• Non ci sono risultati.

La “questione adriatica”: una questione europea

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La “questione adriatica”: una questione europea"

Copied!
22
0
0

Testo completo

(1)

ANNALI

DELL’ISTITUTO ITALIANO

PER GLI STUDI STORICI

XXIX

2016

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

Estratto da:

patrick

karlsen

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’:

UNA QUESTIONE EUROPEA

(2)
(3)

ANNALI DELL’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI STORICI

(4)
(5)

ANNALI

DELL’ISTITUTO ITALIANO

PER GLI STUDI STORICI

XXIX

2016

studiperrobertovivarelli

(6)

ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI STORICI Presidente Natalino Irti Amministratore delegato Roberto Giordano Consiglio direttivo

Piero Craveri, Giulio de Caprariis, Carmela Decaro Bonella,

Paola Franchomme, Giuseppe Galasso, Maurizio Mattioli, Alberto Quadrio Curzio, Gennaro Sasso, Fulvio Tessitore

Collegio dei revisori

Fabrizio Mannato, Benedetto Giusti, Gennaro Napoli

Segretario generale

Marta Herling

Segretario di redazione

Stefano Palmieri

Volume pubblicato con il contributo di Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Regione Campania

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa, con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico o altro, senza l’autorizzazione

scritta del proprietario dei diritti

TUTTI I DIRITTI RISERVATI – ALL RIGHTS RESERVED © 2016 Istituto Italiano per gli Studi Storici – Napoli

PRINTED IN ITALY ISSN 0578-9931 ISBN 978-88-15-26802-0

(7)

SOMMARIO

Bibliografia degli scritti di Roberto Vivarelli (1954-2015), a cura di Roberto Pertici

Marta Herling, Per l’inaugurazione dell’anno

accade-mico 2015-16

Davide Grossi, L’Istituto nella testimonianza di un

allievo

Natalino Irti, Per il centocinquantesimo della nascita

di Benedetto Croce

Giovanna Ambrosano, Un problema di storia

del-la religiosità greca arcaica: del-la tradizione demonologica in Magna Grecia e Sicilia tra VI e V sec. a. C.

Irene Bevilacqua, Stato ecclesiastico, feudi,

comuni-tà nella Marittima pontificia. Politiche di centralizzazione alla prova nella gestione del territorio

Federico Zuliani, La Storia antica del Messico

(1780-81) di Francesco Saverio Clavigero S.J. in Danimarca. Per-corsi dell’opera e ragioni di un interesse

Marco Diamanti, Una riforma «nel concetto del Nulla».

Bertrando Spaventa e la riforma della dialettica hegeliana

Luigi Musella, Giustino Fortunato, la piccola

bor-ghesia e il brigantaggio in Basilicata

Chiara Russo Krauss, Alle origini del ‘tradimento’ di

Wundt. Oswald Külpe e Richard Avenarius

Giulio Azzolini, Gaetano Mosca e il problema

del-l’«immanenza necessaria» delle classi dirigenti

Roberto Pertici, Benedetto Croce e il socialismo

ita-liano fra guerra e dopoguerra (1914-22)

Myriam Pilutti Namer, Giacomo Boni (1859-1925):

gli scritti del Dopoguerra e il rapporto con Eva Tea

Patrick Karlsen, La ‘questione adriatica’: una

que-stione europea

Laura Fotia, Le origini della diplomazia culturale

fa-scista. La crociera della nave «Italia» e il viaggio di Umber-to di Savoia in America Latina

Ilenia Rossini, «Ci odiano tutti, molto di più di

quan-to meritiamo». I romani, la «lunga liberazione» e il rappor-to con gli alleati

1

xix

xxiii

xxv

1

35

73

117

161

175

217

245

279

299

311

399

(8)

Luca Rivali, Benedetto Croce tra libri, librai,

biblio-grafi e collezionisti. Appunti per una bibliofilia crociana

Marta Herling, Napoli 1957-58. Il Diario inedito di

Gustaw Herling

Francesca Rolandi, Tra diplomazia culturale e

sponta-neismo. La rinascita dei rapporti culturali tra Italia e Jugo-slavia (1955-65)

Davide Serafino, Un rapporto conflittuale. Il Partito

comunista italiano di fronte alla lotta armata Gli alunni dell’Istituto nel 2016

439

491

513

555

587

(9)

PATRICK KARLSEN

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

UNA QUESTIONE EUROPEA

Secondo la sistemazione storiografica di lungo periodo proposta da Carlo Ghisalberti, nella politica e nella cultura italiane la ‘questione adriatica’ ha identificato le aspirazioni nazionali in merito alla regola-mentazione dei confini e allo status politico-giuridico delle popolazioni nei territori dell’Adriatico orientale. Un capitolo apparentemente chiu-so dai Trattati di Rapallo e di Roma negli anni Venti del Novecento, riaperto dall’intervento dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e concluso con una sconfitta epocale, trascolorando nella più circoscrit-ta ‘questione di Trieste’ e sancendo il definitivo «venir meno di circoscrit-tante illusioni».1

Nel secondo dopoguerra, la storiografia si è interrogata a lungo sulla rilevanza che questi temi hanno rivestito in alcuni passaggi-chiave del passato nazionale; l’attenzione è stata rivolta in particolare agli ef-fetti dirompenti sortiti sul piano politico e sociale dalla partecipazio-ne italiana partecipazio-nella Grande Guerra.2 Il nesso stringente tra la ‘questione adriatica’ e il crollo dell’Italia liberale, prima dell’imporsi del fascismo, è stato illuminato così nelle sue molteplici implicazioni, all’interno di un’ottica interpretativa che privilegiava di norma le dinamiche della

1 C. ghisalberti, Questione adriatica, questione di Trieste, questione

giulia-na, in id., Da Campoformio a Osimo. La frontiera orientale tra storia e storiografia,

Napoli 2001, pp. 247-259, in particolare p. 255.

2 Cf. le precoci riflessioni di A. Tasca (Nascita e avvento del fascismo.

L’I-talia dal 1918 al 1922, Firenze 1949) e L. Salvatorelli (Storia d’IL’I-talia nel periodo fascista, con G. mira, Torino 1964). A essi si sono via via aggiunti altri

contribu-ti fondamentali, tra i quali ricordiamo P. alatri, Nitti, D’Annunzio e la

questio-ne adriatica (1919-1920), Milano 1959; r. de FeliCe, Mussolini il rivoluzionario.

1883-1920, Torino 1965; id., Mussolini il fascista, vol. I, La conquista del potere.

1921-1925, Torino 1966; N. valeri, Giovanni Giolitti, Torino 1972; R. vivarel -li, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su

Roma, 3 voll., Bologna 1991-2012; E. gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la

(10)

PATRICK KARLSEN

3 0 0

politica interna. Del resto, era impossibile sfuggire alla constatazio-ne che constatazio-nella caduta del governo Orlando, così come constatazio-nei fallimenti dei successivi governi Nitti e Giolitti – tappe cruciali nel percorso di avvi-cinamento alla presa del potere del fascismo – i problemi attinenti la delimitazione della frontiera orientale ebbero parte notevole. E neppu-re, più in generale, era possibile sottovalutare l’influenza del mito della ‘vittoria mutilata’ nel progressivo logoramento delle istituzioni liberali, le quali avevano guidato gli sforzi del Paese nella guerra ed erano chia-mate a raccoglierne i frutti nelle trattative di pace. Incoraggiava in que-sta direzione la percezione dei contemporanei: «I pericoli che possono minacciare l’ordine interno del Paese dipendono da questa questione, forse più che dalla stessa minaccia bolscevica», commentava lo stesso Orlando nel 1919.3 Parallelamente, nel campo della storia delle relazioni internazionali, si sviluppava una tradizione di studi attenta a collegare i nodi della ‘questione adriatica’ con l’emergere dei nuovi assetti po-litico-istituzionali nell’Europa centro-orientale: a loro volta rapportati alla specifica missione che l’Italia, all’indomani di Versailles e Saint-Germain, intendeva ritagliarsi nell’area.4

Un originale impianto metodologico, teso a integrare in maniera programmatica la dimensione della politica interna a quella della poli-tica estera, si trova nel recente volume di Marina Cattaruzza.5 Al centro dell’analisi della storica triestina stanno, appunto, le discussioni par-lamentari sulla definizione del confine adriatico dalla fine della Prima guerra mondiale al Patto di Tirana, contestualizzate nello scenario più

3 Telegramma del presidente del Consiglio Orlando al segretario capo

della Presidenza del consiglio Petrozziello, Parigi, 14 mar. 1919, Documenti di-plomatici italiani, s. VI, vol. II, Roma 1987, n° 807, p. 618.

4 Cf. almeno P. pastorelli, L’Albania nella politica estera italiana.

1914-1920, Napoli 1970; H.J. burgWyn, The Legend of the Mutilated Victory. Italy,

the Great War and the Paris Peace Conference, 1915-1919, Westport, London 1993; F. CaCCamo, L’Italia e la «Nuova Europa». Il confronto sull’Europa

orien-tale alla conferenza di pace di Parigi (1919-1920), Milano, Trento 2000; M. bu -Carelli, «Delenda Jugoslavia». D’Annunzio, Sforza e gli «intrighi balcanici» del

’19-’20, «Nuova Stor. cont.», VI (2002), pp. 19-34; L. monzali, Italiani di

Dal-mazia. 1914-1924, Firenze 2007; id., Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la Jugoslavia

e l’Europa centrale, Firenze 2010.

5 L’Italia e la questione adriatica. Dibattiti parlamentari e panorama

(11)

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

3 01

ampio della crisi dell’Italia liberale e lette sistematicamente alla luce del peso che vi ebbero le vicende della politica estera.

Il termine ad quem della periodizzazione si richiama esplicitamen-te a una delle esplicitamen-tesi presentaesplicitamen-te nel libro. Infatti, la linea di politica esesplicitamen-tera nei primi anni del fascismo al potere non conobbe discontinuità dram-matiche rispetto agli indirizzi degli ultimi esecutivi liberali: lo afferma Cattaruzza in consonanza con una interpretazione che si è fatta strada nella storiografia italiana delle relazioni internazionali.6 Il tono domi-nante avrebbe continuato a essere quello dettato dalla personalità che maggiormente contribuì alla firma del Trattato di Rapallo, vale a dire Carlo Sforza. Mussolini era conscio che «la politica estera non è futu-rismo e nemmeno poesia», come dichiarò alla Camera dei deputati nel 1923;7 puntò perciò a una rapida soluzione del contenzioso pendente sulla città di Fiume, arrivando con il Trattato di Roma a un accordo con la Jugoslavia sulla base della spartizione dello Stato libero deciso a Ra-pallo. Intendeva in questo modo, esattamente come Sforza, spianare la strada a una cooperazione tra i due Paesi, contrastando l’ingombrante influenza della Francia nella regione danubiano-balcanica. Nell’ottica italiana, corollario irrinunciabile di tale impostazione doveva essere la salvaguardia dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Albania; ma proprio gli ostacoli frapposti da Belgrado con crescente insistenza su quest’ultimo punto, palesarono intorno alla metà degli anni Venti «il fallimento dei due capisaldi principali della politica Sforza, continuata in un primo tempo da Mussolini».8 Il quale da allora, fino allo sbocco del Patto di Tirana del 1926 e le dimissioni del ministro degli Esteri serbo Ninčić, avrebbe lavorato nell’ottica di attrarre l’Albania sotto la rigida ed esclusiva orbita italiana, in scoperto contrasto con le concomi-tanti pressioni jugoslave.

La linea Sforza segnava il passo proprio mentre era l’intero edi-ficio progettato a Versailles a mostrare tutta la sua fragilità. Coerente-mente con il suo credo mazziniano, Sforza aveva guardato con favore alla nascita degli incerti e instabili Stati sorti dalla distruzione degli Im-peri centrali, persuaso che l’Italia potesse costruire con loro proficui rapporti di amicizia. Aveva inteso ricercare l’obiettivo della sicurezza

6 Cf. L. monzali, Il sogno dell’egemonia, cit., pp. 35, 36 e sgg.

7 Atti parlamentari, seduta del 10 feb. 1923: M. Cattaruzza, op. cit., p. 159. 8 Ibid., pp. 178, 179.

(12)

PATRICK KARLSEN

3 0 2

italiana nell’Adriatico, in particolare, non mediante prove di forza e acquisizioni territoriali, ma con una politica di intesa con la Jugosla-via: nell’ambito della quale all’Italia doveva essere garantito il ruolo di interlocutore egemone al posto della Francia, anche nei confronti di un’Albania indipendente. Ma la Francia non poteva né voleva ac-consentire a una cessione di quote della propria influenza a vantaggio dell’Italia: un atteggiamento peraltro che rifletteva il rifiuto, non solo francese, ma anche britannico e statunitense, ad accettare l’Italia nel consesso delle grandi potenze, malgrado il tributo di prim’ordine che aveva offerto sulle trincee e le aspettative nutrite in tal senso da larga parte dell’opinione pubblica. Secondo Cattaruzza, la delusione rispetto al mancato riconoscimento di un superiore status all’Italia gettò dappri-ma discredito sulle istituzioni liberali, favorendone lo sgretolamento, e in seguito incentivò il nuovo corso della politica adriatica varato da Mussolini nel 1926.

Per l’Italia, Rapallo aveva rappresentato una buona soluzione di compromesso. Era stato accolto da un generale favore nel Parlamento figlio delle elezioni del 1919, le quali avevano sancito il successo dei po-polari e dei socialisti: ovvero delle forze politiche più maldisposte quan-do non francamente ostili verso la guerra e il suo lascito morale, politico e sociale. È vero che un’insidia celatasi nelle negoziazioni preparatorie – la cessione segreta di Porto Baross alla Jugoslavia, svelata dal nazio-nalista Federzoni e ammessa da Sforza di fronte alle Camere – determi-nò nel giugno 1921 la fine del nuovo governo Giolitti: quello formatosi dopo che lo statista piemontese assunse la «fatale» decisione di andare a elezioni, confidando in modo del tutto erroneo in un riflusso dei partiti di massa e nel ‘disinnesco’ dei fascisti.9 La confessione di Sforza riguar-do al retroscena di Porto Baross davanti a un Parlamento già avverso, nel quale all’aumentata presenza popolare e ai socialisti a maggioranza massimalista si erano ora affiancati i comunisti, suscitò un’impressione «devastante».10 E tuttavia, incidente di Porto Baross a parte, Rapallo aveva assicurato all’Italia un confine militarmente difendibile, un

risul-9 Ibid., p. 138. Cattaruzza concorda con il giudizio di Vivarelli (Storia

del-le origini del fascismo, vol. III, cit., pp. 207-11) e di A. Lyttelton, che in The Seizure of Power: Fascism in Italy, 1919-1929, Princeton 1988, p. 77, definisce di-sastrous la scelta di Giolitti.

(13)

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

3 0 3

tato concordato e non disonorevole per Fiume, il possesso delle princi-pali isole del Quarnero e l’enclave di Zara in Dalmazia. Era minato però fin dall’inizio da due gravi difetti, destinati secondo Cattaruzza a rivela-re l’inadeguatezza di fondo della politica estera di cui costituiva l’esito.

Innanzitutto, era una politica fondata sulla ricerca di buone rela-zioni con il nuovo Stato jugoslavo, considerata come la premessa per dotare di robuste radici l’influenza dell’Italia nella regione. Aveva il suo terreno di coltura nell’irredentismo democratico; i suoi campioni erano Salvemini e Bissolati, oltre a Sforza; il suo portavoce mediatico, il «Cor-riere della Sera» di Luigi Albertini. Animava questo fronte un insieme di ambizioni prive di fondamento, conseguenza di un «ingiustificato

wishful thinking» condannato a scontrarsi con la realtà dei rapporti di

forza internazionali e con l’atteggiamento intransigente di Belgrado.11 La sottovalutazione del durevole ascendente francese, non meno che dell’inflessibilità dimostrata dalla Jugoslavia nel fissare i propri obiet-tivi territoriali, ebbe in questo senso un peso determinante. L’illusione di associare il gruppo dirigente jugoslavo, passato nel 1917 dal program-ma grande-serbo a quello della federazione dei popoli slavi del Sud, al disegno egemonico di Roma nell’Europa centro-orientale fu la stessa che dominò il Congresso delle nazionalità oppresse nell’aprile 1918: la sede in cui di fatto il governo italiano avallò il progetto di distruzione dell’Impero asburgico e la creazione della Jugoslavia, così contraddi-cendo e inficiando i contenuti territoriali del Patto di Londra in nome dei quali era entrato in guerra tre anni prima.

La distruzione dell’Austria-Ungheria era un obiettivo che so-pravanzava l’orizzonte delineato dal presidente americano Wilson nei ‘quattordici punti’, i quali assicuravano alla compagine danubiana «un posto tra le nazioni» di domani e si limitavano a invocare una maggiore autonomia per i suoi popoli. Un anti-asburgismo radicale era stato fat-to proprio invece dal think-tank britannico raccolfat-tosi infat-torno ai nomi di Robert Seton-Watson e Wickham Steed, potente lobby filocecoslo-vacca e filojugoslava che poteva contare sull’appoggio del «Times» e del «Manchester Guardian» di proprietà di lord Northcliffe. Il confine adriatico immaginato in questi ambienti, forniti di connessioni dirette con il governo di Londra, lasciava all’Italia soltanto una sottile fascia

(14)

PATRICK KARLSEN

3 0 4

dell’Istria costiera, trasformava Trieste in un porto internazionale e ce-deva Fiume alla Jugoslavia. L’aver fatto incontrare i britannici e gli in-terventisti democratici italiani sulla piattaforma della distruzione della monarchia asburgica fu un successo politico del Comitato jugoslavo, il cui trionfo si celebrò a Roma al Congresso delle nazionalità oppresse. Il massimalismo delle richieste territoriali avanzate dal Comitato jugoslavo a danno dell’Italia non passò inosservato agli occhi di alcuni interven-tisti democratici, ma fu in genere valutato una «manifestazione tempo-ranea di impazienza, destinata a decantarsi con il tempo».12 Secondo i dirigenti del Comitato, scriveva per esempio Salvemini, «sarebbe giusto che tutto l’Adriatico orientale, da Duino ad Antivari appartenesse alla Slavia. Tutta l’Istria e il Goriziano, cominciando dalle porte di Gorizia, forse anche Trieste e Gorizia, sono terre slave, in cui vivono italiani, i quali nel [loro] pensiero probabilmente non sono che slavi italianizzati e rinnegati».13 Partendo da tali premesse, era del tutto illusorio ritenere che il Trattato di Rapallo potesse rappresentare la base di un’amicizia duratura con il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni: «Di fatto – commenta Cattaruzza – una tale politica sarebbe stata possibile solo se l’Italia si fosse attestata sul confine del 1866».14 Di contro, l’inclusione di circa mezzo milione di sloveni e croati dentro i nuovi confini italiani avrebbe agito da elemento di continuo disturbo nelle relazioni tra Roma e Belgrado immediatamente dopo la firma del Trattato.

In secondo luogo, Rapallo simboleggiava un lampante arretra-mento rispetto alle promesse del Patto di Londra. Si rafforzava così un sentimento assai diffuso di delusione e smarrimento, provato in larghi strati del Paese davanti ai quotidiani riscontri che le rivendicazioni ita-liane non venivano ascoltate e che l’Italia non era trattata da ‘pari ran-go’ nel consesso delle grandi potenze europee. Come giustificare allora una guerra di «immane portata distruttiva, in cui l’Italia era entrata li-beramente senza esserne costretta, che era costata più di 500.000 morti

12 Ibid.

13 Ibid., p. 193. La cit. da R.W. Seton-Watson and the Yugoslavs:

Corre-spondence, 1906-1941, ed. by H. seton-Watson et alii, London, Zagreb 1976,

p. 323. Salvemini nel 1917 aveva rifiutato l’invito a collaborare con la rivista di Seton-Watson «New Europe», dato che a suo parere nel Comitato jugoslavo tro-vavano posto soltanto posizioni di nazionalismo intransigente.

(15)

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

3 0 5

e aveva temporaneamente annientato buona parte della ricchezza del Paese»?15 Da questo dilemma, che il ceto liberale fu incapace di risol-vere, non poteva che discendere la polarizzazione del quadro politico e il credito crescente delle ali estreme dei nazionalisti e dei massimalisti, entrambe in grado di attribuire all’evento un significato epocale pur da posizioni antitetiche. La frustrazione per un risultato ritenuto da molti inferiore rispetto all’entità dei sacrifici compiuti sul campo di batta-glia, e il trascinarsi della ‘questione adriatica’ fino allo sbaraccamento dell’impresa di D’Annunzio a Fiume nel dicembre 1920, acuirono la già fortissima tensione sociale che dal 1919 percorreva il Paese. Inol-tre, allargarono ancora di più il solco tra i seguaci di un socialismo in cui dominava la corrente massimalista e coloro che avevano tratto dalla guerra la percezione di essere parte di una élite combattente, contrap-posta tanto ai rivoluzionari ‘disfattisti’ quanto alle vecchie classi diri-genti liberali. Proseguiva in queste forme, in altre parole, il contrasto che già aveva diviso gli interventisti e i neutralisti prima del ’15: una sorta di ‘guerra civile fredda’ tra visioni inconciliabili del significato dell’ingresso italiano in guerra. Per tratteggiare e dare una spiegazione a queste inquietudini, Cattaruzza ricorre a Il diciannovismo,16 lucida fo-tografia del tramonto dell’Italia liberale in cui Pietro Nenni ricordava come il Paese vittorioso avesse sperimentato l’umiliazione del vinto e biasimava l’irrisione del combattentismo da parte dei socialisti: quella «trincerocrazia» che si era guadagnata con il sangue, secondo Mussoli-ni, il diritto-dovere di dirigere lo Stato.17

A parere di Nenni, la ferita nel comune sentimento patriottico fu inferta dal nulla di fatto con cui Orlando e Sonnino fecero ritorno da Parigi nel maggio 1919. L’impressione generale fu quella di una banca-rotta della classe politica incaricata di convertire in risultati tangibili lo sforzo bellico, a fronte delle smisurate aspettative coltivate dall’opinio-ne pubblica del Paese. Si tratta di una interpretaziodall’opinio-ne che coincide con quella canonica maturata nelle file dell’interventismo democratico, per bocca di Salvemini, Bissolati e altri: il fallimento alla Conferenza della pace sarebbe derivato dalle esorbitanti pretese del Patto di Londra e

15 Ibid., p. 101.

16 p. nenni, Il diciannovismo (1919-1922), Milano 1962.

17 Cit. in E. gentile, Le origini dell’ideologia fascista. 1918-1925, Bologna

(16)

PATRICK KARLSEN

3 0 6

dall’incompetenza di Orlando e Sonnino come negoziatori. Ma il Pat-to di Londra, insiste opportunamente Cattaruzza, era più moderaPat-to di altri accordi segreti stipulati dall’Intesa nel corso del conflitto. Inoltre, per effetto dei trattati di Versailles e Saint-Germain, la Polonia si sareb-be trovata a incamerare circa un 40% di popolazione straniera, la Ce-coslovacchia il 30%, la Romania il 17%, la Jugoslavia l’11%. Il punto è che sull’Adriatico si stavano fronteggiando due Paesi vincitori; mentre nei confronti di Germania, Ungheria e Austria, non vi era stata alcun tipo di remora nel cedere agli Stati ‘successori’ territori abitati da milio-ni di appartenenti alle rispettive nazionalità. In questo senso, nessuno aveva sollevato obiezioni davanti alla prospettiva che l’Italia inglobas-se il territorio compattamente tedesco del Sud Tirolo, abitato da circa duecentomila persone. Per queste ragioni, lo storico Adrian Lyttelton ha rilevato che il risentimento dell’Italia per gli impegni mancati da parte dei suoi alleati sul versante adriatico non fu affatto peregrino.18

In realtà, a provocare il naufragio a cui andarono incontro le aspi-razioni italiane a Versailles, non fu l’incapacità di Orlando e Sonnino di adeguarsi alla logica dei principi di autodeterminazione, che – almeno nelle insincere dichiarazioni di Clemenceau e Lloyd George – erano sul punto di ridisegnare le mappe d’Europa. Ma furono una serie di inte-ressi concreti, come l’interferenza concorrenziale della Gran Bretagna e della Francia nel settore danubiano-balcanico, sommati all’ostilità pre-giudiziale del presidente americano Wilson. L’entrata degli Stati Uniti in guerra, in effetti, aveva avuto un impatto dirompente sulla sfera delle relazioni internazionali, ma spesso limitato «all’ambito discorsivo».19 Come ha osservato James Burgwyn, alla fine della guerra il principio di potenza rimase il fondamento del nuovo ordine a dispetto di ogni utopismo, esattamente come lo era stato in quello travolto nel 1914.20 La fase delle negoziazioni in cui a predominare fu il presidente degli Stati Uniti fu senz’altro quella in cui si assistette alla sistematica mortifica-zione delle aspirazioni italiane. Secondo Orlando, l’opposimortifica-zione irridu-cibile di Wilson non solo alle richieste italiane in Dalmazia, ma anche al confine strategico sul monte Nevoso e al collegamento territoriale tra lo

18 Cf. A. lyttelton, The Seizure of Power, cit., p. 30. M. Cattaruzza, op.

cit., p. 46.

19 Ibid., p. 191.

(17)

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

3 0 7

Stato libero di Fiume e il Regno d’Italia, non si spiegava fino in fondo se non ipotizzando l’esistenza di qualche impegno segreto impossibile da derogare.21 Sul confine strategico al monte Nevoso, osteggiato anche sulla scena politica nazionale dagli interventisti democratici, concorda-va il filojugoslavo Harold Nicolson, delegato britannico alla Conferen-za della pace.22 Al contrario, Wilson era irremovibile nel rifiutarsi di ac-cettare argomentazioni di carattere strategico, convinto che non avreb-bero avuto più senso nella nuova Europa entrata nell’era della Società delle Nazioni. Sosteneva che le ragioni dell’Italia sarebbero state valide solo se si fosse mantenuto in piedi l’Impero asburgico: ma il militarismo pantedesco era stato sconfitto, il multilateralismo della politica estera del dopoguerra avrebbe imposto a tutti gli Stati limitazioni agli arma-menti e dunque non vi era nulla da temere dalla Jugoslavia. Si oppone-va anche all’assegnazione di Fiume, dal momento che l’hinterland della città era slavo e avrebbe percepito l’Italia come una potenza straniera; un analogo principio etnico applicava anche all’Istria, per la quale pro-poneva una linea di confine che lasciava all’Italia la striscia urbana della costa e alla Jugoslavia buona parte dell’interno e la zona orientale, a maggioranza croata (la linea Wilson). Di fatto, la retorica wilsoniana faceva riferimento a un insieme eterogeneo di criteri, geopolitici, etni-ci e ideologietni-ci, relativi al supposto potere taumaturgico attribuito alla Società delle Nazioni. Criteri, in definitiva, molto più conformi alle rivendicazioni jugoslave, basate su argomentazioni etniche ed econo-miche, che a quelle italiane, supportate da tesi strategiche, nazionali e di potenza.23 Il suo appello diretto al popolo italiano, nell’aprile 1919, causò l’abbandono della conferenza da parte di Orlando e Sonnino, palesemente scavalcati nella loro autorità rappresentativa. Il suo astro imboccò una parabola discendente dopo la firma del Trattato di pace con la Germania e il suo rientro negli Usa per la ratifica, a sorpresa respinta, da parte del Senato americano. L’uscita di scena di Wilson ebbe per effetto un’accelerazione delle trattative tra Italia e Jugoslavia verso un accordo globale, accordo che si concretizzò nel Trattato di Rapallo. Cattaruzza riprende il giudizio di Klaus Schwabe, secondo il

21 m. Cattaruzza, op. cit., p. 186. 22 Ibid., p. 33.

23 Ibid., pp. 44, 45. Cf. W. klinger, Germania e Fiume. La questione

(18)

PATRICK KARLSEN

3 0 8

quale sull’applicazione del Patto di Londra si giocava il riconoscimento internazionale dell’Italia come grande potenza – e l’opposizione di Wil-son rivelava come questi non fosse disposto ad accordarle uno status analogo a quello di Francia e Gran Bretagna.24

La condotta della delegazione governativa a Parigi non fu comun-que esente da imperfezioni e incongruenze. La più grave di comun-queste fu l’aver rivendicato Fiume sulla base del principio di autodeterminazio-ne: è possibile che la posizione negoziale dell’Italia sarebbe stata più forte se ci si fosse limitati a reclamare il rispetto del Patto di Londra. «Fiume fu probabilmente il pretesto che tutti aspettavano per giustifi-care la mancata applicazione del Patto», osserva Cattaruzza.25 Sul piano interno, inoltre, l’impresa di D’Annunzio a Fiume aggiunse tensioni a un quadro di per sé rovente, che tutto fece fuorché rafforzare la stabi-lità dell’esecutivo. Nella questione fiumana, le aspirazioni nazionali si mescolavano ad ambizioni di potenza e a disegni di svolta autoritaria coltivati dalla destra nazionalista, insieme a una parte dei vertici delle forze armate. Un’avventura peraltro piena di implicazioni non solo dal punto di vista della politica estera, ma anche su quello dell’elaborazione di miti, rituali e linguaggi che diventeranno tipici di una certa politica di massa novecentesca, poi replicati dal fascismo. Il «parossismo col-lettivo» che rapì la ‘citta olocausta’ durante l’impresa dannunziana si alimentava dell’impressione che solo allora e solo lì si stessero compien-do davvero le speranze con cui l’interventismo aveva guardato al conflit-to.26 È vero che nel Paese il seguito raccolto da D’Annunzio e dai suoi legionari fu minoritario: prova ne è che alle elezioni politiche del 1919, accanto alla sfaldatura del blocco liberale, si registrò un netto successo dei partiti lontani dallo spirito dell’impresa. In ogni caso, una parte non trascurabile del Parlamento, della stampa e dell’opinione pubblica mo-strava di ritenere che senza Fiume la guerra era da considerarsi perduta. E nel frattempo, si moltiplicavano gli episodi di eversione e

ammutina-24 K. sChWabe, Woodrow Wilson und das europäische Mächtesystem in

Ver-sailles: Freidensorganisation und nationale Selbsbestimmung, in Nation und Euro-pa. Studien zum internationalen Staatensystem im 19. und 20. Jahrhundert, hrsg. von G. Clemens, Stuttgart 2001, pp. 89-107.

25 M. Cattaruzza, op. cit., p. 37.

26 Cf. C. salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con

(19)

LA ‘QUESTIONE ADRIATICA’

3 0 9

mento nelle file dell’esercito e della marina: segnali di una «debolezza dello Stato» che l’impresa di Fiume smascherava in tutta la sua gravità.27 Il fatto che il gesto di d’Annunzio, come scrive l’autrice, abbia favori-to «senz’altro una soluzione soddisfacente della questione fiumana in senso italiano»,28 non diminuisce il vulnus arrecato al tessuto politico e civile del Paese dallo spettacolo di uno Stato tenuto in scacco da qualche migliaio di ammutinati.

In conclusione, come indicato dal lavoro di Cattaruzza, la com-prensione del primo dopoguerra italiano può essere affinata da un raf-fronto tra diversi livelli d’analisi e quadri interpretativi, sovrapponendo costantemente il piano della politica interna a quello della politica este-ra, la dimensione nazionale a quella transnazionale. La rilevanza dell’a-rea alto-adriatica per la storiografia italiana, con i nodi tematici che si porta con sé – ‘questione adriatica’ inclusa – è data dal suo rappresen-tare un efficace osservatorio da cui sposrappresen-tare il baricentro della com-parazione del caso nazionale dall’Europa occidentale a quella centro-orientale, superando in questo modo la schematizzazione geopolitica e mentale Est-Ovest che ha segnato in profondità l’epoca della Guerra fredda.29 Come si è visto, diverse implicazioni collegate alla definizione della frontiera adriatica, in particolare al trattamento riservato all’Italia con la mancata applicazione del Patto di Londra, rischiano di sfuggire perdendo di vista il contemporaneo riassetto a cui era sottoposto il re-sto dell’Europa centro-orientale.

Più in generale, buona parte della storiografia italiana ha conside-rato forse troppo a lungo le vicende del cosiddetto ‘confine orientale’ – tale unicamente da una prospettiva mono-nazionale30 – come qualcosa di ‘periferico’, ‘anomalo’ o addirittura ‘eccezionale’ rispetto al quadro

27 m. Cattaruzza, op. cit., pp. 187-89.

28 In sintonia con le considerazioni di M. buCarelli, «Delenda

Jugosla-via», cit., pp. 33, 34.

29 Cf. su questo punto le importanti riflessioni, tra gli altri, di M. mazo

-Wer, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo (1998),

Mila-no 2000; N. davies, Europe. East and West, London 2006; T. Judt, Dopoguerra.

Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi (2005), Milano 2007.

30 Cf. M. verginella, Radici dei conflitti nazionali nell’area alto-adriatica:

il paradigma dei «nazionalismi opposti», in Dall’Impero austro-ungarico alle foi-be. Conflitti nell’area alto-adriatica, Torino 2009, pp. 11-18.

(20)

PATRICK KARLSEN

310

d’insieme.31 In realtà, i conflitti sociali e nazionali che si intrecciarono nell’alto Adriatico prima e dopo il 1918 trovano riscontro nelle dinami-che dinami-che investirono gli altri borderlands europei, ovvero i territori mul-tinazionali e post-imperiali dell’Europa centro-orientale: conflitti che condizionarono pesantemente la risistemazione delle frontiere statali successiva alla «catastrofe originaria» della Grande Guerra.32 Da que-sto punto di vista, come aveva intuito precocemente Dennison Rusi-now, attraverso il filtro del ‘confine orientale’ anche il primo dopoguer-ra italiano può essere interpretato come un capitolo circoscritto del più ampio ciclo di sommovimenti sociali e nazionali derivati dal crollo degli Imperi centrali.33

31 In proposito, si vedano le osservazioni di M. bresCiani, L’autunno

dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storio-grafia «nazionale», «Storica», III (2013), pp. 77-110.

32 Sulla categoria di borderlands, cf. almeno A. prusin, The Lands Between:

Conflicts in the East European Borderlands. 1870-1992, Oxford, 2010; A. ro -shWald, Ethnic Nationalism and the Fall of Empires: Central Europe, Russia, and

the Middle East. 1914-1923, London 2001. In prospettiva transnazionale, utile an-che G. Franzinetti, The Austrian Littoral in a Cisleithanian Perspective, «Acta

Histriae», XIV (2006), pp. 1-13. La Grande Guerra come «catastrofe originaria» in G.F. kennan, Bismarcks europäisches System in der Auflösung. Die

französisch-russische Annährung 1875-1890, Frankfurt a.M., Berlin, Wien 1981, p. 12: cit. in M. Cattaruzza, op. cit., p. 11.

33 Cf. D.I. rusinoW, L’Italia e l’eredità austriaca 1919-1946 (1969), Venezia

(21)
(22)

FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI NOVEMBRE

DELL’ANNO MMXVI NELL’OFFICINA TIPOGRAFICA

M. D’AURIA EDITORE PALAZZO PIGNATELLI – NAPOLI

Riferimenti

Documenti correlati

L’Unione europea avrà ora gli strumenti per misurarsi con una questione che da anni anima il dibattito e lo scontro politico nei nostri Paesi e investe gli stessi concetti

Vi é particolare enfasi sull’abbandono dello stigma e delle forme di discriminazione, promuovendo partnership con le organizzazioni non governative in particolare

12 The study of the evolution of the French market led scholars to analyse the relation between trade and virtue, the role of debt in shaping the

Supraspinatus specimens were harvested en bloc from the arthroscopically intact middle portion of the tendon, more than 1 cm lateral to the torn edge, from the lateral edge of the

La duplice regola dettata dalla Corte EDU può quindi essere legittimamente interpretata nel senso che, quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella

norma della ragione” è un degenerato che dichiara con il suo comportamento “di abbandonare i princìpi della natura umana e d’essere una creatura nociva”. Locke adotta toni

L’argomento, che questa tesi si è proposta di affrontare, è lo studio e la riflessione sull’Unione europea, come protagonista della vita internazionale, nel suo ruolo di

In linea con le attività previste dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, il Dialogo, organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (IAI), in cooperazione con l’Istituto