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Le complicanze dell’angioplastica coronarica

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Academic year: 2021

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Alla mia famiglia

Carla, Giovanni Maria, Anna Maria,

papà Donato

e alla memoria di mia Madre Anna Maria

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INDICE 1. Riassunto 4 2. Introduzione 5 3. Le complicanze 7 3.1 classificazione 7 3.2 complicanze infettive 7 - infezione di stent 7

- infezione del sito di accesso 8

3.3 complicanze da mezzo di contrasto 9

- l’ipersensibilità 9

- danno renale 11

3.4 complicanze del sito di accesso 13

3.5 complicanze coronariche 15

- dissezioni coronariche 15

- dissezioni da catetere guida 16

- perforazioni coronariche 16

3.6 complicanze a lungo termine 19

- restenosi 19

- trombosi di stent 21

4. Conclusioni 24

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1.RIASSUNTO

L'angioplastica coronarica rappresenta una delle metodiche interventistiche più diffuse nel contesto della cardiologia moderna. Nei sistemi sanitari dei paesi maggiormente sviluppati l'angioplastica coronarica primaria, ad esempio, è la terapia di prima scelta per il trattamento dell'infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST. Con l'avanzamento tecnologico della metodica, sviluppatasi a partire dagli anni settanta del XX secolo, l'efficacia procedurale è migliorata fino a raggiungere percentuali superiori al 90% con una parallela diminuzione delle complicanze. Tuttavia il progressivo incremento dell'età media dei pazienti sottoposti ad angioplastica e della loro fragilità ha comportato un aumento nella complessità anatomica delle lesioni coronariche da trattare. Questa complessità unita alla molteplicità degli approcci interventistici oggi utilizzabili porta con se una probabilità pur bassa ma non nulla di complicanze procedurali, la cui pronta risoluzione da parte dell'operatore diviene pregiudiziale non solo per la riuscita della rivascolarizzazione coronarica percutanea in se ma anche per la vita stessa del paziente. Da queste considerazioni si sviluppa il presente lavoro di revisione che punta a riassumere epidemiologia, tipologia e strategie di risoluzione delle principali complicanze possibili durante un trattamento di angioplastica coronarica.

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2.INTRODUZIONE

La cura delle malattie nel corso della storia si è parallelamente sviluppata su di un piano medico e su di un piano chirurgico. Certamente alcune patologie non possono essere trattate se non con un approccio chirurgico ma ogni intervento rappresenta una procedura invasiva, non solo potenzialmente gravata da complicanze in tutte le sue fasi ma anche in grado, nonostante il successo procedurale, di causare una riduzione dell’integrità fisica dell’individuo, che vi viene sottoposto.

La medicina moderna ha così via via sperimentato, grazie anche a un costante e dedicato sviluppo tecnologico oggi divenuto bioingegneria, delle procedure intermedie dette interventistiche, che dapprima con un valore quasi esclusivamente diagnostico si sono spesso poi trasformate in procedure terapeutiche, ottenendo così il risultato di ridurre progressivamente l’invasività delle terapie a parità di risultato di cura se non con risultati superiori.

Nel solco di questa storia, sommariamente tracciata e valevole per molte discipline mediche, si possono collocare, a buon diritto, anche la diagnosi e il trattamento della malattia coronarica. Se nel 1929 Werner Forssman per primo dimostrò la possibilità della cateterizzazione cardiaca ad esempio, la tecnica venne considerata impraticabile dal mondo accademico fino a quando André Cournand e Dickinson Richards nel 1940 la ripresero migliorandola e praticando così il primo cateterismo cardiaco nell’uomo negli Stati Uniti d’America. 1-2

La codificazione del cateterismo cardiaco meritò a Cournand, Richard e Forssmann il premio Nobel per la Medicina nell’anno 1956.

Un ulteriore passo in avanti fu fatto nel 1962 quando Sones e Shirey introdussero l'iniezione di mezzo di contrasto nell’albero coronarico per visualizzare il lume dei vasi e diagnosticarne così l’eventuale malattia aterosclerotica. 3

Giunti finalmente alla possibilità di una diagnosi anatomica del sintomo angina pectoris e di alcune delle alterazioni elettrocardiografiche già descritte, negli anno ’60 del XX secolo, grazie anche al parallelo perfezionamento della circolazione extracorporea usata per la prima volta nel 1953, diversi cardiochirurghi in diverse località del mondo cominciarono a trattare la malattia aterosclerotica coronarica con il confezionamento dei primi bypass aorto-coronarici. 4

Questi interventi oggi divenuti routine comportavano e comportano varie tipologie di toracotomia, che indubbiamente, anche nel sentimento comune, costituiscono una delle procedure più altamente invasive.

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Quasi un ventennio più tardi si affacciò alla storia una metodica che prometteva di essere assai meno invasiva ovvero l’angioplastica coronarica per via percutanea, che fu effettuata per la prima volta a Zurigo il 16 settembre 1977 dal radiologo interventista Andreas Gruentzig, che aveva ideato, insieme ad un collega ingegnere, un catetere a palloncino prima utilizzato per la dilatazione delle arterie periferiche. 5

Egli aveva ipotizzato che questa tecnica avrebbe contribuito a ridurre la mortalità dei pazienti, riducendo nel contempo il numero di quelli da avviare all’intervento cardiochirurgico di bypass aortocoronarico.

Purtroppo, anche in questa fase un po’ come accadde in precedenza per Forssmann, la sua metodica non ebbe subito il supporto dei cardiologi e dei cardiochirurghi e si diffuse così qualche anno più tardi e solo dopo la sua morte, avvenuta tragicamente il 25 ottobre 1985 in seguito a un incidente aereo.

La riduzione dell’invasività e la sicurezza procedurale non necessariamente sono contestuali tanto che ancora oggi, ad esempio, nella rivascolarizzazione del tronco comune della coronaria sinistra si discute sulla maggiore o minore sicurezza della cardiochirurgia tradizionale rispetto allo stenting percutaneo. 6

L’angioplastica coronarica è oggi una delle procedure interventistiche più diffuse tanto che nel 2011 negli USA ha rappresentato il 3,6 % di tutte le procedure eseguite in sala operatoria. 5

Il tasso europeo di angioplastiche coronariche per milione di abitante si attesta a 3000 casi, valore che scende a 2576 in Italia come documentato dalla raccolta dati di attività annuale della Società italiana di Cardiologia interventistica - GISE. 7

L’aspettativa comune è dunque che l’angioplastica coronarica sia una procedura non chirurgica ma interventistica a basso impatto invasivo e con una probabilità di complicanze, soprattutto irrisolvibili, estremamente bassa.

Ovviamente, come ogni attività medica, anche l’angioplastica coronarica non può avere un tasso di complicanze pari a zero e nemmeno può essere esclusa la morte del paziente quale estrema conseguenza di una complicanza. Il tasso di mortalità durante l'angioplastica è oggi attestato all'1,2%. 8

L’incidenza delle complicanze non correla solamente con i diversi tipi e le differenti fasi procedurali ma anche con le caratteristiche cliniche del paziente per cui soggetti di età superiore ai 65 anni, la cui percentuale continua a crescere all’aumentare della spettanza di vita (al I gennaio 2018 gli over 65 anni in Italia erano pari a 13.644.363) 9, con insufficienza renale o diabete mellito, le donne e i soggetti con gravi patologie cardiache

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3.LE COMPLICANZE 3.1 classificazione 10

In questo capitolo ci si soffermerà sulla descrizione solo delle complicanze ritenute più frequenti e per le quali possano essere proposte delle modalità comuni di trattamento. Si è preferito invece non soffermarsi ulteriormente su quelle complicanze che possono essere definite aneddotiche e la cui risoluzione può soltanto essere demandata all’esperienza dell’operatore in campo con le risorse a sua disposizione in quel momento.

In questa sede ho ritenuto di proporre una classificazione personale delle possibili complicanze, ispirata alla pratica clinica di laboratorio e come tale forse non completamente esaustiva.

Tale traccia servirà per sistematizzare la successiva trattazione.

1. complicanze infettive

2. complicanze da mezzo di contrasto

- l’ipersensibilità - danno renale

3. complicanze del sito di accesso 4. complicanze coronariche

- dissezioni iatrogene - perforazioni coronariche

5. complicanze a lungo termine

- restenosi - trombosi di stent 6. miscellanea - noreflow - perdita di materiali - danni da radiazioni 3.2 complicanze infettive 11-13 Infezione di stent

Le complicanze infettive delle procedure di rivascolarizzazione coronarica percutanea sembrano essere abbastanza rare anche solo analizzando il numero limitato (meno di trenta) di casi di infezione di stent segnalati in letteratura dall'introduzione della procedura a metà degli anni ‘80.

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Pur parlando di una casistica molto limitata gli stent medicati rispetto agli stent nudi possono presentare, in linea teorica, un aumento del rischio di infezione a causa del locale effetto immunosoppressore e la compromissione dei meccanismi locali di difesa dell'ospite insieme a una ritardata riendotelizzazione dello stent.

Anche se aneddotici i casi di infezione dello stent, dovuti a batteri delle specie Staphylococcus aureus (80 %) e Pseudomonas aeruginosa (20 %), presentano una mortalità elevata intorno al 50 %.

Il processo infettivo che si manifesta clinicamente con febbre, brividi e dolore toracico, quest’ultimo anche come espressione di trombosi ricorrente di uno stent infetto, può essere determinato da una batteriemia peri-procedurale o dall’impianto di una protesi infetta.

I fattori di rischio procedurale includono dunque: - una sterilità inadeguata del campo e degli strumenti,

- l’uso ripetuto della medesima zona inguinale per l’accesso arterioso oggi superato dal prevalente accesso radiale,

- molteplici manipolazioni dei fili guida e degli altri materiali - la durata complessiva della procedura di cateterizzazione.

Il fenomeno infettivo è indubbiamente marginale ma va considerato e non ritenuto impossibile in pazienti che presentino un accesso febbrile post-procedurale generalmente tra i 2 giorni e le 4 settimane successive. Una certa batteriemia post angioplastica coronarica, che non necessariamente esita in un’infezione di stent, è stata riscontrata in uno 0,64 % dei pazienti.

I possibili trattamenti posso essere anche particolarmente invasivi e gravati a loro volta da complicanze se si considera l’alta probabilità di formazione di pseudo-aneurismi infetti per cui si rende necessario un approccio cardiochirurgico per effettuare l’aterectomia del vaso coronarico e la rimozione della protesi infetta.

Infezione del sito di accesso

Altra possibile sede di infezione è quella del sito di accesso arterioso.

Il tasso di incidenza è di circa il 2,5 % per gli accessi femorali in casistiche di impianto di valvola aortiche per via percutanea (TAVI), dove i diametri dei cateteri utilizzati sono maggiori e spesso la cute e i tessuti sottocutanei vengono incisi e dilatati per consentire un accesso adeguato e un uso dei sistemi di emostasi.

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3.3 complicanze da mezzo di contrasto L’ipersensibilità 14-16

All’inizio di questo paragrafo ritengo utile richiamare una sintesi dei Criteri Clinici per la Diagnosi di Anafilassi:

1. Esordio acuto di una malattia (da minuti a diverse ore) con coinvolgimento della cute, del tessuto mucoso o di entrambi (per es., orticaria generalizzata, prurito o rossore [eritema], edema labbra, lingua-uvula) e contemporaneamente almeno uno dei seguenti segni:

A compromissione respiratoria (per es., dispnea, broncospasmo, stridore, riduzione del picco di flusso espiratorio, ipossiemia);

B ipotensione arteriosa o sintomi associati alla disfunzione terminale d’organo (per es., ipotonia [collasso], sincope, incontinenza).

2. Due o più delle seguenti condizioni che si verifichino rapidamente (da minuti a diverse ore) e simultaneamente dopo l’esposizione a un allergene:

A coinvolgimento della cute-tessuto mucoso (per es., orticaria generalizzata, prurito o sensazione di calore, edema labbra, lingua-uvula);

B compromissione respiratoria (per es., dispnea, broncospasmo, stridore, riduzione del picco di flusso espiratorio, ipossiemia);

C ipotensione arteriosa o sintomi associati (per es., ipotonia [collasso], sincope, incontinenza);

D sintomi gastrointestinali persistenti (per es., dolori addominali crampiformi, vomito).

3. Ipotensione arteriosa dopo esposizione a un allergene con riduzione della pressione sistolica sotto i 90 mmHg oppure una sua diminuzione maggiore al 30% del valore basale.

L’ipersensibilità al mezzo di contrasto iodato può presentarsi dunque con uno spettro di manifestazioni cliniche che vanno da semplici e temporanee reazioni cutanee minori fin al ben più grave e potenzialmente fatale shock anafilattico. Questa evenienza appare tuttavia sovra-considerata più in ragione dei risvolti medico legali che in ragione delle evidenze scientifiche. Vari studi hanno infatti dimostrato che soggetti che abbiano sviluppato una modesta reazione a una prima esposizione al mezzo di contrasto difficilmente svilupperanno reazioni più gravi in caso di riesposizione.

La condizione è ben diversa invece per i soggetti che abbiano già manifestato una reazione moderata o intensa perché questi possono presentare reazioni avverse peggiori in caso di riesposizione anche a fronte di una premedicazione con cortisone.

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Si è cercato di ottenere una riduzione globale degli eventi di ipersensibilità al mezzo di contrasto:

- mediante l’adozione estensiva di protocolli di premedicazione nel setting di pazienti considerati a rischio,

- mediante l’uso di mezzo di contrasto a bassa osmolalità.

Nella definizione dei protocolli di premedicazione è opportuno richiamare il documento di consenso redatto congiuntamente dalla Società italiana di radiologia medica e interventistica e dalla Società italiana di allergologia, asma bronchiale ed immunologia clinica.

I comportamenti suggeriti per esami in elezione sono i seguenti:

a • nel caso di pazienti con anamnesi positiva per reazione avversa ad un mezzo di

contrasto noto è consigliato l’uso di una molecola differente seppur della medesima classe, tenendo pur sempre conto dei pattern di cross-reattività tra mezzi di contrasto;

b • per i pazienti con anamnesi positiva per reazione avversa grave la somministrazione

per via orale di prednisone 50 mg o metilprednisolone 32 mg 13, 7 e 1 ora prima dell’esame in associazione a un antistaminico (per es. cetirizina) 1 ora prima dell’esame, oppure per via intramuscolare o endovenosa di metilprednisolone 40 mg 13, 7 e 1 ora prima dell’esame in associazione a clorfenamina 10 mg 1 ora prima dell’esame;

c • per i pazienti con orticaria in atto o asma bronchiale sintomatico, se possibile, si

consiglia il rinvio dell’esame fino alla stabilizzazione del quadro clinico; in alternativa, si può prendere in considerazione lo schema di premedicazione consigliato per gli esami in urgenza (vedi sotto);

d • per i pazienti con angioedema ricorrente, mastocitosi o anafilassi idiopatica, si consiglia

l’effettuazione di una premedicazione per via orale con prednisone 50 mg (o metilprednisolone 32 mg) 12 e 2 ore prima dell’esame in associazione a un antistaminico (per es cetirizina) 1 ora prima dell’esame, oppure per via intramuscolare o endovenosa con metilprednisolone 40 mg 12 e 2 ore prima dell’esame in associazione a clorfenamina 10 mg 1 ora prima dell’esame, cui aggiungere montelukast 10 mg.

Ove tuttavia fosse necessario procedere a un esame in urgenza le medesime società suggeriscono il seguente approccio:

a’ • si ribadisce quanto indicato più sopra al punto a;

b’ • nel caso di pazienti con anamnesi positiva per reazione avversa grave a mezzo di

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con bolo di idrocortisone 200 mg in associazione a clorfenamina 10 mg subito prima dell’esame;

c’ • nel caso di pazienti a rischio (per esempio con orticaria-angioedema in atto, asma

bronchiale sintomatica, angioedema ricorrente, mastocitosi o anafilassi idiopatica) si può prendere in considerazione lo schema di premedicazione rapida per via endovenosa con bolo di idrocortisone 200 mg in associazione a clorfenamina 10 mg subito prima dell’esame.

La premedicazione con l’associazione di un glucocorticoide con un antistaminico resta tuttavia controversa e le indicazioni fornite con gli schemi di premedicazione devono considerarsi empiriche non essendo sostenute da una solida evidenza scientifica. Per questo motivo, i medici impegnati in procedure diagnostiche che prevedono l’utilizzo di mezzi di contrasto non devono fare affidamento sull’efficacia assoluta della premedicazione e devono possedere competenze specifiche nella diagnosi e nel trattamento delle reazioni anafilattiche.

Danno renale 17-19

La nefropatia indotta dal mezzo di contrasto più comunemente nota come CIN è definita come una compromissione della funzionalità renale, misurata come aumento del 25 % del valore della creatinina sierica rispetto a quello basale o come un aumento assoluto di 0,5 mg/dl (ovvero 44 μmol/l) sempre del valore di creatinina sierica che intercorre 48-72 ore dopo la somministrazione di mezzo di contrasto per via endovenosa. Più recentemente le

Kidney disease improving global outcomes guidelines (KDIGO) hanno proposto una definizione leggermente diversa ovvero un aumento maggiore uguale al 50 % del valore basale della creatinina sierica o un aumento del suo valore maggiore uguale a 0,3 mg/dl generalmente entro le 48 ore dalla somministrazione del mezzo di contrasto.

Non scenderemo qui ad esaminare i meccanismi fisiopatologici che sono alla base di questa complicanza, che presenta un’incidenza dal 7 all’11 % rappresentando la terza causa di insufficienza renale acuta nei pazienti ospedalizzati.

Nella grande maggioranza dei casi la CIN si risolve non portando alla dialisi e ciò si misura con il ritorno dei valori della creatinina a quelli basali in circa 10 - 20 giorni. Solo circa il 2% dei pazienti evolve verso un peggioramento permanente della funzionalità renale (ovvero oltre i 3 mesi dalla procedura), percentuale che sale fino a circa il 18 % in soggetti che già presentassero un’insufficienza renale. Si confrontino queste percentuali con il

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modestissimo 0,9 % di incidenza di riduzione permanente della funzionalità renale a tre mesi dalla procedura indice nei soggetti che non sviluppano la CIN.

In ogni caso la comparsa di CIN anche nel lungo periodo comporta un peggioramento della prognosi quoad vitam e pertanto deve essere evitata.

Allo stato attuale delle conoscenze non vi è poi una terapia specifica in grado trattare i meccanismi fisiopatologici che ne sono causa riducendone gli effetti clinici, per tale ragione, con l’aumentare degli esami diagnostici e terapeutici che usano mezzo di contrasto in tutte le discipline mediche, la ricerca soprattutto clinica si è concentrata sull’individuazione della profilassi più adeguata.

Vari studi hanno affrontato quindi diverse strategie profilattiche che prevedevano:

a) l’espansione del volume ematico con la somministrazione di soluzione fisiologica (ad esempio al dosaggio di 1 – 1,5 ml/kg/h 6 ore prima e 6 dopo la procedura) da sola o in associazione a soluzione di sodio-bicarbonato (ad esempio al dosaggio di 3 ml/kg/h un’ora prima della procedura e 6 ore dopo),

b) la somministrazione di N-acetil-cisteina, c) la somministrazione di statine,

d) l’effettuazione subito dopo la procedura interventistica di emofiltrazione o emodialisi.

Nessuno di questi approcci si è tuttavia dimostrato assolutamente efficace soprattutto se da solo; piuttosto l’uso combinato e ragionato di tutte queste strategie in pazienti ad alto rischio, quali i pazienti già affetti da insufficienza renale cronica, i pazienti diabetici, l’uso della contropulsazione aortica, i pazienti anziani, quelli con PCR elevata e quelli con depressione della funzione ventricolare sinistra, rappresenta oggi la modalità più efficace di profilassi in associazione alla riduzione del volume di mezzo di contrasto utilizzato iso-osmolare non ionico.

Come norma basilare dunque dalla letteratura si ricava che anche in situazioni d’urgenza la semplice idratazione secondo il peso e la funzione ventricolare del paziente rappresenta l’atto medico più semplice ma in fondo anche il più efficace da porre in essere nel momento in cui si decida di sottoporre un paziente a un esame con mezzo di contrasto. Questa semplice norma di profilassi non risulta essere tuttavia così standardizzata negli usi dei laboratori di emodinamica e di radiologia e merita pertanto un richiamo.

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3.4 complicanze del sito di accesso 21-25

Gli accessi arteriosi utili per l’effettuazione di un’angioplastica coronarica sono multipli, di fatto ogni arteria potrebbe essere utilizzata alla scopo con opportuni introduttori.

Tuttavia gli accessi utilizzati nella pratica laboratoristica attuale sono: a) quello radiale destro e sinistro,

b) quello femorale destro e sinistro, c) quello omerale,

d) quello ulnare.

Le complicanze che possono intercorrere per i diversi tipi di accesso sono in parte comuni e in parte proprie. Complicanze comuni possono essere la dissezione retrograda contro il flusso, che generalmente si riaccolla senza lasciare esiti clinicamente apprezzabili sia in acuto sia a distanza, la perforazione con sanguinamenti esterni, la formazione di pseudoaneurismi. Queste complicanze sebbene comuni nel meccanismo presentano conseguenze cliniche molto divere a seconda del punto di accesso, mentre un ematoma inguinale, infatti, può provocare sanguinamenti seri che possono risalire anche nel retroperitoneo a livello radiale o ulnare ogni sanguinamento è facilmente comprimibile senza il rischio dello sviluppo di ematomi pericolosi per la vita, salvo una colpevole mancanza di vigilanza dell’accesso nelle fasi di emostasi e nelle ore successive.

D’altro canto l’eversione arteriosa è maggiormente possibile a livello delle più piccole arterie radiale e ulnare ed è da considerarsi pressoché impossibile a livello femorale in ragione dei diametri dei cateteri usati per le procedure di interventistica coronarica difficilmente superiori agli 8 F.

I dati GISE 2017 sull’attività dei laboratori di emodinamica certificano che l’accesso radiale è utilizzato in circa l’84 % delle procedure di angioplastica coronarica relegando al restante 16 % tutti gli altri accessi sopra elencati, tra i quali quello femorale rappresenta la quota principale. I sanguinamenti a livello femorale possono essere estesi e necessitare anche di emotrasfusioni. L’emotrasfusione però, soprattutto nel contesto di una sindrome coronarica acuta, ha come conseguenza un peggioramento della prognosi quoad vitam a distanza. Per tali ragioni l’accesso femorale è da evitarsi ogni qualvolta sia possibile.

Se da un lato l’approccio radiale ha comportato una riduzione drastica delle tipiche complicanze degli accessi femorali dall’altro lato l’abbandono di quest’ultimo accesso ha comportato la riduzione dell’esperienza del singolo operatore (in particolare dei più giovani) su di un accesso utilizzato per molte altre procedure interventistiche:

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- coronariche quali angioplastiche complesse necessitanti di cateteri 8 F come le occlusioni croniche,

- non coronariche (si pensi all’interventistica strutturale),

- o in situazioni di emergenza dove si imponga il posizionamento di strumenti quali il contropulsatore aortico, l’IMPELLA o l’ECMO A-V.

Le complicanze locali dell’accesso femorale si attestano tra il 2,3 e il 2,8 % in studi recenti salendo anche al 10 % per casistiche più datate.

Le principali complicanze sono dunque: - ematomi (1-12 %),

- pseudoaneurismi (1-6 %), - fistole artero-venose (< 1%), - lacerazioni del vaso (< 1 %), - occlusione acuta del vaso (< 1%),

- emorragia retroperitoneale (0,2-0,9 %) rara ma gravata da alta morbilità.

I device di chiusura femorale si sono dimostrati superiori in alcuni centri nella prevenzione delle complicanze in sede di accesso post-procedura di angioplastica coronarica. Il loro uso necessita tuttavia di una curva di apprendimento.

Il tasso di complicanze vascolari in caso di accesso radiale si attesta invece intorno a percentuali molto modeste lo 0,3 e l’1 % offrendo questo accesso anche la possibilità di una mobilizzazione precoce del paziente e una significativa riduzione del disconfort provocatogli.

La principale complicanza dell’accesso radiale è l’occlusione completa dell’arteria con un’incidenza di circa l’8 % entro le prime 24 ore e di circa il 6 % ad un controllo a 5 giorni. Per ridurre tale rischio sono da raccomandare alcuni accorgimenti:

- l’uso estensivo dell’eparina,

- una compressione non prolungata, - un’emostasi non occlusiva.

L’uso dell’eparina ad alto dosaggio (ovvero 5.000 UI versus 2-3.000 UI) risulta protettivo se si considera che l’incidenza di occlusione dell’arteria radiale nei cateterismi solo diagnostici risulta di circa il 9 % contro circa il 5 % nelle procedure interventistiche di angioplastica che, per loro natura, necessitano di dosaggi più alti di eparina. L’aumento dell’eparina non si associa del resto a un aumento significativo del rischio emorragico. Ovviamente l’incidenza di occlusione dell’arteria radiale varia anche al variare del diametro

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Da quanto esposto appare evidente che la percentuale di procedure interventistiche che saranno eseguite con un accesso radiale è destinata a una ulteriore crescita. Al fine tuttavia di ridurre l’evenienza dell’occlusione del vaso appaiono ragionevoli, sulla base delle evidenze alcune indicazioni:

- l’uso di cateteri con diametro minimo utile, fatto che si può ottenere con l’uso di cateteri interventistici sheathless,

- l’uso estensivo dell’eparina a dosaggi anche fino a 5.000 UI, - una compressione non superiore a 15 minuti,

- un’emostasi non occlusiva.

Infine una complicanza relativa che tuttavia può essere causa di insuccesso procedurale nell’accesso radiale è il vasospasmo, che può efficacemente essere prevenuto con la sistematica infusione di vasodilatatori quali il verapamil o la nitroglicerina. L’effetto sulla pressione sistemica di questi farmaci può tuttavia sconsigliarne l’uso per cui il vasospasmo può essere utilmente e analogamente prevenuto con l’uso di introduttore idrofilici.

3.5 complicanze coronariche Dissezioni coronariche 26

La dissezione coronarica iatrogena rappresenta una temuta complicanza di una qualsiasi angioplastica coronarica ma non sempre ha conseguente particolarmente gravi.

La dissezione può svilupparsi in modi differenti: - solo anterograda,

- solo retrograda,

- sia anterograda sia retrograda, - a spirale,

- occlusiva, - non occlusiva.

Non necessariamente dunque la dissezione coronarica è causa di occlusione del vaso tanto che in alcuni registri il trattamento conservativo si è spinto fino al 60 %. L’eventuale rivascolarizzazione nel 40 % restante è stata sia cardiochirurgica ma per lo più interventistica, prontamente risolta nel contesto della medesima procedura. Anche una valutazione a distanza della sopravvivenza a 6 anni di follow-up ha mostrato una buona sopravvivenza pari al 94 % senza alcuna differenza in termini prognostici tra i soggetti rivascolarizzati e quelli trattati conservativamente.

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Gli elementi che spingono alla rivascolarizzazione percutanea in caso di dissezione iatrogena del vaso sono:

- i sintomi riferiti dal paziente tanto più se associati a instabilità emodinamica, - il ridotto flusso coronarico a valle della dissezione,

- l’estensione della rima di dissezione, meglio se definita con metodiche di imaging intravascolare quali l’IVUS e l’OCT.

Una dissezione coronarica iatrogena per via retrograda può raggiungere la radice aortica. Tale evento è generalmente più frequente in seguito a manovre di cannulazione della coronaria destra rispetto alla sinistra, ma in entrambi i casi molto spesso si associa a una grave instabilità emodinamica che può portare all’exitus del paziente o richiedere un intervento chirurgico urgente. Non può essere standardizzato il tipo di approccio poiché anche in questo caso si può passare dalla chiusura della breccia d’ingresso mediante stenting a livello coronarico a un atteggiamento conservativo sull’aorta ove la rima di dissezione della parete fosse limitata alla regione paraostiale.

Dissezione da catetere guida 27

Nell'era pre-stent, la dissezione dell'arteria coronarica indotta da catetere si verificava in circa il 30 % delle procedure di angioplastica coronarica. Con l'arrivo degli stent l'incidenza è scesa al 2-3 %, continuando a scendere negli anni successivi fino ad attestarsi intorno a valori dello 0,4 %. Si sono dimostrati fattori di rischio indipendenti il sesso femminile, le lesioni complesse e le angioplastiche prossimali. Da segnalare tuttavia che circa un quarto di questi pazienti esitava in un deficit persistente del flusso coronarico e risultavano complessivamente aumentati anche la mortalità e gli eventi cardiovascolari avversi in genere nella fase intra-ospedaliera.

Perforazioni coronariche 28-29

Per perforazione coronarica intendiamo ogni condizione che crei una continuità tra il lume vasale e l’esterno del vaso.

I possibili fattori predisponenti possono essere di diverso ordine:

- clinico: età avanzata, sesso femminile, insufficienza renale, pazienti con infarto miocardico senza sopraslivellamento ST,

- angiografico: occlusione totale cronica, calcificazione delle arterie coronariche, lesioni di tipo C, vasi tortuosi, lesioni target nelle arterie circonflesse e coronarie destre, lesioni

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- tecnico, questi ultimi ulteriormente elencabili:

-- da avanzamento del filo guida, soprattutto se con rivestimento idrofilico della punta, -- da gonfiaggio del pallone,

-- da rilascio dello stent,

-- da over sizing del pallone o dello stent (rapporto diametro pallone o stent/diametro vaso > 1,2),

-- da rottura del pallone o dello stent,

-- da passaggio subintimale del pallone o dello stent nel contesto di una dissezione coronarica,

-- da aterectomia direzionale o rotazionale.

Le più frequenti cause sono dunque legate al filo guida per circa il 50 %, al pallone da angioplastica per il 25 %, allo stent per circa un altro 20 % e per il resto alle altre cause.

Se le perforazioni da filo guida generalmente sono autolimitanti altre rotture possono generare da una semplice soffusione emorragica del tessuto grasso peri-coronarico a un sanguinamento acuto nel cavo pericardico con conseguente tamponamento cardiaco e necessità di pericardiocentesi d’urgenza.

Le perforazioni coronariche sono state classificate da Ellis et altri nel seguente modo:

Tipo Definizione

I Focal extraluminal crater without extravasation

II Pericardial or myocardial blush without an exit hole larger than 1 mm

III Frank streaming of contrast through an exit hole larger than 1 mm

IV Contrast spilling directly into anatomic cavity chamber such as coronary sinus and the right ventricle

V Distal perforation related to the use of hydrophilic and/or stiff wires

Questa complicanza estremamente rara nell’angioplastica coronarica ordinaria dove l’incidenza si colloca in un range compreso tra lo 0,19 % e o lo 0,59 % dei casi, è maggiormente frequente nelle procedure aggressive quali i trattamenti delle occlusioni coronariche croniche, giungendo a circa il 28 % sebbene sia da segnalare un basso rischio di tamponamento cardiaco, emergenza clinica, intorno allo 0,5 %. Si consideri che quando è il filo guida a provocare una perforazione distale il tamponamento cardiaco può comparire anche a distanza di qualche giorno dalla procedura indice per effetto di un lento stillicidio ematico.

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Le procedure di CTO del resto, grazie allo sviluppo di guide e micro cateteri dedicati, sta divenendo una procedura sempre più frequente censita anche in vari registri e da varie organizzazioni internazionali dedicate per cui la conoscenza dei meccanismi e dei possibili trattamenti delle perforazioni/rotture coronariche deve essere un patrimonio condiviso.

Le perforazioni del tipo I e II generalmente si autorisolvono mentre per quelle di classe maggiore è necessario un intervento attivo con una delle seguenti tecniche:

a) gonfiaggio prolungato di un pallone, b) rilascio di uno stent ricoperto,

c) embolizzazioni.

Si omettono in questa breve trattazione le metodiche cardiochirurgiche necessarie tra il 3 e il 5 % circa dei casi.

a) gonfiaggio prolungato di un pallone

Questo approccio può essere risolutivo per le perforazioni di classe I e II.

Il diametro del pallone deve coincidere con quello del vaso e il gonfiaggio a cavallo della perforazione deve essere prolungato per almeno 10 minuti. In caso di segni di ischemia che impongano lo sgonfiaggio si potrà procedere a nuovi gonfiaggi ogni 5-10 minuti.

Un utile strumento è rappresentato da un catetere a palloncino bilume che consente una perfusione oltre il punto di gonfiaggio.

b) rilascio di uno stent ricoperto

Lo stent ricoperto è uno stent metallico sul quale viene montata una membrana occlusiva delle maglie composta da diversi tessuti: PTFE, tessuto venoso, pericardio. La facilità di rilascio è buona a livello dei tratti prossimali e medi dei vasi coronarici ma può risultare impossibile con vasi tortuosi o in caso di perforazioni distali. Il successo procedurale si attesta intorno al 90 %.

Se questo approccio risulta essere risolutivo ai fini del trattamento della perforazione va considerata un’aumentata incidenza di trombosi subacute dell’ordine del 6 % o di restenosi fino al 32 % per gli stent ricoperti con PTFE. Si impone pertanto una duplice terapia antiaggregante per il lasso di tempo di almeno un anno.

c) embolizzazioni

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utilizzabile per vasi secondari dove l’infarto miocardico conseguente all’occlusione del vaso riguardi un territorio limitato.

Tra i materiali embolizzabili possiamo annoverare: - coils metalliche,

- apposite colle,

- sangue coagulato dello stesso paziente, - trombina,

- collagene,

- tessuto grasso sottocutaneo, - alcool denaturato,

- microsfere.

L’embolizzazione necessita dell’uso di cateteri dedicati che consentano di portare il materiale da embolizzare nella sede voluta evitando che lo stesso diffonda nei restanti segmenti vasali.

Questo approccio necessita pertanto di un operatore con esperienza nell’uso di questi materiali.

Si ritiene di poter suggerire che ciascun laboratorio di emodinamica debba dotarsi di almeno uno di questi sistemi di embolizzazione coronarica.

3.6 complicanze a lungo termine Restenosi 30-32

Il meccanismo della restenosi coronarica, ovvero della riduzione del diametro vasale dopo rivascolarizzazione percutanea, non è da considerare propriamente nel contesto delle complicanze procedurali piuttosto è il risultato di una nuova fisiopatologia della malattia aterosclerotica coronarica indotta dal barotrauma causato dal trattamento percutaneo di rivascolarizzazione.

Quando si effettui un’angioplastica semplice questo fenomeno è dovuto a due differenti meccanismi:

- il rimodellamento vasale, causato dall’infiammazione generata dallo stiramento delle tonache media e avventizia,

- il recoil elastico della parete arteriosa, che può verificarsi già qualche secondo dopo la dilatazione con pallone.

L'incidenza di restenosi per le angioplastiche semplici, che rappresentavano l’unico trattamento percutaneo di rivascolarizzazione coronarica possibile negli anni ’80 del XX secolo, variava tra il 32 e il 55 % di tutte le procedure. Per ovviare a questa problematica

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furono sviluppati gli stent coronarici ovvero delle protesi a maglia metallica che venivano e vengono rilasciate a permanenza all’interno del lume vasale avendo cura di farle ben aderire alla parete arteriosa. Anche queste protesi tuttavia potevano andare incontro al fenomeno della restenosi mediante il meccanismo della proliferazione neointimale, che consiste in un'eccessiva proliferazione tissutale sulla superficie endoluminale dello stent dovuta alla migrazione di cellule muscolari lisce e di miofibroblasti così da consentire un ulteriore processo aterosclerotico detto neoaterosclerosi. In ogni caso l’incidenza della restenosi nell'era degli stent di metallo nudo (BMS) era già scesa intorno al 17-41 %. Un ulteriore riduzione di tale percentuale fin sotto il 10 % si è avuta con l'avvento degli stent a eluizione di farmaco antiproliferativo (DES), in particolare per quelli di seconda generazione, e dei palloni rivestiti di farmaco.

I predittori di restenosi sono diversi, qui accenneremo velocemente solo a quelli legati alla procedura che possono determinare un rilascio non omogeneo di farmaco antiproliferativo lungo tutta la lunghezza dello stent:

- caratteristiche della lesione ovvero vaso tortuoso, presenza di calcificazioni, variazioni di calibro del vaso, presenza di biforcazioni,

- possibile rottura delle maglie dello stent, - sottoespansione dello stent.

Dalla lettura di questo elenco appare evidente come la probabilità di restenosi di uno stent medicato di seconda generazione possa essere ridotta garantendo un’adeguata espansione dello stent e una completa adesione alla parete vasale. La lunghezza dello stent sopra i 32 mm e il suo diametro inferiore ai 3 mm correlano con una maggiore incidenza di restenosi. Espansione e adesione si possono ottenere solo con una corretta preparazione della lesione coronarica prima del rilascio dello stent (predilatazione con pallone compliante o con altri palloni anche non complianti o ad alte pressioni, aterectomia coronarica, ecc.) soprattutto in caso di calcificazioni o di lesioni complesse (B2/C secondo la classificazione di Ellis). Una sotto-espansione o una mal-apposizione possono essere ridotte con una post-espansione dello stent mediante un adeguato pallone non compliante e se ancora vi fossero dubbi angiografici si potrà ricorrere, per una evidenziazione del problema, all’uso di metodiche di imaging intracoronarico quali l’intra-vascular-ultrasound (IVUS) e l’optical-coherence-tomography (OCT), ancora sottoutilizzate nella pratica quotidiana dei laboratori di emodinamica.

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La più comune classificazione delle restenosi prevede: Type I focal ≤10 mm in length intrastent IA articulation or gap IB margin IC focal body ID multifocal Type 2 diffuse >10 mm intrastent Type 3 proliferative

10 mm extending beyond the stent margins Type 4 total occlusion

Restenotic lesions with TIMI flow grade of 0

Un ulteriore tipo di restenosi è quella aggressiva che interviene piuttosto precocemente, prevalentemente nelle donne e in lesioni corte.

La restenosi purtroppo al pari di altri fattori clinici è un predittore indipendente di mortalità.

Il trattamento delle restenosi su angioplastica semplice, oggi piuttosto rara nella pratica quotidiana, viene affrontata con lo stesso approccio della malattia coronarica nativa.

Diverso è invece l’atteggiamento da riservare alla restenosi di uno stent soprattutto se medicato e di seconda generazione. In questo caso è mandatario partire da una comprensione del meccanismo che l’ha determinata e in questo le metodiche di imaging prima citate quali IVUS e ancor più l’OCT rappresentano lo strumento effettivo rispetto alla sola angiografia.

Sulla base di quanto evidenziato si potrà così scegliere il trattamento o con l’impianto di un nuovo stent medicato all’everolimus o con l’impiego di un pallone medicato per la sua capacità di fornire risultati favorevoli senza aggiungere un nuovo strato di stent.

trombosi di stent 33-34

La trombosi tardiva di stent è un’evenienza rara ma drammatica poiché causa anche di infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST.

La trombosi di stent è da considerarsi un’evenienza legata agli stent medicati e più comunemente a quelli di prima generazione con una mortalità che va dal 5 al 45 %.

La causa è da riconoscersi in una incompleta riendotelializzazione della superficie endoluminale dello stent con deposizione di fibrina a causa dell'infiammazione che viene a generarsi tra le maglie dello stent e la parete vasale.

Gli stent medicati di seconda generazione possiedono un rivestimento aggiuntivo di polimero biocompatibile sul versante esterno dello stent che facilita anche una migliore

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ovvero più rapida e completa riendotelizzazione del versante endoluminale dello stent. Tra gli stent quelli a eluizione di everolimus in cobalto-cromo (DES di seconda generazione) sono più sicuri rispetto agli stent a rilascio di paclitaxel (DES di prima generazione) e ovviamente rispetto agli stent metallici nudi.

Non indifferente al fenomeno è anche la terapia medica associata ovvero la duplice anti-aggregazione piastrinica, che tuttavia non costituisce oggetto della presente trattazione.

La breve sintesi del fenomeno qui offerta non scende a valutare le caratteristiche diverse del fenomeno nei diversi tipi di stent:

- stent metallici nudi,

- stent medicati di prima generazione, - stent medicati di seconda generazione,

- stent medicati a polimero biodegradabile o privi di polimero, - stent medicati autoespandibili,

- scaffolds bioassorbibili.

Ulteriore differenza sulla probabilità di sviluppare trombosi dello stent è determinata dalle caratteristiche strutturali delle maglie degli stent (struts) dove andranno valutati spessore e superficie di contatto sia con il sangue sul versante endoluminale sia con la parete vasale sul versante opposto. La combinazione di queste caratteristiche determina infatti modifiche alla reologia del sangue e anche una diversa capacità di adesione alla parete vasale, elemento fondamentale per un corretto trattamento mediante stenting di una stenosi coronarica, come più sopra descritto.

A conclusione del presente paragrafo e come parte integrante dello stesso si propone una tabella che riassume i fattori predisponenti alla trombosi dello stent, le definizioni di queste precise condizioni e gli interventi raccomandati per evitarle.

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4.CONCLUSIONI

L’interventistica coronarica rappresenta oggi l’oggetto principale dell’attività di ogni cardiologia, che non può prescindere da un trattamento corretto e sempre aggiornato della malattia coronarica in tutte le sue diverse manifestazioni cliniche.

Lo sviluppo di questa sub-specializzazione della cardiologia ha moltiplicato anche i medici a essa dedicati. Un’attenzione particolare va posta nell’educazione di costoro affinché a una formazione tecnica di alta specializzazione sia costantemente affiancata una solida formazione clinica, da mantenere viva negli anni.

Le complicanze delle procedure di angioplastica coronarica non infrequentemente hanno dei presupposti già nella prevalutazione del paziente a partire dal sesso e dall’età, per passare attraverso le comorbilità per giungere infine al quadro anatomico della malattia coronarica.

Il cardiologo interventista deve anzitutto essere in grado di stabile quando la procedura di rivascolarizzazione coronarica percutanea abbia una effettiva indicazione clinica e quando i rischi procedurali siano inferiori al potenziale beneficio clinico per il paziente. Ciò posto, come passo successivo, la procedura dovrà essere adeguatamente pianifica considerando tutte le possibili complicanze di ogni singola fase della procedura stessa e delle diverse strategie di trattamento possibili.

Anche di fronte ad un percorso di questo tipo tuttavia, che indubbiamente riduce a monte la probabilità di complicanza, è necessario che ogni laboratorio di emodinamica sia pronto in ogni momento a far fronte a situazioni impreviste e talvolta anche non annoverabili tra quelle più frequenti, conosciute o già descritte.

Nell’organizzazione del lavoro di un laboratorio va dunque sempre pensata la compresenza di operatori con diversa esperienza e maturità professionale così da consentire un tempestivo intervento di un professionista più esperto ove si rendesse necessario.

Nel contesto dell’organizzazione strutturale di un laboratorio è altresì imprescindibile munire lo stesso di tutti gli strumenti che possano servire in condizioni d’urgenza per far fronte alle diverse e possibili complicanze.

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Si dovrà pertanto porre attenzione ad esempio a che tutti gli operatori sappiano eseguire una toracentesi d’urgenza, che sia possibile reperire degli stent ricoperti, che sia possibile una diagnostica delle complicanze dei siti di accesso solo per citare alcune delle problematiche descritte nel presente lavoro.

Un esame dei casi clinici di letteratura dimostra come di fronte alle complicanze delle procedure di angioplastica coronarica non sia possibile sempre standardizzare dei comportamenti da trasferire in protocolli operativi. Anzi appare evidente come la professionalità dell’emodinamista conservi una dimensione di mestiere nel senso medioevale del termine, dove l’elemento umano può fare la differenza tra la vita e la morte del paziente affidatoci.

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