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Sistema di Dublino e rifugiati

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Academic year: 2021

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INDICE

CAPITOLO I – INTRODUZIONE ... 1

SEZIONE I: STORIA DEI FLUSSI MIGRATORI CHE HANNO INTERESSATO IL CONTINENTE EUROPEO. ... 1

SEZIONE II: L’IMMIGRAZIONE NON REGOLARE NEL PANORAMA EUROPEO CONTEMPORANEO. ... 5

SEZIONE III: CITTADINANZA ED ESTRANEITÀ... 9

SEZIONE IV: I RIFUGIATI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE. ... 15

CAPITOLO II – LA NORMATIVA EUROPEA IN MATERIA DI

ASILO ... 32

SEZIONE I: LA DIRETTIVA 83/2004/EU – DIRETTIVA QUALIFICHE. ... 32

SEZIONE II: IL REGOLAMENTO 604/2013/EU – REGOLAMENTO DUBLINO III. ... 76

SEZIONE III: LA DIRETTIVA 32/2013/EU - DIRETTIVA PROCEDURE. ... 113

CAPITOLO III: LA RIFORMA DEL REGOLAMENTO

DUBLINO ... 138

SEZIONE I: LA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE 197 DEL 2016. ... 138

SEZIONE II: LA PROPOSTA DI RIFORMA DEL REGOLAMENTO DUBLINO III – COM (2016) 270. ... 140

SEZIONE III: VALUTAZIONE DELL’EFFICIENZA E DELLA SOSTENIBILITÀ DELLA PROPOSTA COM (2016) 270. ... 147

SEZIONE IV: POSSIBILI VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI CONNESSE ALLE NORME DELLA PROPOSTA COM (2016) 270. ... 154

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1

CAPITOLO I – INTRODUZIONE

Sezione I: storia dei flussi migratori che hanno interessato il continente europeo.

Per lungo tempo i flussi migratori sono stati considerati un fenomeno esclusivamente contemporaneo. Solo recentemente si è sviluppato l’interesse per lo studio dell’evoluzione e delle ragioni dei fenomeni di migrazione.

Per poter apprezzare nella sua interezza l’evoluzione dei flussi migratori che hanno interessato l’Europa dobbiamo partire dal XVI secolo. Con la scoperta delle Americhe cominciarono flussi migratori rilevanti dall’Europa verso il Nuovo Mondo: a lasciare il Vecchio Continente erano soprattutto i ceti sociali più ricchi a causa degli alti costi che un viaggio oltreoceano comportava. A fianco di questi soggetti non si possono dimenticare gli schiavi provenienti dall’Africa. Se si considera il periodo che da XVI secolo va fino al 1820 e si analizzano i dati possiamo notare come solo il 18% dei migranti arrivati nel Nuovo Continenti fossero individui liberi; il restante 82% era composto da schiavi africani e da servi o galeotti europei1.

Nel corso del XIX secolo queste percentuali si sono modificate in maniera rilevante: nel 1880 l’81% dei migranti verso le Americhe era rappresentato da uomini liberi.

Dal 1846 si può cominciare a parlare di migrazioni di massa avendo i flussi migratori verso le Americhe raggiunto la cifra di trecentomila persone all’anno. Questa cifra continuò la sua crescita tanto da raggiungere, nel 1890, ottocentomila persone ogni anno e tanto da superare la quota di un milione di persone nei primi anni del Novecento. Questo forte incremento si spiega grazie alle emigrazioni di cittadini provenienti dai paesi dell’Europa meridionale, in particolare Spagna, Italia e Portogallo2.

1 Cfr. T. J. HATTON e J. G. WILLIAMSON, Global Migration and the World Economy, MIT

Press (Cambridge, Massachussets), 2008, passim.

2 Cfr. G. BETTIN e E. CELA, L’evoluzione storica dei flussi migratori in Europa e in Italia,

Cattedra UNESCON SSIM, 2014, reperibile online al seguente indirizzo

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2

Secondo le stime di Russell King3 nel periodo che va dal 1820 al 1940 partirono dall’Europa trai cinquantacinque ed i sessanta milioni di persone di cui trentotto milioni circa verso gli Stati Uniti. A cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’Inizio del Novecento, a fianco degli Stati Uniti, assunsero un ruolo di primo piano, come paesi di destinazione di flussi migratori, l’Argentina, il Brasile ed il Canada4

. Alla base dello sviluppo del fenomeno delle migrazioni di massa possiamo identificare quattro fattori5:

1. Riduzione rilevante dei costi di trasporto derivata dai progressi tecnologici che consentirono inoltre di ridurre i rischi del viaggio.

2. Riduzione delle restrizioni all’emigrazione in diversi paesi europei. Numerosi paesi del Vecchio Continente, in particolare Inghilterra, Irlanda, Germania e Svezia, sostituirono le politiche restrittive con dei sussidi per favorire il trasferimento di propri cittadini nelle Americhe.

3. Grande carestia irlandese. La crisi che colpì l’Irlanda dal 1845 al 1849 spinse circa un milione e mezzo di persone a lasciare la propria nazione per cercare fortuna oltreoceano, principalmente negli Stati Uniti.

4. Processi di industrializzazione in Europa. L’evoluzione tecnologica e lo sviluppo dell’industria portarono ad un aumento dei salari dando così la possibilità ad un numero maggiore di individui di poter affrontare la traversata oceanica.

Possiamo far coincidere la cessazione delle grandi migrazioni di massa con lo scoppio del primo conflitto mondiale: il periodo della Grande Depressione che seguì il conflitto e la contestuale adozione da parte degli Stati Uniti di politiche migratorie restrittive portarono ad una riduzione dei flussi provenienti dai Paesi dell’Europa Meridionale ed Orientale. La stessa riduzione non interessò invece i flussi provenienti dai paesi anglosassoni o da quelli scandinavi che avevano rappresentato i primi paesi di emigrazione verso le Americhe.

Il secondo dopoguerra rappresentò un ulteriore momento di svolta nell’evoluzione storica dei flussi migratori che hanno interessato l’Europa. Nonostante i flussi

3

Cfr. R. KING, The New Geography of European Migrations, Belhaven-Wiley (London), 1993,

passim.

4 Cfr. T. J. HATTON e J. G. WILLIAMSON, op. cit, passim. 5 Cfr. G. BETTIN e E. CELA, op. cit.

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3

tradizionali verso Americhe ed Australia fossero rimasti stabili l’Europa Occidentale cominciò in questo periodo a diventare un’ area di destinazione di lavoratori internazionali6.

Il boom economico che interessò i paesi europei permise il raggiungimento della piena occupazione e la conseguente richiesta di manodopera straniera: nei primi anni Sessanta alcuni paesi europei aprirono i propri mercati del lavoro a lavoratori stranieri con l’attivazione di programmi di reclutamento di lavoratori stranieri. Queste migrazioni si realizzarono seguendo l’asse Sud-Nord e portarono lavoratori dal Sud dell’Europa e dal Nord Africa verso Francia, Germania, Regno Unito, Svizzera, Belgio ed Olanda. Tra gli anni Cinquanta ed i primi anni Settanta il numero di stranieri residenti in Europa passò da quattro a dieci milioni di individui.

Le politiche di reclutamento cessarono con la crisi petrolifera del 1973 e con la conseguente recessione globale: vennero interrotti i programmi di reclutamento e vennero adottate politiche volte a favorire il rientro dei lavoratori immigrati7. La geografia migratoria europea era però destinata a cambiare ancora: l’Europa Meridionale in seguito ad un incremento dei flussi migratori verso l’Europa si trasformò in zona di destinazione e, in seguito alla fine del colonialismo, un gran numero di abitanti delle ex colonie dettero vita a flussi migratori rilevanti verso le vecchie madrepatrie.

I fenomeni sopra descritti non possono essere riferiti ad i paesi facenti parte dell’ ex Unione Sovietica: fino al crollo del muro di Berlino flussi migratori in uscita dall’area sovietica furono praticamente nulli. Non solo veniva impedito ai cittadini di migrare verso paesi con economie di mercato, ma anche gli spostamenti tra paesi del blocco sovietico erano fortemente limitati8. Flussi migratori rilevanti provenienti da questi paesi si possono rilevare dal 1989: si stima che, dopo il crollo del Muro di Berlino, nel solo 1989, oltre un milione di persone abbia lasciato i paesi dell’URSS.

6 Cfr. S. KOIKKALAINEN, Free Movement in Europe: Past and Present, 2011, articolo online

reperibile al seguente indirizzo

http://www.migrationpolicy.org/article/free-movement-europe-past-and-present.

7 Cfr. G. BETTIN e E. CELA, op. cit. 8 Cfr. G. BETTIN e E. CELA, op. cit.

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4

Nel 2004 otto paesi dell’ex blocco sovietico oltre a Cipro e Malta entrarono a far dell’Unione Europea (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia ed Ungheria). A seguito di questo ampliamento si diffuse negli altri paesi dell’Unione il timore che i cittadini di questi paesi dessero vita a flussi migratori di massa verso i paesi occidentali. Per far fronte a questo rischio l’allargamento fu accompagnato dall’introduzione di un regime transitorio in base al quale i paesi già parte dell’Unione poterono limitare per un massimo di sette anni (grazie ad un sistema basato su 3 periodi di cui il primo di 2 anni, il secondo di tre ed il terzo, adottabile solo per gravi esigenze, nuovamente di due) il libero accesso da parte dei cittadini dei paesi ex URSS ai propri mercati del lavoro. Inghilterra, Irlanda e Svezia non adottarono il regime transitorio mentre Germania ed Austria, in quanto paesi di confine e probabili destinazioni dei flussi, attivarono anche la terza fase straordinaria delle limitazioni9.

L’adesione di questi paesi all’Unione portò ad un notevole incremento dei cittadini di questi Stati residenti in uno dei quindici Paesi che già facevano parte dell’Unione Europea: nel 2003 se ne contavano 893.000 mentre nel 2007 la cifra era salita a 1,91 milioni ed i flussi medi annui si erano stabilizzati intorno alle 250.000 persone.

Oltre il 60% degli immigrati provenienti dai nuovi paesi fu assorbito da Gran Bretagna ed Irlanda che non avevano adottato il regime transitorio. Analizzando i paesi di destinazione dei flussi originari dagli stati dell’ex blocco sovietico nel periodo 2004-2009 si nota come il Regno Unito sia il primo Paese di destinazione (49.5%) seguito dalla Germania (13.7%) e dall’Irlanda (12.5%); è inoltre interessante notare come la Germania abbia fatto registrare una forte diminuzione rispetto al periodo precedente all’allargamento dell’Unione quando faceva registrare il 29.5%10.

Nel 2007 anche Bulgaria e Romania entrarono a far parte dell’Unione Europea: ad i cittadini di entrambi gli stati sono state applicate delle restrizioni alla libertà di

9

Cfr. S. KOIKKALAINEN, op. cit.

10 Cfr. M. FERTIG e M. KAHANEC, Mobility in an Enlarging European Union: Projections of

Potential Flows from EU’s Eastern Neighbors and Croatia, Institute for the Study of Labor, 2013

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5

lavorare in altri paesi dell’Unione tramite l’adozione di un regime transitorio fino a Gennaio 2014.

Sezione II: l’immigrazione non regolare nel panorama europeo contemporaneo.

Negli ultimi anni le tematiche relative alle migrazioni internazionali stanno assumendo una importanza sempre crescente. Il forte incremento di migranti intenzionati a raggiungere l’Europa ha fatto sì che le questioni legate ai processi migratori fossero dibattute quotidianamente dai parlamenti dei Paesi membri e dagli stessi organi dell’Unione.

I dati più recenti diffusi dall’Unione Europea11, aggiornati al 1/1/2015 riportano come a quella data vi fossero 34,3 milioni di persone residenti nell’Unione Europea nati al di fuori di uno dei ventotto Stati Membri e, tra questi, 19,8 milioni avevano la cittadinanza di un Paese non facente parte dell’Unione (corrispondente ad il 3,9% della popolazione europea). Gli stessi dati evidenziano come, ad inizio 2015, 18,5 milioni di persone nate in uno dei ventotto paesi risiedessero in un diverso Paese dell’Unione.

Il più alto numero di residenti nati in un Paese diverso è stato registrato in Germania (7,5 milioni), seguita da Regno Unito (5,4 milioni), Italia (5 milioni), Spagna (4,5 milioni) e Francia (4,4 milioni). Il Lussemburgo è invece il Paese con la percentuale più alta di residenti nati in un paesi diverso rispetto alla propria popolazione (46%) seguito da Cipro, Lettonia, Estonia, Austria, Irlanda e Belgio dove si registrano percentuali non inferiori al 10%.

Secondo i dati Frontex più aggiornati al momento disponibili, relativi al trimestre Gennaio-Marzo 201612, tutti gli indicatori mostrano un trend in aumento rispetto allo stesso periodo del 201513. I dati dell’ultimo trimestre del 2015 mostrano un incremento degli attraversamenti illegali ad i confini esterni dell’Unione pari al

11 Dati Eurostat, reperbili online al seguente indirizzo

http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Migration_and_migrant_population_statistics.

12

FRONTEX, FRAN Quarterly, Q1, January – March 2016, reperibile online al seguente indirizzo http://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/FRAN_Q1_2016_final.pdf.

13 FRONTEX, FRAN Quarterly, Q1, January – March 2015, reperibile online al seguente

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6

1.125% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e del 125% del numero di richieste di asilo14.

Tradizionalmente si possono individuare tre vie di accesso principali per l’immigrazione irregolare in Europa.

1. Rotta del Mediterraneo Orientale: è la rotta che collega le coste della Turchia alle isole Greche nell’Egeo. Questa rotta nel 2015 è diventata la prima rotta per numero di migranti registrati superando la tradizionale rotta del Mediterraneo Centrale. Questo forte incremento è dovuto al flusso di migranti siriani che preferiscono attraversare le poche miglia che separano la Turchia dalle isole greche che rischiare la traversata dalle coste del Nord Africa. Spesso i migranti che ricorrono a questa rotta non si appoggiano a dei trafficanti per organizzare la traversata ma provvedono in autonomia.

I dati Frontex evidenziano come nel quarto trimestre del 2015 483.910 migranti abbiano superato il confine con la Turchia: queste cifre significano un aumento di circa il 3.000% rispetto allo stesso periodo del 2014. La maggior parte degli attraversamenti illegali su questa rotta sono stati rilevati nelle isole greche dell’Egeo. Oltre ad i siriani che rappresentano la nazionalità più numerosa su questa rotta anche afghani e pakistani la utilizzano.

L’isola che ha fatto registrare l’incremento maggiore di migranti irregolari è stata Lesbo: terza isola della Grecia per grandezza, conta 86.000 abitanti. Frontex stima che nel 2015 ogni cinque migranti che hanno raggiunto l’Unione Europea illegalmente uno sia passato da Lesbo15

. Le altre isole greche particolarmente interessate dal fenomeno sono Chios e Kos, in entrambe, nel secondo semestre del 2015, è stato registrato un forte incremento nel numero di arrivi di migranti.

2. Rotta del Mediterraneo Centrale: è la rotta che collega i paesi del Nord Africa all’Europa meridionale. I migranti raggiungono l’Europa a bordo di

14

FRONTEX, FRAN Quartely, Q4, October – December 2015, reperibile online al seguente indirizzo http://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/FRAN_Q4_2015.pdf.

15 FRONTEX, FRAN Quartely, Q2, April - June 2015, reperibile online al seguente indirizzo

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imbarcazioni non sicure partendo dalle coste di Libia, Egitto e Tunisia diretti verso l’Italia o Malta. Questa rotta è stata la più utilizzata sino al 2014, mentre nel 2015 è stata superata dalla rotta del Mediterraneo Orientale a causa dei grandi rischi della traversata e della instabilità in Libia. Rimane comunque la rotta più utilizzata dai migranti provenienti dall’Africa subsahariana che non possono facilmente accedere a rotte alternative.

Nonostante non sia più la rotta principale Frontex ha riscontrato 60.179 attraversamenti illegali nel secondo trimestre del 2015, che si traducono in un incremento pari al 13% rispetto allo stesso periodo del 2014. Questi numeri si sono poi ridotti sia nell’ultimo trimestre del 2015 che nel primo del 2016.

3. Rotta dei Balcani Occidentali: è la rotta che attraverso i Balcani giunge nei paesi dell’Europa orientale. Questa rotta viene utilizzata da due differenti tipologie di migranti: coloro che continuano il loro viaggio dopo essere giunti in Grecia e migranti originari dei Balcani stessi (soprattutto originari di Kosovo ed Albania).

Questa rotta, nell’ultimo trimestre del 2015, ha fatto registrare il numero record di 466.783 attraversamenti irregolari (nello stesso periodo dell’anno precedente erano 27.920). Nel primo trimestre del 2016 si è invece registrata un’inversione di tendenza. La costruzione di muri da parte dell’Ungheria ai confini con Serbia e Croazia ha effettivamente portato ad una riduzione dei flussi attraverso questi Paesi dato che il numero di attraversamenti irregolari è stato di 108.649. Questi migranti, nel tentativo di aggirare le nuove barriere, hanno dato vita ad una frammentazione della rotta. I migranti bloccati in Grecia hanno tentato di aggirare il confine macedone ricorrendo a percorsi più lunghi. Inoltre, nel primo semestre del 2016, il numero degli arrivi in Austria si è ridotto mentre è cresciuto in Ungheria: si è registrato il più alto numero di attraversamenti irregolari al confine tra Serbia e Ungheria da quando il muro è stato costruito.

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8

A fianco delle tre rotte principali se ne possono individuare altre di minore importanza: tra queste le più rilevanti sono la rotta del Mediterraneo Occidentale e la rotta dell’Europa Orientale.

La prima, nel secondo trimestre del 2015, ha fatto registrare un incremento di più del 160% rispetto allo stesso periodo del 2014 e del 40% rispetto al trimestre precedente quando si sono contati 3890 ingressi irregolari di cui il 50% effettuati da siriani. I numeri hanno però fatto registrare una diminuzione sia nell’ultimo trimestre del 2015 che nel primo del 2016.

Anche la seconda, nel secondo trimestre del 2015, ha visto il numero di ingressi raddoppiare sia rispetto ad il trimestre precedente che rispetto ai primi tre mesi del 2015 pur continuando a far registrare numeri molto bassi. Ed anche in questa rotta secondo gli ultimi dati disponibili mostrano una diminuzione.

Frontex ha pubblicato anche i dati relativi ai soggiornanti illegali nell’Unione rilevando un aumento del 19% dei rilievi di soggiornanti illegali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (127.511 persone) che rappresenta però una diminuzione del 35% rispetto al trimestre precedente; le tre nazionalità più rappresentate tra questi sono quella afghana, quella siriana e quella irachena. Per quanto riguarda le richieste d’asilo presentate nel primo trimestre del 2016, gli Stati Membri ne hanno riportate 274.474, con un aumento del 51% rispetto allo stesso periodo del 2015, ma una riduzione del 34% rispetto all’ultimo trimestre del 201, quando si erano registrate 417.344 domande d’asilo. Più di un terzo delle domande (101.226) provengono da cittadini siriani e rappresentano un aumento del 249% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre su numeri ben inferiori si assestano gli iracheni (35.062), cresciuti del 407% rispetto al primo trimestre del 2015, e gli afgani (33.951), rispettivamente seconda e terza nazionalità più rappresentate. È interessante poi rilevare come le richieste d’asilo provenienti da cittadini iraniani, pur rimanendo al di sotto delle 10.000 unità, abbiano fatto registrare un incremento percentuale del 286%.

Nel primo trimestre del 2015 Frontex aveva registrato un record di richieste di asilo da parte di cittadini del Kosovo (50.000); questi numeri sono diminuiti e tornati nella normalità un anno più tardi, tanto che questa nazionalità non risulta più tra le dieci più rappresentate da questa statistica. In calo, sia nei confronti del

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trimestre precedente che dell’anno precedente, sono invece le richieste d’asilo presentate da cittadini albanesi (5.471).

Frontex ha poi analizzato la situazione relativa ai rimpatri: nel primo semestre del 2016 gli Stati Membri hanno emanato 69.392 decisioni con le quali obbligavano soggetti a lasciare l’Unione. Questi numeri rappresentano una diminuzione del 9.6% rispetto al trimestre precedente, quando si registrarono 76.783 decisioni di rimpatrio, ma un incremento del 9.8% rispetto allo stesso periodo del 2015. Nel periodo in esame 46.996 rimpatri hanno avuto effettiva esecuzione, il dato è leggermente inferiore a quello registratosi nel trimestre precedente ma rappresenta un incremento del 25% rispetto all’anno precedente. L’incremento più grande è stato registrato nei confronti dei cittadini iracheni (+721%), che ora sono la seconda nazionalità per numero di rimpatri effettivi, dietro solo a quella albanese. Un ultimo interessante dato riportato da Frontex riguarda il numero di trafficanti di migranti arrestati nel primo trimestre del 2016 che, pur non avvicinandosi ad i numeri record del terzo trimestre del 2015, quando si sono registrati 3.431 arresti, massimo da quando Frontex raccoglie i dati, è tornato a crescere dopo una leggera flessione avvenuta nel quarto trimestre del 2015 e si attesta a 2.972.

Dall’analisi di questi dati si nota quindi che il primo trimestre del 2016 è stato caratterizzato da una diminuzione dei vari indici presi in esame da Frontex. Questa diminuzione è però tale esclusivamente nei confronti del trimestre

precedente, quando si erano registrati dati record per quasi tutti gli indicatori; nei confronti del periodo Gennaio – Marzo 2015 i dati mostrano un aumento rilevante dei vari indicatori.

Sezione III: cittadinanza ed estraneità.

Prima di addentrarci nello studio delle norme europee che regolano il diritto di asilo è necessario delineare la categoria di individui a cui si applicano le norme in materia di immigrazione: gli stranieri.

Per individuare e definire questa categoria di soggetti è necessario ricorrere ad una definizione in negativo che ci permette di considerare “straniero” rispetto ad un determinato Stato il soggetto che non possegga la cittadinanza dello stesso. È

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quindi considerato straniero qualunque cittadino che non si trovi sul territorio di uno Stato di cui possiede la cittadinanza16.

Nell’individuazione dei destinatari delle norme in materia di diritto dell’immigrazione quindi assume un ruolo essenziale l’individuazione delle norme e dei limiti che regolano il potere di uno Stato nell’attribuzione della cittadinanza agli individui. Innanzitutto è importante sottolineare come l’attribuzione della cittadinanza dipenda dalla volontà dello Stato che ha un collegamento con un determinato individuo; la volontà del soggetto emerge solo in casi di rinuncia o di richiesta di una nuova cittadinanza che comunque dovranno sempre essere effettuate in conformità con le leggi dello Stato17.

Normalmente uno Stato attribuisce la cittadinanza ad un soggetto nato sul proprio territorio (ius soli) o ad un soggetto nato da un genitore avente la cittadinanza dello Stato (ius sanguinis). A fianco di questi due criteri che attribuiscono la cittadinanza al momento della nascita del soggetto normalmente lo straniero acquista la cittadinanza di uno Stato in seguito al matrimonio con un cittadino di quello Stato (iuris communicatio) al fine di favorire l’acquisizione di un’unica cittadinanza all’interno del nucleo familiare. Su richiesta dell’interessato lo Stato può emettere un provvedimento formale per attribuire la cittadinanza al soggetto che soddisfi determinate condizioni fissate per legge: si parla in questo casi di naturalizzazione. A fianco di queste possibilità di acquisizione della cittadinanza possiamo ricordare, pur se sicuramente di più rara applicazione, anche la successione tra Stati. Normalmente gli individui che risiedono in un territorio oggetto di un passaggio di sovranità acquisiscono la cittadinanza dello Stato successore18.

Sempre in materia di cittadinanza non possiamo prescindere dallo studio di alcuni casi rilevanti della prassi internazionale che ci permettono di delineare alcuni principi fondamentali per la materia.

16 Cfr. B. NASCIMBENE, Il trattamento dello straniero nel diritto internazionale ed europeo,

Giuffrè, 1984, pag. 35 e ss.

17 Cfr. A.M. CALAMIA, M. DI FILIPPO, M. GESTRI, Immigrazione, Diritto e Diritti: profili

internazionalistici ed europei, CEDAM, 2012, pag. 4.

18 In materia si segnala la Risoluzione delle Nazioni Unite A/RES/55/153, adottata sulla base del

report della Sesta Commissione (A/55/610) e reperibile online all’indirizzo

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Il primo caso che merita di essere ricordato è quello relativo ad una controversia tra Francia e Regno Unito risolto dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1923: il caso riguardava l’applicazione ai cittadini britannici di alcuni decreti di nazionalità, promulgati l’8 Novembre del 1921 dalla Francia a Tunisi ed in Marocco. La Corte, nel noto parere del 7 Febbraio 1923, dopo aver ricordato che “se una certa materia rientri o meno nella giurisdizione esclusiva di uno Stato è un problema essenzialmente relativo: esso dipende dallo sviluppo delle relazioni internazionali”, ha affermato che le questioni di nazionalità rientrano, di principio, nel dominio riservato degli Stati19.

L’ordinamento internazionale però non lascia lo Stato assolutamente libero nell’attribuire la cittadinanza ad un soggetto ed attribuisce delle limitazioni nell’efficacia esterna dell’attribuzione stessa. Viene richiesta una connessione effettiva (genuine link) tra il soggetto e lo Stato che attribuisce la cittadinanza20. Proprio su questo tema vale la pena ricordare il caso Nottebohm sottoposto dal Lichtenstein alla Corte Internazionale di Giustizia e risolto con sentenza il 6 Aprile 199521.

Nottebohm, cittadino tedesco, per sottrarsi all’applicazione delle norme sfavorevoli che nel periodo del secondo conflitto mondiale si applicavano ai cittadini appartenenti ad uno Stato nemico, era riuscito a farsi concedere la cittadinanza del Lichtenstein: si trattava di stabilire se questa fosse opponibile agli altri stati, ed in particolare al Guatemala che aveva rifiutato l’ingresso di Nottebohm sul proprio territorio. La Corte nella sentenza ha ribadito la libertà del Lichtenstein di regolare secondo la propria legislazione l’acquisto della cittadinanza e di conferirla per naturalizzazione tramite gli organi statali secondo le proprie norme, ma ha continuato sottolineando come il Lichtenstein, avendo esercitato la protezione diplomatica ed essendosi rivolto alla Corte, non agisse più sul piano nazionale, ma su quello internazionale.

19

Il parere consultivo richiesto dal Consiglio della Società delle Nazioni ed emanato dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale è reperibile online, in Publications of the Permanent Court

of International Justice (1922-1946), Series B, collection of advisory opinions, B04, all’indirizzo http://www.icjcij.org/pcij/serie_B/B_04/Decrets_de_nationalite_promulgues_en_Tunisie_et_au_M aroc_Avis_consultatif_1.pdf.

20

Cfr. A.M. CALAMIA, M. DI FILIPPO, M. GESTRI, op. cit., pag. 5. Per un’interpretazione differente data da parte della dottrina si veda all’interno della stessa opera pag. 31.

21 Corte Internazionale di Giustizia, 6 Aprile 1955, caso Nottebohm (Liechtenstein c. Guatemala),

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12

Nel proprio ragionamento la Corte ha sottolineato come i casi di doppia cittadinanza fossero sempre stati risolti in favore di quella “reale ed effettiva” ovvero di quella che “si accordava con le circostanze di fatto, quella basata sui vincoli di fatto più forti tra la persona interessata e uno degli Stati la cui nazionalità era in causa”; ha poi continuato evidenziando come la cittadinanza costituisca “un legame giuridico avente alla base un fatto sociale di collegamento, una comunanza effettiva di esistenza, di interessi, di sentimenti unita ad una reciprocità di diritti e doveri”. Tramite questo ragionamento la Corte arriva a negare la rilevanza internazionale della cittadinanza lichtensteinese attribuita a Nottebohm sulla base dell’estrema tenuità dei legami che questi poteva vantare con quello Stato.

Gli Stati dovranno poi rispettare i limiti posti dalle norme rilevanti in materia di diritti umani fondamentali: la “Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” del 1965 pone il divieto di discriminazione in relazione al “diritto alla nazionalità”22

. Altro strumento rilevante è la “Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne” del 1979 dove si dispone che in materia di acquisti, mutamento o conservazione della cittadinanza non possano essere operate discriminazioni tra uomini e donne: all’articolo 9 infatti si legge che “Gli stati parte devono assicurare alle donne diritti uguali a quelli degli uomini in materia di acquisizione, mutamento o conservazione della cittadinanza. Deve in particolare essere garantito che né il matrimonio con uno straniero né il mutamento di cittadinanza del marito nel corso del matrimonio modifichino automaticamente la cittadinanza della moglie, la rendano apolide o le impongano automaticamente la cittadinanza del marito. Gli stati parte devono garantire alle donne diritti uguali a quelli degli uomini in materia di cittadinanza dei figli”23

.

22 Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, New York,

1965, articolo 5, lettera d, punto iii. Reperibile online all’indirizzo http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CERD.aspx.

23 Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne,

New York, 1979. Reperibile online all’indirizzo

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Una limitazione ulteriore la possiamo infine ricavare dal diritto internazionale dei conflitti armati che vieta ad uno Stato occupante di estendere la propria cittadinanza ai cittadini dello Stato occupato24.

Quando si passa poi ad esaminare la possibilità dello Stato di revocare la cittadinanza ad un individuo non possiamo non tener conto che si va qui a pregiudicare un diritto acquisito del cittadino. In materia si ritiene sussistere una norma consuetudinaria internazionale che vieta allo Stato la possibilità di privare arbitrariamente della cittadinanza uno o più individui25: questo divieto è altresì espressamente previsto dall’articolo 15 della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”26

dove, al primo comma, si riconosce che “ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza” ed al secondo che “nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della propria cittadinanza, né del diritto di cambiare cittadinanza”.

In materia di cittadinanza merita poi un breve richiamo l’istituto della cittadinanza dell’Unione Europea introdotta con il Trattato di Maastricht: oggi l’articolo 9 del Trattato sull’Unione Europea dispone “…È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. La stessa previsione è contenuta nel primo comma dell’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che, nei commi successivi, delinea diritti e doveri del cittadino europeo27. Questa cittadinanza viene acquistata dal cittadino di uno Stato membro a titolo derivativo, cioè per il solo fatto di possedere la cittadinanza di uno Stato parte dell’Unione. Il godimento dei diritti riconosciuti dall’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea non può, per altro, essere limitato da parte di uno Stato membro come esplicitamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Rottmann28

. Nella stessa sentenza la Corte ha affermato che uno Stato membro non può revocare la cittadinanza ottenuta da un

24

Cfr. A.M. CALAMIA, M. DI FILIPPO, M. GESTRI, op. cit., pag. 30.

25

Cfr. A.M. CALAMIA, M. DI FILIPPO, M. GESTRI, op. cit., pag. 30.

26 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Parigi, 1948, reperibile online all’indirizzo

http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/eng.pdf.

27 Ci si riferisce qui ad i 2 trattati come modificati dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il

1 Dicembre 2009.

28 CGUE, Rottman contro Freistaat Bayern, C-135/08, ECLI:EU:C:2010:104, reperibile online

all’indirizzo

(15)

14

soggetto in maniera fraudolenta senza un controllo giurisdizionale improntato al diritto europeo qualora da questa revoca possa derivare la perdita della cittadinanza dell’Unione. La Corte, in questi casi, non vieta però in assoluto la revoca, ma si limita ad imporre che la decisione rispetti il principio di proporzionalità indicando altresì ad i giudici nazionali quali sono gli elementi di cui si deve tener conto nello svolgimento di questa valutazione: nella valutazione delle possibili conseguenze dannose per il soggetto ed i suo familiari il giudice dovrà valutare se la revoca “sia giustificata in rapporto alla gravità dell’infrazione commessa dall’interessato, al tempo trascorso tra la decisione di naturalizzazione e la decisione di revoca, nonché alla possibilità per l’interessato di recuperare la propria cittadinanza di origine”.

Come abbiamo visto l’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea si riferisce a diritti e doveri dei cittadini dell’Unione, ma contiene uno specifico elenco solo dei primi non preoccupandosi di individuare i secondi. Il paragrafo 2 dell’articolo 20 infatti riconosce esplicitamente a tutti i cittadini dell’Unione Europea determinati diritti affermando, in conclusione, che questi devono essere esercitati secondo le condizioni ed i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi29.

In conclusione vale la pena ricordare brevemente che possono sussistere dei casi di individui che posseggano più di una cittadinanza o che non ne posseggano alcuna. Il primo caso, la bipolidia, è visto con sfavore da alcuni stati che prevedono l’automatica perdita della propria cittadinanza al momento di acquisto di un’altra. Il secondo caso, la apolidia, invece raffigura una condizione particolarmente sfavorevole per l’individuo che non può vantare uno Stato di

29 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, articolo 20, paragrafo 2, “I cittadini

dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l'altro: a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;

b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;

c) il diritto di godere, nel territorio di un Paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;

d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua.

Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi.”

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15

cittadinanza: gli Stati si sono, per questo, preoccupati di redigere trattati volti a limitare il fenomeno. In materia fonti rilevanti a livello internazionale sono la Convenzione di New York del 1954 sullo status degli apolidi e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961.

Sezione IV: i rifugiati nel diritto internazionale.

 La convenzione di Ginevra.

Passiamo adesso a studiare la figura del rifugiato che sarà al centro di questo lavoro. Gli strumenti internazionali rilevanti in materia sono la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 195130 ed il Protocollo di New York del 196731. Sono questi gli unici strumenti internazionali a carattere universale contenenti una definizione di rifugiato e che identificano diritti e doveri di questi nei confronti degli Stati di accoglienza nonché gli obblighi degli Stati che accedono alla Convenzione32.

La definizione di rifugiato la si ricava dall’articolo 1, lettera A, comma 2 che riconosce lo status di rifugiato a chi “a seguito di avvenimenti anteriormente al 1° Gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese di cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Alla lettera B l’articolo dispone che per “avvenimenti verificatesi anteriormente al 1° Gennaio 1951” si può intendere o “avvenimenti verificatesi […] in Europa” oppure “avvenimenti verificatesi […] in Europa o

30

Convenzione sullo status dei rifugiati, Ginevra, 1951, reperibile al seguente indirizzo

http://www.ohchr.org/Documents/ProfessionalInterest/refugees.pdf.

31 Protocollo sullo status dei rifugiati, New York, 1967, reperibile al seguente indirizzo

http://www.refworld.org/docid/3ae6b3ae4.html.

32

Cfr. C. FRANCHINI, Lo status di rifugiato nella Convenzione di Ginevra del 1951, pubblicazione online reperibile al seguente indirizzo

http://www.academia.edu/4186493/STATUS_DI_RIFUGIATO_CONVENZIONE_DI_GINEVRA_1 951_Cristina_Franchini.

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16

altrove” lasciando così la possibilità di scelta ad ogni Stato al momento della firma, della ratifica o dell’adesione alla Convenzione.

Dalla lettura dell’articolo ricaviamo quindi una limitazione temporale ed una limitazione geografica. La prima è superata con il Protocollo di New York del 1967 con la conseguenza che gli stati aderenti al protocollo sono obbligati anche per eventi successivi a quella data che rientrino nella qualifica data dal secondo comma della lettera A. La seconda limitazione invece permane tuttora anche se solo per pochi Stati33.

Prima di analizzare nel dettaglio la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione è importante ricordare che la stessa non contiene norme di carattere procedurale riguardanti l’ammissione del richiedente asilo sul territorio statale o la procedura di esame della domanda, ma impone, all’articolo 33, l’obbligo di non refoulement. Questo obbligo si applica sia nei casi di respingimenti o espulsioni tecnicamente intese, sia in ogni altro caso di allontanamento verso un territorio dove la vita o la libertà del soggetto sarebbero minacciate e si applica indipendentemente dal fatto che lo stesso sia già stato riconosciuto rifugiato o che abbia formalizzato o meno una domanda volta ad ottenere tale riconoscimento34. Il divieto di respingimento può essere derogato nelle ipotesi degli articoli 32 e 33 comma 2 della Convenzione che consentono l’espulsione del rifugiato “per ragioni di sicurezza nazionale o ordine pubblico” e qualora “per seri motivi egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto Paese”. Violazioni di questo divieto possono configurarsi anche di fronte ad una non ammissione alla frontiera o di fronte ad ogni altra condotta che rischi di rinviare un soggetto verso un luogo non sicuro indipendentemente che questo sia o meno il Paese di origine dell’individuo.

È poi molto importante ricordare che il riconoscimento dello status di rifugiato ha un valore esclusivamente dichiarativo: come indicato all’interno dell’Hanbook on

33 Cfr. F. CHERUBINI, L’asilo dalla Convenzione di Ginevra al diritto dell’Unione Europea,

Cacucci editore, 2012, pag. 4.

34 Cfr. N. MORANDI e P. BONETTI, Lo status di rifugiato, scheda ASGI, 2013, reperibile online

al seguente indirizzo

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17

Procedures and Criteria for Determining Refugee Status under the 1951 Convention and the 1976 Protocol relationg to the Status of Refugees35, l’obbligo di tutela nasce infatti nel momento in cui il soggetto soddisfi i criteri indicati nell’articolo 1 della Convenzione e si trovi nella giurisdizione di uno Stato estero indipendentemente dall’avvenuto riconoscimento formale36. Da questo si ricava che il richiedente ha un diritto soggettivo perfetto all’ingresso sul territorio dello Stato di accoglienza almeno al fine di far esaminare la sua richiesta da parte dell’autorità competente37

.

 Gli elementi della definizione di rifugiato.

Passiamo ora ad analizzare nel dettaglio gli elementi che compongono la definizione di rifugiato data dalla Convenzione di Ginevra all’articolo 1, lettera A, comma 2: definizione che rappresenta la cosiddetta “clausola di inclusione”38

e contiene gli elementi essenziali per identificare un soggetto come rifugiato. Gli elementi che possono essere individuati sono quattro:

 Il timore fondato;

 La persecuzione;

 L’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza;

 La presenza fuori dal Paese di cittadinanza o di residenza abituale.

La sussistenza di questi elementi consente il riconoscimento dello status di rifugiato nel caso in cui non ricorra una clausola di cessazione od esclusione che tratteremo in seguito.

 Il timore fondato.

35 UNHCR, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status under the 1951

Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, Ginevra, 2011, reperibile

online al seguente indirizzo http://www.unhcr.org/3d58e13b4.pdf, da qui in avanti indicato semplicemente come UNHCR Handbook.

36 UNHCR Handbook. 37 Cfr. C. FRANCHINI, op. cit.

(19)

18

Il primo elemento che andiamo ad analizzare è quello del timore fondato, cioè del ragionevole timore di essere perseguitato. Questo elemento ha un profilo duplice: la componente soggettiva (il timore) consiste in uno stato mentale del soggetto mentre la componente oggettiva (la fondatezza) si basa su elementi oggettivi e circostanze esterne senza le quali lo stato mentale non rileva non essendo giustificato39.

La valutazione dell’elemento soggettivo non potrà essere svincolata da una valutazione della situazione individuale del richiedente sulla base della sua personalità, delle sue caratteristiche personali, degli eventi che hanno caratterizzato le sue esperienze40. Il timore inoltre, per sua natura, è un sentimento rivolto al futuro e quindi non avrà rilevanza il fatto che il richiedente sia o meno stato sottoposto a persecuzioni nel passato; potrà eventualmente contribuire a rendere fondato il timore di poterne nuovamente essere vittima. Si ritiene poi che eventuali persecuzioni sofferte nel passato che fossero eccezionalmente gravi possano condurre al riconoscimento dello status di rifugiato anche se una loro reiterazione appaia oggettivamente irrealistica od inverosimile. Nell’elaborare questo principio l’UNHCR è partito dalla previsione dell’articolo 1, lettera C, numeri 5 e 6 della Convenzione di Ginevra dove si parla di “ragioni imperative derivanti da precedenti persecuzioni” nell’ambito delle clausole di cessazione: si è affermato che questa previsione rappresenta un principio generale di natura umanitaria in base al quale non si possa rimpatriare un soggetto colpito, anche indirettamente attraverso i suoi familiari, da atroci forme di persecuzione per le quali ancora risulti soffrire un trauma41.

La fondatezza del timore deve essere valutata anche alla luce della situazione individuale del richiedente valutando se il timore da egli espresso sia verosimile per un individuo che si trovi nelle sue condizioni fisiche, psicologiche, economiche, sociali e culturali42. Le dichiarazioni del soggetto dovranno poi essere valutate alla luce della conoscenza che si ha della situazione concreta esistente nel Paese di origine per vagliarne la veridicità.

39

Cfr. N. MORANDI e P. BONETTI, Lo status di rifugiato, op. cit.

40 UNHCR Handbook. 41 UNHCR Handbook.

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19

Il manuale dell’UNHCR inoltre sottolinea come sia necessaria un’attenuazione dell’onere probatorio a causa delle difficoltà che il soggetto in fuga si trova a fronteggiare nel documentare la propria situazione: si sottolinea come eventuali incongruenze e contraddizioni debbano essere valutate dall’interprete tenendo conto della particolarità e della delicatezza della situazione.

 La persecuzione.

Prima di cominciare l’analisi dell’elemento della persecuzione dobbiamo rilevare come non esista a livello internazionale alcuna definizione univoca ed universale di persecuzione43. Si può però sicuramente ricavare dalla lettura combinata degli articoli 1, lettera A, comma 2 e 33 della Convenzione di Ginevra che la minaccia al diritto alla vita o alla libertà personale dell’individuo, per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, possa sempre qualificarsi come persecuzione. Altrettanto sicuramente si può affermare che, interpretando la Convenzione attraverso la normativa internazionale in materia di diritti umani, devono considerarsi persecuzioni anche altre gravi violazioni dei diritti umani44. Ci si riferisce, in questo caso, innanzitutto agli obblighi derivanti da quei diritti fondamentali che hanno assunto carattere erga omnes: tra queste norme, che riguardano la comunità internazionale nel suo complesso, vi sono quelle a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo come riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso Barcelona Traction dove si evidenzia che questi diritti derivano “dai principi e dalle regole riguardanti i diritti fondamentali della persona umana, inclusa la protezione dalla schiavitù e dalla discriminazione razziale”45

. Sono questi i diritti inderogabili come il diritto alla vita, il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti, la proibizione della riduzione in schiavitù, il divieto di essere sottoposto a condanna penale al di fuori dei casi previsti dalla legge, il diritto alla

43

Cfr. F. CHERUBINI, op. cit., pag. 8

44 UNHCR Handbook.

45 Corte Internazionale di Giustizia, 1970, Barcelona Traction Light and Power Co., Ltd.,

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20

libertà di pensiero, coscienza e religione46. Per verificare la sussistenza di una persecuzione si dovrà verificare che il danno subito dal richiedente sia oltre una determinata soglia di gravità47.

È, a questo punto, doveroso dedicarsi ad una breve analisi di chi possa considerarsi autore della persecuzione. Innanzitutto ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato non è necessario che sussista una finalità persecutoria da parte del soggetto agente: l’unico elemento soggettivo che assume rilevanza ai sensi dell’articolo 1, lettera A, comma 2 è come abbiamo visto quello relativo al timore del richiedente. Per quanto riguarda l’identificazione dell’autore della persecuzione l’UNHCR ha sempre ritenuto che la condotta persecutoria possa essere tenuta non solo dalle autorità statali, ma anche da gruppi della popolazione laddove le autorità nazionali tollerino coscientemente questo comportamento, si rifiutino o siano incapaci di offrire una protezione adeguata al soggetto48. Questa impostazione riflette quella che in dottrina è detta “persecution theory” che riconosce il diritto all’accoglienza in capo a tutti i soggetti la cui vita o libertà non sia tutelata nel Paese d’origine indipendentemente dal fatto che le persecuzioni siano tollerate dalle autorità statali o esse non abbiano il potere di fermarle. Questa impostazione non è però universalmente condivisa e si scontra con una interpretazione, “accountability theory”, secondo la quale la protezione riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra deve essere riconosciuta solo quando le persecuzioni possono essere attribuite allo Stato d’origine limitando così l’applicazione della Convenzione49

.

In tema di persecuzione si hanno tre questioni controverse che meritano una rapida analisi: differenza tra persecuzione e condanna penale, rapporto tra persecuzione e discriminazione, configurabilità di una violazione di diritti economici e sociali del richiedente come persecuzione.50

46

A titolo esemplificativo si rimanda all’articolo 4 paragrafo 2 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, reperibile online al seguente indirizzo

http://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx.

47 UNHCR Handbook. 48

UNHCR Handbook.

49 J. C. HATHAWAY e M. FOSTER, The law of refugee status, Cambridge University Press,

2014, pag. 303 e ss.

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21

Iniziando dal primo dei problemi che abbiamo individuato dobbiamo innanzitutto puntualizzare che normalmente il soggetto che fugge per evitare l’incriminazione o la condanna per un reato comune non può essere considerato rifugiato. Questo principio viene però meno in quei casi in cui sia inflitta una pena eccessiva rispetto alla violazione commessa o in cui la pena sia discriminatoria e volta a colpire determinati gruppi o categorie per uno dei motivi tipizzati dalla Convenzione. In questi casi l’autorità competente a valutare la domanda di asilo valuterà se la norma penale in oggetto, o la sua applicazione, siano o meno compatibili con l’esigenza di tutela dei diritti umani e lo farà assumendo come parametro la legge nazionale ed i principi riconosciuti dal diritto internazionale in materia di diritti umani.

Il secondo dei temi controversi in materia di persecuzione riguarda il rapporto tra questa e la discriminazione. Non tutte le discriminazioni condurranno automaticamente all’integrazione di una persecuzione: si configura invece una vera e propria persecuzione quando queste discriminazioni sono tali da generare conseguenze particolarmente gravi per il soggetto restringendo i suoi diritti fondamentali. Una persecuzione potrà poi configurarsi anche quando le disparità di trattamento non siano di per sé gravi, ma possano indurre il richiedente ad un ragionevole timore di persecuzione: per questo l’UNHCR sottolinea come la valutazione vada sempre svolta in base alle circostanze del caso51. La giurisprudenza ha più volte affermato che, quando il richiedente è vittima di plurime misure discriminatorie che mettono a rischio la sua sopravvivenza nel Paese e ne rendono intollerabile la vita, sia possibile riconoscere lo status di rifugiato.52 Si è arrivati ad affermare che l’accumulo di privazioni economiche e sociali che la persona dovrebbe affrontare nello Stato di origine può essere rilevante ai sensi della definizione convenzionale di rifugiato53.

Per quanto riguarda l’ultimo profilo dobbiamo cominciare l’analisi dai lavori preparatori alla Convenzione nei quali il rappresentante dell’American Federation

51 UNHCR Handbook.

52 High Court of Australia, Chen Shi Hai contro Minister for Immigration and Multicultural

Affairs, 2000, reperibile online al seguente indirizzo

http://www.refworld.org/docid/3ae6b6df4.html.

53 Corte Federale Canadese, Cheung contro Minister of Employment and Immigration, 1993,

(23)

22

of Labor Stoltz ed il rappresentante francese Rain aprirono ad una lettura del termine persecuzione volta a comprendere anche la violazione di diritti economici o sociali54.

La non immediatezza di questa estensione è dovuta all’impossibilità di configurare un obbligo in capo agli Stati di garantire una tutela immediata ai diritti economici e sociali delle persone: l’articolo 2 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali si limita infatti a prevedere che gli stati debbano dare attuazione progressiva ai diritti in esso riconosciuti. Al secondo comma lo stesso articolo dispone però che l’attuazione dei diritti previsti debba essere effettuata senza discriminazione di alcun tipo. Da questa previsione si ricava che il rifugiato che si trovi a subire atti persecutori di natura economica potrebbe vedersi riconosciuta la tutela prevista dalla Convenzione qualora le autorità statali adottino atti di privazione in modo discriminatorio nei confronti di un determinato gruppo di individui.55

 I motivi della persecuzione.

Per quanto riguarda l’applicabilità della Convenzione non tutti i comportamenti persecutori sono rilevanti, ma solo quelli posti in essere per uno dei motivi esplicitamente previsti dalla Convenzione dall’articolo 1, lettera A, comma 2. Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato non è necessario che il richiedente sia a conoscenza della ragione per cui è perseguitato, sarà infatti l’autorità che esamina la domanda ad individuare i motivi di persecuzione56. È inoltre necessario che esista un nesso causale tra gli atti di persecuzione ed uno dei motivi tipizzati dalla Convenzione: deve cioè riferirsi a caratteristiche del richiedente asilo anche non necessariamente realmente sussistenti (nesso interno), ma anche percepite come tali da parte dell’agente persecutore (nesso esterno)57

.

54

Ad Hoc Committee on Statelessness and Related Problems Third meeting held at Lake Success, New York, 1950, reperibile online il riassunto dell’incontro al seguente indirizzo

http://www.refworld.org/docid/40aa193f4.html.

55 UNHCR Handbook. 56

Concordante con questa posizione anche la Corte Suprema canadese in Canada contro Ward, 1993, reperibile online al seguente indirizzo https://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/1023/index.do.

(24)

23 I cinque motivi tipici sono:

 Motivi di razza;

 Motivi di religione;

 Motivi di nazionalità;

 Motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale;

 Motivi di opinioni politiche.

L’elencazione deve considerarsi esaustiva, salva la possibile interpretazione estensiva dei singoli motivi che può portare ad applicazioni più ampie.

 I motivi di razza.

Per valutare la sussistenza di una persecuzione fondata su motivi di razza si deve partire dalla definizione data dalla Convenzione Internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 per la quale si deve considerare una discriminazione fondata su motivi razziali “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”58

. Quando ci si approccia al diritto internazionale in materia di rifugiati il termine razza deve poi essere interpretato nel senso più ampio possibile estendendosi fino a ricomprendere ogni gruppo etnico, a cui nel linguaggio corrente viene riferito tale termine59. Vale anche la pena citare alcune pronunce giurisprudenziali interessanti in materia: La Corte d’Appello inglese nel caso Horvath ha affermato che la riconduzione della violazione di diritti economici nel concetto di persecuzione non può essere decisa a priori ma deve essere valutata nel singolo caso60; la Corte federale australiana ha poi ricondotto sotto il concetto di persecuzione la riduzione alla fame di un determinato gruppo

58 Articolo 1 paragrafo 1 Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di

discriminazione razziale, New York, 1965.

59 UNHCR Handbook.

60 Corte d’Appello Inglese, Horvath contro Secretary of State for the Home Department, 1999,

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24

sociale61. Ancora, la Corte federale canadese ha riconosciuto che l’imposizione di un divieto ad esercitare attività lavorativa remunerativa potrebbe avere carattere persecutorio62, lo stesso principio è stato riaffermato da una Corte d’Appello statunitense63.

In conclusione poi è stato riconosciuto carattere persecutorio all’obbligo di accettare un’occupazione particolarmente pericolosa o palesemente inadeguata rispetto alla preparazione professionale del soggetto al fine di guadagnare quanto necessario al sostentamento.64

 I motivi di religione.

Per quanto riguarda i motivi di religione il diritto internazionale umanitario tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione nel senso più ampio possibile includendovi anche la libertà di cambiare religione, di professarla e di manifestarla in pubblico o in privato65. Si può essere di fronte ad una persecuzione per motivi religiosi anche quando la persecuzione avviene nei confronti di un soggetto che non desidera professare alcuna religione, rifiuta di aderirvi o non vuole conformarsi in tutto o in parte ai riti ed alle usanze di una religione66. La lettura della Convenzione alla luce delle altre fonti di diritto internazionale porta ad escludere ragionevolmente che si possa negare la tutela sulla base del fatto che il richiedente potrebbe nascondere o evitare di manifestare la propria fede.

 I motivi di nazionalità.

Il termine nazionalità utilizzato dalla Convenzione non deve essere interpretato come coincidente con il concetto giuridico di cittadinanza: si avvicina più al

61 Corte Federale Australiana, Hagi Mohamed contro Minister for Immigration and Multicultural

Affairs, 2001, reperibile online al seguente indirizzo https://jade.io/article/104231.

62

Corte federale d’appello canadese, Louis Rene Amayo Encina contro Minister of Employement

and Immigration, 1980.

63 Corte d’Appello Statunitense, Abrahim Baballah contro Attorney General, 2003, reperibile

online al seguente indirizzo

https://www.courtlistener.com/opinion/782693/abrahim-baballah-ula-baballah-ahmad-baballah-v-john-ashcroft-attorney/.

64 Corte d’appello canadese, Juan Alejandro Araya Heredio, 1977. 65 Cfr. N. MORANDI e P. BONETTI, op. cit.

(26)

25

concetto di razza dovendo ricomprendere anche l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, culturale o linguistico67. Risulta implicito il fatto che le persecuzioni per motivi di nazionalità siano quelle poste in essere da esponenti di una nazionalità nei confronti di membri di un’altra per la loro mera appartenenza a quella nazionalità o per la loro non appartenenza alla nazionalità del persecutore. Le persecuzioni fondate sui motivi di nazionalità possono presentare dei profili che le avvicinano a quelle per opinioni politiche: si pensi ad un conflitto tra gruppi nazionali accompagnato dall’affermazione di opinioni politiche o ad un movimento politico identificabile con una determinata nazionalità68.

 I motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

Trai cinque motivi tipizzati dalla Convenzione di Ginevra l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale è quello che ha generato maggiori problemi interpretativi. Questo motivo, più degli altri, può essere oggetto di interpretazioni estensive ed è grazie a questo che sono state fatte rientrare all’interno della definizione di rifugiato ipotesi ulteriori come, ad esempio, le persecuzioni per motivi di sesso o di orientamento sessuale. Esistono in materia due diversi orientamenti giurisprudenziali che mirano a fornire una definizione di gruppo sociale determinato: il primo utilizza il criterio delle “caratteristiche protette” (caratteristiche innate, immutabili o irrinunciabili) per identificare il gruppo sociale in base alla condivisione di una di queste caratteristiche69, il secondo invece si basa sulla “percezione sociale” ed afferma che il gruppo è quello composto da membri che condividono una caratteristica che lo rende riconoscibile o che lo contraddistingue dal resto della società.70 Questi approcci spesso convergono, ma l’eventuale uso cumulativo dei due orientamenti potrebbe portare a dei vuoti di tutela: per questo l’utilizzo dei due criteri come alternativi appare

67

UNHCR Handbook.

68

UNHCR Handbook.

69 Così lo United States Board of Immigration Appeal, Matter of Acosta, Decision 2986, 1985,

reperibile online al seguente indirizzo

https://www.justice.gov/sites/default/files/eoir/legacy/2012/08/14/2986.pdf; Corte Suprema Canadese, Canada contro Ward.

70 Così la Corte Federale Australiana nel caso Minister for Immigration and Multicultural Affairs

contro Deyse Paquita Cedeno Zamora, 1998,

(27)

26

come la soluzione più adatta alla luce delle finalità di tutela dell’individuo che sono alla base della Convenzione71. Per l’applicazione della tutela inoltre non è necessario che tutti i membri del gruppo siano a rischio di persecuzione né risulta rilevante la dimensione del gruppo72.

 I motivi di opinioni politiche.

Quando si analizza il pericolo di persecuzione sulla base delle opinioni politiche del soggetto non rileva l’eventuale conoscenza o meno delle stesse da parte delle autorità dello Stato di origine prima della partenza del richiedente73. Il soggetto potrebbe aver nascosto le proprie opinioni proprio per non incorrere in persecuzioni, ma questo, come visto per i motivi religiosi, non può essere da lui preteso da parte dello Stato che valuti la domanda di asilo.

Non è inoltre necessario che il richiedente abbia tradotto le sue convinzioni in atti concreti: è sufficiente che l’autore della persecuzione ne sia a conoscenza o che esse siano comunque attribuite al richiedente74. Perciò si può integrare questo motivo anche quando il richiedente abbia compiuto un atto, nelle sue intenzioni non connesso ad un’opinione politica, considerato di fatto contrario all’ideologia, ai metodi o alle attività del soggetto che opera la persecuzione.

 L’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza.

Passiamo adesso ad analizzare il terzo elemento essenziale della clausola d’inclusione e vediamo come l’assenza di protezione del Paese d’origine o di

71 UNHCR, Guidelines on International Protection. “Membership of a particular social group”

within the context of Article 1A(2) of the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, 2002, reperibile online la seguente indirizzo

http://www.unhcr.org/publications/legal/3d58de2da/guidelines-international-protection-2-membership-particular-social-group.html.

72 Cfr. F. CHERUBINI, op. cit., pag. 19.

73 Questo orientamento non è del tutto pacifico in giurisprudenza: si veda ad esempio la sentenza

della Corte federale canadese, Makala contro Minister of Citizenship and Immigration, 1998, reperibile online al seguente indirizzo http://decisions.fct-cf.gc.ca/fc-cf/decisions/en/item/51039/index.do, dove non si è riconosciuto lo status di rifugiato al richiedente.

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27

residenza (in caso di apolide) possa dipendere da ragioni oggettive o da ragioni soggettive. Alle prime si riconduce l’impossibilità di rivolgersi alle autorità statali che può dipendere da circostanze indipendenti dalla volontà del richiedente e determinate da situazioni contingenti. L’eventuale rifiuto della protezione da parte dello Stato può configurare questa impossibilità o può essere una forma di persecuzione o fondare il timore del richiedente stesso75. Le ragioni soggettive invece vengono in essere quando si ha la non volontà del richiedente di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza o di residenza per ragioni direttamente collegate al ragionevole timore posto a fondamento della domanda: accedere alla protezione del Paese di origine è tendenzialmente incompatibile con il trovarsi al di fuori di quel Paese per il fondato timore di subire persecuzioni al suo interno. Strettamente collegato a questo profilo si ha anche un ulteriore criterio, di elaborazione giurisprudenziale, consistente nella cosiddetta “alternativa di fuga interna”: cioè nella possibilità per il richiedente di ricevere protezione in una differente area geografica del proprio Paese d’origine76. La Convenzione non prevede che il timore di persecuzione debba estendersi all’intero Paese d’origine e quindi l’“alternativa di fuga interna” dovrà essere interpretata restrittivamente: potrà assumere rilievo solo quando l’agente di persecuzione è un soggetto non statuale. Inoltre dovrà anche essere individuabile un’area geografica all’interno del Paese dove il richiedente avrebbe ragionevolmente potuto spostarsi e vivere in sicurezza. L’ “alternativa di fuga interna” quindi non assumerà alcuna rilevanza nel caso in cui non vi sia, all’interno dello Stato, di origine la possibilità di spostarsi legalmente all’interno del Paese o un luogo sicuro raggiungibile senza pericolo. Inoltre dovrà anche valutarsi l’identità dell’agente persecutore nonché la sua capacità d’azione, anche in prospettiva futura, nella zona considerata sicura77

. Un’ulteriore indagine che l’autorità chiamata a valutare la domanda di asilo dovrà compiere è relativa alla ragionevolezza della possibilità di fuga interna: ragionevolezza che dovrà essere valutata in base alla particolare situazione del richiedente asilo considerando fattori e caratteristiche personali dello stesso.

75 Cfr. N. MORANDI e P. BONETTI, Lo status di rifugiato, op. cit. 76 Cfr. N. MORANDI e P. BONETTI, Lo status di rifugiato, op. cit. 77 Cfr. C. FRANCHINI, op. cit.

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