• Non ci sono risultati.

3.1 DISCIPLINA AGRI MARMIFERI

Il diritto minerario è l’istituto giuridico che ha come oggetto di studio le miniere, le cave e le torbiere; per capire l’importanza di questa materia basta pensare a fonti energetiche come petrolio, metano e carbone, al ferro e a tutti i metalli utilizzati nell’economia mondiale, ai materiali da costruzione come i marmi, i graniti, la marna da cemento, per finire con le fibre ottiche e le pietre preziose. L’oggetto di studio specifico distingue questa materia dagli insegnamenti giuridici tradizionali. Quest’ultima frase necessità di una correzione alla luce di due particolarità: la prima consiste nel fatto che i prodotti delle cave miniere e torbiere vengono qualificati come frutti, come i prodotti degli alberi, delle messi e degli animali, anche se a differenza di questi ultimi non sono distinti nettamente dalla cosa madre, ma la loro estrazione altro non è che la riduzione della cosa stessa, fino al consumo completo; in altre parole viene applicata ai beni minerari una disciplina appartenente ai beni non consumabili, quando invece essi non sono riproducibili; la seconda particolarità risiede nella possibilità di applicare istituti di diritto privato come l’affitto e l’usufrutto a dei beni che, come già detto in precedenza, sono consumabili. In sostanza le miniere, cave e torbiere sono l’unico bene immobile consumabile che si conosca, perché a differenza degli altri immobili non è ne ristrutturabile ne ripristinabile (ad esempio un fabbricato decadente può essere ristrutturato e quindi può nuovamente essere utilizzato per il suo scopo, mentre nelle cave, miniere e torbiere, i materiali una volta estratti non possono più essere ripristinati, per cui una volta esaurite non possono più svolgere la loro funzione).

La legislazione mineraria può essere divisa tra generale e speciale. E’ considerata legge mineraria generale il decreto legislativo 29 luglio 1927, n. 1443

(successivamente modificato ed integrato), il quale detta le disposizioni generali relative all’attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti minerari. Questa legge, che a suo tempo aveva unificato la legislazione di tutto il territorio nazionale, ha perso la sua funzione originaria a seguito della introduzione delle leggi regionali e delle leggi speciali. La legislazione speciale è quella che riguarda alcuni particolari settori, come gli idrocarburi (liquidi e gassosi), le risorse geotermiche, le acque minerali e termali e gli Agri marmiferi pubblici di Massa e Carrara. La distinzione tra il settore delle miniere e il settore delle cave e torbiere è disposta dall’art. 2 della c.d. legge mineraria; le sostanze appartenenti alla categoria delle miniere sono un numero chiuso, e sono: giacimenti di minerali utilizzabili per l’estrazione di metalli e metalloidi, giacimenti di combustibili (idrocarburi, uranio, carboni), di pietre preziose, fosfati, feldspati. Tutte le altre sostanze industrialmente utilizzabili che non rientrano in questa categoria appartengono a quella delle cave e torbiere ( torbe, materiali per le costruzioni edili, per le costruzioni stradali ed idrauliche, le terre coloranti, il quarzo, le sabbie silicee, ecc.). Ai fini della distinzione non ha alcuna influenza la modalità di estrazione utilizzata, per cui non necessariamente una miniera deve essere coltivata in sotterraneo, così come una cava deve essere coltivata a cielo aperto, anche se sono più frequenti le cave a cielo aperto.

I giacimenti appartenenti alla categoria miniere, in base all’art. 826 c.c., sono pubblici, cioè appartengono al patrimonio indisponibile dello stato, mentre quelli appartenenti alla categoria delle cave e torbiere sono pubblici solo nel caso in cui siano sottratti alla disponibilità dei privati, sempre sulla base del solito articolo67. Cenni storici

L’attività delle cave di marmo risale all’epoca romana, più precisamente all’epoca della Repubblica. Durante quel periodo le cave erano di proprietà delle colonie o di privati, mentre a partire dal regno di Tiberio (17 d.c.) passarono nel patrimonio imperiale, per cui l’estrazione del marmo divenne quasi totalmente monopolio imperiale, con dei funzionari imperiali che controllavano l’estrazione

67 Merusi Fabio e Giomi Valentina, “La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia”, Torino, G.

e il trasporto dei marmi, cosa che si deduce da sigle e iscrizioni su marmi non lavorati. Inizialmente le cave facevano parte del patrimonio personale dell’imperatore, che per un certo periodo fu distinto da quello del fisco imperiale, per poi confluire in quest’ultimo. Erano di proprietà imperiale le cave della Grecia, dell’Asia, dell’Africa, quelle di Imetto nell’Attica, di Karystos nell’Eubea, di Paro, del Mons Claudianus in Egitto e quelle di Luni (che in un primo momento appartenevano alla città), dalle quali si estraevano i marmi più importanti come il porfido, il granito (che i romani comprendevano tra i marmi), il giallo antico, il cipollino, il pavonazzetto, l’africano e il lunense.

Nel 382 d.c. con la Costituzione Cuncti di Teodosio viene riconosciuto il diritto di scavare pietre in un fondo altrui, con l’obbligo di corrispondere un decimo del prodotto al fisco ed un altro decimo al proprietario del fondo. Le scelte fatte nella legge Cuncti, non ravvisano una volontà dell’imperatore di innovare i principi fondamentali del diritto minerario, ma che si trattasse di scelte dettate da opportunità politiche del momento è dimostrato dalle statuizioni successive dello stesso imperatore, che con ultima legge, la Costituzione del 393 d.c. indirizzata a Rufino, prefetto pretorio nell’Oriente, vietava l’escavazione di marmi da parte dei privati nei loro fondi, pena la confisca del materiale escavato; tutto ciò a tutela delle cave fiscali, le quali divennero le uniche produttrici.

Non è chiara la condizione giuridica del sottosuolo durante le dominazioni barbariche, poiché nel caos che si era creato non c’erano le condizioni per sviluppare una qualsiasi industria; comunque secondo alcuni autori, vi era la libertà di scavare marmi e pietre di cava nel fondo proprio e altrui, dato che un diritto dominicale sarebbe stato in contrasto con il carattere collettivo della proprietà fondiaria nel diritto barbarico.

Intorno al mille iniziò a formarsi quel diritto signorile e feudale che si sarebbe affermato nei duecento anni successivi, nei quali è documentato il diritto di signoria sulle miniere che esercitavano i magnati laici e gli ecclesiastici. La costituzione dell’imperatore Federico del 1185 colloca le miniere fra i diritti e le cose regali; sulla base di essa, per tutta l’età feudale, i vari sovrani hanno fondato

il loro diritto sulle miniere, utilizzandolo per darne l’investitura ai feudatari subalterni68.

Anche a Carrara, durante il periodo feudale, si affermò che il privilegio dell’estrazione del marmo poteva essere attribuito ad estranei alla signoria o a privati non proprietari della superficie del terreno, solo con la decisione del signore feudale, che era il vescovo di Luni-Sarzana, conte di Carrara. Così, ad esempio, i fabbricieri fiorentini nel 1341 gli avevano richiesto una “tracta” (zona) di marmo, rinnovando la richiesta nel 1344, precisando che ciò spettava per concessione speciale, senza versamento di pedaggio o gabella fino al compimento dei lavori. La preoccupazione non risiedeva tanto nel diritto di escavazione, quanto nella possibilità di esportare il marmo estratto. Infatti, nel 1273, il vescovo aveva introdotto la dogana sui marmi, sulla base delle regalie concesse da Federico I; per cui, una volta ottenuto il permesso di estrarre il marmo, vi era l’obbligo di versare, all’uscita dal territorio, in unica soluzione, una gabella, che riguardava i diritti feudali connessi alle regalie. Pertanto la disciplina dell’attività era riservata al sovrano beneficiario della regalia sui marmi, e riguardava tutti i giacimenti, sia pubblici che privati, per i quali non esisteva una specifica concessione. Tuttavia con il “livello statutario”, previsto dallo Statuto del 1574, l’apertura delle cave veniva concessa alle vicinanze. Le vicinanze di Carrara, di origine medievale, consistevano in comunità agrarie che gestivano “agri collettivi”(il termine agro nel carrarese designa una zona marmifera di proprietà del comune. In origine si chiamavano agri le zone montane incolte adibite a pascolo, mentre si definivano beni i terreni produttivi e coltivabili. Poiché nel sistema amministrativo locale i pascoli montani erano lasciati indivisi tra i membri delle vicinanze, col tempo la parola agro significò proprietà collettiva montana, e con lo sviluppo delle cave assunse il significato ancor più ristretto di terreno marmifero vicinale(e poi comunale)69) secondo

un’economia elementare e con una struttura amministrativa regolata dagli Statuti

68 Marchetti Fausto, “Le cave - dal diritto romano alle leggi regionali”, Carrara, Casa di edizioni in

Carrara, 1995, pag. 7-12

69 Piccioli Cesare, “Storia e dogmatica del sistema minerario estense – Carrara: 1751-1995, Pisa, Edizioni

di diritto consuetudinario. Si trattava di associazioni di famiglie, simili ad enti territoriali autonomi, proprietarie di beni indivisibili ed inalienabili. A Carrara gli agri più importanti erano quelli delle dei migliori giacimenti marmiferi; alla fine del XV secolo le vicinanze più influenti erano quelle di Torano, Bedizzano e Miseglia, oltre a Carrara. Il potere di disciplina e di amministrazione dei beni collettivi spettante alle vicinanze emerge solamente con l’attenuazione dei poteri del vescovo. Il livello statutario, consisteva in un versamento, in denaro o in natura, che i forestieri dovevano effettuare per l’attività di estrazione, alla vicinanza, che dopo lo Statuto concedeva il diritto al posto del principe.

La normativa estense

L’Editto del 1 febbraio 1751 di Maria Teresa Cybo, rappresenta la prima disciplina specifica sulle cave di marmo, nata per risolvere le frequenti controversie sul diritto di aprire cave e per dare una disciplina scritta, completa ed uniforme, agli agri marmiferi di Carrara, materia sino ad allora regolata dal diritto consuetudinario e dalla prassi. L’Editto contiene una rinuncia indiretta alla regalia sui marmi, dato che consente alle vicinanze di concedere il diritto di estrazione del materiale ai membri della comunità, in quanto partecipanti della proprietà collettiva sugli agri marmiferi, con la stipulazione dell’atto di livello, contratto simile, per certi aspetti, alla concessione di beni pubblici. In sostanza, la normativa consiste in una codificazione scritta delle norme consuetudinarie, in particolare, per quanto riguarda l’obbligo del privato di richiedere in concessione la cava alla vicinanza proprietaria del bene. Le conseguenze più importanti sono l’abolizione della regalia sui marmi e il riconoscimento della proprietà delle cave alle vicinanze, ed inoltre la suddivisione delle stesse secondo tre categorie, con l’intento di legittimare le occupazioni di fatto e per considerare giuridicamente rilevanti le posizioni ormai consolidate. La distinzione essenziale riguarda le cave già aperte negli agri delle vicinanze del Principato, le quali andranno poi distinte tra quelle già iscritte negli Estimi dei Particolari e quelle che non vi sono iscritte, e quelle da aprire successivamente all’entrata in vigore del regolamento. Per quanto riguarda le cave già aperte, quelle estimate, cioè iscritte all’estimo,

ovverosia registrate, da parte di privati da oltre venti anni, prima del 1751, dovevano rimanere, senza limiti di tempo, di proprietà privata e in disponibilità del proprietario del fondo, senza possibilità di rivendicazione da parte della vicinanza; relativamente alle cave estimate da meno di venti anni da parte di privati, questi potevano scegliere se abbandonarle oppure stipulare un contratto di livello con la vicinanza, con l’obbligo di corrispondere, come dice l’Editto del 1751, “una certa annua prestazione discreta però e moderata”, basata sul reddito agrario della superficie; per le cave già aperte ma non iscritte all’estimo è previsto l’obbligo della stipulazione dell’atto di livello. In tutti i casi la proprietà della superficie è distinta dall’esercizio dell’attività di cava, la quale è lasciata ai rapporti instaurati tra i privati e le vicinanze, che prevedono la costituzione di un vincolo di servitù, in senso proprio, sulla superficie, in cambio del versamento di un canone al proprietario della superficie, stabilito a seguito di accordo tra privati o secondo tariffe governative. Per le cave non ancora aperte è previsto un particolare procedimento, il quale prevede che “chiunque vorrà negli Agri della sua vicinanza cercarvi coi suoi lavori all’azzardo della Cave, possa farlo con piena libertà, purché osservi la giusta moderazione di farla in luogo ove non possa derivarne pregiudizio all’altrui”. Una volta terminata con esito positivo la ricerca, che consiste nella verifica della qualità del materiale, l’interessato doveva provvedere alla marcatura dell’area con le iniziali del nome e alla denuncia all’autorità della vicinanza, da cui ne derivava la detenzione dell’area. Dopo la denuncia, la procedura prevedeva un accertamento da parte dell’amministrazione della vicinanza tramite periti con funzioni di ispezione e di determinazione del canone annuale; riguardo alla sua determinazione l’Editto prevede che “La quantità di tal canone non dovrà però misurarsi dallo stato presente della cava, della quale accoderà trattarsi, ma sul merito di quella porzione di Agri sulla quale sarà stata aperta, e la quale sarà di pertinenza della cava della quale accoderà trattarsi, anzi, medesima, avuto però qualche riguardo all’uso per cui è stata destinata”. L’esito positivo dell’accertamento consentiva un periodo di prova di due anni con la facoltà di scegliere tra la concessione deliberata dalla vicinanza,

la stipulazione del contratto di livello (con facoltà di ritirarsene in qualunque momento), e la dismissione della cava. Tuttavia il controllo sull’attività di estrazione attribuito alle vicinanze non evitò il verificarsi di episodi di abusi da parte di soggetti particolarmente potenti all’interno della comunità. Per ovviarvi ci fu un ulteriore intervento normativo, l’Editto sulle usurpazioni del 21 dicembre 1771, il cui testo prevede che “Chiunque possedere beni in quel distretto, ancorché ridotti a coltivazione, si presumeranno in tutti usurpati ognivolta il possessore, nel termine che sarà a prefiggerli il Magistrato, non produca il titolo, con cui ne abbia fatto l’acquisto, o giustifichi di possederle da tanto tempo, che serva a termini di ragione ad indurre, nel caso ancora di cui si tratta e da presunzione di un legittimo titolo”, con lo scopo di recuperare, con atti di livello, beni vicinali e comunali; tuttavia l’intervento non migliorò la situazione.

Durante il periodo di Napoleone, l’unico provvedimento rilevante è il Decreto del Principe di Lucca del 17 luglio 1812, il quale prevede l’abolizione delle vicinanze di Carrara, ed il trasferimento degli agri al Comune. Successivamente con la restaurazione gli stati di Massa e Carrara furono attribuiti a Maria Beatrice d’Este, che con l’Editto del 15 di dicembre del 1815, ripristinò l’Editto del 1751 oltre a confermare l’abolizione delle vicinanze, con la conseguenza della proprietà comunale degli agri e la competenza del comune per la concessione ai privati. Con l’Editto 30 maggio 1820 fu introdotto un nuovo sistema di catasto, che consentì un elenco accurato delle proprietà e delle cave, e, l’intestazione catastale con finalità di inventario e di ricognizione, ma non costitutivo di diritti; gli agri vennero intestati al Comune come proprietà e la superficie allora corrispondeva a 1774 ettari di concessioni attive ed agri liberi. Una nuova e sostanziale riforma ci fu con le notificazioni del 14 luglio e del 3 dicembre 1846 ad opera del Duca di Modena e Reggio Francesco V d’Este, che si presentavano soprattutto come regolamento dell’attività estrattiva. Le leggi contengono una disciplina particolareggiata sulla procedura per l’apertura delle cave e riguardo a diritti ed obblighi del Comune e del livellario (coltivatore delle cave che è indicato anche come conduttore o enfiteuta), che può sfruttare la cava,

appropriarsi dei frutti e disporre, previa autorizzazione secondo certe forme, escluse nell’ipotesi di trasferimenti a titolo di successione; il diritto del livellario di sfruttare gli agri marmiferi può essere qualificato come vero e proprio diritto reale di godimento su cosa altrui, frazionabile dalla proprietà piena ed autonomo dal diritto di proprietà del Comune. Il livellario, a pena di decadenza, è tenuto a coltivare la cava, a versare il canone, a stipulare l’atto di ricognizione della proprietà comunale ogni ventinove anni, a corrispondere un laudemio al momento dell’investitura della cava, dell’alienazione o per successione, assumendo, infine, le spese del contratto. Più nello specifico, con la Notificazione del 14 luglio venne previsto una regolamentazione dell’attività estrattiva delle cave già aperte o da aprirsi, organizzando meglio i principi già vigenti con le precedenti fonti. Per quanto riguarda le cave già aperte, il comune doveva verificare l’effettivo utilizzo sulla base delle concessioni e dei termini di decadenza previsti nei relativi contratti. Il rinnovo del livello per le cave esistenti o attivabili era previsto entro un termine di trenta giorni dalla decadenza e con preferenza per i primi concessionari decaduti; le possibilità di ricerca di nuove cave negli agri comunali era assai ampia, a patto di seguire la regola di non creare danno a terzi. L’articolo 2 individuava alcuni particolari poteri della pubblica amministrazione e condizioni vincolanti riguardo alla concessione dei livelli, con l’introduzione del termine di decadenza per l’inattività della cava, per il mancato versamento del canone per due anni o in caso di debito coincidente con l’ammontare del canone di un biennio. Venne ribadito il principio per cui il livello era trasmissibile a chiunque per successione o per alienazione, ma in caso di cessione a forestieri è necessaria l’adesione governativa, mentre è necessario il consenso del comune per l’alienazione e la cessione. La Notificazione Governatoriale del 3 dicembre 1846, a specificazione di alcune norme contenute nel precedente regolamento, riafferma e specifica alcuni principi ormai consolidati nel settore; viene riconosciuta la facoltà di aprire cave ovunque ad ogni suddito estense domiciliato nello stato e, quindi, in Massa e in Carrara, ed inoltre, secondo la legge del 1 febbraio 1751, ancora in vigore, oltre alla “marca”

è necessaria l’effettiva apertura, con la particolare condizione per gli stranieri che intendevano acquistare cave di ottenere prima il permesso del sovrano.

L’Editto del 4 aprile 1851 di Francesco V, riconosceva il carattere di pubblica utilità e l’applicazione dell’espropriazione forzata per la costruzione di strade di collegamento tra cave di marmi o miniere, attività che potevano essere finanziate dallo stato o da privati; la disciplina sull’espropriazione veniva applicata quando i proprietari dei terreni da occupare si rifiutavano di cederli o richiedevano somme non adeguate a titolo di indennizzo; l’istituto era previsto anche per la costruzione di edifici o strutture per la lavorazione del marmo.

Con l’entrata in vigore del codice civile estense del 1852 veniva abrogato il diritto statutario e la disciplina sui livelli, tranne che per le cave di Massa, normativa contenuta nel Rescritto Sovrano del 25 giugno 1852, dove l’istituto veniva mantenuto in quanto si trattava di una fonte speciale che doveva rimanere in vigore come tale. Infatti, il codice civile estense riportava una disciplina diversa relativa all’enfiteusi70, ma non abrogava implicitamente la normativa sui

livelli di cave, trattandosi di materiali di singolare natura e che non possono essere confusi con i fondi. La natura giuridica dell’atto di livello presenta aspetti pubblicistici, nonostante si tratti di un istituto di origine privatistica che talvolta viene accostato, se non identificato, con l’enfiteusi, ma diverso da questo per l’assenza dell’obbligo di migliorare il fondo; nel tempo il livello di cava si è affermato come istituto autonomo e speciale per il settore. La legislazione, dopo l’intervento del 1852, aveva carattere di completezza, in quanto disciplinava non solo il diritto di estrazione, ma anche la viabilità, i pedaggi, le espropriazioni e gli edifici utilizzati nell’ attività. Alla luce di questi elementi il regime speciale era definito “Sistema Estense limitato”, poiché disciplinava esclusivamente le cave di marmi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara, e resterà in vigore anche nel sistema giuridico moderno; la disciplina mineraria generale era contenuta nel

70 Per un approfondimento sul tema dell’enfiteusi vedi:

“Sistema Estense illimitato”, che regolava il settore secondo il criterio della disponibilità del fondo per il proprietario privato71.

Negli altri stati dell’Italia preunitaria vigevano diverse normative minerarie, che, pur con qualche modifica, hanno resistito fino al 1927.

In Toscana, e più precisamente nelle province di Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno (esclusa l’isola d’Elba), Lucca (soltanto per Seravezza, Stazzema, Pietrasanta e Barga), Massa e Carrara (soltanto per Fivizzano, Terrarossa,