indefinibile identità, e di aver dunque cercato di evitare che la paura lo ridu-cesse «alla paralisi totale» ripiegando autisticamente su se stesso «in un atteggiamento ironico e disincantato», ossia valutando ogni sorta di «entusiasmo o impegno con il ghigno del tipo a cui non la si fa, uno che sa come va il mondo senza essere mai

anda-21 Carrère 2014c, p. 39. 22 Carrère 2015, p. 16. 23 Ivi, p. 36.

24 Carrère 2014a, p. 184. 25 Carrère 2014c, pp. 72-74.

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to da nessuna parte»26. Infine, è Carrère stesso a spiegarci come

mai, superati da poco i trent’anni, egli abbia vanamente «tenta-to di diventare cristiano»: perché mosso, sostiene, dal «desiderio di credere, per abbarbicare l’angoscia a una ceretezza»; giacché sedotto, prosegue, dalla «paradossale argomentazione secondo cui assoggettarsi a un dogma contro il quale si rivoltano l’intel-ligenza e l’esperienza è un atto di suprema libertà»; nell’intento, conclude, «di dare significato a una vita insopportabile», che poteva così tradursi in «una successione di prove imposte da Dio», come vuole «una pedagogia superiore, che illumina attra-verso la sofferenza»27.

Se – per usare categorie nietzschiane – è più frequente che nel cristiano si riconosca l’adepto di un nichilismo “passivo” che conduce i seguaci a mutarsi in anonimi servi del senso comune, Carrère scorge invece in lui, ed è appunto per questo che ne risulta oltremisura affascinato, il prototipo dell’esempio forse massimo di nichilismo “attivo”, poiché Gesù, si legge nel Re-gno, ha l’ardire di «mescolare vittime e carnefici» nel proprio «gregge», ossia di esaminare le une e gli altri non in base alla lo-gica e alle leggi del mondo, che il suo vangelo decisamente sva-luta, ma in ossequio a un’etica, letteralmente superomistica, che giudica gli individui oltre le loro azioni e trascendendole: da ciò che essi sono disposti a confermarsi o a diventare, non da quel che hanno subito o fatto. Essere cristiani, per lo scrittore france-se, vuol dire insomma «essere agnostici». E magari, dopo aver capito che «non possiamo dare un giudizio definitivo» su nulla, neppure su ciò che ripugna la nostra morale, appropriarci (nel rispetto del miglior sincretismo) dell’insegnamento contenuto in un sutra buddhista: «l’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà»28.

Il medesimo avvertimento che Carrère ci aveva rivolto nelle pagine di Limonov, libro che trae origine dall’identico desiderio di rendere omaggio alla capacità di situarsi al di là del bene e del male dimostrata da un’ulteriore figura di superuomo. Da

26 Carrère 2014a, pp. 62, 160. 27 Carrère 2014c, p. 68.

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un’estremista per vocazione «che vede se stesso come l’eroe di un romanzo» e la cui vita, compiacendosi di essere «pericolo-sa», accetta comunque «il rischio di calarsi nella storia». Da un congenito agitatore mosso da un pensiero politico «confuso, ap-prossimativo», restio a «contrapporre fascismo e comunismo», e per il quale ciò che conta è allora, nietzschianamente, nulla più che «lo slancio vitale», il potersi considerare «un combattente» a oltranza, «un rivoluzionario di professione». Da un cane ran-dagio conscio del fatto che, quando hai scelto un’esistenza da indomito «avventuriero», percepirsi «così perduti e soli, senza vie di scampo, non è altro che il prezzo da pagare». Da un re-ietto guidato da «rancore, invidia, odio di classe, fantasie sadi-che» e che si rivela sempre pronto a dichiararlo, senza «nessuna ipocrisia, nessuna vergogna, nessuna scusa». Da un orgoglioso esponente della «grande e valorosa tribù dei falliti», convinto di riuscire a porsi alla testa dei propri pari quando essi «imbrac-ceranno le armi, occuperanno una città dopo l’altra, distrugge-ranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici». Da un dandy in divisa militare che potrà anche partire, per le sue mis-sioni, «sotto il segno di Gabriele D’Annunzio», ma, ogni volta, tornerà indietro solo dopo aver superato il modello, solo dopo aver concretamente partecipato a una rigeneratrice esplosione di «violenza, le teste conficcate sulle punte delle picche». Perché limonov – nato nel 1943 e perseguito per reati minori già negli anni della giovinezza; poeta in ascesa quando si stabilisce a New York nel 1975 e romanziere preceduto da un’aura di scandalo allorché approda a Parigi; fondatore, dopo essere rientrato in patria, del Partito nazionale bolscevico e arrestato con l’accusa di terrorismo, cospirazione contro l’ordine costituzionale, traf-fico di armi; soldato volontario, dalla parte di Milošević, du-rante la guerra nei Balcani e, sin dal principio, fiero oppositore di Putin, al quale è ancora oggi violentemente ostile – incarna insomma uno dei modi in cui «ciascuno di noi si rassegna al fat-to ovvio che la vita è ingiusta e gli uomini non sono uguali». l’i-dentico modo di Nietzsche e, puntualizza Carrère, dell’«istanza in noi che io definisco “il fascista”». Un modo che, in quella crudele disparità di energie, desideri, fortune che caratterizza ogni società umana, riconosce pragmaticamente un dato

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ineli-minabile – «È la realtà, il mondo così com’è» –, e che quindi legittima chi non voglia essere vittima di questa belluina legge della giungla – e consegnarsi in tal maniera all’inazione o allo scacco – ad affrancarsi nichilisticamente da qualsiasi scrupolo morale per imporre con la forza la propria sovrana ossessione di vita, la propria irrefrenabile smania creatrice29.

Ciò detto, sia Il Regno – forse troppo spregiudicato, nell’in-terpretazione di alcuni presupposti storici e di taluni passi del Nuovo Testamento, per risultare del tutto persuasivo – sia Limonov – il libro che, più di ogni altro, conferma la predispo-sizione di Carrère a costruire biografie o lacerti autobiografici che il lettore non può resistere alla tentazione di godersi alla stregua di romanzi – riescono però a proporsi anche come per-sonali ricognizioni sul nostro tempo e su quanto ci ha lasciato in eredità il tramonto di due “grandi narrazioni” che hanno segna-to, rispettivamente, buona parte dell’intero tragitto dell’identità occidentale e una cospicua cifra culturale dell’era moderna.

Nel modo in cui l’apostolo Paolo e l’evangelista luca rivisi-tano la predicazione di Cristo, gettando le basi, quantomeno il primo, per la nascita e per l’organizzazione interna della Chiesa, Il Regno scorge cioè l’influenza e, al tempo stesso, un tenta-tivo di superamento dell’allora dominante cultura ellenistica, che Carrère giudica «per molti aspetti simile alla nostra» non-ché, «come la nostra, globalizzata». Una cultura «sottomessa, frivola, inquieta, orfana di ideali», in ossequio alla quale «la gente non credeva più negli dei», ma «nell’astrologia, nella ma-gia, nei malefici», sicché, anche quando si invocava Zeus, «il popolino, in un sincretismo molto new age, lo mescolava con tutte le divinità orientali allora disponibili», mentre «le persone colte lo trasformavano in una pura astrazione». Una cultura, ancora, che aveva degradato la filosofia «a una ricetta di feli-cità individuale» e che conosceva l’egemonia dello stoicismo, il quale – affermando «qualcosa di molto simile al buddhismo» oggi apprezzato anche in Occidente – «esortava a proteggersi dal mondo, a fare di sé un’isola, a coltivare le virtù negative: l’apatia, che è assenza di dolore, l’atarassia, che è assenza di

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inquietudine», e, più in generale, quell’«assenza di desideri» che conduce alla «tranquillità spirituale». In definitiva, Carrère con-stata una sorta di omologia strutturale tra la civiltà in cui venne ricavata una dottrina dagli insegnamenti di Gesù, permettendo così la genesi di un’istituzione che se ne concepisse garante, e la nostra scristianizzata società di «occidentali del ventunesimo secolo» devoti alla «religio» della «democrazia laica», fede alla quale non chiediamo di rivelarsi «entusiasmante», né di «soddi-sfare le nostre aspirazioni più segrete», ma «soltanto di offrire un quadro in cui possa esprimersi la libertà individuale», scre-ditando «chi dice di conoscere la formula della felicità, o della giustizia, o della realizzazione dell’uomo, e cerca di imporla agli altri», e in particolar modo ricordandoci che «la superstitio che vuole la nostra morte ieri era il comunismo, oggi l’integralismo islamico»30.

Sia pure in forma implicita, il quesito è quindi posto: siamo sicuri che, come la troppo molecolare e rinunciataria ideologia ellenistica è stata infine riassorbita e superata dal massimalismo evangelico, così la tutt’altro che marcatamente illuministica e per di più socialmente regressiva cultura occidentale di cui oggi siamo figli, sentendosi peraltro aggredita dall’avanzata militare di risorte forme di fondamentalismo religioso, non finisca pre-sto con l’accogliere, o non stia addirittura già conoscendo, una recrudescenza massiccia dell’identitarismo di matrice cattolica? Perché, nota Carrère, la storia ci ricorda che, alla lunga, «quel-li che credono a ciò che vedono hanno perso, quel«quel-li che vedo-no ciò in cui credovedo-no hanvedo-no vinto». E per un Occidente, come quello odierno, molto meno laico di quanto si pensi, non esiste opportunità di rinnegare «la testimonianza dei sensi» e sconfes-sare «ciò che esige la ragione» più allettante di quella offerta da una dottrina basata sull’inconcepibile: sull’idea, insomma, che «la resurrezione è impossibile, eppure un uomo è risorto». Il medesimo cortocircuito logico che affascinò Philip K. Dick sino al punto di spingerlo ad abbracciare la fede cristiana in quella «forma massimalista» sulla quale Carrère riprende a interrogar-si nel Regno – testo che lo vede parimenti mettere a frutto una

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sua precedente esperienza di scrittore invitato, in collaborazione con altri letterati, a stendere una traduzione della Bibbia aggior-nata al francese corrente – dopo averla già fatta oggetto di ap-profondita analisi in una biografia, Io sono vivo, voi siete morti, dedicata nel 1993 al narratore statunitense31.

Anche Limonov sviluppa un discorso iniziato dall’autore transalpino con un precedente lavoro: La vita come un romanzo russo. Nel suo volume più anarchicamente egotistico e più narra-tivamente indisciplinato, egli aveva infatti convertito l’occasione di un reportage su alcuni territori dell’ex impero sovietico in un tentativo, oltre che di ricapitolare due anni della propria esisten-za, anche di ricostruire una vicenda del passato che affondava le radici nella lontana genesi di quel decaduto sistema poltico: la tragica storia del nonno materno. Ossia di un uomo schiacciato dalla convinzione di appartenere al novero delle persone «insi-gnificanti» e destinate «al giogo»; scomparso improvvisamente nell’autunno del 1944 e forse ucciso perché accusato di essere un collaborazionista; percepito alla stregua di un fantasma sul quale imporre a tutti il silenzio dalla genitrice dello scrittore e dunque causa di indicibile «sofferenza» per l’intero nucleo fami-gliare di costui e per Carrère stesso, costretto a ricevere «in ere-dità l’orrore, la pazzia, e il divieto di esprimerli»32. Ingiunzione,

quest’ultima, che egli trova appunto la forza di trasgredire e che ci si rivela di segno esattamente contrario a quella cui dobbiamo il testo nel quale lo scrittore riesce con più garbo ed equilibrio a ritrarre esistenze altrui tutt’al più immedesimandosi con esse, e però senza correre il rischio di darle in pasto al proprio bulimico egocentrismo espressivo. Vite che non sono la mia nasce cioè dal-la sua pronta risposta a un preciso appello, idealmente rivoltogli dai tragici decessi di una bambina e di una giovane donna: «la vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dopo l’al-tra, e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto»33.

Orbene, nel volume omonimo, limonov, col suo furioso mas-simalismo venato di risentimento, non incarna solamente alcune

31 Ivi, pp. 76, 168, 193. 32 Carrère 2014c, pp. 69, 275. 33 Carrère 2011, p. 235.

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delle distorsioni identitarie generate negli individui dal sistema culturale ed economico intrinseco al socialismo realizzato. Agli occhi di Carrère, egli è invece una sorta di «doppio» dell’espo-nente politico che oggi più detesta, cioè di Putin, il quale, come lui, «sa che l’uomo è un lupo per gli altri uomini, crede solo nel diritto del più forte, nell’assoluto relativismo dei valori, e pre-ferisce fare paura piuttosto che averla». Ad accomunare i due è infatti il desiderio di ribadire «in tutte le salse» quanto «i russi hanno assolutamente bisogno di sentirsi confermare», ossia che «il comunismo ha fatto delle cose orribili, d’accordo, ma non era uguale al nazismo», come «gli intellettuali occidentali» ora-mai ritengono, giacché esso ha invece rappresentato «qualcosa di grande, di eroico, di bello, qualcosa che credeva nell’uomo e gli dava fiducia», qualcosa che ha sino all’ultimo conservato in sé «una parte di innocenza», e dunque «nessuno ha il diritto di dire a centocinquanta milioni di persone che settant’anni della loro vita, della vita dei loro genitori e dei loro nonni, che ciò in cui hanno creduto, per cui hanno lottato e si sono sacrificati», altro non è stato che «una merda». A distinguere Putin da limo-nov, spiega Carrère, è semplicemente la circostanza che il primo ha saputo diventare «il capo» – e non perché gli sia toccato in sorte «un destino» fin troppo generoso con la sua effettiva sta-tura politica, ma perché egli è davvero «uno statista di grande levatura», la cui «popolarità» non dipende principalmente «dal fatto che la gente è decerebrata dai media a lui asserviti», bensì dalla sua capacità di incarnare, appunto, il diritto dei russi di rivendicare la legittimità della loro storia –, laddove il secon-do – per difendere lo stesso desiderio di assoluzione rinvenibile nella propria gente – deve oggi accontentarsi di recitare il ruolo di «oppositore virtuoso» e di paladino di «valori in cui non cre-de», dalla «democrazia» ai «diritti umani»34.

Al di là del giudizio su Putin, assai difficile da digerire, è quindi chiaro cosa Carrère intenda dirci. A maggior ragione dopo aver sconfitto il suo più tenace avversario – quell’Unio-ne Sovietica costretta, per scongiurare il pericolo della «guer-ra civile», ad accettare una brusca t«guer-ransizione all’economia di

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mercato «con infiltrazioni criminali» –, il sistema capitalistico occidentale ha potuto definitivamente imporre al mondo l’au-torappresentazione cui da sempre si è mantenuto fedele e che oggi non ritiene neppure più necessario giustificare: quella di costituire, cioè, la forma stessa della civiltà. Individui come li-monov o despoti come Putin, pur con le loro inammissibili ge-sta o argomentazioni, sono però lì a ricordarci che, «al giorno d’oggi», la paradossalmente autoritaria pretesa universalistica dell’«ideologia democratica e dei diritti umani» corre sempre il rischio di tradursi, in primo luogo, nell’«esatto equivalente di ciò che è stato il colonialismo cattolico – le stesse buone in-tenzioni, la stessa buonafede, la stessa incrollabile certezza di portare ai selvaggi il vero, il bello, il bene»35.

l’Occidente non può dunque stupirsi delle scomposte, talora violente reazioni che la sua egemonia non solo culturale ha ri-preso sempre più spesso a suscitare. Al momento, sembrerebbe essere questa la diagnosi ultima sul nostro tempo consegnataci, più o meno scopertamente, da Carrère.

Riferimenti bibliografici

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Santoro v. (2010), Privato è pubblico. (Dis)avventure dell’Io nella narra-tiva italiana degli anni Zero, in Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero, a cura di v. Santoro, Macerata: Quodlibet.

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Heteroglossia

n. 14| 2016

pianeta non-fiction

isbn 978-88-6056-487-0

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a cura di Andrea Rondini

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edizioni università di macerata

Heteroglossia

n. 14

Andrea Rondini

eum edizioni università di macerata > 2006-2016

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Quaderni di Linguaggi e Interdisciplinarità. Dipartimento di Scienze Politiche, della

Comunicazione e delle Relazioni Internazionali.

n. 14 | anno 2016

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