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Aspetti economico-aziendali e contabili del settore lapideo

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE Pag. 2

CAPITOLO I: CARRARA E LA SUA STORIA

1.1 Carrara e i suoi monti Pag. 4

1.2 Cenni storici Pag. 6

CAPITOLO II: IL CICLO DI PRODUZIONE

2.1 Premessa Pag. 15

2.2 L’escavazione Pag. 16

2.3 La trasformazione Pag. 25

2.4 Il commercio Pag. 35

CAPITOLO III: GLI AGRI MARMIFERI E LE ENTRATE DEL COMUNE

3.1 Disciplina degli agri marmiferi Pag. 45

3.2 La tassa marmi Pag. 74

CAPITOLO IV: IL BILANCIO E LE PROBLEMATICHE ECONOMICO- CONTABILI NEL SETTORE LAPIDEO

4.1 Bilancio società di escavazione Pag. 83

4.2 Bilancio società di trasformazione Pag. 102

4.3 Bilancio società di commercio Pag. 108

BIBLIOGRAFIA Pag. 114

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INTRODUZIONE

La tesi ha come obiettivo quello di andare ad approfondire le tematiche economico-aziendali e contabili del settore lapideo, in particolare del sistema produttivo della città di Carrara, principale centro di produzione del distretto apuo-versiliese.

Il primo capitolo del lavoro introduce la città di Carrara e i suoi monti, che custodiscono i giacimenti di marmo, per poi passare ad una ricostruzione della sua storia, legata soprattutto alle vicende dell’industria lapidea.

Il secondo capitolo tratta il ciclo di produzione del settore, che si compone dell’ escavazione o coltivazione, che consiste nell’estrazione di blocchi dai giacimenti marmiferi, della trasformazione, che sottopone gli anzidetti blocchi a lavorazioni diverse per renderli idonei al consumo finale, e, infine, del commercio, che colloca i prodotti (grezzi e lavorati) sui mercati nazionali ed internazionali, il quale è stato analizzato dal punto di vista tecnico (i metodi di produzione e i macchinari utilizzati in essi), organizzativo e strategico. L’esame del processo tecnico è stato condotto per poter in seguito capire meglio alcuni aspetti contabili1.

Il terzo capitolo affronta il tema degli agri marmiferi, attraverso una ricostruzione storica dettagliata, che parte dalle leggi estensi per arrivare al regolamento comunale di oggi, analizzato nei suoi articoli più significativi, e delle entrate relative ad essi che ottiene il Comune, partendo dalla tassa marmi per arrivare alla tariffa unitaria di oggi che comprende il canone di concessione ed il contributo previsto dalla legge regionale n. 78 del 3 novembre 1998.

Il quarto capitolo analizza il bilancio e le problematiche economico-contabili delle aziende del settore, con un’attenzione particolare verso le voci specifiche del settore; l’analisi è stata divisa in tre parti, una per ogni componente del ciclo di produzione; infatti è moto raro il caso di società che coprono tutte le fasi del

1 “ dal processo tecnico derivano, poi, aspetti amministrativi che non possono compiutamente studiarsi

senza una conoscenza delle linee essenziali del processo tecnico” Cassandro P.E. le gestioni assicuratrici, 3° ediz., Torino, 1968, pag. 47

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ciclo produttivo da sole, mentre è molto frequente il caso di società che coprono solo una fase di essa. Non è raro il caso di società che, pur essendo separate tra di loro e svolgendo attività diverse all’interno del ciclo, hanno la stessa proprietà, e quindi non operano autonomamente una dall’altra, ma lavorano a stretto contatto, come se si trattasse di un’unica azienda.

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CAPITOLO I

CARRARA E LA SUA STORIA

1.1 CARRARA E I SUOI MONTI

Il Comune di Carrara è collocato nella Toscana nord-occidentale, sulle rive del Mar Ligure. Insieme alla vicina città di Massa dà il nome alla Provincia di Massa-Carrara, la quale confina a sud e a est con la Provincia di Lucca, a nord con quelle di Parma e di Reggio Emilia, e, a nord-ovest con quella di La Spezia. La città sorge sul lato meridionale delle Alpi Apuane e, si sviluppa verso il mare, dal quale dista circa 7 km, lungo le rive del fiume Carrione, formando un unico agglomerato urbano con la zona industriale di Avenza e Marina di Carrara, che è porto nonché stazione turistico-balneare della città.

Dal punto di vista turistico si segnalano, all’interno del centro storico, il duomo, Pieve di S. Andrea, in stile romanico-gotico, risalente al XII secolo, e, il castello Malaspina, risalente all’ XI secolo, che dal 1805 è diventato sede dell’Accademia di Belle Arti.

A nord-est della città si innalzano i rilievi montuosi che costituiscono l’estremità nord-ovest della catena delle Alpi Apuane. Lungo i versanti di questi monti si trovano le cave di marmo. La regione montuosa è divisa in tre valli, che corrispondono ai bacini di estrazione del marmo. I bacini prendono il nome dai paesi che sorgono al loro interno, rispettivamente, da ovest verso est, Torano, Miseglia e Colonnata.

Il paese di Torano si trova all’incrocio di due valli, una ad oriente che costituisce il bacino stesso, l’altra ad occidente costituisce il bacino di Pescina/Boccanaglia, un bacino di minor importanza. Da questo bacino provengono alcuni dei più pregiati marmi di Carrara, tra cui lo Statuario. Questo materiale viene estratto fin dall’Epoca Romana. A testimonianza di quanto appena detto, salendo lungo la strada principale della valle, poco oltre il bivio per il Canale di Lorano, è possibile arrivare alla cava del Polvaccio, dalla quale secondo alcuni storici è

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stato estratto il marmo per la costruzione della Colonna Traiana e di altri famosi monumenti della Roma Imperiale.

Al centro della regione marmifera si trova il bacino di Miseglia. Lungo la strada di accesso al bacino, dopo aver superato il paese da cui prende il nome, si giunge ai Ponti di Vara. Quest’ultimi furono costruiti nel 1890 a completamento della Ferrovia Marmifera (la ferrovia che serviva per il trasporto dei blocchi dalle cave al piano), e ne costituivano un centro nevralgico (infatti negli anni ’30 alcuni addetti al trasporto con i carri trainati da buoi, esasperati dalla concorrenza della ferrovia, tentarono di abbattere il viadotto principale). Guardando verso monte, sulla destra si trova il viadotto principale, che conduce al bacino di Colonnata, sulla sinistra un viadotto più piccolo verso il bacino di Torano, e, in mezzo ai due, dove era stata costruita un stazione ferroviaria, c’era un tratto ferroviario che conduceva alla parte alta del bacino. Negli anni sessanta, a seguito dello smantellamento della ferrovia, fu realizzato il ponte che collega la località con la strada proveniente da Miseglia2. Proseguendo lungo la strada si giunge alla

Bocca del Canal Grande, che è il centro di partenza di tutte la strade che portano alle cave soprastanti. Sul lato sinistro del piazzale si apre una galleria un tempo utilizzata per il passaggio della ferrovia verso il bacino di Torano. Prendendo la strada che sale verso il bacino marmifero, dopo alcuni tornanti, si arriva ad un bivio; proseguendo verso destra si sale verso la zona di Canal Grande, mentre proseguendo verso sinistra si accede alla zona di Fantiscritti, la quale deve il suo nome da un bassorilievo scolpito direttamente sulla parete marmorea, raffigurante Giove mentre abbraccia Ercole e Bacco, anche se alcuni storici ritengono che le tre figure rappresentino Settimio Severo e i suoi figli Caracalla e Geta3. Il bassorilievo, datato tra il 203 e il 212 d.c., fu staccato dalla sua sede nel

1864 ed è ora custodito nell’Accademia di Belle Arti di Carrara. Da questo bacino fu anche estratto il blocco che andò a formare l’obelisco del foro

2 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

1991, pag. 85-88 e pag. 60-63

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Mussolini a Roma. Il blocco fu soprannominato il “monolite” per le sue enormi dimensioni (18 metri di lunghezza, 2,35 di altezza e altrettanti di larghezza, per circa 300 tonnellate di peso).

La parte orientale della regione marmifera carrarese è costituita dal bacino di Colonnata. La strada di accesso al bacino parte dal paese di Bedizzano, antico borgo di cavatori, passa attraverso un bosco di castagni, proseguendo attraverso numerose cave contenenti numerose testimonianze archeologiche di cave d’Epoca Romana (località Calagio e Fossacava). Alla fine della strada si trova il paese di Colonnata, centro di interesse storico e gastronomico. Infatti il paese è famoso per la bontà del suo lardo, che non deriva da una particolare preparazione, ma dall’aria del luogo e dal fatto di essere conservato in conche di marmo locale, la cui peculiare tessitura cristallina garantisce una perfetta stagionatura4.

1.2 CENNI STORICI

Le prime notizie certe sulla coltivazione dei giacimenti di marmo di Carrara risalgono al I secolo a.c., durante la dominazione romana. All’epoca il marmo era detto “marmor lunense”, poiché il centro estrattivo era identificato con la città di Luna, dal cui porto salpavano le navi cariche del suddetto materiale.

A testimonianza del fatto che i Romani conoscevano l’estensione dei giacimenti, in numerose località distribuite lungo i tre bacini, sono stati ritrovati, sia utensili utilizzati per l’escavazione, sia iscrizioni, epigrafi e manufatti. Le cave che produssero di più in quel periodo furono quelle di Colonnata, del Polvaccio e di Fantiscritti, da cui fu estratto il marmo per la porta del Panteon.

La lavorazione avveniva a mano, tramite l’uso di mazzuolo e scalpello, cercando di sfruttare al massimo le fratture naturali del monte. Talvolta per favorire il

4 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

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distacco del masso dal monte, venivano inseriti dei cunei di ferro o di legno. Rispetto ad oggi, la lavorazione del materiale grezzo avveniva direttamente in cava.

Già all’epoca i lavoratori erano suddivisi in base alle mansioni: gli addetti al taglio erano detti “caesores”, gli addetti al riquadro dei blocchi “quadratarii”, coloro che si occupavano del sollevamento “maquinarii”, gli addetti alla segagione “sectores serrariis”. Tutti quanti erano diretti dal “magister ab marmoribus”, figura che corrisponde all’attuale capo cava5-6.

Non si hanno notizie riguardanti la coltivazione delle cave durante l’Alto Medioevo.

Le notizie ripartono dal 1185, quando Federico Barbarossa, dopo aver nominato conte il Vescovo di Luni, inserisce le cave tra i beni produttivi la cui giurisdizione spettava alla chiesa lunense. Con tale provvedimento il Vescovo poteva vantare diritti non solo sulle cose di superficie, ma anche sul sottosuolo. Successivamente si ebbe una ripresa delle attività delle cave. Infatti pochi anni dopo comparvero i primi documenti che attestano un’attività produttiva (atti notarili che riguardano forniture di colonne e capitelli che andavano consegnati nel porto di Genova). I diritti del Vescovo all’epoca si limitavano alla riscossione di una gabella sui marmi in uscita.

Tra il 1300 e il 1500 Carrara passò sotto varie dominazioni (Pisa, Milano, Lucca, Firenze, Genova), fino al 1473, anno in cui passò ai marchesi Malaspina di Massa.

Carrara verso la fine del Medioevo si presentava come un centro marmifero noto ed evoluto. Tra la metà del secolo XIV e la metà del secolo XV, furono gli imprenditori fiorentini a determinarne il rilancio. C’erano a Firenze degli imprenditori (conductores marmi albi de Carraria) capaci di accollarsi le

5 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

1991, pag. 19-20 e pag. 23

6 Magenta Carlo, “L’industria dei marmi Apuani”, Carrara, Casa di Edizioni in Carrara, 1871, pag. 25 e

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operazioni di estrazione, riquadratura, sbozzatura, e trasporto dei marmi ad un prezzo fissato in base al peso dei blocchi. Questo diede l’opportunità agli operai locali di apprendere le tecniche di lavorazione su misura.

Nel 1500 i più grandi scultori dell’epoca, tra cui Michelangelo, si recarono a Carrara per procurarsi il marmo, specialmente statuario, per le loro opere. Contemporaneamente gli imprenditori fiorentini diventarono dei semplici intermediari, affidando le forniture ai maestri locali.

La gestione delle cave era affidata o a società familiari oppure a società alla pari. In queste ultime i soci si dividevano in egual misura le spese e i profitti, ma poteva anche succedere che uno dei soci fosse proprietario della cava, per cui si faceva pagare un canone in denaro o in blocchi di marmo dagli altri soci, relegandoli in uno stato di dipendenza economica. A volte le cave potevano essere affittate a cottimisti, che pagavano l’affitto in blocchi. Esisteva il caso di maestri che ottenevano profitti o dal possesso di una cava o da una società alla pari nella quale si facevano sostituire da un salariato, mentre loro gestivano un bottega di lavorazione in città, oppure, prestavano la loro opera specializzata in giro per l’Italia.

Tra la metà del XV secolo e la metà del XVI, i marmi di Carrara, grazie al largo utilizzo che ne fu fatto nelle cattedrali toscane e nei palazzi genovesi, e grazie anche alle descrizioni entusiaste dei visitatori inglesi, francesi ed olandesi, divennero famosi e richiesti in molte parti d’Europa. L’aumento della domanda fece si che i produttori, per aumentare i loro guadagni, si dedicarono di più al commercio che non alla produzione. Tuttavia si verificarono ritardi ed inadempimenti, causati da un lato, dal fatto che i produttori rimasti alle cave non riuscivano a far fronte al ritmo delle ordinazioni, dall’altro che coloro che si erano trasformati in commercianti non avevano sufficienti disponibilità finanziarie. Per far fronte al problema, il Principe Alberico I Cybo Malaspina nel 1564 stipulò un accordo con i 16 maggiori produttori, in base al quale gli ordini venivano tutti ricevuti da un Offitium marmoris, gestito da uomini del Principe,

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che successivamente li ripartiva tra i produttori. L’accordo durò solamente dieci anni.

Successivamente il Principe, preoccupato dalla scarsezza di denaro, aveva appaltato le gabelle a dei finanzieri genovesi. Un loro intermediario di fiducia, un certo Diana, finì per ereditare l’ Ufficio del marmo, diventando di fatto l’intermediario delle commesse più rilevanti. In quel periodo, molti blocchi venivano spediti a Genova, lavorati, e, successivamente, spediti in Spagna. In pratica i finanzieri genovesi arrivarono a controllare l’estrazione, la lavorazione ed il commercio.

Durante il XVI secolo il numero delle cave scese da venti a quindici, a causa delle scarse capacità dei maestri di gestire contemporaneamente produzione, vendita e lavorazione, della concorrenza, dello sfruttamento da parte degli Intermediari. Bisogna aggiungere a tutto questo la crescente domanda di marmi colorati e la concorrenza della vicina Versilia, dove il Granduca Cosimo I Medici aveva fatto aprire delle cave sul monte Altissimo, la dove Michelangelo aveva scoperto lo statuario.

Il mercato richiedeva soprattutto manufatti in serie, di lavorazione domestica: mortai e quadrette da pavimento. Le quadrette potevano essere di varie forme, poligonali o curve, e di vari colori, a seconda del disegno che dovevano andare a formare nella messa in opera. Esse venivano staccate da piccoli blocchi con dei cunei, sagomate e spianate a scalpello, levigate per strofinamento a mano con acqua e sabbia. C’erano alcuni commercianti che distribuivano il materiale alle famiglie per la lavorazione, dopodichè ritiravano i prodotti finiti, pagandoli a numero, cedendoli poi ai mercanti genovesi. Tuttavia la produzione non era in grado di dare lavoro a tutto l’apparato che nel frattempo si era creato a Carrara, sia perché alcuni settori erano fermi, sia perché le quadrette non richiedevano l’estrazione di grandi quantità. Di conseguenza molti cavatori abbandonarono i paesi a monte per andare a fare i contadini in pianura, mentre gli artigiani più bravi emigrarono nelle grandi città a lavorare i marmi colorati.

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Durante il settecento, sotto Maria Teresa Cybo Malaspina, moglie di Ercole d’Este, figlio del Duca di Modena, si ebbe una ripresa della produzione, favorita dall’utilizzo del marmo nell’architettura neoclassica. In quel periodo fu iniziata la costruzione di un porto dei marmi ad Avenza. Nel 1769 fu fondata l’Accademia di Belle Arti, la quale ebbe il merito di rilanciare la scultura.

Nel 1751 i nuovi sovrani pubblicarono un editto sulla concessione degli agri marmiferi, con il quale si codificava l’accesso a tali concessioni, evitando di creare contestazioni e liti, favorendo la ricerca e l’espansione di nuove coltivazioni. In seguito alla nuova legislazione, risultarono 440 cave, un numero assai maggiore rispetto al XVI secolo. La gabella dei marmi che era stata appaltata da Alberico I Cybo Malaspina, nel 1778 tornò ad essere gestita dalla camera ducale. Nonostante i miglioramenti apportati, il settore non era ancora stabile da un punto di vista economico, cosa che risultò evidente quando l’Inghilterra rallentò le importazioni a seguito della guerra di indipendenza americana7.

Durante il periodo delle guerre napoleoniche la produzione visse un periodo di paralisi.

La produzione riprese intensamente con la Restaurazione. Contemporaneamente gli aspetti socio-economici della Rivoluzione francese introdussero, da un lato una nuova mentalità imprenditoriale nella borghesia, dall’altro una coscienza di classe da parte dei lavoratori. Il processo industriale si presentò difficoltoso rispetto ad altri settori, a causa della natura stessa dell’attività, che non si presta a fasi di lavorazione programmate. Una spinta al decollo dell’industria carrarese venne da capitali inglesi e francesi, che seguirono le orme dell’ex ufficiale napoleonico Alexandre Henraux, il quale nel 1815 apri a Seravezza in società con un imprenditore locale, nuovi impianti, installando frulloni azionati da una ruota ad acqua per levigare, e telai a più lame, ideati dall’operaio Giuseppe Pertugi, i quali erano appesi ad una trave oscillante e venivano azionati da veloci

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ruote orizzontali ad acqua. Nel 1866 una lastra di spessore di un centimetro fu premiata all’Esposizione di Parigi.

Nel frattempo a Carrara si continuava principalmente ad esportare blocchi grezzi. L’inserimento di imprenditori stranieri (Thomas Robson, Guglielmo Walton, tra gli altri) era favorito dal fatto che gli imprenditori locali non avevano esperienza imprenditoriale di tipo capitalistico e neppure ingenti capitali da investire. Tuttavia l’emulazione portò notevoli vantaggi all’industria lapidea, conducendo ad un aumento della produzione (dalle novemila tonnellate del 1838 alle quarantamila del 1857), e favorendo l’apertura di impianti per la lavorazione, seppur antiquati rispetto agli impianti stranieri, dove la lucidatura avveniva già con delle macchine a vapore mentre a Carrara era ancora fatta a mano8(la

meccanizzazione della produzione si avrà solo nell’ultimo quarto del secolo)9.

Tra il 1861 e il 1914 la produzione passò da quarantatremila tonnellate a centoquarantamila, e contemporaneamente i lavorati da ventimila tonnellate a centoquindicimila. Agli inizi del novecento ci fu un ulteriore progresso nelle segherie, grazie alla distribuzione automatica della miscela acqua e sabbia. L’escavazione avveniva con la tecnica delle mine, specialmente il sistema della “grandi varate”. Questo sistema aveva il difetto, oltre ad essere pericoloso per i lavoratori, di rendere utile solo un terzo del materiale estratto, costituendo una economia di rapina nei confronti del patrimonio naturale. Alla fine dell’ottocento furono introdotti i primi impianti di taglio a filo elicoidale. L’impianto consisteva in un cavo d’acciaio di circa 5 mm di diametro chiuso ad anello, formato dall’avvolgimento a forma elicoidale di tre piccoli cavi d’acciaio, che veniva disteso per mezzo di una serie di pulegge di rinvio montate su tubi di ferro (“poteaux”) sull’intera superficie di cava. Il movimento al filo veniva impresso da un motore elettrico. Il filo passava numerose volte sopra una data sezione,

8 Magenta Carlo, “L’industria dei marmi Apuani”, Carrara, Casa di Edizioni in Carrara, 1871, pag.

105-106

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creando un’incisione. L’incisione non era formata dal filo stesso, ma dalla miscela abrasiva di acqua e sabbia silicea che lo stesso trasportava.

Nel campo dei trasporti la “lizzatura”(sistema di trasporto che consisteva nel calare a valle una grossa slitta, detta “lizza”, su cui erano sistemati dei blocchi, detti “carica”. La slitta era costituita da dei grossi tronchi a forma di sci disposti uno a fianco dell’altro. La slitta veniva fatta poggiare su delle traverse di legno insaponate, dette “parati”. La lizza scendeva sfruttando la gravità, trattenuta da dei cavi, detti “canapi”, legati intorno a dei pali di legno, “piri”. Per la sua discesa potevano essere preparate delle vie massicciate apposite, ma spesso veniva calata direttamente sui ravaneti(discariche di marmo su cui oggi sono costruite le vie di arroccamento)10. Durante la discesa, i “lizzatori” tolgono le

traverse dietro e le spostano davanti. Tutta l’operazione viene diretta dal “capo-lizza”, il quale con precisi segnali della voce segnala agli uomini addetti ai “canapi” il giusto grado di avanzamento) fu progressivamente sostituita dalla ferrovia marmifera e dalle teleferiche. La crescente richiesta del mercato interno, collegata alla crescente espansione edilizia, riuscì ad evitare crolli della produzione legati alla guerra di secessione americana e ai dazi all’importazione degli altri mercati (Inghilterra, Francia, Belgio)11. Nonostante l’apertura del

canale di Suez, i rapporti commerciali con i mercati orientali (Cina, India, Australia) non erano molto sviluppati, dato che il marmo di Carrara arrivava in quei paesi direttamente dalla Francia, dall’ Inghilterra, dal Belgio e dall’Olanda già lavorato, con un notevole aumento dei costi12.

Nel 1909 un consorzio di sedici industriali controllava più della metà degli impianti di estrazione, lavorazione e trasporto, mentre gli altri erano divisi tra piccoli imprenditori e ditte familiari, che non erano in grado di gestire tutte le fasi

10 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

1991, pag. 33

11Mannoni Luciana e Tiziano, “Il marmo, materia e cultura”, Genova, Sagep editrice, 1984, pag. 111 e

pag. 237-241

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della produzione, per cui finivano per appoggiarsi alle ditte più grosse. Inoltre, le cave meno redditizie venivano affittate dalle imprese più grandi, le quali si facevano pagare il canone di affitto con un settimo della produzione, ma spesso andava a finire che il piccolo imprenditore non avendo una propria organizzazione di vendita finivano per cedere l’intera produzione all’affittante. I piccoli imprenditori erano anche i più esposti alle variazioni del mercato e non avevano una reale indipendenza economica. Nel periodo subito successivo all’ unità d’Italia i lavoratori dipendenti erano circa cinquemila, numero che alla fine del secolo era raddoppiato. L’aumento era dovuto, in parte all’aumento demografico, in parte al fatto che segherie, laboratori e magazzini si andavano estendendo sui terreni agricoli. Questo fatto portò ad una crisi dell’agricoltura locale.

Durante la prima guerra mondiale la produzione crollò, per riprendere alla sua fine toccando le trecentoquarantamila tonnellate nel 1926. Tre quarti della produzione erano destinati all’estero, per cui gli stranieri non trovarono più convenienti i marmi nel momento in cui ci fu la rivalutazione della lira. Gli industriali tentarono allora di reagire costituendo un consorzio che effettuasse un censimento delle giacenze ed applicasse un marchio di produzione controllata. Tale misura non ebbe effetto, ed in concomitanza con la crisi internazionale la produzione si dimezzò. Un ulteriore danno alle esportazioni fu arrecato dalle sanzioni economiche applicate all’Italia fascista a seguito della guerra di Etiopia. La dittatura cercò di compensare imponendo l’utilizzo del marmo nell’edilizia nazionale, essendo un materiale autarchico, ed utilizzandolo nella architettura monumentale che celebrava i suoi fasti. Inoltre vennero impiegati gli scarti della lavorazione nelle industrie chimiche nazionali per diminuire le crescenti discariche.

La seconda guerra mondiale, oltre al calo della produzione, toccò direttamente Carrara e le sue cave tra il 1944 e il 1945, essendo collocate lungo la linea gotica. Finita la guerra la ripresa dell’attività fu costante, fino a raggiungere le cinquecentomila tonnellate negli anni sessanta. Contemporaneamente sono

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migliorate le vie di accesso, che hanno permesso l’arrivo in cava di macchine semoventi, sia per l’escavazione che per il trasporto. Carrara oggi non è più solo un centro di esportazione del marmo, ma un centro dove si lavorano pietre provenienti da ogni parte del mondo per poi essere commercializzate, dove si producono macchinari e attrezzature per la lavorazione industriale, dove si esportano tecnici specializzati ed esperienze13.

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CAPITOLO II

IL CICLO DI PRODUZIONE14

2.1 PREMESSA

Nel settore lapideo è possibile individuare un ciclo di produzione attraverso il quale si svolgono le molteplici attività che partono dall’individuazione della risorsa primaria per giungere fino al suo impiego come prodotto finale. Il ciclo può essere così schematizzato:

Escavazione

Trasformazione

Commercio

A livello mondiale non tutte le fasi del ciclo sono sviluppate alla stessa maniera; infatti esistono paesi che vedono al loro interno un maggior sviluppo della fase dell’escavazione (alcuni paesi sono solo ed esclusivamente produttori di grezzo, che esportano), altri della fase della trasformazione, altri ancora della fase del commercio (alcuni paesi sono solo ed esclusivamente mercati di consumo). Le singole aziende che coprono tutto il ciclo per intero sono rare nell’intero ambito mondiale, e generalmente sono più facilmente rintracciabili nei paesi dove l’attività non ha raggiunto uno stadio di sviluppo avanzato; di solito le aziende coprono solo una parte del ciclo, se non una singola fase, o addirittura solo un

14 Per un approfondimento sul tema dell’analisi strategica nel sistema della produzione vedi:

Bianchi Martini Silvio, “Introduzione all’analisi strategica dell’azienda”, Torino, G. Giappichelli editore, 2009, pag. 73-103

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parte di essa (ad esempio la segagione)15. Nel Comune di Carrara sono presenti

molte aziende di piccole dimensioni che coprono singole fasi, ma nel complesso riescono a coprire tutto il ciclo di produzione. Passerò adesso ad approfondire le tre fasi sopraccitate.

2.2 L’ESCAVAZIONE

Nel linguaggio comune, con il termine cava si identifica uno scavo a cielo aperto che ha come scopo l’estrazione di rocce e minerali.

Prima di aprire una cava è necessario effettuare una serie di ricerche per valutare la convenienza alla sua apertura. La prima fase consiste in alcune esplorazioni preliminari, che consistono in carotaggi, fori di assaggio, aperture di gallerie sperimentali. Nei casi di maggior fiducia sui possibili risultati della ricerca, è possibile giungere ad una escavazione sperimentale per ottenere qualche blocco. Successivamente si passerà ad una valutazione di tipo economico, che prevede la valutazione commerciale del blocco grezzo, della cubatura disponibile, della adeguatezza degli accessi alla cava, delle macchine e attrezzature necessarie, della distanza da segherie e laboratori. Bisogna infine tenere conto delle caratteristiche della roccia, servendosi di attenti studi minerari. In particolare bisogna tenere conto delle fratture naturali (dette “peli”) del monte, dell’andamento delle stratificazioni, delle caratteristiche estetiche che può assumere la roccia in base al verso dei tagli. Tutto questo lavoro è finalizzato alla ricerca della garanzia che il valore del materiale escavato coincida con quello di recupero, che i blocchi siano interamente sani, ed infine che ne siano messe in risalto le caratteristiche qualitative16.

Quando un giacimento risulta idoneo allo sfruttamento e si giunge alla decisione di aprire una cava, si rende necessaria una corretta pianificazione e programmazione delle attività; lo strumento tecnico operativo che contiene tutti gli elementi di programmazione per tutte le attività di una cava, sia in caso di

15 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 20-21

16Santoprete Giancarlo, “L’industria lapidea – tecnologia, produzione ed ambiente”, Torino, G.

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primo allestimento per una cava nuova che di aggiornamento per una cava già in esercizio, è il piano di coltivazione. In Italia la redazione del piano di coltivazione è un obbligo di legge; inoltre deve essere periodicamente aggiornato in funzione delle modifiche apportate alla cava e delle previsioni per l’attività futura, e rappresenta lo strumento di riferimento per la direzione dei lavori. La sua elaborazione è piuttosto complessa, poiché esso deve affrontare in maniera esauriente i molteplici aspetti con cui l’attività si trova ad interagire (ambientali, idrogeologici, urbanistici, ecc.). Nella redazione è necessario avvalersi di una base topografica tradizionale molto dettagliata, in scala 1:1000 o 1:500, tramite la quale si possono redigere gli elaborati richiesti; quando è possibile, è meglio utilizzare la cartografia digitale, che permette simulazioni tridimensionali, e la possibilità di vedere una cava e la sua evoluzione in un modo non altrimenti ottenibile (utile soprattutto nelle zone a rapido mutamento morfologico, per le quali la cartografia tradizionale è spesso inadeguata, rendendo di conseguenza inadeguate le elaborazioni grafiche basate su di essa).

Il primo passo nella redazione consiste nel dimensionamento della cava, in funzione della produzione richiesta e del periodo di coltivazione da programmare, cioè bisogna sapere a quanto ammonta la produzione prevista in modo da riferire ad essa tutti i calcoli concernenti i volumi da asportare, la metodologia e la tecnologia scelte per escavare, la mano d’opera, i materiali di consumo, gli utensili, ecc.. La produttività delle cave è molto variabile e può spaziare dalle poche decine di metri cubi al mese alle varie migliaia di metri cubi. Dopo una necessaria introduzione alle caratteristiche generali (ubicazione, riferimenti catastali, inquadramento socio-economico, ecc.) e geografico-geologiche del sito (morfologia, ambiente, vegetazione, idrogeologia, ecc.), deve essere operata una dettagliata illustrazione degli aspetti minerari del deposito; questi, unitamente alla situazione logistica, indicheranno, nel caso di cave di nuova apertura, la miglior ubicazione della futura zona di escavazione; sulle basi topografiche si riporteranno le strade principali di accesso con indicazione delle pendenze da superare, e le strade di arroccamento con relativo sviluppo. Nel caso

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di cave già in esercizio si parte da una situazione conoscitiva più dettagliata, anche se, comunque, non muta lo scopo principale del piano, dove devono essere indicate le zone soggette ad escavazione e la configurazione cui si intende pervenire con precise indicazioni volumetriche, planimetriche ed altimetriche per ogni anno di attività.

Oltre agli accessi, verrà riportata l’ubicazione delle infrastrutture fisse (officina, servizi, ricovero macchinari, opere civili, ecc.) e di quelle semi-fisse, come il sistema di distribuzione dell’acqua, di adduzione dell’energia elettrica, l’eventuale gru derrick, ecc.; il posizionamento di questi elementi è condizionato dallo svolgimento delle attività nel tempo, rendendo transitorie le indicazioni riportate nel piano.

La programmazione viene generalmente estesa ad un periodo di tre-cinque anni; più è lungo e minori sarà l’attendibilità delle previsioni, a causa delle variazioni nelle condizioni di lavoro che in una cava si presentano sistematicamente. Per questo periodo deve essere fornita la cubatura totale che si intende di estrarre, dovranno essere specificate e circoscritte le varietà commerciali, con indicazione del volume disponibile per ciascuna di esse, ed il tipo ed il volume di copertura sterile eventualmente presente. E’ necessario stimare la percentuale di resa al monte, cioè il rapporto tra il materiale commerciabile e quello totale abbattuto, ed il volume ottenibile dei blocchi.

Il piano illustrerà poi la metodologia di coltivazione e i macchinari utilizzati in essa (per i quali verranno fornite, in una apposita relazione dettagliata, le caratteristiche e modalità d’impiego, insieme ad una lista completa del personale addetto); la metodologia evidenzierà, attraverso piante e sezioni opportune, il modo di asportare i volumi nel tempo, specificando come e dove impostare le bancate; devono essere indicati il numero, le dimensioni e gli orientamenti dei fronti in lavorazione ed i tempi stimati per le varie operazioni.

La stima tra il materiale squadrato e il volume abbattuto permetterà di quantificare lo scarto e, quindi, di pianificare opportunamente l’area per la discarica. In queste elaborazioni risulta prezioso l’impiego delle cartografia

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digitale, che permette di simulare sequenze di avanzamento diverse, in modo da individuare, fase per fase, la migliore combinazione dei parametri in gioco. La proiezione dell’assetto di una cava su cartografia digitale può, ad esempio, fornire informazioni riguardo allo stato di stress dei pilastri in una escavazione in galleria, ecc..

Infine, il piano di coltivazione dovrà prevedere le modalità di ripristino ambientale e di bonifica delle aree di volta in volta non più interessate dall’escavazione o utilizzate per le discariche del materiale improduttivo17.

Metodi e tecniche di coltivazione

L’attività delle cave rientra tra quelle che utilizzano risorse naturali, per cui l’insieme delle operazioni che permettono di prelevare materiale dal giacimento in condizioni di economicità e sicurezza per le maestranze e l’ambiente, vengono definite coltivazione18.

Nei bacini marmiferi di Carrara esistono varie tecniche di coltivazione, che si adattano alle caratteristiche morfologiche e geologiche delle varie cave. Il metodo seguito in una cava può variare nel tempo in funzione della convenienza, o per sopperire alla mancanza di spazio19. Esistono anche casi di cave che

combinano al loro interno metodi differenti tra loro.

I vari tipi di coltivazione che si possono osservare nel comune di Carrara sono i seguenti:

• a cielo aperto: rappresenta la tipologia di cava più frequente. Esse appaiono aperte sui fianchi dei monti, assumono spesso forma ad anfiteatro, con l’estrazione operata su uno o più gradini, che arretrano col procedere del lavoro di scavo, con i fronti di coltivazione posti a quota superiore rispetto al cosiddetto piazzale di cava (spiazzo sul quale vengono rovesciati i blocchi appena estratti e dove vengono riquadrati

17 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 138-140

18 Santoprete Giancarlo, “L’industria lapidea – tecnologia, produzione ed ambiente”, Torino, G.

Giappichelli editore, 1992, pag. 37

19 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

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prima di essere avviati al luogo di lavorazione20). Questo metodo viene

utilizzato quando il giacimento utile è in superficie oppure è ricoperto da una sottile copertura facilmente asportabile;

• in sotterraneo: Tale metodo, comunemente detto in galleria, consiste nel condurre l’escavazione all’interno della massa rocciosa, senza alcun contatto con l’ambiente esterno. Dietro alla decisione di intraprendere questo tipo di lavorazione, possono esserci varie motivazioni, ad esempio, per seguire la direzionalità del corpo produttivo, per evitare la realizzazione di costose strade di arroccamento, per la presenza all’esterno di zone a grossa fratturazione, oppure per rendersi indipendenti dal clima, specialmente nelle zone piovose21. La lavorazione inizia scavando una

prima galleria di accesso a partire da un piazzale sufficientemente grande ad accogliere i macchinari necessari per l’operazione; se lo spiazzo non esiste viene realizzato appositamente. Dopo aver preso la decisione di adottare questo metodo, si studierà il metodo di avanzamento del cantiere estrattivo. Il metodo più frequente è quello a grandi camere con pilastri abbandonati. Dopo aver aperto la galleria di accesso, i lavori di scavo proseguono con lo scopo di ottenere un’ampia camera che servirà per il movimento delle macchine operatrici, lasciando sul posto dei sostegni rettangolari (pilastri) a sostegno del tetto. In alcuni casi è necessario procedere ad opere di consolidamento del tetto, come chiodature e bullonature. Risulta essere fondamentale il lavoro del perito minerario e del geologo, che è insostituibile per redigere un piano di coltivazione che preveda una opportuna configurazione nello sviluppo delle camere22. Tutto

questo è finalizzato ad uno sviluppo razionale del sotterraneo. Prima di cominciare lo sviluppo di un sotterraneo occorre fare delle valutazioni di convenienza, ossia bisogna considerare il materiale che ricopre la roccia

20 Pinna Sergio, “Il comprensorio apuano del marmo”,Roma, Società Geografica Italiana, 1999, pag. 39

21 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 157-159 22 Pandolfi Domenico e Orlando, “La cava”, Carrara, 1989, pag. 347

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utile. Sarà necessario quindi tenere conto dei costi necessari per asportare tale materiale di ricoprimento, in rapporto alla quantità e alla qualità del materiale da estrarre. I cantieri sotterranei presentano problemi di luce e di ricambio dell’aria che vengono risolti con particolari impianti di illuminazione e di aerazione23;

• in sottotecchia: questo metodo consiste nella realizzazione di uno scavo ampio e profondo per l’estrazione di bancate di marmo, che va oltre il piano verticale del fronte di cava (tecchia nel dialetto locale viene chiamata ogni parete di roccia, e, per analogia, viene chiamato così anche il fronte di cava24). Il metodo permette di avere una superficie di

abbattimento superiore a quella disponibile a cielo aperto (è possibile procedere anche per 50-60 metri oltre la verticale25), pur senza avere i

problemi di ventilazione ed illuminazione della coltivazione in sotterraneo. Per attuare questo metodo è necessario che i materiali oggetto di scavo e quelli del tetto presentino sufficienti garanzie di stabilità per garantire la sicurezza dei lavoratori. Prima di programmare l’apertura di un sottotecchia è necessario effettuare una ricognizione dell’area soprastante (l’operazione viene condotta da alcuni operai specializzati, detti tecchiaioli26).

Infine esiste un altro metodo di coltivazione, meno frequente nella zona, che è il cosiddetto metodo a pozzo, che si adotta quando non è possibile estendere lateralmente l’escavazione, per cui si procede in verticale dall’alto verso il basso.

Ciclo di produzione

Il ciclo di produzione di una cava consiste fondamentalmente nelle operazioni di taglio al monte di grosse bancate, ribaltamento delle stesse sul piazzale di cava e successiva riquadratura delle stesse a dimensioni commerciali.

23Pinna Sergio, “Il comprensorio apuano del marmo”,Roma, Società Geografica Italiana, 1999, pag. 41 24Mannoni Luciana e Tiziano, “Il marmo, materia e cultura”, Genova, Sagep editrice, 1984, pag. 86

25 Pandolfi Domenico e Orlando, “La cava”, Carrara, 1989, pag. 343

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Sino alla prima metà del secolo scorso l’abbattimento di ingenti volumi di marmo avveniva tramite l’impiego di esplosivo. Questo sistema fu accantonato perché produceva rendimenti bassi ed enormi danni ai giacimenti.

La prima fase del ciclo di produzione è il taglio al monte, che consiste nell’ isolare una grossa porzione di roccia a forma di parallelepipedo (bancata) dal giacimento, di dimensioni proporzionali ai blocchi che si vogliono ottenere ed in funzione delle caratteristiche del materiale (venature, difetti). Il macchinario maggiormente utilizzato in questa fase è la tagliatrice a filo diamantato. Questo macchinario, evoluzione concettuale del filo elicoidale, introdotto sulle Apuane alla fine degli anni 70, consiste in un carrello semovente su cui è installato un motore elettrico connesso lateralmente ad una puleggia (ruota girevole attorno ad un asse, utilizzata per trasmettere un moto rotatorio tramite cinghie, funi e catene). Il carrello è montato su un binario, ed è collegato tramite un cavo ad una centralina di comando separata dalla struttura. Il taglio, avviene grazie al movimento che il motore imprime alla puleggia, la quale a sua volta imprime movimento al filo, che lo compie attraverso l’abrasione diretta dei diamanti inseriti nelle perline27. Queste ultime sono degli anelli diamantati di 6-7 mm, che

uniti tra di loro, con l’inserimento di una molla tra uno e l’altro, formano il filo. Durante l’esecuzione del taglio la macchina retrocede scorrendo sui binari, ed è inoltre necessario impiegare acqua in funzione di raffreddamento e per permettere l’evacuazione dei residui di marmo. La tagliatrice può eseguire sia tagli verticali che orizzontali. Prima di eseguire il taglio è necessario effettuare dei fori di grosso diametro, intersecanti tra di loro, con delle perforanti a rotazione, che servono a preparare l’alloggio del circuito di filo diamantato che poi verrà chiuso ad anello intorno alla puleggia. Il filo diamantato viene valutato sulla base di due parametri, la produttività, espressa in metri quadri prodotti per

27Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

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ora, e la durata o vita utile, espressa dal numero di metri quadri tagliati per metro lineare di filo28.

Un’altra macchina utilizzata per il taglio al monte è la tagliatrice a catena. Essa consiste in un blocco motore che ha la possibilità di spostarsi su un binario, a cui è collegato braccio di oltre tre metri, su cui scorre un nastro fornito di utensili diamantati29. Il taglio si consegue facendo penetrare e traslare il braccio nella

roccia secondo un piano prescelto; la catena scorrendo permette agli utensili di abradere la roccia. La macchina può eseguire tagli in tutte le direzioni. Durante l’operazione di taglio è necessaria la presenza di acqua per il raffreddamento, e per allontanare i detriti prodotti. La macchina, il cui impiego ottimale si ha quando la roccia è poco fratturata, consente dei valori di produzione elevati. E’ indispensabile nelle aperture dei sotterranei30.

Terminato il distacco della bancata dal monte, si passa alla fase successiva, cioè il suo ribaltamento sul piazzale di cava.

Prima di procedere al ribaltamento sarà necessario preparare sul piazzale il cosiddetto letto, costituito da un cumulo di detriti e fanghiglia, il cui compito è quello di ammortizzare la caduta della bancata per limitarne le rotture31.

Successivamente si passa al ribaltamento vero e proprio, per il quale possono essere impiegate diverse attrezzature. Una di queste è il martinetto oleodinamico. Il martinetto è composto da un cilindro d’acciaio al cui interno scorre un pistone che viene azionato da una centralina oleodinamica, azionata a sua volta da un compressore. E’ capace di esercitare una spinta di alcune centinaia di tonnellate. Un’altra attrezzatura utilizzata per il ribaltamento è il cuscino idraulico. Il cuscino è formato da due lamierini affiancati, di all’incirca un metro per un metro, saldati a pressione sui bordi, ha uno spessore di all’incirca 5 mm , e un peso di circa 8 kg. Il suo utilizzo consiste nell’essere posizionato all’interno del

28 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 164 29 Pandolfi Domenico e Orlando, “La cava”, Carrara, 1989, pag. 387

30 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 169-172

31 Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

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taglio prodotto con il filo diamantato o la tagliatrice a catena, quindi viene gonfiato introducendo forzatamente al suo interno acqua a 30 atm. Il cuscino viene generalmente utilizzato per una sola volta, a causa o dello scoppio o della eccessiva deformazione a seguito della pressione a cui è sottoposto32.

Un’altra tecnica di ribaltamento consiste nel tirare la bancata con un cavo d’acciaio collegato ad una pala meccanica.

L’ultima fase della escavazione, la riquadratura, consiste nel ritagliare la bancata in blocchi di dimensioni commerciali. Il dimensionamento dei blocchi è un’operazione di grande importanza in quanto definisce il valore del marmo escavato. Infatti se i blocchi sono mal dimensionati rischiano di essere difficili da vendere o di essere di valore inferiore; nei blocchi di forma irregolare, le parti eccedenti alla forma del parallelepipedo non sono utilizzabili, pertanto in sede di compravendita dovrà essere riconosciuto all’ acquirente un abbuono relativamente ad esse33. In genere la dimensione scelta è quella dei telai utilizzati

per la segagione in lastre, poiché i blocchi sottodimensionati portano ad un consumo irregolare delle lame. La riquadratura avviene utilizzando tagliatrici a filo diamantato.

Ultimata la riquadratura i blocchi vengono trasportati alle segherie su camion. I camion vengono caricati per mezzo di pale meccaniche o di gru “derrick”(quest’ultime diffuse soprattutto nelle cave a pozzo). Le pale meccaniche sono anche fondamentali per lo spostamento di attrezzature e macchinari all’interno della cava.

Tipi di marmo

Nei bacini carraresi vengono estratte ben sette varietà principali di marmo, le quali poi a loro volta si suddividono in varie altre qualità, che si differenziano per piccole variazioni cromatiche. Le principali varietà sono: il Bianco, lo Statuario, il Venato, l’Arabescato, il Calacata, il Bardiglio ed il Cipollino Zebrino.

32Pandolfi Domenico e Orlando, “La cava”, Carrara, 1989, pag. 391

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Il Bianco è caratterizzato dal fondo bianco-perlaceo su cui sono presenti solo piccole macchie o venature. Lo Statuario è il materiale più pregiato, molto utilizzato nella scultura per la sua colorazione bianco avorio e la sua particolare tessitura cristallina che ben si adatta al lavoro dello scalpello. Si tratta di un materiale molto raro. Il Venato ha la caratteristica di presentare delle venature di colore grigio. Anche l’Arabescato presenta venature grigie, che però in questo caso vanno a formare una trama, una specie di arabesco. Il Calacata presenta invece venature giallo-crema su un fondo bianco o color avorio. Il Bardiglio ha come caratteristica il colore grigio. Il Cipollino prende il nome dalle particolari striature di colore grigio verdastro che ricordano la struttura interna di una cipolla. I tipi più pregiati di questo marmo provengono da altre zone delle Apuane34.

2.3 LA TRASFORMAZIONE

Con il termine trasformazione si intende l’insieme di operazioni da eseguire sui prodotti di cava per ottenere semilavorati e lavorati da destinare all’impiego definitivo. Tali operazioni sono principalmente di due tipi:

• trattamenti sul volume, che consistono nella segagione di blocchi regolari ed informi e nella loro riduzione ad elementi di dimensioni minori;

• trattamenti sulla superficie, che consistono nella lavorazione delle superfici lapidee allo scopo di conferire loro un particolare aspetto estetico35.

Nel comune di Carrara, e anche nel resto dell’area apuana, l’esperienza nel settore degli operatori ha reso possibile la lavorazione, oltre a quella dei materiali locali, anche di materiali d’importazione, primo tra tutti il granito36.

Struttura di un impianto

34Bradley Frederick, “Guida alle Cave di Carrara”, Carrara, Internazionale Marmi e Macchine Carrara,

1991, pag. 47 e pag. 54-59

35 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 225

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A partire dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale, la lavorazione del lapideo si è trasformata da artigianato tipico ad industria vera e propria. Il settore, tuttavia, digerisce male la standardizzazione, per cui presenta particolari esigenze, come l’ organizzazione in unità produttive di non grandi dimensioni e, la massima flessibilità di impianti e macchinari37.

Gli impianti possono essere suddivisi, sulla base delle dimensioni e del tipo di produzione svolta, in questo modo38:

• grandi laboratori, intendendosi con tale termine quei complessi dove viene effettuato l’intero ciclo di trasformazione dal blocco al prodotto finito, comprendendo la segagione, il trattamento delle superfici, il ritaglio a misura, le lavorazioni speciali;

• laboratori medio-piccoli, nei quali, o vengono svolte solo alcune fasi della lavorazione (tipico esempio le segherie, nelle quali, a volte, a fronte di un elevato numero di macchinari viene svolta solamente la segagione), oppure viene svolta solo una parte di lavori di grosse dimensioni;

• laboratori artistici, dove si producono oggetti decorativi ed architettonici come sculture, intarsi, ecc.39.

La localizzazione di tali impianti40 viene condizionata da vari elementi,che sono: • i costi di trasporto, sia delle materie prime e sussidiarie necessarie per la

produzione che quello dei prodotti finiti ai clienti; nel costo di trasporto bisogna considerare anche quello derivante da eventuali rotture, danni, ecc. subiti dai prodotti durante il trasporto;

• la vicinanza di scali ferroviari e marittimi o di importanti arterie stradali che consentano di realizzare rapidamente ed economicamente il trasporto dei prodotti sui mercati di collocamento;

37Aa. Vv, “Il Marmo nel Mondo”, Massa, Società Editrice Apuana, 1994, pag. 175

38 Per un approfondimento sul tema della dimensione aziendale vedi:

Poddighe Francesco, “L’azienda nella fase istituzionale”, Pisa, Edizioni plus, 2001, pag. 27-45

39 Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 228-229

40 Per un approfondimento sul tema della logistica aziendale vedi:

Giannini Marco, “Dispense di organizzazione delle aziende industriali”, Pisa, Edizioni il Borghetto, 2001, pag. 347-391

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• la disponibilità ed il costo delle aree necessarie per il deposito dei blocchi (i piazzali), per i vari capannoni industriali, per le aree di deposito dei detriti e di spurgo dei residui di lavorazione, nonché le possibilità di espandersi per successivi ampliamenti41.

Generalmente l’impianto viene suddiviso in varie aree, che sono:

• area di stoccaggio delle materie prime, cioè dei blocchi. L’area solitamente è all’aperto, in quanto lo stoccaggio dei blocchi all’aperto non crea alcun problema. I blocchi vengono generalmente stoccati in file sovrapposte. L’area normalmente viene servita da una o più gru su binari;

• area di stoccaggio dei semilavorati, cioè lastre, masselli,spessori ecc.. E’ la zona dove i semilavorati ottenuti dalla segagione vengono temporaneamente depositati, in attesa di essere trasferiti ad un’altra lavorazione o di essere venduti. La zona può essere aperta o coperta. Le lastre e gli spessori sono normalmente appoggiati uno sull’altro su appositi cavalletti, mentre i masselli e gli altri semilavorati vengono messi uno sull’altro;

• area di deposito dei prodotti finiti. In quest’area vengono depositati i manufatti confezionati ed imballati. Preferibilmente è chiusa o comunque coperta, in modo da proteggere al meglio i prodotti dalle intemperie;

• area degli impianti ausiliari (aria compressa, energia elettrica, impianto depurazione acque, ecc.);

• area di raccolta materie di risulta (sfridi di lavorazione, fanghi). I materiali di scarto vengono generalmente raccolti in un’area apposita da cui possono essere movimentati ed eventualmente trasportati in altro luogo;

• area di installazione macchinari di trasformazione e movimentazione. E’ l’area, generalmente interamente coperta e chiusa, in cui si trovano le macchine per la produzione dei semilavorati e dei prodotti finiti. La

41 Milone Mario, “L’economia delle imprese marmifere”, Bari, Dott. Francesco Cacucci editore, 1973,

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movimentazione all’interno avviene per mezzo di gru a ponte, ventose, muletti, ecc.;

• area destinata alla viabilità. Corrisponde ai piazzali e alle vie di accesso e movimento, sia per i piccoli trasferimenti interni che per lo stazionamento dei camion per il caricamento e lo scaricamento dei materiali;

• area comprendente gli uffici. E’ buona norma che quest’area sia distante ed isolata dai reparti di lavorazione per ridurre l’effetto dei rumori e delle polveri42.

La distribuzione dei reparti, delle macchine, dei depositi, ecc., deve essere, in ogni azienda, mirato su dei criteri di razionalità tecnica ed economica, perché è evidente che una razionale disposizione delle costruzioni, nella dislocazione delle macchine, nella utilizzazione delle aree, ecc., comportano un miglior funzionamento dello stabilimento, e in definitiva, un suo maggior rendimento economico. La soluzione al problema della dislocazione interna, che gli inglesi chiamano lay-out, è influenzata dalla impostazione produttiva dello stabilimento, cioè dal tipo di lavorati o semilavorati che si vuole ottenere, dalle caratteristiche del materiale oggetto della lavorazione e dalle particolarità della stessa lavorazione (che possono individuarsi in: notevole peso della materia allo stato grezzo, fragilità allo stato di segato, nella necessità di disporre di scorte di blocchi e di segati di numerose varietà, nella rilevante quantità di scarti, polvere e fanghiglia). In base a quanto detto sopra, prima di predisporre la dislocazione è consigliabile studiare il ciclo di lavorazione, prendendo in considerazione i dati relativi ai volumi di materiali da lavorare, ai percorsi ottimali per il raggiungimento dei vari reparti, i tempi di produzione e di sosta delle materie prime, dei semilavorati e via di seguito. Una disposizione interna realizzata solo sulla base di conoscenze sommarie può generare costi e sprechi rilevanti ed abituali, che vengono ignorati per mancanza di indagini relative ai percorsi dei mezzi di trasporto, ai trasferimenti dei materiali, alla razionale dislocazione di

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uomini e macchine; al contrario, una volta acquisite le necessarie conoscenze, la soluzione del problema darà come risultato una razionale distribuzione dei reparti di lavorazione in maniera tale da ridurre al minimo i trasporti interni, per i quali dovranno essere scelti i mezzi meccanici più adeguati, in modo da ridurre al minimo i tempi e il personale necessario per il servizio; inoltre una razionale disposizione delle macchine ridurrà al minimo i tempi morti per il passaggio tra le varie unità dei materiali da lavorare, i quali dovranno pervenire alle varie unità con tempestività ed ordine, in maniera che il ciclo si svolga secondo i tempi programmati, senza soste improduttive, ritardi, ecc.. Tale studio risulta più agevole per un laboratorio nuovo da realizzare che non per un laboratorio esistente nel quale si vuole migliorare il rendimento economico. In quest’ultimo caso, spesso ci si trova di fronte ad una soluzione non del tutto soddisfacente sotto il profilo tecnico ed economico, per via di certi elementi (area ristretta e senza possibilità di espansione, necessità di utilizzare le costruzioni esistenti per ragioni finanziarie che non ne consentono l’abbattimento e ricostruzione, ecc.) che limitano la scelta di soluzioni ottimali ed impongono la permanenza di soluzioni scelte in precedenza che non corrispondono più alle necessità attuali dell’azienda43.

Cicli di produzione44

I principali cicli produttivi che vengono realizzati negli stabilimenti di trasformazione sono i seguenti:

• produzione di lastre di grandi dimensioni: l’obiettivo di questo ciclo è quello di trasformare il blocco in semilavorati di grandi dimensioni, le lastre grezze (caratteristica della lastra è quella di avere una dimensione, lo spessore, generalmente di 2 o 3 centimetri, notevolmente inferiore alle altre due, la lunghezza, che solitamente varia tra i 2,50 e i 3,50 metri, e la larghezza, che varia di solito tra i 1,30 e 2 metri). Dalle lastre si possono

43 Milone Mario, “L’economia delle imprese marmifere”, Bari, Dott. Francesco Cacucci editore, 1973,

pag. 178-181

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ottenere prodotti finiti di dimensioni inferiori. Il ciclo comincia con la riquadratura dei blocchi, quando necessaria, e prosegue con la segagione. Terminata la segagione le lastre possono essere trasferite ad un altro reparto oppure stoccate per la vendita. Qualora le lastre siano utilizzate per prodotti di dimensioni inferiori, il ciclo prevede che subiscano un trattamento di superficie (levigatura, lucidatura, bocciardatura), che successivamente siano tagliate a misura, ed infine siano sottoposte ad eventuali finiture aggiuntive ( lavorazioni sulle coste, foratura, profilatura dei bordi). Questo ciclo viene utilizzato sia per prodotti di tipologia ripetitiva, generalmente di forma rettangolare, utilizzati per rivestimenti, pavimenti, ecc., sia per elementi a casellario, cioè prodotti di dimensioni, forma e trattamenti superficiali particolari che corrispondono a precisi disegni realizzati da un progettista;

• produzione di manufatti standard: questo ciclo permette di ottenere un prodotto finito, le cosiddette marmette, con misure standardizzate, che prescindono dal luogo dove saranno installate, e vengono confezionate già pronte per la posa in opera. La linea di produzione è costituita da una serie di macchine (tagliablocchi, scoppiatrice, attestatrice, trattamento superficiale, bisellatrice) in continuità fisica tra di loro;

• lavorazioni speciali: sono quelle necessarie per ottenere prodotti a destinazione ed utilizzo speciale, con particolari finalità architettoniche, artistiche, arredative e monumentali. Per ottenere tali prodotti si utilizzano attrezzature particolari o allestimenti specifici delle stesse. Questi prodotti hanno la caratteristica di essere ad alto valore aggiunto, in conseguenza della funzione che andranno a svolgere. Tipici esempi sono colonne, pietre tombali, fontane, panchine, ecc..

Nei vari cicli di produzione descritti in precedenza sono impiegati vari macchinari, che a seconda dei loro compiti possono essere suddivisi in:

• macchine per la riquadratura e segagione dei blocchi. La riquadratura è la fase che precede la segagione, ed ha lo scopo di rendere i blocchi di forma

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quanto più regolare possibile, attraverso l’eliminazione di sporgenze e rientranze, per ottimizzare le operazioni di taglio successive. Gli impianti utilizzati sono il monolama oppure il monofilo. Il monolama consiste in una struttura metallica che fa da guida ad una lama dotata di concrezioni diamantate nella parte inferiore, che con un movimento di andirivieni incide il blocco procedendo verso il basso. Il monofilo è un impianto costituito da una struttura aperta sulla quale viene posizionato il blocco che viene tagliato da un filo diamantato teso tra due pulegge. Entrambe le macchine richiedono l’irrorazione di acqua durante le operazioni di taglio. Il macchinario più diffuso per la segagione in lastre è il telaio multilama. Il telaio è costituito da una grossa armatura al cui interno scorre un insieme di lame, opportunamente distanziate e tensionate, che con un movimento di andirivieni e una velocità di discesa programmata penetrano nel blocco. L’abrasione viene realizzata, nel granito dall’azione combinata delle lame d’acciaio e di una torbida abrasiva, composta acqua, calce e graniglia di ghisa, mentre nel marmo le lame presentano dei segmenti diamantati che abradono direttamente la roccia. Nel ciclo di produzione di manufatti standardizzati, la macchina utilizzata per la segagione è la tagliablocchi. Questa macchina permette di tagliare con profitto blocchi difettosi, irregolari e sottomisura. Il taglio avviene grazie all’azione di dischi diamantati verticali (a volte anche uno solo) in unione ad un disco orizzontale di diametro inferiore. I dischi orizzontali suddividono il blocco in tante striscie, dette filagne (semilavorato lastriforme caratterizzato da una lunghezza molto maggiore rispetto alla larghezza. Lo spessore di solito è analogo a quello delle lastre). Il disco orizzontale provvede successivamente a tagliare alla base le filagne. Il diametro dei dischi viene scelto sulla base delle misure del prodotto finito. La filagna è il semilavorato di base su cui saranno operate, tramite una linea automatica e continua di macchinari, tutte le trasformazioni per ottenere il prodotto finito, pronto per la posa in opera. Questa macchina ha riscosso notevole

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successo nei piccoli laboratori, per il basso costo, la facilità d’installazione e la possibilità di lavorare blocchi di piccole dimensioni45;

• macchine per tagli e rifilature: queste macchine sono utilizzate per tagliare le lastre secondo le misure richieste. Il taglio avviene mediante l’uso di dischi diamantati. Esistono vari tipi di macchina per eseguire tale operazione. Una di queste è la fresa a ponte, che è costituita da una trave in acciaio che scorre su appositi binari e sulla quale è collocato il gruppo motore ed il relativo mandrino (sostegno) con il disco diamantato. I movimenti del ponte e del gruppo motore consentono di effettuare tagli nelle diverse direzioni. L’elevata flessibilità di questa macchina permette di effettuare sia produzioni in serie che lavori artistici46. Un’altra è la fresa

a bandiera, costituita da una colonna portamandrino e da un banco per la collocazione dei pezzi. Può compiere movimenti sia in verticale che in trasversale, consentendo vari tipi di lavorazioni, compresi i tagli fuori-squadra, anche se non è adatta ai lavori in serie. Ha dei tempi di esecuzione piuttosto lunghi. Esistono infine delle frese multidisco. In esse è la lastra che si muove su di un nastro in gomma, incontrando i dischi posizionati su una trave in acciaio. Queste macchine permettono di realizzare più tagli a squadra contemporaneamente; se sono dotate di un banco girevole e di un ponte mobile, consentono la realizzazione di tagli ortogonali tra di loro. Nel ciclo di lavorazione seriale, per ritagliare le filagne provenienti dalla tagliablocchi alla misura prefissata viene utilizzata l’attestatrice. La macchina è composta da un banco con dei rulli sui quali scorrono le filagne, che vengono tagliate ad una lunghezza predeterminata da un disco diamantato posizionato ortogonalmente alla direzione di scorrimento delle filagne stesse. Quando la tagliablocchi viene equipaggiata con dischi verticali più distanti tra di loro, anziché

45Primavori Piero, “Pianeta pietra”, Verona, Giorgio Zusi editore, 1999, pag. 225-245

46 Magnani Andrea e Quadrelli Sauro, “SEI seconda parte – pavimenti,rivestimenti, interni”, Carrara,

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fornire strisce sottili, fornisce masselli (semilavorato non nastriforme a forma di parallelepipedo, in cui la lunghezza è molto superiore alla larghezza e allo spessore). La macchina necessaria per dividere questi masselli in filagne è la scoppiatrice. Questa macchina può essere dotata di uno o più dischi, sia verticali che orizzontali;

• macchine per trattamenti superficiali: per trattamenti superficiali si intendono le lavorazioni a cui viene sottoposta la pietra per conferire un determinato aspetto. La finitura superficiale è fondamentale per sfruttare le possibilità espressive del prodotto lapideo, valorizzando o minimizzando, a seconda dei casi, gli attributi estetici naturali della roccia. I trattamenti superficiali possibili sono molteplici e di vario tipo. Tra le lavorazioni a rasamento, che sono quelle che si ottengono rasando un materiale con utensili abrasivi, le più diffuse sono la calibratura, che ha lo scopo di contenere la planarità e lo spessore del manufatto, la levigatura, che ha come scopo quello di rendere la superficie liscia, e la lucidatura, che permette di ottenere una superficie riflettente, grazie anche all’uso di specifiche sostanze lucidanti. Quest’ultimo trattamento permette di valorizzare al massimo le tonalità cromatiche, facendo emergere i contrasti dovuti alle venature. Entrambi vengono ottenuti con la stessa macchina, la lucidatrice. Questa può essere manuale, costituita da un braccio articolato con il quale, grazie all’azionamento manuale, viene coperta tutta la superficie del manufatto posto sotto ad essa, a ponte, costituita da una trave in acciaio che scorre trasversalmente su binari, sul quale si trova un motore con una testa lucidante, a nastro, dove rispetto alle precedenti, la lastra da lucidare non sta ferma, ma scorre su un nastro sotto alle teste lucidanti, dotate di movimenti specifici. Altro tipo di lavorazione piuttosto diffuso sono le lavorazioni ad urto, cioè quelle ottenute mediante l’uso di utensili a percussione. Tra queste le più diffuse sono la bocciardatura, che conferisce alla superficie un particolare aspetto scolpito, scabro ed in rilievo, adatto ai manufatti collocati in esterno, come

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scale, cordoli, pavimenti; l’effetto si ottiene tramite l’utilizzo della bocciarda, un martello a fitte punte piramidali, che nelle macchine moderne viene montato su di un ponte, che colpisce la superfice delle lastre sottostanti. Un’altra lavorazione piuttosto diffusa è la sabbiatura, che rende la superficie ruvida ma non tagliente, molto spesso morbida e priva di grosse asperità; questa lavorazione viene utilizzata per il trattamento di superfici a vista, ma anche per l’esecuzione di incisioni, scritte e disegni; la lavorazione si ottiene per mezzo della proiezione, a forte pressione e velocità, di una miscela abrasiva composta da acqua e sabbia. La struttura della macchina ricorda quella della bocciardatrice, con un trave mobile sul quale sono installati degli ugelli che proiettano la miscela sulla lastra sottostante. Esiste infine un tipo di lavorazione superficiale applicabile solamente ai graniti, quella per trattamento termico. La procedura prende il nome di fiammatura. La lavorazione rende la superfice rugosa, rendendola più resistente all’erosione superficiale. La macchina utilizzata, simile a quella per la bocciardatura, utilizza come utensile un cannello che produce una fiamma ad alta temperatura (2500° C) che investe la superfice da trattare, producendo un shock termico. Il combustibile usato è il propano;

• macchine per lavorazioni speciali: esistono infine delle macchine per la finitura e la produzione di pezzi con destinazione specifica. Tra le più diffuse, il tornio, utilizzato per la realizzazione di superfici cilindriche, tipo colonne e vasi (in esso i pezzi cilindrici vengono fissati alle estremità, portati in rotazione e lavorati da un utensile a punta che riga il cilindro secondo la forma voluta47; la contornatrice, impiegata per le operazioni

sequenziali di taglio, levigatura e lucidatura di piani da cucina o per l’arredo, nei quali è previsto l’alloggiamento di lavabi e rubinetteria; il lucidacoste, machina costituita da mandrini portanti utensili abrasivi che

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