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Libertà fondamentali in tempo di ordinario terrorismo. Sulla legittimità di una strategia securitario-emergenziale tra profili d'incostituzionalità e soluzioni costituzionalmente orientate

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INDICE

PREMESSA 3

INTRODUZIONE

1. Tipicità del terrorismo islamico oggi 6 1.1. Islamizzazione della radicalità sociale 7

1.2. Il paradigma della paura 15

1.QUALE EMERGENZA?

1. Considerazioni generali 23

SEZIONE PRIMA: SULL’EMERGENZA

1. L’emergenza nelle costituzioni democratiche 24

1.1. Gran Bretagna 27

1.2. Stati Uniti 32

1.3. Spagna (cenni) e Francia 41

2. Emergency clause 49

3. Italia 53

3.1. Teorie sullo stato d’emergenza 57

4. Conclusioni 61

SEZIONE SECONDA: SULLA NON-EMERGENZA

1. È tempo di ordinario terrorismo 63

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2 2.INCIDENZA DELLA NORMATIVA ANTITERRORISMO SULLE LIBERTÀ FONDAMENTALI E RUOLO DELLE CORTI

1. Pessimismo vs ottimismo costituzionale 77

2. “Evoluzione” della legislazione antiterrorismo 84

3. Il nuovo diritto penale del nemico (cenni) 92 4. Implicazioni costituzionali della legislazione antiterrorismo 98 4.1. Articolo 270-bis c.p. In tema di libertà di associazione e libertà religiosa 98 4.1.1. Ripercussioni sull’articolo 270-ter c.p. (cenni) 108

4.2. Articoli 270-quater - 270-quinquies c.p. In tema di libertà di manifestazione del pensiero 110

4.3. Articoli 4, comma 1, lettera d) e 9, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011. In tema di libertà personale (e di circolazione) 117

4.4. Articolo 53 e deroghe all’articolo 132 del d.lgs. n. 192/2003. In tema di diritto alla privacy 126

5. Indeterminatezza della norma e ruolo delle corti 130

6. Conclusioni 137

3.EPILOGO: WILLINGNESS TO PAY VS WILLINGNESS TO ACCEPT SEZIONE PRIMA: NESSUNO ESCLUSO NELLA SOCIETÀ DELLA SORVEGLIANZA DI MASSA 1. Considerazioni generali 139

2. Storia delle direttive PNR e data retention 141

3. Sull’illegittimità di una strategia totalizzante 155

4. Non solo privacy 157

SEZIONE SECONDA: “PRIVATIZZAZIONE” DELLA SICUREZZA E RUOLO DELLO STATO 1. A cosa siamo disposti a rinunciare? 161

2. Conclusioni. Per una risposta costituzional-democratica 166

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PREMESSA

Lo studio condotto prende avvio dalle “preoccupazioni” nutrite dai c.d. pessimisti costituzionali in merito alle sorti delle libertà continuamente derogate dalla strategia securitario-emergenziale impiegata nella lotta al terrorismo del tempo ordinario. Tale punto di vista, rapportato all’opposta lettura degli ottimisti costituzionali, dà luogo a un tertium genus tra i due, che consiste nel cogliere le preoccupazioni dei primi, per muovere, sulla scorta dell’insegnamento dei secondi, di cui si accoglie l’idea di crisi come spinta propulsiva ma non la cieca accettazione delle suddette deroghe considerate necessarie e naturali se la sicurezza lo richiede, alla ricerca di misure che rispondano alle esigenze del diritto vivente senza tuttavia tradire i principi su cui si fonda un ordinamento costituzional-democratico, rappresentandone anzi l’attualizzazione.

Il lavoro si articola in tre capitoli. Nel primo l’attenzione è focalizzata sull’effettiva sussistenza del fattore emergenziale: dopo aver volto lo sguardo, nella sezione prima, a realtà ordinamentali vicine alla nostra per valutare l’opportunità d’insistere sulle tecniche di superamento dell’emergenza (si fa cenno anche all’inserimento di un’emergency clause in costituzione), e dopo aver appurato l’incapacità di ciascuna di esse di far fronte al terrorismo odierno, si passa, nella sezione seconda, a rivalutare la natura del fenomeno quale non emergenziale, donde l’impossibilità di affrontarlo come tale senza incorrere in gravi problemi d’illegittimità.

Il secondo capitolo è dedicato all’incidenza che l’adozione del paradigma emergenziale ha in concreto sulle libertà costituzionali: vengono passati al vaglio i profili d’incostituzionalità insiti nella gran parte delle norme che concorrono a formare la normativa antiterrorismo italiana. L’analisi si concentra sulle disposizioni codicistiche (artt. 270-bis e ss. c.p.) ed extra-codicistiche (art. 4,

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4 comma 1, lett. d) e 9, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011 e altre) che maggiormente incidono sulla libertà di manifestazione del pensiero, sulla libertà religiosa, sulla privacy, sulla libertà personale, sulla libertà di associazione, sulla libertà di circolazione, sacrificandole sull’altare della sicurezza. Le norme in questione, appartenenti principalmente al mondo del penal-preventivo, riservano un ruolo di primo piano alla giurisprudenza, alla quale spetta il compito di recuperare una legittimità al limite determinata dalla smisurata anticipazione della tutela penale rispetto alla condotta delittuosa e dall’indeterminatezza con cui tali disposizioni vengono concepite nell’ambito della svelta riflessione richiesta dalla decretazione d’urgenza.

Nel terzo capitolo, che allo stesso tempo completa e conclude il lavoro, si amplia la prospettiva d’indagine aprendo l’analisi ad alcune norme dell’Unione europea in materia di contrasto al terrorismo, nello specifico quelle volte a disciplinare la sorveglianza di massa in funzione securitaria (direttive PNR, data retention, ecc.). Tale digressione consente da un lato di compiere considerazioni in merito alla difficoltà per qualsiasi ordinamento, anche di natura sovranazionale, di sganciarsi dal terror cimbricus tipicamente statunitense e di difendere contestualmente il proprio patrimonio costituzionale, e dall’altro di accertare che non il solo terrorista (o presunto tale) è interessato dalla normativa in questione.

L’ampliamento della prospettiva oltre il terrorista e oltre il contesto nazionale fornisce infatti gli strumenti idonei per vagliare ulteriori “preoccupazioni” costituzionali, indotte - questa volta - dalla strategia della sorveglianza di massa. La normalità con cui si accetta di rinunciare in prima persona alla propria sfera privata nell’eccesso di panoptismo, e in generale ai principi su cui si fonda la democrazia nell’eccesso di panpenalismo, conduce alla riflessione conclusiva, oggetto della sezione seconda, in merito al ruolo che gioca lo Stato

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5 nella willingness to pay del consociato: nella distorsione del fisiologico andamento di un ordinamento democratico-costituzionale, in cui rispondere alle continue richieste di sicurezza della società assume l’aspetto di un modo nuovo di fare diritto, il consociato diventa infatti parte integrante di uno scambio. Il discorso si sposta quindi sulla denuncia dell’incapacità dimostrata dalle istituzioni di far fronte ad alcune delle situazioni più sentite della nostra epoca, quali immigrazione e integrazione, poiché le cause ultime dello sviluppo di propositi terroristici sono invero di natura socio-culturale. Il cerchio si chiude pertanto con la promozione di risposte maggiormente conformi a un ordinamento democratico costituzionale, risposte che, nel tentativo di rimuovere le cause in cui trova terreno fertile lo sviluppo dei suddetti propositi, in attuazione del principio solidaristico cui è informato il nostro ordinamento, si rivelano allo stesso tempo potenzialmente più efficaci nella lotta contro il terrorismo e sicuramente più vantaggiose per la democrazia, che sfugge così al paradosso di autodistruggersi per difendersi dallo stesso.

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INTRODUZIONE

1. Tipicità del terrorismo islamico oggi

Ancorché non reputi opportuno dilungarmi in una descrizione complessiva del fenomeno, non posso sottrarmi dall'accennare ad alcuni aspetti scelti caratterizzanti il terrorismo islamico1, la conoscenza dei quali si rende necessaria ai fini della trattazione. Pertanto, a monte del discorso che da qui ha inizio risulta importante che mi soffermi su alcune sue peculiarità e nello specifico l'approfondimento verterà su religione e paura2, fattori che, per le implicazioni che hanno nel dipanarsi della normativa antiterrorismo, assumono un ruolo primario nella riflessione sul superamento del paradigma emergenziale.

Tali peculiarità designano un terrorismo sui generis, o che assume per lo meno una veste tale da escludersi - salvo peccare d’imprecisione - che possa essere semplicisticamente inglobato nella macrocategoria del terrorismo. Occorre quindi guardarlo da vicino, sviscerarlo in ognuna di quelle caratteristiche che ne fanno un unicum nel panorama

1 Per un approfondimento si veda L. VIDINO, Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, ISPI, 2014, disponibile all’indirizzo http://ispionline.it/it/EBook/Il_jihadismo_autoctono_in_Italia.pdf, ma anche M. PAPA, L. ASCANIO, Shari’a. La legge sacra dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2014,per un’analisi dettagliata della legge coranica.

2 Fuorviante sarebbe stato parlare in questa sede di un terzo fattore al quale anche riconosco un ruolo fortemente caratterizzante il terrorismo odierno, la globalizzazione. In proposito Jessica De Vivo parla di «globalizzazione del terrorismo» intendendo per tale «un terrorismo […] senza una base specificamente individuata, ma con formazioni molto mobili sul territorio» (J. DE VIVO, Sicurezza e diritti fondamentali. La risposta italiana e francese al terrorismo, in Diritto pubblico comparato e europeo, N .3/2016, p. 716). A mio avviso significativa risulta anche l’espressione che si ottiene se invertiamo l’ordine con cui la De Vivo lega i termini globalizzazione e terrorismo ovvero terrorismo della globalizzazione, intendendo con ciò che il primooltre a presentarsi come un fenomeno dislocato su scala mondiale («globalizzazione del terrorismo»), sia in qualche modo anche frutto della seconda. La globalizzazione infatti si materializza nelle grandi migrazioni che si indirizzano verso l’Europa e che traghettano realtà (si pensi al cd. ‘terrorista della porta accanto’) tali da mettere a dura prova le grandi conquiste del pensiero giuridico moderno, a cominciare dalle libertà fondamentali.

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7 della strategia del terrore, affinché si pongano le basi per intraprendere la via di misure più lungimiranti, in luogo dell’ormai inadatta strategia emergenziale.

1.1. Islamizzazione della radicalità sociale

Il terrorismo con cui facciamo i conti si caratterizza innanzitutto per la sua matrice islamica: sulla base di questa prima considerazione potranno essere avanzate le proposte per alcune «linee rifondative», come suggerisce il professor Consorti3, da concepire come misure non

più di tipo emergenziale bensì dal valore profondamente ed effettivamente preventivo. E non è il solo a promuovere strategie nuove: tra gli altri Alberto Di Martino afferma che la migliore via da intraprendere nel nostro caso risiede nello studio dei fattori che danno luogo alla radicalizzazione, seguito da azioni che s’incardinano sulla promozione della tolleranza politica e religiosa, miranti a uno sviluppo economico, una coesione sociale, una vera e propria «inclusiveness»4. D'altronde - afferma lo stesso Di Martino - cos'è la prevenzione se non questo? È illusorio pensare che si tratti di una questione meramente normativa di anticipazione della tutela; la prevenzione è cosa ben più complessa: è una dislocazione di scelte politiche volte a contrastare le

3 P. CONSORTI, La libertà religiosa nel terzo millennio: tra crisi di sicurezza e paura in Liberà di espressione e libertà religiosa in tempi di crisi economica e di rischi per la sicurezza, a cura di F. DAL CANTO, P. CONSORTI, S. PANIZZA, Pisa University press, Pisa, 2016, p. 158. Sul punto si rinvia al capitolo terzo, sezione II, paragrafo 2.

4 Tratto dall’intervento di A. DI MARTINO al seminario Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, tenutosi presso l’Università di Pisa l’11 e il 12 marzo 2016 a cura di Magistratura Democratica e di Questione Giustizia, la cui registrazione è disponibile all’indirizzo

http://www.radioradicale.it/scheda/469258/terrorismo-internazionale-politiche-della-sicurezza-diritti-fondamentali-seconda-ed.

Si noti che il termine «inclusiveness» va tradotto come ‘inclusività’, o come inclusione sociale. Cfr. J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro: studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 10, secondo il quale per inclusione non s’intende «accaparramento assimilatorio», ma apertura verso «coloro che sono reciprocamente estranei».

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8 situazioni nelle quali gemmano certi fenomeni e pertanto si presenta come atto politico ancor prima che normativo5.

Per arrivare a queste conclusioni diventa quindi necessario provvedere a una trattazione di ciò che costituisce il background del fenomeno da cui promanano gli interventi sulle libertà di cui si discorre.

È importante evidenziare la connotazione spiccatamente religiosa (o perlomeno così veicolata o percepita: «che poi sia vera o solo dichiarata è altro problema»6 che sarà affrontato nel prosieguo del presente paragrafo) del terrorismo in questione, un terrorismo che ingenera sfiducia verso il sentimento religioso e fa nascere il timore che la religione sia una delle cause del disordine sociale dei nostri tempi e persino portatrice di morte7; ed è importante perché, come afferma Umberto Curi8, il termine terrorismo è impiegato ancora oggi - come in passato - in forma del tutto approssimativa per designare fenomeni così diversi tra loro da risultare talvolta irriducibili ad un unico insieme. In realtà questo impiego indiscriminato del termine non è casuale ma serve a delegittimare l'avversario, a negargli cioè lo status di nemico, considerato che dal conflitto inteso come guerra in senso stretto scaturirebbe invece automaticamente la sua legittimazione in quanto tale: quando io riconosco nell'altro il nemico per ciò solo gli riconoscono uno statuto che lo rende legittimo; viceversa se non lo riconosco tale ma terrorista, adotto una categoria che sottrae qualunque legittimità all'avversario9. Curi ripercorre allora le vicende

5 Cfr. A. DI MARTINO, op. cit.

6 E. ROSSI, Alcune considerazioni sul bilanciamento in Le libertà spaventate. Contributo al dibattito sulle libertà in tempi di crisi, a cura di P. CONSORTI, F. DAL CANTO, S. PANIZZA, Pisa, Pisa University Press, 2016, p. 77.

7 Cfr. ibidem.

8 Si segnala che quanto segue in merito alla descrizione del terrorismo in genere è tratto dall’intervento di U. CURI al seminario Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, cit., reperibile all’indirizzo

http://www.radioradicale.it/scheda/469257/terrorismo-internazionale-politiche della-sicurezza-diritti-fondamentali-prima.

9 Eppure, da un altro punto di vista può dirsi oramai scardinata la logica per cui «ad un atto di guerra si risponde con la guerra; a un crimine, se pure gravissimo, si

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9 politiche italiane degli anni Settanta per cercare di pervenire a una pulizia terminologica, cui aspira col fine ultimo di fare chiarezza in merito all’abuso di un termine con cui si sono nel tempo qualificati fenomeni diversissimi e che vanno invece rigorosamente tenuti distinti.

Possiamo pertanto individuare un primo fenomeno che trova come sua rappresentazione più compiuta le Brigate Rosse e Prima Linea10,

cioè quelle formazioni combattenti eredi dell’ideologia marxista-leninista, imperniata sulla presa dello Stato attraverso la rottura rivoluzionaria: esse incarnano la più compiuta espressione della c.d. lotta armata11. Tale fenomeno è irriducibile alla comune accezione di

terrorismo per varie ragioni: mentre ad esempio una delle caratteristiche proprie del terrorismo è data dallo “sparare nel mucchio”, non c’è invece un obiettivo delle Brigate Rosse che non sia

risponde con il diritto, cioè con l’accertamento e la punizione dei colpevoli», come sostiene Luigi Ferrajoli (L. FERRAJOLI, Terrorismo e diritto fra storia ed attualità, in Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali., Questione Giustizia, Speciale Settembre 2016, cit., p. 69). Si pensi in proposito alla guerra in Afghanistan e Iraq come risposta all’attacco alle Twin Towers, con il risultato di erigere a Stato in guerra quella che nasceva come un’organizzazione criminale.

10 Queste alcune delle differenze tra Brigate Rosse e Prima Linea: «Presentandosi come formazione pluralista e orizzontale, Prima Linea […] si è rivelata meno settaria rispetto al verticismo militare delle Brigate Rosse e di fatto lontana dalla logica elitaria dei leninisti. L’organizzazione aspira a mantenere un radicamento nel sociale, un rapporto con le ‘masse’ […]. I criteri organizzativi prevedono - accanto ad una struttura centralizzata con al vertice il Comando Nazionale - singoli nuclei dotati di una certa autonomia e che, presenti all’interno dei movimenti, assicurano un collegamento con gli strati sociali di riferimento. A differenza del brigatista ‘regolare’, rivoluzionario a tempo pieno che ha fatto della clandestinità anche una scelta esistenziale, il militante di Prima Linea ricorre a questa modalità operativa solo in casi eccezionali e perché individuato dalle forze dell’ordine. Più di frequente adotta un modulo semi-clandestino e continua a vivere normalmente, conservando la propria identità e mimetizzato tra la gente, spesso lavorando e svolgendo anche attività politica nell’ambito dei movimenti allo scopo di non rischiare l’isolamento e mantenere costantemente la connessione con le istanze di base […]. Si tratta quindi di un modulo organizzativo meno chiuso e compartimentato rispetto a quello delle Brigate Rosse, che favorisce la rapida crescita del gruppo, grazie anche alla facilità dell’arruolamento, e si rivelerà così più permeabile alle forze investigative, venendo in parte abbandonato dopo la prima ondata di arresti.», (Movimento e militarismo. Prima linea, anima armata del ’68 in GNOSIS, Rivista italiana di intelligence, n.4/2005, http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista5.nsf/ServNavig/11).

11 S’intende per tale la strategia che impiega l’uso delle armi, adottata da gruppi rivoluzionari per il perseguimento della propria linea politica.

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10 stato accuratamente scelto (le Brigate Rosse non “sparano nel mucchio” in un giorno qualunque ma rapiscono Moro nel giorno in cui il primo governo di unità nazionale ottiene il visto dal parlamento); in secondo luogo, le azioni terroristiche in senso stretto non sono quasi mai connesse tra loro in una visione strategica organica diversamente da quelle delle Brigate Rosse.

Il secondo fenomeno è la pratica impiegata dalle formazioni dell'autonomia operaia organizzata: il dato distintivo di questo fenomeno di violenza politica è l’illegalità di massa volta a colpire il sistema nei suoi punti deboli proprio per smascherarne la fragilità. Se gli ispiratori teorici delle Brigate Rosse sono gli esponenti del pensiero marxista-leninista, quelli dell'illegalità di massa dell'autonomia operaia sono gli esponenti del pensiero francese della seconda metà del Novecento, e in particolare autori come Deleize e Foucault che ne hanno costruito la matrice teorica, la quale non solo non è riconducibile al modello marxista-leninista, ma è anche esplicitamente polemica nei confronti dello stesso.

Un terzo fenomeno è dato dai Nuclei Armati Rivoluzionari, ideatori di un’inedita alleanza tra frange dell'estremismo neofascista e neo nazista (da un lato) e il crimine organizzato (dall’altro): buona parte dei fatti di sangue della seconda metà degli anni Ottanta può essere ricondotta a tali formazioni, che avevano come riferimento teorico non Marx né Lenin, non Deleize né Foucault, bensì l’ideologia del superamento del dualismo ‘capitalismo-comunismo’ e l'idea di una terza irriducibile posizione tra i due.

Tornando a noi, nella ricostruzione della matrice del terrorismo attuale si è soliti parlare di radicalizzazione dell'Islam; a ben vedere però non è di questo che si tratta, bensì di «islamizzazione della radicalità sociale» per dirlo con le parole lapidarie con cui lo stesso Curi chiude il suo intervento. Ed è proprio su questo tanto significativo quanto provocatorio chiasmo che si dovrà ragionare per poter

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11 approdare a risultati nuovi partendo da una prospettiva della questione rovesciata rispetto a com’è tradizionalmente affrontata.

Prima di arrivare a invertire il punto di vista, e in realtà anche a prescindere da tale capovolgimento, è arrivato il momento di porre particolare attenzione - similmente a come si è fatto con ognuna delle realtà che si è soliti far rientrare nel calderone del terrorismo - alla matrice islamica che ispira ciò che d’ora in poi chiamerò il nostro terrorismo, intendendo per tale il terrorismo dei nostri giorni, quello che naturalmente ci sovviene alla mente ogniqualvolta sentiamo oggi parlare genericamente di terrorismo. E questo inquadramento religioso è necessario a prescindere dal fatto che la religione sia: il manifesto di una più ampia richiesta di inclusiveness, come per l’immigrato di seconda generazione che si radicalizza e il giovane cittadino rivoltoso che si converte; oppure la ragion d’essere, come per il terrorista che mira a colpire la dissoluta civiltà occidentale così lontana dalle radicate convinzioni della Shari’a, al fine di ricreare una società perfetta in quanto modellata sui dettami del Corano.

Il terrorismo di matrice islamica è una sfida completamente nuova rispetto al passato: se non comprendiamo che il movimento è un movimento religioso, un movimento che ha nella radice religiosa la sua ispirazione ideologica e se non comprendiamo che è proprio quella ad attirare i giovani, come avvenuto con le Brigate Rosse (che è stato difficile contrastare finché non si è lavorato sull’humus culturale nel quale nascevano), diventa anche stavolta estremamente difficile individuare gli strumenti giusti. Il procuratore generale della Repubblica di Roma, Giovanni Salvi, sostiene infatti che non è necessario muoversi ancora nella direzione dell’anticipazione delle sanzioni penali, mostrando invece tutto il suo favore per lo studio della cultura islamica in quanto strada necessaria da percorrere ma non

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12 sufficientemente esplorata12. Anche lui riconosce l’importanza delle radici socio-politiche che sottostanno alla scelta della radicalizzazione; tuttavia a ciò accosta la rilevanza dell’elemento ideologico poiché l’ideologia jihadista rappresenta «una solida cornice narrativa»13 per attirare militanti mossi dalle più svariate motivazioni.

Assodato che il fattore religioso è la componente maggiormente caratterizzante il nostro terrorismo, occorre a questo punto comprendere in che relazione esso si trova rispetto alle motivazioni di ordine sociale che non vanno comunque perse di vista. Nel rapporto tra questi due elementi risiede la correttezza o dell’espressione ‘radicalizzazione dell’Islam’ o al contrario dell’espressione ‘islamizzazione della radicalità (sociale)’: è il precetto coranico cioè ad essere estremizzato, o è piuttosto un sentimento sociale che trova appiglio in un insegnamento religioso (di per sé rigido e quindi ideale per veicolare idee radicali) ad essere esasperato? Nella risposta a questa domanda si annida uno dei nodi da sciogliere preliminarmente e necessariamente per poter proseguire oltre nella trattazione.

Va costatato che la fisionomia del terrorismo è molto cambiata rispetto all’ormai lontano Undici Settembre: si legge infatti che «oggi il fenomeno terroristico è molto più fluido, variabile e complesso rispetto al passato»14. Oliver Roy, politologo esperto di Islam e

professore di scienze politiche all’Istituto universitario europeo scrive riguardo agli episodi di terrorismo che sembrano non voler abbandonare la Francia: «ce n’est pas la “révolte de l’Islam” ou celle des “musulmans”, mais un problèm précis concernant deux categories de jeunes»15 e il riferimento va agli immigrati di seconda

12 G. SALVI, Conoscere il terrorismo Jihadista. Strumenti e tecniche di indagine, in Questione Giustizia - Speciale Settembre 2016 - Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, cit., pp. 158-159.

13 Ibidem.

14 A. PASTA, Radicalizzazione dell’Islam o islamizzazione del radicalismo?, in Eco Internazionale, 15 luglio 2016, https://ecointernazionale.com/2016/07/15/due-tesi-a-confronto-radicalizzazione-dellislam-o-islamizzazione-del-radicalismo/ . 15 O. ROY, Le djihaisme est une révolte générationnelle et nihiliste, in Le monde, 2015, 23 novembre 2015,

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13 generazione e ai convertiti all’Islam, entrambe categorie che «portano con sé una volontà di radicalizzazione che trova un “brand” nell’Isis»16. Si tratta quindi di giovani che abitano le periferie, dove

vivono un disagio sociale dettato dal non riconoscersi nei valori del mondo occidentale e neanche nella scelta di condividerli fatta dai propri genitori. Sostiene Roy: «quant aux convertis, ils choisissent l’Islam parce qu’il n’y a que ça sur le marché de la révolte radicale. Rejoindre Daech, c’est la certitude de terroriser»17.

Se quindi in un primo momento la fisionomia del terrorismo islamico è stata più lineare, in quanto si risolveva in azioni violente di gruppi fondamentalisti portatori di una “guerra santa” condotta contro i (dis)valori dell’occidente, oggi la situazione risulta molto meno semplice. Se si passano in rassegna i meno risalenti attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa18, si può notare come autori degli stessi siano non più (o non tanto) fondamentalisti che vogliono affermare la propria fede ricorrendo ad azioni estreme, bensì potenziali rivoluzionari ‘brandizzati’ Isis. I terroristi degli ultimi tempi sono cioè ragazzi alla deriva «cherchent une cause, un label, un grand récit pour y apposer la signature de leur révolte personnelle»19; essi si

http://www.lemonde.fr/acces-restreint/idees/article/2015/11/24/80a1ac349b3888d2e2c1dfa112c695ff_4815992_ 3232.html.

16 A. PASTA, op. cit. 17 O. ROY, op. cit.

18 Si pensi all’attacco del 7 gennaio 2015 a Parigi, quando due uomini armati di AK-47, i fratelli Kouachi, francesi di origine algerina, attaccano la redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo uccidendo dodici persone e ferendone undici; a quello di Copenaghen, dove appena un mese dopo, il 14 febbraio 2015, si susseguono due diverse sparatorie ad opera di un ventiduenne, Omar Abdel Hamid El-Hussein, palestinese-giordano nato in Danimarca; si pensi ancora a Nizza, dove il 14 luglio 2016, durante i festeggiamenti per la festa nazionale francese un camion si getta sulla folla lungo la Promenade des Anglais provocando la morte di ottantasei persone e ferendone più di quattrocento: l’autista, Mohamed Lahouaiej Bouhalel, era un tunisino residente in Francia con doppia nazionalità, francese e tunisina. Si veda poi l’attentato di Manchester, il cui autore, Salman Ramadan Abedi, anche lui ventiduenne, era figlio di libici ma nato nel 1994 a Manchester, e per concludere con uno degli attacchi più recenti si può citare quello dello scorso marzo a Trèbes: anche Lakdim (venticinque anni) era nato nel 1992 in Marocco ma aveva nazionalità francese.

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14 aggrappano all’Islam quasi per necessità, cosicché il loro legame con la religione è più una questione di opportunismo che di reale convinzione, e questo discorso vale per entrambe le categorie di terroristi di cui parla Roy, immigrati di seconda generazione e convertiti: «qu’y a-t-il de commun entre les “deuxième génération” et les convertis? Il s’agit d’abord d’une révolte générationnelle»20. I

primi trovano nel fondamentalismo islamico uno strumento che permette loro di evadere da una società in cui non si sentono pienamente integrati, e parliamo di un’integrazione non solo di tipo socio-economico (la quale pure incide ma come uno tra più fattori e non l’unico), bensì d’integrazione intesa anche come «appartenenza a una determinata società»21.

L’Islam radicale diventa così non solo una via d’uscita da uno standard di società ma anche di fuga dalla stessa famiglia di provenienza, “colpevole” di essersi lasciata imbrigliare nella rete dell’Occidente: per usare ancora le parole di Roy, i ragazzi della seconda generazione «[…] reprennent à leur compte une identité que leurs parents ont, à leurs yeux, galvaudée: ils sont “plus musulmans que les musulmans” et en particulier que leurs parents».22

Generalmente infatti i loro genitori sono musulmani moderati che anzi cercano, anche collaborando con la polizia, di allontanare i propri figli dalla strada dell’estremismo.

È raro trovare attentatori che nutrivano originariamente sentimenti religiosi moderati, che frequentavano luoghi di fede e che hanno poi gradualmente esasperato queste idee fino a portarle al parossismo ; trattasi invece, quasi sempre, di soggetti che si sono avvicinati

20 Ibidem.

21 L. VIDINO, op. cit., p. 100.

22 O. ROY, op. cit., ma si veda anche l’efficace traduzione di A. SPARACINO su Internazionale, 27 novembre 2015: «[…] rielaborano un’identità che ai loro occhi è stata compromessa dai genitori e si convincono di essere “più musulmani dei musulmani”, in particolare dei padri», dove «ils sont» è tradotto con la significativa espressione «si convincono di»,

h tt p s: / / www. i n t er n a z i on a l e. i t/ op i n i on e/ ol i ver -r o y/ 2 0 1 5 / 1 1 / 2 7 / i sl a m - g i ova n i - ji h a d.

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15 d’improvviso e repentinamente al mondo islamico, e peraltro - non è un caso - non a quello moderato, bensì a quello radicale. È significativo che in genere nessuno di loro sia stato un fervente praticante in passato, essendo indice del fatto che essi sono soliti imbracciare la fede come un’arma, e non invece abbracciarla all’esito di un ponderato e sentito percorso spirituale23.

Discorso analogo può essere fatto con riferimento ai convertiti, i quali non si avvicinano gradatamente all’Islam, non cominciano con l’incuriosirsi dell’Islam moderato per poi radicalizzarsi, ma sin dal principio si buttano a capofitto in quello radicale per rompere gli schemi politico-sociali in cui sono invischiati.

Né gli uni né gli altri sono attratti dalla religione islamica in sé, quanto dall’esistenza di una sua concezione estrema: detto altrimenti, se ci fosse un’altra ideologia altrettanto dirompente con cui etichettare la propria rivolta personale, probabilmente andrebbe ugualmente bene. Il radicalismo va così a innestarsi non su una fede ardente, pressoché inesistente, bensì sull’ardente spirito di rivolta di tali soggetti: «leur radicalisation se fait autor d’un imaginaire du héros, de la violence et de la mort, pas de la charia ou de l’utopie»24, sostiene Roy.

1.2. Il paradigma della paura

Dopo aver chiarito il ruolo che gioca la religione nel nostro terrorismo, è possibile passare al secondo tra gli elementi che lo caratterizzano e che è d’interesse ai fini della trattazione, la paura.

Cass R. Sunstein, costituzionalista statunitense che è stato tra i consiglieri giuridici di Barack Obama, ha dedicato un intero saggio,

23 A riprova di ciò soccorrono alcune tra le più comuni affermazioni rilasciate da conoscenti o familiari del terrorista, i quali, intervistati dopo l’attacco: «On ne comprend pas, c’était un gentil garçon (variante : “Un simple petit délinquant”), il ne pratiquait pas, il buvait, il fumait des joints, il fréquentait les filles… Ah oui, c’est vrai, il y a quelques mois il a bizarrement changé, il s’est laissé pousser la barbe et a commencé à nous saouler avec la religion», (O. ROY, op. cit.).

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16 intitolato Il diritto della paura25, all’incidenza che il sentimento di paura che pervade la nostra società ha sul modo di fare diritto. In particolare Sunstein denuncia il comportamento di quei governi che hanno marciato sull’allarme sociale (alimentato dai mass media che pure, vedremo, hanno la loro responsabilità in questo complesso quadro) per promuovere politiche che altrimenti non sarebbero condivise dai consociati.

Sicuramente far dilagare la paura con lo scopo ultimo di spingere una comunità ad accettare limitazioni alle proprie libertà pur di sperare in una maggiore sicurezza è ciò cui aspira il terrorismo islamico, nell’intento di mettere in crisi una società partendo proprio dalle fondamenta. Tuttavia, se gli interventi normativi adottati per scongiurare un possibile pericolo vanno in questa direzione si finisce col minare le basi della democrazia, e questo non significa forse fare il gioco del nemico? D’altronde non è il terrore a mettere a repentaglio le libertà fondamentali quanto il pericolo in sé; il terrore invece è quel sentimento che spinge a premunirsi rispetto a un pericolo solo eventuale e ad adottare misure che in concreto comportano già nell’immediato, e quindi a prescindere dall’effettivo verificarsi dell’evento temuto, delle conseguenze: in questo lavoro verranno affrontate in particolare quelle che si riverberano sull’assetto delle libertà poste a fondamento della democrazia.

Si finisce così col sacrificare per certo qualcosa che solo ipoteticamente avrebbe potuto essere in pericolo. Intraprendendo questa via con specifico riferimento al terrorismo di matrice islamica altro non si fa che servire su un piatto d’argento la libertà esattamente a chi mira a colpirla, poiché si dà al “nemico” quel che vuole ottenere: «[…] la progressiva assuefazione alla limitazione dei diritti di libertà per ragioni di sicurezza rappresenta già una vittoria per i professionisti

25 C.R. SUNSTEIN, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, trad. it. Umberto Izzo, Bologna, 2010 (ed. orig. Laws of Fear. Beyond the Precautionary Principle, Cambridge, Cambridge University Press, 2005).

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17 del terrore, che aspirano a minare i presupposti della civiltà democratica […]»26. Ricorrendo a un’espressione del gergo calcistico

si potrebbe dire che è un po’ come farsi un autogol.

E allora così facendo ci si trova, in definitiva, davanti a due paradossi, uno, direi, di carattere oggettivo, l’altro soggettivo: il primo consiste in ciò, che per evitare di trovarsi in una situazione solo ipotetica, s’imbocca volutamente proprio la strada che vi conduce27; il

secondo consiste nel fatto che artefice di questa scelta è proprio lo stesso soggetto che da quella situazione vorrebbe mettersi al riparo. In altre parole, il paradosso della tutela della sicurezza porta a limitare diritti, al fine di proteggere gli stessi28.

L’incidenza della paura sul fenomeno in questione è insita nello stesso termine terrorismo. Il professor Gian Luca Conti sostiene che:

Terrorismo è una parola che nasce per spaventare.

[…] Viene da una espressione latina: terror cimbricus, i Cimbri erano un popolo del nord, dei barbari, che si spinsero alle porte di Roma, i Romani erano terrorizzati dai Cimbri perché si narrava che le loro donne seguissero i guerrieri in battaglia e si cibassero degli sconfitti. […]. È possibile sostenere che il terrorismo abbia molto a che fare con il terror cimbricus: è un pericolo spaventoso perché ignoto: il pericolo di una morte incapace di distinguere e comunque estremamente crudele29.

26 C. BASSU, I diritti umani e le nuove sfide della sicurezza, in Forum di Quaderni costituzionali, 27 marzo 2017, www.forumcostituzionale.it.

27 E. ROSSI, Alcune considerazioni sul bilanciamento, in Le libertà spaventate. Contributo al dibattito sulle libertà in tempi di crisi, cit., p. 69.

28 Sul punto si vedano G. DI COSIMO, Costituzione ed emergenza terroristica e T.E. FROSINI, Il diritto costituzionale alla sicurezza, in Forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it.

29 G.L CONTI, Terror cimbricus e patrimonio costituzionale condiviso in L’ordinamento giuridico italiano nello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, a cura di E. CATELANI, Napoli, Editoriale scientifica, 2014, p. 47-49.

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18 Ciò che un tempo era il terror cimbricus, oggi prende il nome di ‘orrorismo’30: coniato dalla filosofa italiana Adriana Cavarero, il

neologismo è dotato di un forte potere evocativo, giacché lascia trasparire chiaramente i connotati di un terrorismo che, diverso da esperienze trascorse, richiede di esser letto attraverso paradigmi di nuova fattura: con esso si vuole descrivere una situazione ingenerata da un nemico senza volto, che serpeggia nella società e i cui connotati oggi non sono più gli stessi del terrorismo del passato. Oltre alla connotazione prettamente religiosa, esso si caratterizza infatti per una tendenziale affermazione nel tempo in modo pressoché stabile, o comunque duraturo, ed è per questo che bisogna far attenzione a qualsiasi risoluzione finalizzata a prevenire/reprimere il fenomeno, poiché la situazione di timore latente assume le forme della quotidianità e della normalità e, assieme ad essa, l’assumono anche gli interventi normativi. A ragione pertanto Maria Laura Lanzillo si domanda se «il rapporto paura-sicurezza è l’asse portante che costituirà l’ossatura dello spazio politico del XXI secolo o [se] è ancora possibile ipotizzare una nuova pratica di pensiero che metta in campo un’immaginazione all’altezza delle sfide del presente […]»31.

Il binomio paura-sicurezza non è certo una novità, tuttavia va rivisto secondo categorie concettuali nuove, essendo mutato non tanto, e non solo, il contesto in cui si iscrive la necessità di risolverlo, quanto piuttosto il pericolo da schivare, trattandosi di un nemico dalla fisionomia inconsistente e potenzialmente permanente.

La professoressa Lanzillo accusa le «istituzioni della sicurezza» quali lo Stato, i partiti, i sindacati di alimentare la paura, anziché assolvere al proprio ruolo che, viceversa, è quello di dominarla32.

30 Cfr. P. CONSORTI, La libertà religiosa nel terzo millennio: tra crisi di sicurezza e paura in Libertà di espressione e libertà religiosa in tempi di crisi economica e di rischi per la sicurezza, cit., p. 160.

31 M.L. LANZILLO, Governare la paura nell’epoca globale, in Filosofia politica, N.1, aprile 2010, p. 3.

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19 Viene spontaneo domandarsi se non esista una via di fuga dal descritto status quo, o se invece si può ancora «provare a dare scacco matto alla paura?»33. Proverò a dare una risposta a questo interrogativo all’interno del terzo capitolo, in cui cercherò di percorrere vie alternative a quella del «diritto della paura»34.

Sunstein dedica diverse pagine alla descrizione dei fattori che determinano la paura, tra i quali trovo opportuno ricordare le «cascate sociali», ovvero il meccanismo per cui la gente si lascia travolgere dalle paure paventate da altri, tanto da potersi persino convincere della fondatezza di una paura ingiustificata, e la «polarizzazione di gruppo», ovvero il fenomeno per cui gli individui in un gruppo cedono alla paura più di quanto farebbero singolarmente, ed è quasi naturale pertanto trovarsi davanti a una collettività che delibera una decisione più radicale di quella che ciascun membro singolarmente avrebbe adottato35.

Marciando su tali aspetti della psicologia cognitiva, i mass media prima36, e gli uomini politici poi, cercano di indirizzare l’attenzione

33 Ivi, p.6.

34 C.R. SUNSTEIN, op. cit. 35 Ivi, p. 131 e ss.

36 Ritengo importante accennare al ruolo di grande responsabilità che giocano i mass media in questo panorama: sul modo in cui un dato fenomeno è avvertito dalla collettività, infatti, influiscono una serie di fattori che distorcono la visione della realtà e che conseguentemente portano ad avanzare richieste spropositate, o anche semplicemente inappropriate. L’UNESCO ha racchiuso in 110 pagine delle linee guida per chi voglia trattare di terrorismo; tra i punti chiave del vademecum spiccano: «Take care when broadcasting live», «Publish essential images without resorting to sensationalism», «Control and decontruct hate speech, rumors and conspiracy theories» (J.P. MARTHOZ, Terrorism and the Media, UNESCO, Parigi, 2017, p. 44). Trattasi di una sorta di vademecum per «Un giornalismo etico come risposta alla violenza del terrorismo» (F. LA RUE, Un giornalismo etico come risposta alla violenza del terrorismo, disponibile su Associazione CARTA di ROMA, 31 maggio 2017, https://www.cartadiroma.org/news/giornalismo-etico-risposta-terrorismo/). Questa esigenza nasce dal fatto che ci troviamo oggi davanti a un discorso sul terrorismo creato ad arte, frutto di moltiplicazioni ed esacerbazioni: come spiega Francesco Strazzari, si tratta quasi di «un genere televisivo vero e proprio» cui dà il nome di «meta-terrorismo», ottenuto tramite l’impiego di tecniche di post-produzione e che «consiste nell’usare/replicare/amplificare il potere comunicativo [già di per sé molto forte] del terrorismo per instillare la paura del terrorismo avanzando obiettivi politici» (F. STRAZZARI, Fra meta-terrorismo e sicurezza algoritmica in Questione Giustizia - Speciale Settembre 2016 - Terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, p. 92).

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20 dei consociati nella direzione più confacente al perseguimento dei propri interessi, rivestendo così un ruolo di grande responsabilità nell’accrescimento del sentimento di paura di una comunità37.

Accade quindi che la classe dirigente, anziché assolvere alla propria funzione, la quale richiede di essere custode di razionalità e dispensatrice di sicurezza, si abbandona alla deriva del populismo, cosicché i consociati invece di trovarvi risposte s’imbattono in parole che vanno ad alimentare timori già diffusi dai media.

Con ciò non intendo minimizzare un problema che senza dubbio ha un’incidenza determinante sull’assetto dell’intero pianeta38; tuttavia

c’è bisogno di qualcuno che si occupi di riportare nei giusti confini i timori che imperversano nella società, in modo da incanalare conseguentemente nella giusta direzione anche gli interventi normativi. Chi istituzionalmente dovrebbe occuparsene è la classe dirigente, la quale ha il compito - tra gli altri - di difendere la comunità dalle derive della paura (fomentata dal modus operandi dei mass media), giacché essa ricopre una posizione tale da riuscire a incidere sulla risonanza che un fatto ha sulla collettività; e in effetti essa sfrutta sì questo potere, ma in una direzione opposta rispetto a quella cui eticamente dovrebbe indirizzarlo e che finisce per essere la stessa dei mass media, assicurandosi così il favore di elettori che cercano risposte adeguate alle questioni per come queste vengono dipinte dal mondo dell’informazione. Come spiega Sunstein, gli attacchi terroristici dell’Undici Settembre sono stati un fatto oggettivamente

37 Si pensi in proposito all’incidenza delle parole di un politico in merito, per esempio, alla necessità di inasprire le norme in tema di immigrazione. Sul punto si rinvia al capitolo terzo, paragrafo 2.

38 Né ritengo possibile, a distanza di tredici anni da quando scrive Sunstein, mantenere ferme le sue teorie sull’effettiva avverabilità del pericolo e le critiche che muove al principio di precauzione: per l’autore il principio di precauzione è «un modo grezzo e a volte perverso di promuovere finalità desiderabili, e […], preso a valore facciale, si rivela paralizzante e, perciò, di nessun aiuto» (C.R. SUNSTEIN, op. cit., p. 52). Semmai ritengo opportuna una lettura nuova del principio di precauzione, tale da permetterne un’applicazione adattata, per mezzo della quale riuscire ad incanalare nella giusta direzione gli interventi normativi antiterrorismo.

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21 clamoroso e lo sarebbero stati anche se il presidente George W. Bush non li avesse così tanto enfatizzati per ottenere il consenso del Paese nell’intraprendere azioni smisuratamente dispendiose (come la guerra in Iraq) in termini non solo economici, ma anche di conquiste sociali39.

Sunstein chiude il suo lavoro con le seguenti parole:

Poiché rispettano la libertà e l’autogoverno e poiché vogliono migliorare la vita degli uomini i governi democratici ascoltano attentamente ciò che la gente ha da dire. Ma per la stessa ragione stanno bene attenti a fare in modo che le leggi e le politiche riducano e non replichino gli errori a cui è esposta la gente che soccombe alla paura40.

Questo è ciò che dovrebbe essere una classe dirigente democratica, la quale nell’erogare risposte più efficienti, ancorché d’aspetto meno securitario, diventa fonte di autentica sicurezza per la collettività. Nella pratica invece i governi sono pronti a cavalcare l’onda del terrore e a promuovere, tra le opzioni normative che potrebbero abbracciare, le politiche che più assecondano il bisogno di sicurezza dei consociati, in modo da incontrare il loro plauso.

È qui che dopo un (forse troppo) lungo ma doveroso percorso intendevo arrivare, affinché questo diventi il punto di partenza per avviare un cammino di decostruzione dell’approccio normativo di lotta al terrorismo tipicamente adottato, e per approdare a risultati che incarnino realmente la missione della classe dirigente di un Paese democratico. Enrico Grosso riconosce proprio alla politica una «funzione pedagogica», ma ne costata tristemente l’inattuazione: accusa la classe dirigente di essere incapace di dominare le trasformazioni sociali dalle quali invece si lascia trainare, e di non

39 Cfr. C.R. SUNSTEIN, op. cit., p. 144. 40 Ivi, p. 303.

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22 riuscire a fornire valide risposte al bisogno di sicurezza dei cittadini41. La classe dirigente ha il dovere di individuare la politica più efficace per contrastare i reali rischi che i cittadini corrono, dovendo invece rifuggire da scelte di più semplice attuazione da un lato e di aspetto maggiormente securitario dall’altro, ma in ogni caso deleterie per le libertà fondamentali. «L’opinione pubblica va guidata, rassicurata, correttamente informata in merito ai complessi processi in atto»42 e

questo messaggio passa anche attraverso interventi normativi sia pure impopolari, ma che rappresentano un investimento in termini di civiltà.

41 Cfr. E. GROSSO, Lotta al terrorismo e funzione pedagogica della politica: l’anima perduta dell’Europa in Diritto pubblico comparato ed europeo, n.2, 2016, p. 286.

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23

CAPITOLO I

Quale emergenza?

1. Considerazioni generali

Alessandro Pizzorusso nell’Enciclopedia delle scienze sociali alla voce (stato di) emergenza scriveva: «il termine ‘emergenza’ (emergency, urgence, ecc.) è impiegato - in un significato non necessariamente tecnico - per indicare le situazioni improvvise di difficoltà o di pericolo, a carattere tendenzialmente transitorio (anche se non sempre di breve durata), le quali comportano una crisi di funzionamento delle istituzioni operanti nell’ambito di una determinata compagine sociale»43.

Alla luce di questa definizione la domanda che mi pongo è la seguente: rispecchiano il nostro terrorismo44 le parole di Pizzorusso, e

quindi è un’emergenza quella che dobbiamo affrontare, o forse la natura del problema è tutt’altro che emergenziale e le misure da adottare ci portano anch’esse in un’altra direzione? Per rispondere occorre seguire un ordinato iter logico che si sviluppa in due momenti ben distinti: si parte, nella prima sezione, dallo studio dell’emergenza, e più precisamente del posto riservatole nelle costituzioni democratiche, inclusa la nostra, per poi valutare, nella seconda, sulla scorta degli elementi raccolti nella prima, se anche il nostro terrorismo possa essere incasellato nella definizione di partenza e quindi affrontato seguendo il paradigma emergenziale45.

43 A. PIZZORUSSO, Emergenza (stato di), Enciclopedia delle scienze sociali (1993), Treccani,

http://www.treccani.it/enciclopedia/stato-di-emergenza_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/.

44 Si ricorda che, ai fini del presente lavoro, con tale espressione s’intende riferirsi al concetto di ‘terrorismo del tempo ordinario’, per la cui descrizione si rinvia all’Introduzione.

45 Non va persa di vista infatti la linea guida di questo lavoro: valutare i rischi che la Costituzione corre alla luce delle misure antiterrorismo tradizionalmente adottate e

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24 Inoltre verrà brevemente affrontata nella prima sezione la più generica questione della convenienza (o meno) di costituzionalizzare una disciplina dell’emergenza, sebbene, nella seconda, le considerazioni sull’ordinarietà del pericolo renderanno vana - per quel che riguarda l’oggetto della trattazione - qualunque posizione favorevole o contraria all’inserimento di un’emergency clause in Costituzione.

SEZIONE PRIMA SULL’EMERGENZA

1. L’emergenza nelle costituzioni democratiche

La costituzione di uno Stato democratico contiene le norme che garantiscono l’ordinato andamento della vita della comunità cui sono rivolte: nel provvedervi al momento della loro stesura si pensa a regolare situazioni possibili o quanto meno prevedibili, ma l’agire umano e ancor più il genio della natura (primissima tra le cause dell’emergenza) non sono affatto pronosticabili con assoluta certezza e neppure con brevi margini di dubbio; ecco perché al verificarsi di un evento nuovo (in quanto non concepito e quindi privo di una disciplina ad hoc) ci si ritrova sprovvisti di un parametro costituzionale cui ancorare gli interventi disposti per fronteggiarlo, salvo: che la costituzione contempli una clausola d’emergenza cui appigliarsi in situazioni che mettano in discussione l’ordinato andamento del sistema; oppure che, anche in assenza di questa, s’impieghino altre norme contenute nel testo costituzionale per delimitare lo spazio di movimento del potere che interviene.

La difficoltà maggiore che incontra uno Stato democratico nel regolare questo genere di situazioni risiede nel fatto che, anche, e

riflettere sulle ripercussioni che un regime emergenziale comporta sull’assetto ordinario della democrazia.

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25 specialmente, in siffatti momenti, esso deve dimostrare la capacità di mantenere in piedi i pilastri su cui si fonda: principio di uguaglianza, di legalità, libertà nelle sue varie sfaccettature (personale, religiosa, di domicilio, di circolazione, di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero e nella corrispondenza) ma anche garanzia delle riserve di legge e di giurisdizione. È semplice cadere nella tentazione di intervenire sui principi fondamentali di un ordinamento democratico per risolvere situazioni emergenziali, perché, quando la matrice del pericolo è di natura umana, è indubbio che la porta attraverso la quale passa il rischio è rappresentata proprio dai varchi lasciati liberi da una «società aperta»46. Se consideriamo

che gli spiragli attraverso i quali si insinuano i pericoli del terrorismo sono costituiti dalle libertà su cui si fonda un ordinamento democratico-costituzionale47, è comprensibile come mai la prima mossa che venga spontaneo mettere in atto per impedire che ciò accada sia chiudere quel passaggio, ossia - in altri termini - porre un freno alle libertà48; tuttavia, il rischio che si corre in questo caso è quello di

46 P. BONETTI, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 16.

47 «Per democrazie costituzionali possono intendersi quegli ordinamenti giuridici che, pur facendo proprio il principio democratico, impongono al potere politico (e alle sue legittime manifestazioni di volontà) limiti esterni, derivanti direttamente dalla norma costituzionale» (R. BIFULCO, Il dilemma della democrazia costituzionale, in Rivista AIC, n. 4/2012). La consapevolezza del rapporto che intercorre tra il potere politico e i vincoli imposti dalla costituzione risale al XX secolo, quando si afferma l’idea che le libertà e i diritti fondamentali preesistono allo Stato in quanto connaturati all’uomo stesso (eloquente a tal proposito è l’art. 2 della Costituzione italiana nell’impiego del verbo «riconoscere», emblema del principio personalista); viceversa, nelle costituzioni dell’ottocento veniva prima di tutto lo Stato, concepito come fonte dei diritti e dal quale dunque dipendeva la loro esistenza. 48 Si pensi tra le tante alla violazione della privacy indotta dalle intromissioni delle campagne di intelligence statunitensi (casi PNR, SWIFT e Prism), o alla libertà religiosa sensibilmente violata dalla c.d. ‘legge sulle moschee’ della regione Lombardia (legge regionale 11 marzo 2005, n. 12) che distingueva il regime di pianificazione urbanistica applicabile alla Chiesa cattolica e alle confessioni religiose con intesa da quello applicabile alle confessioni senza intesa: la Consulta ne ha dichiarato con sentenza n. 63 del 2016 l’incostituzionalità argomentando così: «Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato. Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma,

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26 eccedere in termini di costi-benefici rispetto alla minaccia astrattamente avvertita o concretamente subita, ovvero di sacrificare a dismisura e con certezza delle libertà sperando che a ciò possa collegarsi una maggiore garanzia per la sicurezza. Ciò determina uno scollamento rispetto all’impianto originario delineato dalla costituzione di un Paese - si pensi al nostro - che lungi dal voler rivivere l’incubo liberticida appena superato, necessitava di un testo rigido, nel quale diritti e libertà fossero concepiti non come concessioni (com’era nello Statuto albertino e in generale nelle costituzioni dell’ottocento, ispirate al positivismo)49, bensì come diritti

naturali che vanno pertanto sempre riconosciuti e garantiti dallo Stato50.

Del paradosso sicurezza-libertà si parlerà nella sezione seconda; ora invece occorre confrontare le diverse tecniche adottate da alcune

Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016)». Su queste ed altre violazioni si tornerà più diffusamente nel capitolo secondo e nella sezione I del capitolo terzo.

49 Questo assetto consentì nel periodo appena precedente all’avvento del regime fascista un’interpretazione restrittiva delle garanzie costituzionali (basti pensare ai moltissimi limiti imposti all’esercizio dei diritti di libertà e alla relativa competenza affidata al potere discrezionale dell’autorità di pubblica sicurezza), fino al prevalere - al culmine dell’affermazione del regime - di «una concezione di tali diritti funzionale al mantenimento dell’ordine politico costituito» (P. CARETTI - con la collaborazione di G.TARLI BARBIERI - I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli editore, Torino, 2011, p. 81) che determinò la scomparsa di qualunque residuo di libertà rimanesse del periodo liberale.

50 Lo spirito che avrebbe animato la nuova Carta è tutto racchiuso nelle celebri parole dell’ordine del giorno presentato dall’on. Giuseppe Dossetti il 9 settembre 1946 alla Prima sottocommissione della Commissione dei 75 (istituita in seno all’Assemblea per l’approvazione di un progetto di Costituzione): «La prima Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo […]; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo Statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana […] rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; […] c) che perciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato».

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27 tra le principali costituzioni democratiche51 per disciplinare l’emergenza in generale (e in particolare quella terroristica52), in modo

da valutare l’effettiva capacità dei rispettivi Paesi di gestirla, senza per ciò solo tradire la propria natura.

1.1. Gran Bretagna53

Il sistema britannico di gestione delle emergenze risale al XVIII secolo e prevede: da un lato che la Corona abbia il potere di applicare la martial law e di esercitare il comando delle forze armate a titolo di prerogativa regia per riportare l’ordine in caso di guerra o di ribellione; dall’altro che in tutte le restanti situazioni di emergenza il Governo adotti decisioni anche in deroga a norme vigenti, intervenendo ex post il Parlamento a legittimare con un Act of Indemnity un’azione governativa illegittima al momento della sua adozione (sempre che non ritenga invece opportuno far valere la responsabilità politica del Cabinet). Se l’uso della royal prerogative in caso di guerra o di ribellione incontra il limite della legge che lo disciplina, ed è pertanto sindacabile dal giudice qualora la martial law sia applicata oltre i limiti previsti, i provvedimenti adottati dal Governo in tutte le restanti situazioni d’emergenza incontrano, a posteriori, un limite solo

51 Con questa espressione non s’intende riferirsi necessariamente a costituzioni scritte ma a fonti costituzionali in generale: verrà di seguito riportato infatti l’esempio britannico.

52 Per il momento continuiamo ad attenerci alla concezione tradizionale che vede ancora oggi nel terrorismo un’esperienza emergenziale.

53 La stesura del presente paragrafo si basa sui seguenti lavori: P. BONETTI, op. cit., pp. 125-137; T. FENUCCI, Sicurezza e diritti fondamentali nel Regno Unito,

http://www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/fenucci_sicurezza.pdf;

M. CAIELLI, La dottrina britannica in tema di diritti, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2012 – IV, Giappichelli editore, p. 1564; E. BOSSOLI, UK: approvato l’Investigatory Powers Act, in Sicurezza e giustizia, N. 2/2017,

https://www.sicurezzaegiustizia.com/uk-approvato-linvestigatory-powers-act/; T. PENNA, Antiterrorismo: a Londra nuove misure restrittive, in Europae. Rivista di affari europei, 27 marzo 2015,

https://www.rivistaeuropae.eu/interno/giustizia-affari-interni/antiterrorismo-a-londra-nuove-misure-restrittive/.

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28 potenziale nella decisione del Parlamento in merito alla ratifica sanatoria dell’atto governativo eventualmente adottato in deroga alla legge.

Nella lotta al terrorismo però il Regno Unito non ha fatto ricorso ad alcuno dei meccanismi descritti, essendo pur sempre prevista anche la possibilità di promulgare leggi applicabili in situazioni emergenziali con cui conferire al Governo poteri eccezionali e con cui, in ragione della sovranità del Parlamento54, disapplicare alcune norme contenute

nel Bill of Rights55: di questo potere ha fatto largo uso il Parlamento britannico a seguito dello stratificarsi degli attacchi terroristici di questo millennio, anche se va precisato che con legge era stato già affrontato il terrorismo separatista nordirlandese56.

E difatti per quanto riguarda proprio la lotta al terrorismo internazionale, il primo intervento specificamente rivolto ad esso è rappresentato da una legge del Parlamento, il Terrorism Act 200057

54 Essendo il Parlamento sovrano, tutte le leggi nazionali (ivi compresi i contenuti del Bill of Rights) sono passibili di abrogazione o modifica se dallo stesso volute in un momento successivo alla loro adozione.

55 A questo proposito occorrono alcune puntualizzazioni: lo Human Rights act del 1998 dopo aver stabilito che i giudici devono applicare le leggi britanniche sui diritti fondamentali nel rispetto della giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, prevede che in caso di incompatibilità tra norme nazionali e norme convenzionali il giudice che rilevi il contrasto si limiti a riferirne agli organi costituzionali, spettando comunque al Parlamento l’ultima parola; se a ciò si aggiunge che il Regno Unito, come ogni Paese contraente, gode anche della possibilità di invocare la clausola derogatoria contenuta nell’art. 15 CEDU, ne risulta un sistema in cui il Parlamento ha una considerevole capacità di sospendere diritti in situazioni emergenziali, nonostante le garanzie poste dalla Convenzione.

56 A tal proposito si possono menzionare il Civil Authorities (Special Powers) Act (Northern Ireland) del 1922, il Prevention of Violence Act (Temporary Previsions) del 1939 e una lunga serie di statutory instruments a partire dagli anni settanta tra cui il Detention of Terrorists (Northern Ireland) Order del 1972, il Prevention of Terrorism (Temporary Previsions) Act del 1974, 1976, 1984, 1989, e tanti altri. 57 A questa legge si deve la prima definizione di terrorismo:

«(1) In this Act “terrorism” means the use or threat of action where— (a) the action falls within subsection (2),

(b) the use or threat is designed to influence the government or to intimidate the public or a section of the public, and

(c) the use or threat is made for the purpose of advancing a political, religious or ideological cause;

e di azione terroristica:

(2) Action falls within this subsection if it— (a) involves serious violence against a person,

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29 che, diversamente dal Criminal Justice (Terrorism and Conspiracy) Act 1998, che conteneva già dei riferimenti al terrorismo internazionale, vi è tutto dedicato; tuttavia, a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, si avvertì presto l’esigenza di modificare la nuova legge e, a meno di un anno dalla sua entrata in vigore, ne fu approvata una seconda, l’Anti-terrorism, Crime and Security Act 2001 (ATCSA)58. Ci basterà (e ci servirà59) una carrellata per appurare che

anche tutte le misure anti-terroristiche a seguire assumeranno la forma della legge del parlamento: così è stato per il Prevention of Terrorism Act 2005 che abrogò alcuni punti dell’ATCSA 2001 a seguito delle vicende giudiziarie che avevano riguardato la sua dubbia conformità

(b) involves serious damage to property,

(c) endangers a person’s life, other than that of the person committing the action, (d) creates a serious risk to the health or safety of the public or a section of the public, or

(e) is designed seriously to interfere with or seriously to disrupt an electronic system», sezione 1 (Terrorism: interpretation), sottosezioni 1 e 2 del Terrorism Act 2000,

https://www.legislation.gov.uk/ukpga/2000/11/contents.

58 La norma introdusse restrizioni in materia di immigrazione e trattamento degli stranieri che sollevarono forti critiche, in particolare relativamente alla parte 4 dell’ATCSA 2001 (poi interamente abrogata dal Prevention of Terrorism Act 2005) che contemplava la detenzione a tempo indeterminato (laddove il rimpatrio avrebbe comportato l’estradizione verso paesi in cui era prevista la pena di morte, contrariamente ai contenuti della CEDU) dei soggetti anche semplicemente sospettati di avere legami con il terrorismo internazionale, senza che fosse promossa un’accusa formale né avviato un processo, in attesa di prove concrete per incriminarli, giacché rilasciarli avrebbe potuto arrecare pericolo alla sicurezza nazionale (secondo le valutazioni del Secretary of State). Considerato che il presupposto per la detenzione era il sospetto ingenerato dalla commissione di precedenti reati o anche solo dal rischio del loro compimento a prescindere da un precedente, in applicazione di questa normativa sarebbe stata detenuta una persona senza processo.

59 La minuziosa rassegna che da qui prende avvio non risulti superflua: per recuperarne il senso si rinvia alla fine di questo paragrafo.

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30 alla CEDU60; per il Terrorism Act 200661 che ha emendato quello del 2000 insieme all’ATCSA 2001; per il Counter-Terrorism Act 2008 che ha introdotto la possibilità di prelevare a quanti siano sottoposti ai control orders campioni di DNA con cui creare una banca dati da utilizzare nelle indagini sui reati di terrorismo; per il Terrorism Prevention and Investigation Measures Act 2011 che ha abrogato il Prevention of Terrorism Act 2005 e sostituito i control orders (per mezzo dei quali si poteva procedere anche ad arresti domiciliari preventivi per soggetti sospettati di terrorismo) con le terrorism prevention and investigation measures che però hanno sollevato ugualmente perplessità sulla loro compatibilità con lo Human Right Act. Anche i meno risalenti interventi in materia vanno nella stessa direzione: il Protection of Freedom Act 2012 che ha introdotto un controllo giurisdizionale finalizzato all’autorizzazione delle

60 Alcuni sospetti terroristi che, in applicazione dell’ATCSA 2001, erano detenuti presso il carcere di Belmarsh a Londra adirono la SIAC (Special Immigration Appeals Commission), un tribunale speciale cui spettava il controllo del provvedimento di detenzione; questa in una pronuncia del 30 luglio 2002 (A and Others c. Secretary of State for the Home Department-Appeal, N.: SC/1-7/2002) affermò che oltre ad essere discriminatoria, in quanto riservava il trattamento previsto soltanto agli stranieri e non anche ai cittadini, la legge era non conforme al principio di proporzionalità tra le misure adottate e la situazione di fatto. La decisione venne ribaltata in appello, ma impugnata davanti ai Law Lords, i quali giudicarono illegittima la legge in quanto violava: gli artt. 5 (diritto alla libertà personale e alla sicurezza) e 6 (diritto ad un giusto processo) CEDU per la previsione della detenzione a tempo indeterminato e senza un processo; l’art. 14 (divieto di discriminazione) perché riservava il trattamento ai soli stranieri; l’art. 15 (deroga in caso di stato d’urgenza) perché ritenute insussistenti le circostanze che legittimano l’uso della deroga agli obblighi imposti dalla CEDU: secondo i Law Lords (si veda in particolare l’opinione del giudice Hoffman) non solo l’emergenza dovuta al terrorismo internazionale è una minaccia per lo Stato non paragonabile a quella che in altre epoche (ad es. durante le guerre mondiali) aveva legittimato la sospensione dell’habeas corpus, ma ancor più temibili della stessa sono le misure repressive adottate per contrastarla. A questa pronuncia seguì il Prevention of Terrorism Act 2005 che se da un lato abrogò molta della parte 4 dell’ATCSA 2001, dall’altro introdusse nuovi strumenti di limitazione della libertà personale.

61 Questa legge contiene novità in materia di istigazione alla commissione di atti terroristici, preparazione degli stessi, addestramento a fini terroristici e così via: «(1) This section applies to a statement that is likely to be understood by some or all of the members of the public to whom it is published as a direct or indirect encouragement or other inducement to them to the commission, preparation or instigation of acts of terrorism or Convention offences.», parte 1 (OFFENCES) sezione 1 (Encouragement of terrorism) del Terrorism Act 2006,

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