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Studio del potenziale utilizzo di nanoparticelle di carbon black nella bonifica di acqua marina contaminata da metalli pesanti. Valutazione in vitro di genotossicita' su biopsie branchiali di M. galloprovincialis

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA

Corso di Laurea Magistrale in Biologia Marina

Tesi di Laurea

“Studio del potenziale utilizzo di nanoparticelle di carbon black nella bonifica di

acqua marina contaminata da metalli pesanti. Valutazione in vitro di genotossicità su

biopsie branchiali di M. galloprovincialis.”

Relatori: Candidata:

Prof.ssa Giada Frenzilli Livia Cei

Dott.ssa Patrizia Guidi

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INDICE GENERALE

1. RIASSUNTO...p.1 2. INTRODUZIONE... p.2 2.1. Bioindicatori e biomarker... p.5 - Biomarker di genotossicità...p.6 - Mitilo: organismo modello...p.7 2.2. Le nanoparticelle... p.8 2.2.1. Tossicità delle nanoparticelle... p.9 2.2.2. Nanoremediation... p.10 2.2.3. Carbon black...p.13 2.3. Cloruro di cadmio...p.15 2.4. Test di genotossicità... p.17 2.4.1. Valutazione del danno al DNA, Comet assay... p.17 2.4.2. Presenza di cellule apoptotiche, Diffusion assay...p.19 2.4.3. Cytokinesis-block micronucleus assay, Cytome assay...p.21 3. SCOPO... p.24 4. MATERIALI E METODI... p.25 4.1. Procedura sperimentale... p.25 - Carbon black... p.25 - Cloruro di cadmio... p.26 - Co-esposizione carbon black e cloruro di cadmio... p.27 4.2. Test utilizzati... p.27 4.2.1. Trypan blue per la vitalità cellulare...p.27 4.2.2. Comet assay...p.28 - Analisi dell'immagine...p.29 4.2.3. Diffusion assay... p.29 - Analisi dell'immagine...p.30 4.2.4. Cytome assay...p.30 - Analisi dell'immagine...p.31 4.3. Analisi statistica... p.31 5. RISULTATI... p.32 5.1. Risposte a trattamenti a dosi crescenti di carbon black...p.32 5.1.1. Comet assay...p.32

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5.1.3. Cytome assay...p.37 5.2. Risposte a trattamenti a dosi crescenti di cloruro di cadmio...p.39 5.2.1. Comet assay...p.39 5.3. Co-esposizione carbon black e cloruro di cadmio...p.39 5.3.1. Comet assay...p.39 5.3.2. Diffusion assay... p.40 5.3.3. Cytome assay...p.44 6. DISCUSSIONE... p.47 7. CONCLUSIONI... p.52 8. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI... p.53

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1. RIASSUNTO

L'inquinamento ambientale è una minaccia globale e la sua entità sta aumentando giorno dopo giorno a causa dell'urbanizzazione, della pesante industrializzazione e del cambiamento nello stile di vita delle persone. Al tempo stesso, l'avvento e lo sviluppo delle nanotecnologie ha fornito numerose opportunità e campi di applicazione per la realizzazione di nanomateriali (aventi dimensioni inferiori ai 100 nm) che grazie alle loro peculiari proprietà e funzionalità uniche, giocano un ruolo fondamentale nella bonifica ambientale (nanoremediation).

In questo studio è stata valutata in vitro la capacità delle nanoparticelle di carbon black di andare a contrastare l'effetto genotossico del cadmio (nella forma CdCl2), noto contaminante acquatico, in una specie modello come Mytilus galloprovincialis, classico bioindicatore della qualità dell'ambiente marino e importante anche per il consumo umano. I test di genotossicità Comet, Diffusion e Cytome assay sono stati effettuati su biopsie branchiali. Il Comet assay è una tecnica elettroforetica su singola cellula in grado di evidenziare le rotture a singolo e a doppio filamento e la presenza di siti labili agli alcali; il Diffusion assay rileva, invece, la presenza di cellule apoptotiche; infine, il Cytome assay valuta la presenza di cellule micronucleate o altre anomalie a carico del nucleo su cellule in interfase.

I risultati emersi dall'analisi della varianza (ANOVA) non hanno mostrato una riduzione in termini di danno genetico, valutato con il Comet assay, a seguito della co-esposizione di cadmio e carbon black rispetto all'esposizione con il solo contaminante. Tuttavia, seppur ai limiti della significatività statistica, a seguito della co-esposizione si è osservata una diminuzione in termini di cellule apoptotiche (valutate con il Diffusion assay) e di cellule micronucleate (Cytome assay); l'utilizzo delle nanoparticelle ha permesso in questi casi di apprezzare un livello inferiore di danno al DNA. Saranno, tuttavia, necessari ulteriori studi al fine di comprendere maggiormente le potenziali capacità genotossiche del carbon black, ma anche la loro possibile applicazione nell'ambito della nanoremediation.

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2. INTRODUZIONE

L'inquinamento ambientale è uno dei piu grandi problemi che il mondo si trova ad affrontare oggi, aumentando ogni anno e causando gravi e, talvolta, irreparabili danni al pianeta. L'urbanizzazione e la continua espansione della popolazione umana hanno esteso l'uso delle risorse naturali al massimo e questo sta portando alla depauperazione delle stesse se non alla distruzione della natura (Das et al., 2015). Si tratta di una sommatoria di eventi, difficilmente identificabili singolarmente, che agiscono in modo cumulativo e sinergico e che, in associazione al continuo utilizzo di risorse naturali, portano alla compromissione dell'ecosistema.

Una riduzione della qualità delle acque marine è riconducibile agli apporti provenienti dalle attività umane che si svolgono a terra, attraverso le acque reflue domestiche, urbane e industriali, le acque derivanti da attività agricole, oppure attraverso le emissioni atmosferiche. Forme di inquinamento di tipo fisico sono dovute, ad esempio, al rilascio di masse d’acqua a temperatura diversa da quella delle acque marine o anche alla emissione di onde sonore connesse con il trasporto marittimo o l’esplorazione geologica (ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, 2012).

Altre forme d’inquinamento derivano, invece, da attività che si svolgono in mare, quali il traffico marittimo, le attività di estrazione (es. gas e petrolio), gli sversamenti accidentali di sostanze, oppure quelle che derivano da rifiuti, come materiali solidi a lenta degradazione, che vengono abbandonati nell’ambiente marino. Tra i problemi piu rilevanti possiamo indicare l’eccessivo apporto di sostanze nutrienti e il deposito di contaminanti nei sedimenti, i quali, infatti, possono funzionare da sito di accumulo di contaminanti in grado di rilasciarli nel lungo periodo e riflettono, quindi, quella che si puo definire la storia degli scarichi in quell’area (Connor, 1984).

L'elevata capacità inquinante e la persistenza di molti composti chimici hanno indotto Agenzie Regolative e Enti di Ricerca a stabilire liste prioritarie di contaminanti da considerare nelle classificazioni di qualità e nella definizione degli obiettivi per il monitoraggio e la protezione delle acque. Queste liste comprendono metalli pesanti (come As, Cu, Cd, Ni, Pb, Hg e Zn), composti organoclorurati (come DDT e diossine), idrocarburi policiclici aromatici (IPA), policlorobifenili (PCB) ed altri contaminanti indicati come POP (Persistent Organic Pollutants), che sono difficilmente degradabili, permangono nell’ambiente, si accumulano attraverso la catena trofica e vengono trasportati anche a lunga distanza dai luoghi di emissione, costituendo un rischio per la salute ambientale e umana.

Strumenti utili per la gestione dell’inquinamento ambientale possono derivare da un approccio di tipo ecotossicologico, che valuta la distribuzione dei contaminanti nelle matrici ambientali, il loro

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trasferimento al comparto biotico, e la comparsa di effetti tossici ai diversi livelli di organizzazione biologica.

Il termine ecotossicologia è stato coniato da Rene Truhaut nel 1969 e attinge alla conoscenza e alle tecniche sul campo dell'ecologia (lo studio scientifico delle interazioni che determinano la distribuzione e l'abbondanza di organismi, Krebs 1972) e della tossicologia (studio degli effetti dannosi delle sostanze sugli organismi viventi) (Truhaut, 1977). Ancora oggi vi è un dibattito sulla definizione esatta di ecotossicologia, ma possiamo definirla come “lo studio degli effetti nocivi delle sostanze chimiche sugli organismi a livello di popolazione, comunità o di ecosistema” (Walker et al., 1996). Una definizione piu completa di ecotossicologia viene da Forbes e Forbes (1994): “il campo di studio che integra gli effetti ecologici e tossicologici di inquinanti chimici sulle popolazioni, comunità ed ecosistemi con il destino (trasporto, trasformazione e ripartizione) di tali inquinanti nell'ambiente”. Anche la distinzione tra i termini “contaminante” e “inquinante” solleva ulteriori difficoltà. Nella letteratura scientifica, il termine inquinante implica che la sostanza chimica in questione provochi danni ambientali; invece, un contaminante è una sostanza chimica presente a livelli superiori a quelli che potrebbero essere considerati di origine naturale e che puo o meno aver causato danni ambientali, quindi non è necessariamente dannoso a quei livelli (Walker et al., 1996).

Tra i vari contaminanti immessi nell’ambiente, di particolare interesse sono i cosiddetti “contaminanti emergenti”, che comprendono tutte le sostanze di nuova sintesi, oppure già presenti nell’ambiente ma in forme non ancora utilizzate dall’uomo; conseguentemente, queste sostanze non sono ancora ben studiate e se ne ignorano in gran parte i possibili effetti sia a carico dell’ambiente che della salute umana, a differenza degli inquinanti classici che, essendo studiati da lungo tempo, sono ormai ben caratterizzati. I “contaminanti emergenti” possono essere intesi in senso generale come qualsiasi prodotto chimico, sintetico o presente in natura, o qualsiasi microrganismo che non è comunemente monitorato o regolamentato in ambiente ma che ha la potenzialità di causare effetti negativi, noti o sospetti, sull'ecosistema e sulla salute umana (Geissen et al., 2015). Questi contaminanti includono principalmente sostanze chimiche presenti in prodotti farmaceutici, distruttori endocrini, prodotti industriali e domestici, additivi e solventi industriali. Molti di essi sono utilizzati e rilasciati continuamente nell'ambiente anche in quantità molto basse e alcuni possono causare tossicità cronica, alterazioni del sistema endocrino negli esseri umani e nella fauna acquatica e sviluppo di resistenza batterica agli agenti patogeni (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura UNESCO, 2015).

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comprensione sui potenziali rischi per la salute ecologica e umana derivanti dalle sostanze inquinanti emergenti sono ancora molto scarse. Non sono inclusi nei programmi nazionali di monitoraggio ambientale, in quanto spesso non esistono dati soddisfacenti per determinare il loro rischio; quindi ne deriva un urgente bisogno di rafforzarne la conoscenza sul comportamento e gli effetti ecotossicologici, al fine di adottare opportuni approcci tecnologici e politici per un corretto monitoraggio e per valutarne i potenziali rischi (Gavrilescu et al., 2015). In base alle caratteristiche chimico/fisiche i contaminanti emergenti si possono distinguere in: sostanze organiche che possono essere suddivise in PBT (sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche) e sostanze polari (ad esempio pesticidi, prodotti farmaceutici, prodotti chimici industriali); nanoparticelle e microplastiche (Geissen et al., 2015).

Molti contaminanti (siano essi emergenti o classici) destano particolare attenzione in quanto, tra vari potenziali rischi, potrebbero essere capaci di andare ad alterare la struttura e l’integrità della molecola di DNA. Con il termine genotossicità si intende, infatti, la capacità di una sostanza di indurre modificazioni della sequenza nucleotidica del DNA, alterazioni dello stato di integrità, che se non adeguatamente riparate possono portare all’insorgenza di mutazioni. Le cause che portano al danneggiamento della doppia elica possono essere molteplici sia di tipo diretto che indiretto, includendo eventi connessi al metabolismo cellulare (radicali dell’ossigeno), all’interazione con agenti fisici (raggi UV, radiazioni ionizzanti), o a quella con agenti chimici (Shugart, 1995). Le cellule all’interno delle quali non viene riparato il danno possono andare incontro alla fissazione di mutazioni geniche e cromosomiche, nonche, con il perdurare e l’accumularsi degli eventi mutazionali, all’attivazione di processi cancerogeni.

Tra le mutazioni si possono distinguere quelle che avvengono nelle cellule somatiche che possono causare, in certi casi, danni gravi come la morte della cellula; oppure, se interessano geni coinvolti piu o meno direttamente nella regolazione della crescita cellulare, si puo avere una trasformazione tumorale della cellula. Le mutazioni a livello delle cellule germinali, invece, si possono manifestare sulla progenie con conseguenti effetti fenotipici spesso deleteri.

Il potenziale effetto nocivo di un composto dipende dalla quantità immessa nel corpo idrico, dalla resistenza alla degradazione e dalle caratteristiche tossicologiche. In questo contesto gli agenti mutageni si distinguono da altri agenti tossici in quanto inducono modificazioni stabili dell’informazione genetica, ereditabili dalle cellule replicate e in generazioni successive, i cui effetti possono esplicarsi ben oltre la fine dell’esposizione diretta. Da non sottovalutare è, poi, il possibile passaggio all’uomo dei contaminanti accumulati in alcuni organismi attraverso la catena alimentare. Infatti, la maggior parte delle sostanze inquinanti che si riversano nelle acque sono in grado di

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accumularsi negli organismi in quanto prevalentemente idrofobiche e attraverso la catena trofica vengono trasferite da un organismo all'altro subendo un progressivo aumento di concentrazione. L'accumulo di sostanze inquinanti all'interno dell'organismo rispetto all'ambiente esterno, che prende il nome di bioaccumulo, puo avvenire attraverso due differenti meccanismi:

la biomagnificazione: è l’accumulo lungo la catena alimentare di determinate sostanze.

la bioconcentrazione: è il fenomeno per cui il bioaccumulo non segue la catena alimentare, ma avviene direttamente dal mezzo in cui l’organismo vive.

E comunque rilevante anche l’impatto sulle popolazioni di specie diverse dalla nostra, dove l’insorgenza di numerosi eventi mutazionali è stata correlata con la riduzione della fitness degli organismi. Tali effetti negativi vanno dall’alterazione del metabolismo generale a squilibri delle funzioni enzimatiche, passando per l’invecchiamento precoce e l’alterazione delle capacità riproduttive della specie presa in esame, che puo portare come estrema conseguenza all’estinzione della stessa con notevoli conseguenze per l’ecosistema.

2.1. Bioindicatori e biomarker

Nel campo dell'ecotossicologia risulta di fondamentale importanza l'utilizzo di organismi (animali o vegetali) in grado di fornire indicazioni sulla variazione di inquinanti nello spazio e nel tempo; questi organismi sono detti bioindicatori o specie sentinella (Hamza-Chaffai, 2014).

In questo quadro, tuttavia, appare chiaro come la sola valutazione quantitativa dei livelli di esposizione di un organismo a un dato contaminante, possa non essere sufficiente per fornire indicazioni sullo stato di salute ambientale e sottolinea l’esigenza di strumenti diagnostici e prognostici adeguati allo studio degli effetti dei contaminanti ai vari livelli dell’ecosistema.

La National Academy of Science (NRC, 1989) descrive un marcatore biologico o biomarker “quella variazione, indotta da un contaminante, a livello delle componenti biochimiche o cellulari di un processo, di una struttura o di una funzione, che puo essere misurata in un sistema biologico”. E altrettanto interessante la definizione di biomarker ecotossicologico coniata da Depledge (1989) che lo definisce come “quella variazione biochimica, cellulare, fisiologica o comportamentale, che puo essere misurata in un tessuto, in un fluido biologico o a livello dell’intero organismo (individuo o popolazione), la quale fornisce l’evidenza di un’esposizione e/o un effetto ad uno o piu composti inquinanti”. I biomarcatori possono essere utilizzati per identificare e prevedere i primi segnali di esposizione o di effetto al fine di evitare conseguenze ecologiche inaccettabili, come ad esempio problemi riproduttivi o un aumento della mortalità in una popolazione. Il ruolo dei biomarcatori in ecotossicologia, infatti, non è quello di fornire informazioni quantitative sui livelli di esposizione di

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un organismo a un dato contaminante, ma fornire indicazioni sullo stato di salute come segnale di cambiamenti a livelli ecologici piu elevati (Fossi, 1998).

I biomarker possono esser divisi anche in funzione della loro “specificità” di risposta nei confronti di agenti inquinanti (Peakall e Shugart, 1993) in biomarker specifici e generali. I primi si manifestano in un organismo come risposta molecolare e biochimica ad una specifica classe di contaminanti (ad esempio metallotioneine in risposta all’inquinamento da metalli). I biomarker generali sono, invece, quelle risposte molecolari, cellulari e fisiologiche dell'organismo, che non possono essere ricondotte ad una specifica classe di contaminanti, ma rappresentano lo stato generale di stress dell’organismo (ad esempio alcuni tipi di danno al DNA, compromissione immunologica e gli indici somatici) (Fossi, 1998).

Un'altra possibile suddivisione riconosce tre tipi generali di marcatori che hanno diverso significato ma che risultano tra di loro complementari: biomarcatori di esposizione, biomarcatori di effetto e biomarcatori di suscettibilità (WHO International Programme on Chemical Safety, 1993). I biomarcatori di esposizione o di dose interna segnalano risposte relative alla prima interazione tra la molecola (inquinante) ed il recettore biologico; tramite questa misura si individua l’avvenuta esposizione al contaminante.

I biomarcatori di suscettibilità indicano la capacità intrinseca o acquisita di un organismo di rispondere ai cambiamenti in seguito ad esposizione a specifiche sostanze, includendo fattori genetici e cambiamento dei recettori che alterano la suscettibilità di un organismo all’esposizione. I biomarcatori di effetto sono anche chiamati biomarcatori di risposta, sono biomarcatori di effetti tossici veri e propri, a breve termine, di uno o piu inquinanti. Biomarcatori di questo tipo sono tutte le risposte che indicano l'esposizione a un composto tossico e l'effetto tossicologico (Fossi 1998). In questo studio abbiamo considerato in particolare quelli relativi agli effetti genotossici analizzati mediante endpoint differenti tramite test quali: Comet assay, Diffusion assay e Cytome assay.

Biomarker di genotossicita

I danni di tipo genetico possono essere osservati sia a livello cromosomico sia valutando l’integrità del DNA. Il metabolismo cellulare delle sostanze genotossiche è un fenomeno complesso e la mancanza di una detossificazione completa puo portare alla formazione di metaboliti elettrofili altamente reattivi, che possono attaccare i centri nucleofili in macromolecole come DNA, lipidi, proteine. Per questo motivo le sostanze genotossiche sono da porre in relazione con la potenziale insorgenza di varie patologie come quelle cancerose. Inoltre, i composti genotossici, in virtu della loro elevata reattività, possono anche contribuire all’insorgenza di altri effetti avversi come

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anomalie ereditarie attraverso mutazioni nelle cellule germinali o teratogenità. L'interferenza con la riproduzione puo avere un impatto ancora maggiore a livello di popolazione alterandone la composizione in maniera significativa (Mitchelmore e Chipman, 1998).

Per questi motivi appare chiaro che l’esposizione a genotossine puo provocare una cascata di eventi in grado di cambiare l’integrità del DNA e risultare in vari tipi di danno. L’identificazione e la quantificazione di questi eventi, dall’esposizione alla fissazione del danno genetico, possono essere utilizzate come biomarker in organismi esposti ad ambienti contaminati.

Mitilo: organismo modello

La specie Mytilus galloprovincialis riveste particolare interesse per studi di interazione organismo-ambiente acquatico ed è stata ritenuta la piu idonea per la realizzazione di questo studio, in quanto i contaminanti possono indurre in questi animali modificazioni misurabili nei normali processi molecolari o biochimici, i suddetti biomarker.

I Bivalvi, e soprattutto Mytilus galloprovincialis, sono ampiamente utilizzati come specie sentinella per il monitoraggio di siti contaminati in ambienti costieri (Saavedra et al., 2004; Santovito et al., 2005; Box et al., 2007). Sono organismi facili da gestire, identificare e raccogliere (Cevik et al., 2008), inoltre, hanno un ampio areale di distribuzione lungo le coste del mar Mediterraneo. Come altre specie di filtratori sedentari, possono far fluire al loro interno fino a 200 litri di acqua al giorno (Zouiten et al., 2016). Nonostante siano in grado di effettuare una selezione riguardo alle dimensioni e la natura delle particelle che entrano nella cavità del mantello, molte sostanze inquinanti possono essere assorbite nei loro tessuti e accumularsi al loro interno in relazione alla biodisponibilità nell'ambiente marino (Catsiki e Florou, 2006). Nel presente studio i test di tossicità sono stati effettuati sulle branchie dal momento che sono organi respiratori, ma anche apparato filtratore per l'alimentazione, quindi rappresentano l'interfaccia con l'ambiente e costituiscono la prima barriera di potenziali contaminanti.

Inoltre, questi organismi, e piu in generale quelli del genere Mytilus, sono in grado di adattarsi ad ampie variazioni di parametri ambientali come la temperatura, i livelli di ossigeno, la salinità, la disponibilità alimentare. Questi animali hanno dimensioni ottimali per poter essere studiati sia a livello di organismo che a livello cellulare e le loro caratteristiche istologiche, biochimiche e fisiologiche sono sufficientemente conosciute. Tutte queste caratteristiche, anche in considerazione della bassa cinetica di decontaminazione (Wang et al., 1996), fanno si che Mytilus galloprovincialis sia ampiamente utilizzato per valutare la qualità dell’ambiente marino (Andral et al., 2004; Romeo et al., 2003), misurare le risposte biologiche e, quindi, migliorare la comprensione dei meccanismi

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di danno a diversi livelli di organizzazione biologica.

2.2. Le nanoparticelle

Tra i vari contaminanti emergenti citati precedentemente, particolare interesse è occupato dalle nanoparticelle dal momento che il loro impiego e sintesi sono in costante aumento, tuttavia si riscontrano ancora oggi delle difficoltà nella valutazione del loro impatto e la potenziale tossicità. Le nanoparticelle (NP) sono definite come strutture aventi almeno una dimensione minore di 100 nm conferendo proprietà uniche. Sono da sempre presenti nell’ambiente poiche derivano da processi geologici come l’erosione rocciosa da parte di agenti fisici (piogge, vento) e chimici (piogge acide) ed eruzione vulcaniche che immettono direttamente nell’atmosfera polveri e ceneri ultrafini. Inoltre, possono essere prodotte in maniera volontaria o involontaria dall’uomo. Sono formate da vari materiali e possono essere caratterizzate da forme cristalline diverse, assumere forme regolari (tubulari, sferiche o filamentose) o irregolari; esistono allo stato disperso o in forma aggregata o agglomerata.

Il termine “nanotecnologie” si riferisce alla progettazione, produzione e applicazione di strutture, dispositivi o sistemi di atomi e molecole su piccola scala - la “nanoscala” (Pandey e Fulekar, 2012). La capacità di manipolare la materia su scala nanometrica deriva dallo sviluppo delle tecnologie piu avanzate che permettono di gestire le difficoltà derivanti da queste dimensioni.

Con l’avvento delle nanotecnologie negli ultimi anni si è avuto un aumento intensivo dell’utilizzo dei nanomateriali da parte di molteplici settori industriali, che vedono il loro impiego in centinaia di prodotti, cosmetici, indumenti e prodotti alimentari (Health and Environment Alliance HEAL, 2008). I materiali su scala nanometrica possono derivare da processi detti "bottom-up" (come l'auto-assemblaggio) che assemblano materiale nanostrutturato a partire dalle nanoparticelle che lo costituiranno, e da processi "top-down" (come la fresatura) che riducono con metodi fisici le dimensioni delle strutture iniziali, portandole a livello micro/nanometrico.

Proprietà come ad esempio un'alta efficienza catalitica, alta conducibilità elettrica, e una migliore durezza e resistenza, sono il risultato di una maggiore superficie per unità di volume caratteristica della scala nanometrica; sappiamo, infatti, che tali proprietà rendono le NP molto diverse rispetto alle particelle aventi la stessa composizione chimica ma dimensione micrometrica. Da queste caratteristiche ne consegue una maggiore reattività chimica e potenzialmente anche una piu accentuata attività biologica (Marconi, 2006). Altre proprietà fisico-chimiche, specifiche per ogni tipo di nanomateriale, sono tali da rendere queste sostanze molto attraenti per il loro utilizzo ma contemporaneamente resistenti ad agenti fisico-chimici esterni che potrebbero quindi rendere tali

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materiali molto persistenti nell’ambiente una volta rilasciati. Il biossido di titanio nanoparticellato, per esempio, viene utilizzato come pigmento in vernici da esterno proprio per la sua resistenza a fenomeni di corrosione e sfarinamento; mentre NP di ossido di zinco sono impiegate nella produzione di creme protettive solari (Nohynek et al., 2008).

Recentemente le NP sono state proposte nell’ambito della salvaguardia ambientale, sia attraverso le applicazioni dirette dei nanomateriali per individuare, prevenire e rimuovere le sostanze inquinanti dall’ambiente, sia indirettamente, per progettare processi industriali piu puliti e creare prodotti rispettosi dell'ambiente.

Il settore delle nanotecnologie è attualmente in rapida crescita ed è previsto il suo significativo impatto anche sugli ambienti di lavoro, ma sono ancora molte le incertezze sui potenziali rischi derivanti dalle particolari ed uniche caratteristiche delle NP, le stesse, d’altra parte, che ne determinano il grande interesse commerciale (Marconi, 2006).

2.2.1. Tossicita delle nanoparticelle

Come abbiamo già accennato, alcune delle stesse proprietà che conferiscono caratteristiche uniche alle nanoparticelle possono anche rappresentare, in condizioni specifiche, un pericolo per l'uomo e per l'ambiente. I meccanismi di genotossicità possono essere influenzati da caratteristiche come: dimensione, forma, proprietà superficiali, composizione, solubilità, aggregazione/agglomerazione, l'adsorbimento, presenza di mutageni e metalli di transizione associati alle particelle (Schins, 2002; Kisin et al., 2007; Stone et al., 2010; Magdolenova et al., 2014).

I risultati sulla loro distribuzione in ambiente o nel mezzo sperimentale sono ancora contrastanti, anche alla luce del fatto che le nanoparticelle in soluzione tendono ad aggregarsi, in questo modo assumono caratteristiche differenti rispetto alle particelle singole (Donaldson et al., 2001). Agglomerati di nanoparticelle sia in vitro che in vivo potrebbero, infatti, complicare la valutazione sulla tossicità di tale nanoparticella, ad esempio, si potrebbe erroneamente concludere che la NP è meno tossica (Sager et al., 2007). Infatti, a causa dell'agglomerazione e dell'aggregazione, le proprietà fisico-chimiche della nanoparticella (come carica superficiale, dimensioni, distribuzione granulometrica, superficie in rapporto al volume, superficie reattiva) non vengono mantenute, questo puo portare a una modifica del loro assorbimento, della biodisponibilità e di conseguenza delle risposte tossicologiche (Magdolenova et al., 2014).

Un'ulteriore difficoltà nell’interpretazione dei dati ottenuti dallo sviluppo di test in vitro o in vivo si riscontra a causa della presenza di tante classi diverse di NP con varie caratteristiche che possono contribuire alla tossicità attraverso meccanismi diversi (Vega-Villa et al., 2008). Anche la via di

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esposizione ai nanomateriali rappresenta una variabile importante nella progettazione di studi tossicologici; le NP sono in grado di entrare nel corpo tramite inalazione, o per via dermica o orale, possono giungere nella circolazione sistemica e successivamente migrare nei diversi tessuti e organi, interagendo con i sistemi biologici ed esercitando la loro potenziale tossicità attraverso una serie di meccanismi diretti e indiretti che possono promuovere tra gli altri effetti negativi, danni al DNA (Oberdörster et al., 2005; Singh et al., 2009).

Nonostante non siano ancora chiari i meccanismi sulla genotossicità delle NP, si puo ipotizzare che questa derivi da entrambe le interazioni, diretta o indiretta, con il materiale genetico. Un'interazione indiretta, ad esempio, si ha con la formazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), o il rilascio di ioni tossici da parte di nanoparticelle solubili (Kisin et al 2007; Barnes et al., 2008).

Se le nanoparticelle sono in grado di attraversare la membrana cellulare, possono passare la membrana nucleare tramite diffusione o con il trasporto attraverso i complessi dei pori nucleari, quindi raggiungere il nucleo e interagire direttamente con il DNA. Studi in vitro (Barillet et al., 2010) dimostrano che le NP di dimensioni piu piccole possono raggiungere il nucleo tramite pori nucleari (diametro compreso tra 8 nm e 10 nm), mentre quelle piu grandi arrivano a contatto con il DNA solo nelle cellule in divisione, durante la mitosi, quando si dissolve la membrana nucleare (Liang et al., 2008; Singh et al., 2009). Come già accennato, l'interazione tra le NP e il materiale genetico puo avvenire anche indirettamente, ad esempio interagendo con le proteine coinvolte nella replicazione, trascrizione o riparazione del DNA; tramite studi in silico, ad esempio, è stato dimostrato che il fullerene C60 si lega alla topoisomerasi II probabilmente inibendone l'attività enzimatica (Baweja et al., 2011). Inoltre, le NP possono interagire con il fuso mitotico, con conseguente perdita o aggiunta di cromosomi nelle cellule figlie, o anche con le proteine responsabili della divisione cellulare. Studi in vitro hanno mostrato la capacità di alcune nanoparticelle (come quelle del biossido di titanio o della silice) (Barillet et al., 2010; Shukla et al., 2011) di generare specie reattive dell'ossigeno, le quali posso causare un danno ossidativo al DNA; i radicali liberi, infatti, possono interagire con le biomolecole cellulari come il DNA portando a rotture del filamento o lesioni delle basi del DNA, con conseguenze potenzialmente gravi (Magdolenova et al., 2014).

2.2.2. Nanoremediation

Tra le applicazioni piu promettenti nell'ambito delle nanotecnologie, molte riguardano l'ambiente e quest'ultime sono ascrivibili in tre categorie: i) prodotti ecologicamente innocui e/o sostenibili; ii) la rimozione dei materiali contaminati da sostanze pericolose; iii) sensori per gli agenti ambientali.

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Anche se queste tre categorie sono di solito interpretate in termini di sostanze chimiche o comunque materiali non biologici, occorre sottolineare che possono essere applicate anche ad agenti microbici e a materiali biologici (Tratnyek e Johnson, 2006).

Le nanoparticelle, date le loro proprietà uniche, in particolare l'elevata superficie in rapporto al volume e l'elevata porosità, connesse ad una maggiore area esposta e quindi un alto numero di atomi prontamente disponibili per diverse reazioni, riescono a rapportarsi con eventuali contaminanti presenti nel mezzo da purificare, andando ad interagire direttamente con essi. La nanoremediation, ovvero l’utilizzo di NP per la bonifica ambientale, si avvale, infatti, delle caratteristiche dei nanomateriali sfruttandole a proprio vantaggio per la bonifica degli ambienti naturali e la detossificazione di ecosistemi contaminati. I nanomateriali, inoltre, trovano applicazioni nel rilevamento di siti ambientali contaminati (Khan et al., 2014) svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo di sensori ambientali rapidi e precisi che possono essere utilizzati per il rilevamento di sostanze inquinanti a livello molecolare o anche per inattivare batteri nocivi. La nanoremediation presenta vari vantaggi rispetto ai metodi classici: ha il potenziale non solo di ridurre i costi complessivi di bonifica in grandi siti contaminati, ma anche di ridurre il tempo d'applicazione, eliminare la necessità di rimozione e smaltimento delle matrici contaminate, e ridurre significativamente le concentrazioni di alcuni contaminanti (Karn et al., 2009).

I materiali su scala nanometrica possono fare una grande differenza nella bonifica di rifiuti pericolosi, per due ragioni principali: in primo luogo, le dimensioni permettono loro di raggiungere siti difficilmente accessibili in altro modo; in secondo luogo, i rivestimenti ingegnerizzati consentono loro di rimanere sospese, ad esempio, nelle acque sotterranee evitando una repentina sedimantazione a vantaggio di una piu lunga permanenza e attività nel comparto acquatico, una risorsa capacità importante nell'ambito della bonifica (Pandey e Fulekar, 2012).

Una delle applicazioni ambientali piu promettenti e ben sviluppate delle nanotecnologie è la bonifica e il trattamento delle acque, dove diversi nanomateriali possono contribuire a purificare l'acqua attraverso meccanismi differenti, tra cui l'adsorbimento di metalli pesanti e altre sostanze inquinanti, la rimozione e l'inattivazione degli agenti patogeni e la trasformazione di materiali tossici in composti meno tossici o innocui (ad esempio CO2 e H2O nel caso di contaminanti organici). A questo scopo, i nanomateriali sono stati prodotti in diverse forme, integrati in vari compositi e funzionalizzati con componenti attivi (Hosseini et al., 2014).

Come per l'inquinamento atmosferico, inquinanti presenti in ambiente acquatico possono essere convertiti in sostanze chimiche innocue attraverso reazioni chimiche. Ad esempio, il tricloroetene, un inquinante pericoloso che si trova comunemente nelle acque reflue industriali, puo essere

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catalizzato e trattato con nanoparticelle. Oltre ai vantaggi sopra citati, l'inserimento di nanoparticelle in fonti d'acqua sotterranee è efficiente e poco costoso (Pandey e Fulekar, 2012). Nel modo piu semplice, le particelle adsorbenti rimuovono le sostanze inquinanti dall'acqua contaminata e sono quindi ampiamente usati come mezzi di rimozione del contaminante e la matrice indagata. Inoltre, alcuni nanomateriali possiedono eccellenti capacità riduttive e possono quindi essere utilizzati per rendere gli inquinanti meno tossici. Un esempio efficace è il ferro zero valente che è stato ampiamente impiegato, anche in situ, nei sistemi di riduzione chimica per la bonifica di acqua contaminata da inquinanti organici. Inoltre, l'ulteriore vantaggio del ferro zero valente è che non produce sottoprodotti intermedi, solitamente presenti quando si utilizzano polveri commerciali di ferro (Lowry e Johnson, 2004).

Una delle principali distinzioni che definiscono i tipi di tecnologie di bonifica convenzionali si applica anche alla nanoremediation: le tecnologie in situ e ex situ. Le prime coinvolgono il trattamento di contaminanti sul posto; spesso preferite rispetto ad altri approcci in quanto ritenute potenzialmente piu efficaci; tuttavia richiedono la liberazione delle NP (reattive o adsorbenti) nel luogo contaminato e questo puo essere talvolta un ostacolo allo sviluppo di tali tecnologie. Mentre il termine ex situ si riferisce al trattamento dopo aver rimosso il materiale contaminato in un luogo piu conveniente (ad esempio pompando l'acqua di falda contaminata sulla superficie) (Tratnyek e Johnson, 2006).

La contaminazione ambientale da parte di alcune classi di contaminati puo esercitare un’azione genotossica nei confronti degli organismi che vi vengono in contatto. Per questo motivo, nella presente tesi è stata posta una particolare attenzione, nell'ambito dell’ambiente marino, al danno genetico indotto dalla presenza di metalli pesanti.

E stato ipotizzato infatti che le NP potessero rappresentare uno strumento innovativo per la bonifica dell’ambiente marino contaminato da metalli pesanti; mediante diversi meccanismi d’azione, infatti, la co-esposizione delle nanoparticelle con i contaminanti puo rappresentare un meccanismo di difesa per i sistemi biologici ed essere, quindi, impiegato nella bonifica ambientale. In letteratura troviamo molti esempi di come tali particelle vengano sfruttate per le loro proprietà di risanare ambienti contaminati; alcuni studi indicano, ad esempio, la capacità delle molecole del biossido di titanio (TiO2) di contrastare l’attività genotossica del cloruro di cadmio (Della Torre et al., 2015). Anche le nanoparticelle di carbonio sono oggetto di studio per l’impiego nella nanoremediation, in quanto sono in grado di rimuovere metalli e contaminanti organici dai suoli e dalle acque sotterranee (Kwadijk et al., 2013), oppure riducono nelle alghe verdi (Pseudokirchneriella subcapitata) almeno del 20% la tossicità di erbicidi come il diuron nelle acque dolci superficiali

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(Knauer et al., 2007).

2.2.3. Carbon black

Il carbon black (CB) è un carbonio elementare che si presenta sotto forma di particelle colloidali prodotte dalla combustione incompleta o dalla decomposizione termica di idrocarburi gassosi o liquidi in condizioni controllate. Si puo trovare come pellet o polvere finemente suddivisa, di colore nero. Viene comunemente impiegato nell'industria di pneumatici, prodotti in gomma e plastica, inchiostri e vernici grazie alle sue peculiari proprietà come la dimensione e la struttura delle particelle, la conducibilità termica e il colore. Il CB è anche tra le 50 sostanze chimiche industriali piu prodotte in tutto il mondo sulla base del quantitativo annuo (8,1 milioni di tonnellate). Circa il 90% è utilizzato nelle applicazioni di gomma, il 9% come pigmento, e il restante 1% come componente essenziale in centinaia di applicazioni diverse (International Carbon Black Association ICBA, 2004).

E importante notare che le particelle di CB differiscono notevolmente dalla fuliggine. Quest'ultimo è, infatti, un termine generico applicato a vari sottoprodotti carboniosi indesiderati derivanti dalla combustione incompleta di materiali contenenti carbonio, come il petrolio, oli combustibili o benzina, carbone, carta, gomma, plastica e materiale di scarto. Le differenze riguardano anche la purezza (superiore nel CB, che è quasi il 97% di carbonio), l'uniformità della superficie dei noduli (piu alta nel CB), l'agglomerazione (superiore nel CB) e il contenuto di idrocarburi policiclici aromatici (maggiore nella fuliggine) (Boland et al., 2014).

Il carbon black è stato oggetto di studi approfonditi nel corso degli ultimi decenni. Attualmente è classificato dalla Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC, 2010) come “probabilmente cancerogeno per l'uomo” (Gruppo 2B) sulla base di “prove sufficienti” negli animali e “prove insufficienti” negli esseri umani. Alcuni lavori hanno esaminato la presenza di disturbi polmonari a seguito dell'inalazione, in quanto principale via di esposizione dei lavoratori con queste nanoparticelle e i risultati di questi studi non mostrano l'insorgenza di malattie legate a tali esposizioni (International Carbon Black Association ICBA, 2004). Gli studi di inalazione a lungo termine (fino a due anni) in alcuni ratti sperimentalmente esposti a concentrazioni elevate, hanno portato a infiammazione cronica, fibrosi polmonare e tumori polmonari. Tuttavia i tumori non sono stati osservati in altre specie animali (in particolare topi e criceti) nelle medesime condizioni di studio. Inoltre, questi stessi effetti sono stati osservati quando i ratti sono stati esposti ad altre particelle di polvere scarsamente solubili. A tal proposito, molti ricercatori ritengono che gli effetti osservati risultino dal massiccio accumulo di piccole particelle nel polmone dei ratti a seguito

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dell'esposizione a concentrazioni elevate. Questi accumuli superano i meccanismi naturali di clearance polmonare del ratto e producono un fenomeno detto “sovraccarico polmonare” (“lung overload”) (Driscoll, 1997; “Carbon Black User’s Guide”, 2016). Non si ritiene, quindi, che gli effetti siano il risultato di uno specifico effetto tossico della particella nel polmone. In contrapposizione ai risultati negativi descritti precedentemente, altri autori hanno dimostrato la capacità delle nanoparticelle di CB di indurre tossicità a livello del sistema respiratorio, sia in vitro che in vivo (Boland et al., 2014). L'esposizione per almeno 4 ore è stata sufficiente per indurre una tossicità significativa nelle cellule dell'epitelio bronchiale umano, inducendo apoptosi (Hussain et al., 2010). Anche in altri lavori è stata riportata la capacità delle NP di indurre genotossicità in vitro (Jacobsen et al., 2007; Mroz et al., 2008) e in vivo (Saber et al., 2005) dimostrando la loro clastogenicità, mutagenicità e cancerogenicità (Roller, 2009). In particolare sono evidenziate: l'induzione di micronuclei, mutazioni geniche, rotture del DNA, alterazioni cromosomiche, trasformazioni cellulari principalmente attraverso i ROS (ad es. nei mitocondri; Li et al., 2008; Manke et al., 2013), ma anche alcuni meccanismi indipendenti da questi ultimi, e l'interazione con le proteine di membrana determinando una modulazione dell’espressione genetica o inducendo autofagia in seguito alla loro internalizzazione (Boland et al., 2014); gli effetti tossici citati possono derivare da due possibili modalità: tossicità primaria (definita come danni diretti causati dalle NP) e la tossicità secondaria (definita come il danno derivato dallo stress ossidativo a sua volta causato dalle NP) (Knaapen et al., 2004; Schins e Knaapen, 2007; Gao et al., 2017).

Alla luce dei dati di letteratura sopracitati, risulta evidente la necessità di ulteriori indagini al fine di comprendere ulteriormente le potenziali capacità genotossiche e i relativi meccanismi d'azione delle nanoparticelle di carbon black e, quindi, possedere una visione complessiva per consentirne o meno l'utilizzo nella nanoremediation.

Vari studi hanno dimostrato il possibile utilizzo dei nanomateriali di carbonio nella nanoremediation, sebbene impieghino composti a base di carbonio differenti dal CB (in particolare nanotubi). Kwadijk e collaboratori (2013) hanno, infatti, evidenziato la capacità di nanotubi di carbonio di rimuovere metalli e contaminanti inorganici dalle acque sotterranee e dai suoli; altri studi riguardano la possibile applicazione nelle acque potabili con lo scopo di rimuovere agenti patogeni, sostanza organica naturale (NOM) e tossine di cianobatteri (Brady-Estevez et al., 2008; Upadhyayula et al., 2009). Anche la capacità di adsorbimento di idrocarburi policiclici aromatici (IPA) è di fondamentale importanza nella bonifica ambientale; a tal proposito, è stato visto che i nanomateriali di carbonio sono in grado di influenzarne il destino, la trasformazione e il trasporto nell'ambiente (Yang et al., 2006). Nelle acque dolci di frequente si misura un'elevata concentrazione

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di erbicidi, come il diuron; la presenza di carbonio (nella forma black carbon, termine generico applicato a vari sottoprodotti carboniosi contenenti meno del 60% di carbonio elementare) (International Carbon Black Association ICBA, 2004), a seguito di tempeste nelle aree urbane limitrofe, ha ridotto la tossicità del diuron di almeno il 20% (Yang et al., 2006). In conclusione possiamo affermare che i nanomateriali in carbonio abbiano la capacità di ridurre la biodisponibilità di molti contaminanti ambientali, influenzandone notevolmente la potenziale tossicità. Tuttavia, pochi studi hanno finora affrontato il tema della nanoremediation con il carbon black nanoparticellato; di conseguenza, l'obiettivo di questo lavoro è stato quello di ottenere informazioni utili per estendere le conoscenze attuali nell'ambito della nanoremediation anche su questa forma di carbonio, esaminandolo dal punto di vista della genotossicità, al fine di valutare la capacità di interagire con contaminanti classici dispersi nell’ambiente e studiandone contemporaneamente il potenziale cito- e genotossico.

2.3. Cloruro di cadmio

Tra i contaminanti ambientali ben caratterizzati e conosciuti sotto il profilo tossicologico, particolare attenzione è dedicata in letteratura scientifica (nell’ambito dell’ecotossicologia) ai metalli pesanti, come il Cd, a causa della loro elevata tossicità sia per l'uomo che per tutte le specie viventi. Anche se non esiste una definizione universalmente accettata di metallo pesante basata sulle proprietà chimico-fisiche, in genere con questo termine si identifica una serie di elementi della tavola periodica che presentano una densità maggiore a 5 g/cm3 (Lapades, 1974), una forte affinità per i solfuri, o un numero atomico >20.

Negli ultimi decenni si è avuto un aumento della contaminazione da metalli pesanti negli ecosistemi marini costieri (Shanmugam et al. 2007; Batvari et al. 2008; Seshan et al. 2012) da cui ne deriva un grande impatto ambientale a causa della loro tossicità, persistenza e assenza di degradabilità (Chapman et al. 1998; Klavins et al. 2000; Tam e Wong 2000; Todd et al. 2010). A risentirne è la salute non solo degli organismi marini, ma anche dell'uomo (Zaki et al. 2016), portando a un crescente interesse sociale e scientifico sulla contaminazione da metalli pesanti (Cooper et al., 2009; Akcali e Kucuksezgin, 2011; Tosti e Gallo, 2012; Garcia-Navarro et al., 2017).

Piombo (Pb), cadmio (Cd), e rame (Cu) sono i tre piu importanti metalli pesanti inquinanti e sono considerati come prioritari per l'Agenzia per la Protezione dell'ambiente degli Stati Uniti d'America (United States Environmental Protection Agency, EPA) e l'Agenzia per le sostanze tossiche e registro delle malattie (ATSDR) (US EPA, 2014; ATSDR 2014).

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nell'ambiente attraverso varie fonti antropiche come ad esempio i sottoprodotti della raffinazione dello zinco, la combustione del carbone, la produzione di ferro e acciaio, fertilizzanti, pesticidi (Pickering e Gast, 1972; Hutton, 1983), o batterie e plastiche (Waalkes e Misra, 1996). L'impatto di questo elemento dipende dalle varie forme chimiche in cui si presenta, le quali mostrano differenti livelli di tossicità e bioconcentrazione.

Il cadmio è uno dei metalli pesanti piu tossici ed è noto accumularsi nelle catene alimentari marine (Romeo et al., 1995; Devi et al., 1996). Diverse possono essere le conseguenze dell’azione del metallo a livello cellulare: alterazioni di alcune attività del calcio e del suo trasporto transmembrana, il blocco della fosforilazione ossidativa dei mitocondri e le variazioni della funzionalità di vari metalloenzimi (Sporn et al., 1969; Webb, 1979; Goering et al., 1995). In quest'ultimo caso è in grado di sostituirsi ai metalli essenziali nei siti attivi, provocandone una conseguente alterazione della struttura e funzionalità. E stato, infatti, dimostrato che la sostituzione dello zinco da parte del cadmio comporti un aggravamento degli effetti tossici (Vallee e Ulmer, 1972; Vallee e Glades, 1984). Il cadmio puo sostituirsi al calcio nel legame alla calmodulina e, essendo quest’ultima una proteina responsabile nella regolazione di numerosi processi calcio-dipendenti, cio si traduce in un’azione calcio-agonista da parte del metallo, con conseguente attivazione o inibizione, in funzione della sua concentrazione, degli enzimi calmodulino-sensibili (Donnelly, 1978; Forsen et al., 1979; Andersson et al., 1982; Cox e Harrison, 1983; Habermann et al., 1983; Chao et al, 1984; Cheung, 1984; Akerman et al., 1985; Mills e Johnson, 1985; Richardt et al., 1985).

Il cadmio puo provocare danni anche direttamente sul DNA mediante l'induzione di rotture dei singoli filamenti (Hassoun e Stohs, 1996), o indirettamente attraverso la produzione di radicali liberi (Zhong et al., 1990), l'inattivazione di numerosi enzimi di riparazione del DNA (Hartwig, 1998; Pruski 2002), piu precisamente il sistema Nucleotide Excision Repair (NER), che è implicato nella riparazione di voluminosi addotti al DNA (Vincent-Hubert et al., 2011). Questi effetti combinati con altri, come l'attivazione di proto-oncogeni, l'interferenza del Cd con la segnalazione cellulare o la soppressione della risposta apoptotica, spiegano senza dubbio le proprietà cancerogene ampiamente riconosciute di questo metallo pesante (Beyersmann e Hechtenberg, 1997; Shimada et al., 1998); è, infatti, classificato dalla IARC come cancerogeno per l'uomo (gruppo 1) (IARC, 2012).

La distribuzione oceanica del cadmio segue da vicino quella dei principali nutrienti algali come il fosfato. Le ragioni di questa distribuzione non sono pero chiare, perche in generale si ritiene che il cadmio non abbia una funzione biologica, anche se puo essere utilizzato dalle piante come nutriente

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minore. Data la sua correlazione con i fosfati, il suo accumulo nei fossili degli invertebrati marini viene utilizzato come misura delle concentrazioni di nutrienti presenti in passato nel mare (Lane e Morel, 2000).

Mentre sono noti possibili meccanismi di azione nei mammiferi, il meccanismo della sua genotossicità non è ancora stato studiato in tutte le specie marine (Pruski e Dixon, 2002). Nell’uomo, l’esposizione al Cd2+ comporta l’insorgenza di condizioni patologiche nel fegato, uno degli organi di tossicità primaria (Friedman e Gesek, 1994), testicoli (Shen e Sangiah, 1995), cervello e sistema nervoso (Provias et al., 1994), reni (Novelli et al., 1999), milza e midollo osseo (Yamano et al., 1998).

2.4. Test di genotossicita

Come abbiamo già visto, l’esposizione a inquinanti puo provocare una cascata di eventi in grado di compromettere l’integrità del DNA e risultare in vari tipi di danno. Per questo motivo, riveste particolare importanza l’identificazione e la quantificazione di questi eventi, dall’esposizione alla fissazione del danno genetico, che possono essere utilizzati come biomarker in organismi esposti ad ambienti contaminati; in particolare risulta particolarmente raccomandabile l’utilizzo contemporaneo di piu tipi di test che evidenzino sia danni reversibili che irreversibili.

2.4.1. Valutazione del danno al DNA, Comet assay

Rotture del DNA, sia a livello di singolo che di doppio filamento, possono essere il prodotto di fattori fisici che agiscono in maniera diretta (ad esempio i raggi X), o di agenti chimici che agiscono sia direttamente con il DNA (senza la necessità di attivazione metabolica), come alcuni agenti alchilanti, sia indirettamente (attraverso attivazione metabolica), come nel caso degli idrocarburi policiclici aromatici. La determinazione quantitativa della presenza di rotture della doppia elica di DNA (strand breaks, SB), viene frequentemente utilizzata per valutare l’effetto genotossico di contaminanti ambientali. La produzione di SB è, infatti, ben correlata con le proprietà mutagene e/o cancerogene di contaminanti ambientali anche molto diversi tra loro (Mitchelmore e Chipman, 1998). Inoltre, è importante ricordare che gli SB possono essere prodotti anche attraverso meccanismi non direttamente correlati alla genotossicità di un agente chimico. Esempi in condizioni naturali sono l’incremento nei livelli dei reagenti endogeni come i ROS (Specie Reattive dell'Ossigeno) o l’ossido di azoto (Menghini, 1988; Epe, 1995), o l’attivazione di enzimi come le topoisomerasi (enzimi appartenenti alla classe delle isomerasi che sono in grado di aumentare o diminuire il grado di avvolgimento della superelica, ed hanno un ruolo fondamentale nella

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replicazione del DNA) e le endonucleasi (enzimi coinvolti nei processi di riparazione del DNA) (McConkey et al., 1988). La valutazione della quantità di SB è, quindi, un mezzo per valutare l’effetto genotossico di una ampia gamma di composti, ognuno in grado di modificare il DNA in maniera diversa.

Nel 1984 è stata descritta una procedura per l'indagine su singole cellule delle rotture del doppio filamento di DNA, tramite elettroforesi in condizioni neutre (Ostling e Johanson, 1984). Il grado di frammentazione del DNA veniva valutato tramite la misura della migrazione dei frammenti di DNA dal nucleo verso l'anodo. Le immagini cosi ottenute venivano chiamate “comete” per il loro aspetto. Le condizioni neutre di elettroforesi permettevano, pero, di individuare solo le rotture a livello del doppio filamento; per ovviare a cio, Singh e collaboratori (Singh et al., 1988) hanno introdotto in questa stessa tecnica le condizioni alcaline, cosi da enfatizzare, oltre alle rotture nel doppio filamento, anche la quantità di rotture del singolo filamento (single strand break, SSB), poiche vengono rotti i legami a idrogeno tra le basi azotate, e siti labili agli alcali. Questa versione modificata da Singh è detta Single Cell Gel Electrophoresis (SCGE), elettroforesi su singola cellula (o Comet assay), ed è una delle metodiche capaci di rilevare cambiamenti di integrità del DNA, utile nella valutazione quantitativa degli SB anche nel monitoraggio ambientale. Confrontato con altri test di genotossicità, i suoi vantaggi comprendono l'elevata sensibilità nel rilevare anche bassi livelli di danno al DNA, la rapidità (sono necessari pochi giorni per completare il test) e l'economicità. Inoltre, puo potenzialmente essere applicato su ogni tipo cellulare (a prescindere dal ritmo replicativo e dal cariotipo) e la sua esecuzione richiede un numero contenuto di cellule (da poche centinaia a poche migliaia), sufficienti pero a fornire una solida analisi statistica (McKelvey-Martin et al., 1993; Fairbairn et al., 1995; Tice et al., 2000). Le cellule incluse in gel di agarosio vengono trattate con una soluzione di lisi, contenente detergenti e un'alta concentrazione di sali, al fine di rompere le membrane cellulari e nucleari e consentire al DNA di migrare durante la corsa elettroforetica. Il successivo trattamento in alcali determina la denaturazione della molecola di DNA e l’espressione dei siti labili. Nel caso in cui siano presenti rotture su un filamento del DNA, in seguito alla denaturazione, i frammenti sono in grado di migrare durante l’elettroforesi verso l’anodo, essendo dotati di carica negativa per la presenza dei gruppi fosfato. Le cellule che hanno accumulato un danno appaiono come comete, con una coda costituita dai frammenti di DNA e anse (loops) che fuoriescono dal “nucleoide”, mentre le cellule non danneggiate presentano un nucleo compatto e rotondeggiante (Fig. 1). La colorazione con un fluorocromo (ad esempio, il bromuro di etidio o arancio di acridina; Rydberg e Johanson, 1978) consente l’osservazione delle cellule con un microscopio a fluorescenza. Lo sviluppo di software per l’analisi delle immagini ha, inoltre,

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permesso di sostituire l'analisi manuale e, quindi, velocizzare la quantificazione di alcuni parametri della cometa, come la percentuale di DNA migrato dal nucleo verso l’anodo (proporzionale al danno genetico), la lunghezza della coda, il tail moment (prodotto tra l’intensità di fluorescenza nella coda e la lunghezza della coda), etc.

Figura 1: Comet assay, immagini di comete: nucleo con DNA non danneggiato (I); nuclei con DNA frammentato

che è migrato verso l’anodo (II, III).

2.4.2. Presenza di cellule apoptotiche, Diffusion assay

L’apoptosi, o morte cellulare programmata, è un processo ordinato e geneticamente regolato, che richiede consumo di energia (ATP) ed è indispensabile per il normale sviluppo embrionale ma anche nell'omeostasi dei tessuti adulti (Singh et al., 2000; Orrenius et al., 2003). Si tratta di un meccanismo descritto per la prima volta da Kerr e collaboratori nel 1972 che provoca la morte delle cellule, le quali vengono rimosse rapidamente dal tessuto dell’organismo senza attivare nessuna risposta infiammatoria (Kerr et al., 1972). Quest'ultima è una caratteristica fondamentale che distingue questo processo da un altro tipo di morte cellulare, la necrosi. L’apoptosi, infatti, a differenza della necrosi, non determina il rilascio del contenuto citosolico nei tessuti circostanti ed è un processo silente: è la cellula stessa che, trascrivendo geni specifici, sintetizzando nuovi enzimi e consumando energia, inizia e porta avanti il processo di morte.

L'apoptosi è caratterizzata da specifici cambiamenti morfologici e biochimici che possono essere ricondotti a due fasi. La prima comprende la formazione dei corpi apoptotici: si ha la frammentazione del DNA che diviene, cosi come il citoplasma, fortemente condensato;

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successivamente si ha la formazione di tipiche estroflessioni della membrana plasmatica (blebbing) che si staccano dalla cellula, dando origine a quelli che vengono definiti corpi apoptotici. La seconda fase consiste nella loro fagocitosi e degradazione ad opera di cellule limitrofe (Kerr et al., 1972; Orrenius et al., 2003).

Questo fenomeno si verifica in cellule altamente danneggiate da agenti tossici, ma funge anche da barriera contro la proliferazione di cellule tumorali (Singh et al., 2000). Il verificarsi di fenomeni di morte cellulare programmata, anche al di fuori di fasi dello sviluppo o dell’omeostasi tissutale, ha indotto ad attribuire un ruolo fondamentale non solo ad un "orologio" intracellulare, quanto piuttosto alla presenza o all’assenza di ben precisi stimoli fisici, chimici o di molecole segnale; queste molecole, di origine esogena o endogena, innescano percorsi biochimici diversi per giungere ad attivare la fase centrale di esecuzione del programma di morte. Questa fase, su cui sembrano convergere tutte le altre, è stereotipata ed irreversibile e porta ai cambiamenti morfologici e biochimici visti precedentemente.

Gli studi di Choucroun e collaboratori (2001) hanno portato alla conclusione che la fase iniziale del processo apoptotico (appena prima della rottura della membrana nucleare) possa dare comete con aspetto e parametri della coda simili a quelle di cellule con un moderato danno al DNA (Singh, 2000), in quanto portano alla formazione di DSB (Carson et al., 1986; Marks e Fox 1991). Tuttavia, in condizioni elettroforetiche standard comunemente utilizzate nella versione alcalina del Comet assay, i frammenti a basso peso molecolare prodotti dai processi apoptotici ad opera di endonucleasi si perdono nel gel durante la corsa, impedendo all’osservatore di valutare quest’ultimo aspetto di genotossicità (Choucroun et al., 2001). Pertanto, allo scopo di rilevare le cellule apoptotiche, è stato sviluppato un test di diffusione a basso peso molecolare nel gel di agarosio non sottoposto ad elettroforesi, il Diffusion Assay (Vasquez e Tice, 1997). In queste condizioni, infatti, si puo mettere in evidenza un'ampia diffusione del DNA a basso peso molecolare a seguito della digestione enzimatica associata al programma di morte cellulare che ha prodotto rotture a doppio filamento (double strand breaks, DBS) (Tice et al., 2000; Singh et al., 2000).

Diffusion e Comet Assay coincidono nelle fasi sperimentali iniziali a partire dagli stessi preparati, ma nel primo i vetrini vengono tolti dalla soluzione di lisi dopo un'ora esatta dalla loro immersione, lavati con un tampone neutro, immersi in etanolo, colorati con bromuro di etidio ed osservati al microscopio a fluorescenza. Le cellule apoptotiche vengono distinte in base al caratteristico pattern di diffusione dei frammenti del DNA nel gel (Fig. 2).

Il Diffusion assay è applicabile ad ogni cellula eucariotica nucleata, sia per esperimenti in vivo che in coltura ed è un metodo quantitativo che mette in evidenza la frammentazione del DNA nucleare a

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livello di ogni singola cellula ed individua le cellule apoptotiche sulla base della frammentazione del DNA nucleare tipica di tale processo. Per tale ragione risulta utile affiancare al Comet assay indagini in grado di quantificare il contributo dell’apoptosi al dato osservato dalla lettura delle comete, in modo da ottenere una migliore comprensione delle risposte cellulari alla contaminazione chimica (Frenzilli et al., 2004).

Figura 2: Diffusion assay: pattern di diffusione del DNA, cellula non danneggiata (classe 1) (A); cellule con vari

gradi di danno al DNA ma non apoptotiche (classe 2,3 e 4) (B, C e D) e cellula apoptotica (classe 5) (E).

2.4.3. Cytokinesis-block micronucleus assay (Cytome assay)

Il test Cytome permette di valutare il danno cromosomico spontaneo o indotto in termini di frequenza di micronuclei e di altre anomalie nucleari. Questo metodo si basa sull'osservazione che durante la divisione mitotica, in particolare nell'anafase, mentre i cromosomi integri migrano verso i poli del fuso, i frammenti cromosomici o interi cromosomi rimangono indietro e non vengono inclusi nel nucleo delle cellule figlie; durante la telofase si ricostituisce l'involucro nucleare anche

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attorno a quei frammenti e cromosomi che non sono migrati, trasformandosi in uno o piu nuclei secondari che sono, di norma, molto piu piccoli del nucleo principale e sono, quindi, chiamati micronuclei (MN) (Schmid, 1975). Questi ultimi si replicheranno unitamente ai nuclei principali durante le successive divisioni cellulari. Per questo motivo si considera un danno genetico permanente.

La comparsa di micronuclei, contenenti cromosomi interi, è dovuta principalmente ad alterazioni nelle proteine del cinetocore, ad anomalie dell’apparato mitotico (Fenech, 1993), oppure ad alterazioni della fisiologia cellulare (Albertini et al., 2000). I frammenti acentrici, invece, possono essere dovuti a rotture, indotte da mutageni esogeni ed endogeni, delle due eliche del DNA, che non sono state riparate (Fenech, 1993), oppure alla replicazione di DNA danneggiato.

Un aumento della frequenza di cellule contenenti micronuclei puo essere utilizzato come biomarker di genotossicità prodotto da agenti clastogeni (che danneggiano direttamente il DNA inducendo rotture cromosomiche) o da agenti aneuploidogeni (che, invece, alterano il numero cromosomico, per esempio andando a danneggiare le fibre del fuso e, quindi, non agiscono direttamente sul DNA). Il test utilizza cellule in interfase che sono facilmente analizzabili in elevato numero e in tempi relativamente brevi, permettendo cosi un rapido screening di un'ampia popolazione cellulare. Sviluppato originariamente in linee cellulari di mammifero, è oggi ampiamente applicato nei pesci e altri organismi acquatici, tra cui i ricci di mare, muscoli, ostriche, granchi e molti altri. In particolare, nei bivalvi esposti sia in condizioni di campo che di laboratorio, le cellule dell'emolinfa (gli emociti) e le cellule branchiali sono i bersagli piu frequentemente considerati per la determinazione dei MN (Bolognesi e Hayashi, 2011). Le cellule branchiali mostrano, infatti, una maggior sensibilità nella risposta agli agenti genotossici rispetto agli emociti. Vari studi (Mersch et al., 1996; Bolognesi et al., 1999), confrontando l'induzione di MN nelle cellule branchiali e negli emociti, riferiscono che le prime tendono ad avere piu alti sia i livelli basali che le frequenze di MN indotte (Bolognesi e Fenech, 2012).

I micronuclei (Fig. 3a) sono morfologicamente identici ma piu piccoli rispetto al nucleo principale, possedendo le seguenti caratteristiche: il diametro varia tra 1/3 e 1/16 rispetto al nucleo principale; forma rotonda o ovale; non sono rifrangenti (questo permette di contraddistinguerli da artefatti); non sono collegati al nucleo principale: il confine tra i due nuclei deve essere ben distinguibile, senza sovrapposizioni; infine, possono avere la stessa intensità di colorazione del nucleo principale o una colorazione piu intensa (Fenech et al., 2003).

Il Cytome assay permette di valutare, oltre alla presenza di micronuclei, altre anomalie nucleari; tra queste troviamo il bleb (Fig. 3b), una piccola sporgenza dal nucleo senza un evidente restringimento

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tra i due materiali nucleari (Fenech, 2007); i bud (Fig. 3c), ovvero delle vescichette simili morfologicamente ai micronuclei, ma connesse al nucleo principale mediante un sottile filamento nucleoplasmatico (Caruso et al., 2008). I ponti nucleoplasmatici (Fig. 3d) si manifestano talvolta in cellule binucleate in seguito all'esposizione a clastogeni e si pensa che derivino da cromosomi riarrangiati con piu di un centromero, ad esempio cromosomi dicentrici. In questo caso è presente un legame nucleoplasmatico tra i due nuclei; la larghezza di un ponte puo variare considerevolmente, ma di solito non è superiore a un quarto del diametro dei nuclei; la colorazione deve essere la stessa dei nuclei principali. E possibile osservare anche una cellula binucleata (con all'interno due nuclei) (Fig. 3e) quando alla divisione cellulare non è seguita la citodieresi. La cellula binucleata puo o meno contenere uno o piu micronuclei (Fenech et al., 2003).

I nuclei possono, inoltre, assumere un aspetto lobato ed irregolare nei lobed (Fig. 3f) o un aspetto incavato nei notched (Fig. 3g). Nei ring (Fig. 3h) le cellule hanno il nucleo dall’aspetto ad anello, cioè con una grossa zona circolare al centro del nucleo priva di cromatina. Alcuni autori includono in questo test anche la presenza di cellule apoptotiche e necrotiche, osservabili nel preparato citogenetico.

Figura 3: Cytome assay in cellule branchiali: vari tipi cellulari osservati al microscopio ottico a seguito della

colorazione con Giemsa. (a) cellula con micronucleo; (b) cellula con bleb; (c) cellula con bud; (d) ponte nucleoplasmatico; (e) cellula binucleata; (f) cellula lobata; (g) notched; (h) cellula con ring.

a b c d

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3. SCOPO

Obiettivo del presente studio è quello di valutare la capacità delle nanoparticelle di carbon black di contrastare gli effetti genotossici dei contaminanti ambientali. Il potenziale utilizzo di queste nanoparticelle nella bonifica ambientale (nanoremediation) è stato valutato in vitro in una specie modello come Mytilus galloprovincialis, classico bioindicatore della qualità dell'ambiente marino le cui caratteristiche istologiche, biochimiche e fisiologiche sono sufficientemente conosciute. In particolare, in questo studio è stata valutata la capacità delle nanoparticelle di carbon black di andare a contrastare l'effetto genotossico di un noto contaminante acquatico, il cadmio.

La procedura sperimentale ha previsto una prima fase atta ad individuare le concentrazioni piu adeguate delle sostanze oggetto dello studio, il carbon black e il cadmio; successivamente sono stati condotti esperimenti di co-esposizione sulla base delle concentrazioni scelte nella prima fase sperimentale.

Il danno genetico è stato valutato su biopsie branchiali mediante le tecniche del Comet, Diffusion e Cytome assay. Il Comet assay è una metodica capace di rilevare cambiamenti nell'integrità del DNA; nella versione alcalina, permette l'individuazione di rotture a livello del singolo filamento (SSB), del doppio filamento (DSB) e siti labili agli alcali. Il Diffusion assay rileva, invece, la presenza di cellule apoptotiche. Infine il Cytome assay consente di valutare la presenza di micronuclei e altre anomalie nucleari. Il Trypan Blue exclusion test ha permesso di valutare la vitalità cellulare, in quanto il colorante risulta in grado di attraversare la membrana cellulare solo nelle cellule morte, che sono di colore blu.

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4. MATERIALI E METODI 4.1. Procedura sperimentale

I trattamenti in vitro sono stati effettuati su tre animali della specie Mytilus galloprovincialis per ogni esperimento. Da ciascuno di essi sono state ottenute un numero di biopsie branchiali di 1 cm2 circa tale da consentire l'esposizione di un singolo animale a tutti i gruppi di trattamento. Gli esperimenti sono stati condotti in triplicato.

Durante la dissezione branchiale, le biopsie sono state poste in piastre petri p24, ponendo ciascuna biopsia branchiale in un pozzetto indipendente. Inizialmente in ciascun pozzetto sono stati aggiunti 500 µl di una soluzione salina di Hank’s Balanced Salt Solution (HBSS) al 20‰ al fine di preservare il tessuto per il successivo trattamento. Una volta ottenuti tutti i tessuti branchiali necessari, è stato tolto l'HBSS e si è proceduto con l'esposizione alle sostanze, sempre all'interno delle piastre petri.

La procedura sperimentale ha previsto una prima fase atta ad individuare le concentrazioni piu adeguate delle sostanze oggetto dello studio. In dettaglio, sono state utilizzate cinque dosi crescenti di carbon black (CB) e, separatamente, quattro di cloruro di cadmio.

Successivamente sono stati condotti esperimenti di co-esposizione delle due sostanze, in base alle concentrazioni prescelte nella prima fase sperimentale.

Al termine del tempo di trattamento i campioni sono stati usati per i seguenti test: Trypan blue, Comet assay, Diffusion assay e Cytome assay.

Carbon black

La polvere di CB è stata pesata e sciolta in una soluzione salina di HBSS al 20‰, al fine di ottenere una soluzione con concentrazione 150 μg/ml, dalla quale sono state poi ricavate le diluizioni successive scelte sulla base di studi presenti in letteratura (Baulig et al., 2003). Prima dell’esposizione le soluzioni di CB sono state sonicate per 5’ a 35 kHz mediante un sonicatore “Bath type” (transoning 460 ELMA). La sonicazione è stata effettuata per ridurre l'agglomerazione delle particelle ed ha il vantaggio di non aggiungere sostanze chimiche o ulteriori solventi; inoltre, è stata utilizzata acqua deionizzata, evitando cosi il rischio di generare specie reattive all'ossigeno indotte dalla sonicazione (Crane et al., 2008).

Le dosi di carbon black scelte sono state: 5 µg/ml, 10 µg/ml, 50 µg/ml, 100 µg/ml, 150 µg/ml. Dei frammenti branchiali, uno è stato usato per il controllo in HBSS 20‰ per due ore e un altro per il controllo positivo (H2O2 100 mM per 10 minuti); i restanti frammenti branchiali sono stati sottoposti alle diverse dosi di carbon black (5 µg/ml, 10 µg/ml, 50 µg/ml, 100 µg/ml, 150 µg/ml)

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