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La critica d'arte di Alberto Arbasino. Percorsi di un flâneur atipico fra impegno culturale e sperimentalismo formale.

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INDICE

INTRODUZIONE p. 3

CAPITOLO I p. 9

Alberto Arbasino: «Scrittore e non letterato» p. 9

I.1 Gli anni Cinquanta e l’esordio letterario p. 10

I.2 Gli anni Sessanta e la Neoavanguardia p. 13

I.3 L’impegno ‘civile’ p. 20

I.4 La ‘figura’ narrata p. 23

CAPITOLO II p. 33

Le prospettive metodologiche di Roberto Longhi p. 33

II.1 La tensione longhiana alla perfezione p. 36

II.2 I due volti del giovane Longhi p. 38

III.3 Una critica d’arte narrativa p. 44

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CAPITOLO III p. 53

La polifonia del linguaggio di Arbasino p. 53

III.1 Il canto delle Arti p. 61

III.1.1 L’impegno didascalico e il fondo ironico p. 66

III.1.2 Lo sperimentalismo stilistico p. 75

III.1.2.1 L’incremento aggettivale p. 75

III.1.2.2 La presenzialità dell’opera d’arte p. 80

III.1.2.3 La spinta analogica come soluzione all’ineffabilità p. 84

III.1.2.4 Il soggetivismo e lo scatto emotivo p. 87

CAPITOLO IV p. 89

Tutela e gestione dei beni artistici p. 89

IV.1 Il ‘mal governo’ del patrimonio artistico p. 92

IV.2 Gli allestimenti espositivi p. 95

IV.3 La questione dell’utenza medio p. 98

CAPITOLO V p. 101

Repertorio degli artisti citati p. 101

V.1 Indice degli artisti citati p. 111

CONCLUSIONI p. 188

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO p. 193

Articoli di Alberto Arbasino p. 194

Testi di Alberto Arbasino p. 201

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INTRODUZIONE

Confezionare un giudizio sinottico circa la produzione di Alberto Arbasino è alquanto complicato. Sono la ricchezza strutturale e l’interconnessione argomentativa della stessa a pregiudicare la riuscita di tale obiettivo, tanto che persino le grandi opere di sintesi, atte a riepilogare le vicende letterarie del Novecento, sembrano contenere esiti piuttosto labili e controversi.

La complessità intellettuale, che emerge in maniera lampante dai suoi scritti e che talvolta suscita reazioni disarmanti, è dettata da una viscerale predisposizione all’osservazione «della Cultura, intesa come insieme di tradizioni e di sapere»,1 il cui referente finale è una pregiata Kulturkritik. Egli riveste il ruolo di ‘osservatore culturale’ più che di narratore o saggista, entrambi fin troppo circoscritti e limitanti per una metodologia che, amalgamando generi, temi e registri, rende evanescente la linea di demarcazione formale tra scrittura creativa e scrittura saggistica. Queste ultime, essendo colme di rimandi talmente variegati per cronologia e ambito, possono facilmente innestare reazioni ancipiti nel lettore, infatti, lo sfoggio erudito, se recepito come pedanteria, induce impulsivamente alla repulsione e all’accusa di snobismo,

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qualora, invece, di esso se ne colga la funzione educativa, si è spronati all’approfondimento per spirito di ammirazione. Ma più anomalo è il suo «trattare in “forma leggera” temi spesso importanti, e generalmente di “alta cultura”»,2 servendosi di un’ironia che irrora la pagina di quel piglio brioso, frizzante e accattivante talvolta troppo latente soprattutto nel panorama letterario e saggistico italiano del secondo dopoguerra, nel quale muove i primi passi.

Per comprenderne appieno l’eccentricità e la poliedricità si è ritenuto indispensabile dedicare il capitolo liminare di questo lavoro alle contingenze storiche e personali che ne hanno segnato la formazione, approntando una sommaria ripartizione cronologica che abbia come criterio di individuazione gli snodi argomentativi più significativi nel

mare magnum della sua produzione. Il prospetto, per quanto sia sintetico, svolge una

funzione propedeutica alla comprensione del suo lavoro, poiché palesa quanto Arbasino usufruisca di uguali caratterizzazioni formali in produzioni molto disparate e distanti tra loro, scardinando la plurisecolare categorizzazione di generi e registri al fine di perseguire impegnativi e innovativi propositi intellettuali, in primis vincere i forti retaggi dell’atteggiamento provinciale dominante e caratterizzante lo scenario intellettuale che lo aveva preceduto. Non essendo l’unico ad aver percepito con coscienza critica il panorama italiano come claustrofobico, si avvicina a quanti come lui nutrono le medesime esigenze di apertura, partecipando proficuamente al periodo di massimo sperimentalismo letterario del secondo dopoguerra e stringendo sodalizi con alcune delle voci più paradigmatiche in merito.

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Il capitolo d’apertura parte, sebbene siano affrontati marginalmente, dagli anni che precedono l’esordio letterario, avvenuto nel 1957 sotto l’egida di Calvino, anticonvenzionale per temi e sintomatico di quello che sarà il prosieguo di scrittore nelle fila della Neoavanguardia del Gruppo 63, di cui è stato un rappresentante emblematico durante gli anni Sessanta per quanto concerne la scrittura creativa, di cui abbiamo tratteggiato le componenti formali più rilevanti. Come vedremo, queste ultime, nella loro estrema e raffinata unicità, prendono forma dalle intenzioni culturali dell’autore, le quali ne spiegano anche il cambiamento del campo d’indagine degli anni Settanta. Infatti, in questo decennio, come anche nei successivi, Arbasino si occupa dei delicati avvenimenti politici e sociali che scuotono l’Italia e non solo e ne sarà un reporter acuto e intelligente opponendosi all’invalso mutismo di molti intellettuali dell’epoca, che propenderanno per una produzione di ‘impegno civile’ non sincronica. A tutto ciò si sovrappone, talvolta intersecandosi, quella che è la produzione da noi analizzata, la critica d’arte, alla quale abbiamo destinato, in questa sede preliminare, uno spazio autonomo che ne esponesse una mappatura sintetica degli esiti editoriali maggiori, tralasciando però, almeno al momento, tutta la produzione giornalistica in merito iniziata negli anni Cinquanta e tuttora attiva soprattutto sulle pagine di «Repubblica».

Per quanto concerne questo nuovo interesse d’indagine, nell’ultima sezione suddetta si accenna al panorama critico in cui muove i primi passi e, per necessità, anche alle ricerche metodologiche, cronologicamente antecedenti. Ovviamente all’interno di tale inquadramento non poteva rimanere taciuta la figura di spicco della critica d’arte italiana del Novecento, Roberto Longhi, il quale ha avuto un indiscusso ascendente su molti intellettuali, tra cui lo stesso Arbasino. Come quest’ultimo ricorda in Parigi, o

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cara, le prime visite ai grandi musei d’Europa sono sollecitate proprio da Longhi il

quale, dunque, determina inconsapevolmente i prodromi della futura produzione ecfrastica. Da qui è sorta l’esigenza di prestare attenzione nella seconda parte del nostro lavoro al complesso iter formativo del critico d’Alba che, pur principiando dal dibattito italiano, si apre gradualmente a quello europeo e americano con il fine di vagliare la validità di nuovi percorsi metodologici da opporre a quello stantio nazionale. Questo è servito a illustrare il fervido clima sotteso allo sviluppo del suo innovativo approccio critico dal quale il Nostro mutua moltissime caratteristiche stilistiche. Longhi assurge, quindi, a modello, sommuovendo in lui uno spirito di emulazione che lo induce ad attingere quanto di più positivo possa rintracciarvi nel metodo, adattandolo però al suo personale stile.

Una volta delineata l’importanza del critico d’Alba, si giunge finalmente nel vivo della nostra indagine. Questa prevede in primo luogo una presentazione generale della scrittura arbasiniana che, nel tentativo di superare nelle soluzioni il discrimine tra letteratura e saggistica, gli procura l’appellativo di scrittore ‘analogico’ e in secondo luogo un approfondimento sulla caratteristica propensione a trattar questioni di ‘alta cultura’ con la leggerezza dell’ironia. Mettere in luce le ragioni intellettuali che lo motivano ad applicarsi nel giornalismo culturale artistico è, poi, un altro passo necessario prima di concentrarsi totalmente sull’analisi stilistica della scrittura ecfrastica. Precisiamo in merito che il materiale collazionato include la produzione editoriale, quella giornalistica, pubblicata sulla «Repubblica» dall’inizio della collaborazione 1967 sino ad oggi, e anche testi che pur non vertendo principalmente sul tema offrono comunque riflessioni importanti. Non avendo trovato nessuna attività di ricerca così mirata e circoscritta alla prosa d’arte di Arbasino, ci siamo avvalsi del

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lavoro linguistico che Pier Vincenzo Mengaldo ha approntato per l’individuazione delle caratteristiche tecniche dell’ecfrasis moderna, e, seguitandone le direttrici metodologiche, abbiamo svolto il nostro studio ottenendo risultati interessanti e corposi circa le figure retoriche e le strategie formali più adoperate dal Nostro.

La lettura di tutto il materiale ecfrastico ha mostrato, inoltre, quanto le visite ai musei sommuovano una Kulturkritik che, declinandosi in riflessioni sulla valenza sociale dei prodotti artistici, digressioni storiche e approfondimenti, s’inserisce nel dibattito politico, in atto negli anni Settanta e seguenti, sulla definizione di ‘bene culturale’ e sull’individuazione di accorte procedure di valorizzazione e conservazione. Tutto ciò risponde alla funzione di operatore culturale tanto cara all’autore, per cui, non volendo ignorare i suoi intenti intellettuali, ci siamo soffermati anche su tale aspetto che, pur sembrandoci inizialmente marginale, ha motivato in seguito il lavoro più corposo dell’intero elaborato, quello riguardante l’indice degli artisti citati. A sollecitare l’idea di quest’ultimo, sono state le innumerevoli osservazioni sulle politiche dei poli museali soggiacenti all’allestimento di mostre, emerse in più luoghi del discorso culturalmente impegnato di Arbasino, secondo le quali uno dei principali criteri è la predilezione di artisti che possano attrarre un’utenza maggiore. Questa considerazione, sebbene scontata e retorica, ci ha spinto, mediante uno spoglio sistematico e capillare della sua produzione ecfrastica, alla compilazione dell’elenco suddetto, di cui vedremo in breve l’intento.

Innanzitutto, si precisa che per ciascun nome presente nel repertorio è stato eseguito il computo delle relative citazioni, attraverso il quale che si è potuto rilevare la maggiore o minor presenza degli stessi nel panorama espositivo e desumere le tendenze che

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hanno dominato le retrospettive degli ultimi cinquant’anni, le quali a loro volta, alla luce dell’osservazione premessa a tale spoglio, sono sintomatiche delle preferenze artistiche degli utenti. Quanto dedotto da questa ricerca, che sarà poi spiegato opportunamente sia nel corso dell’elaborato sia nelle conclusioni, si allinea ad alcuni dei temi affrontati e biasimati dall’autore stesso: da un lato le mode artistiche che determinano una rosa di mostre piuttosto limitata e dall’altro la presenza di un pubblico che, per mediocrità conoscitiva, mostra interesse solo per i grandi nomi della storia dell’arte.

L’intero percorso di analisi mira allo studio delle scelte composite, stilistiche e argomentative della prosa d’arte di Alberto Arbasino, confermandolo come uno degli autori più controversi del XX secolo.

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CAPITOLO I

Alberto Arbasino: «Scrittore e non letterato»

Ripercorrere nel dettaglio la vicenda biografica, per la quale rimandiamo ai lavori di Panella e Vecchi citati in bibliografia, potrebbe essere un esercizio alquanto pedante, pertanto abbiamo ritenuto opportuno proporre un compendio delle principali circostanze culturali che ne hanno determinato il percorso evolutivo di scrittore e non letterato (come si definisce lui stesso). L’inquadramento di seguito approntato, qualora lo si ragguagli a una lista puntuale degli interventi e delle opere dell’autore, apparirà necessariamente esiguo a causa di parametri arbitrari, motivati e mai casuali, d’inclusione ed esclusione. Che Arbasino sia uno scrittore laborioso e inarrestabile è un dato incontestabile, per questo abbiamo preferito menzionare i lavori più rappresentativi delle varie fasi creative e saggistiche, intorno ai quali orbitano, talvolta con una forte valenza integrativa, prodotti minori che in uno studio integrale ed esaustivo non andrebbero tralasciati.

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I.1 Gli anni Cinquanta e l’esordio letterario

Arbasino diventa lo scrittore di spessore che tutti conosciamo attraverso un percorso anticonvenzionale da autodidatta. Come ammette in Conversazione con Furio

Colombo, non ha mai nutrito l’aspirazione letteraria in giovane età, tanto da rimanere

estraneo alla situazione culturale italiana del dopo guerra e da prediligere il sentiero accademico del Diritto Internazionale, sulla scia delle speranze d’impiego riposte nelle grandi organizzazioni internazionali che negli anni Cinquanta andavano costituendosi. Eppure la vantaggiosa estrazione sociale, quella di borghese, è probabilmente la

conditio sine qua non sarebbe stata impossibile, durante gli anni del secondo conflitto

mondiale, la frequentazione del Regio Liceo-Ginnasio Grattoni di Voghera, il cui prestigioso ambiente didattico ha influito molto sulla prima formazione, affinata e integrata, a suo dire, da situazioni educative secondarie: lo studio privato della lingua francese e la quotidiana lettura di classici stranieri minori e pochissima letteratura italiana, scelte sintomatiche di ciò che sarà l’indirizzo stilistico qualora si vogliano passare in rassegna i titoli dei volumi prediletti. Concluso il percorso liceale, intraprende, come abbiamo detto, un percorso universitario distante dall’ambito umanistico – si laurea, infatti, nel 1955 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano – durante il quale, però, appaiono sulle pagine di «Coprifuoco» le prime prove letterarie. La goliardia brulica selvaggiamente in questi scritti, che saggiano alcune delle peculiarità stilistiche e delle costanti tematiche presenti anche nei testi più emblematici: rispettivamente citazioni dotte, preziosi aforismi, satira della borghesia e critica sociale. Non bisognerà attendere molto per l’effettivo esordio letterario, viste tali premesse.

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Nel 1957, infatti, dopo aver preso contatto con Italo Calvino, all’epoca già collaboratore dell’Einaudi, e avergli sottoposto alcuni scritti, pubblica una raccolta di racconti, Le piccole vacanze, poi integrata e ristampata due anni dopo presso l’editore Feltrinelli con un nuovo titolo, L’anonimo lombardo. Tale ampliamento non è imputabile all’ansia dell’esordiente, perché, essendo racconti scritti nei due anni antecedenti la pubblicazione, presentano una fisionomia e un intento programmatico coesi, piuttosto esso è motivato dalle strategie editoriali applicate alla prima edizione. Infatti, Calvino aveva suggerito, con sapiente lungimiranza, di scegliere solo cinque racconti tra i molti visionati, affinché si potesse approntare nel giro di poco una seconda pubblicazione che non deludesse le attese di una critica, che, animata dalla convinzione che nella prima prova ciascun autore si spenda completamente, radeva un’esasperata pretenziosità. Questi i prodromi della seconda edizione che include il racconto, L’anonimo lombardo, più controverso per via del soggetto oltraggiante il buon costume: l’omosessualità. Inserirlo in una sorta di omnibus, che ne ridimensionasse la percezione e la risonanza, è un accorgimento arguto per eludere denunce, processi, intolleranze e persecuzioni, che negli anni Cinquanta fioccavano su intellettuali e artisti del calibro di Pasolini, Testori, Visconti, Antonioni e Fellini. Le tanto attese aperture culturali del secondo dopoguerra, purtroppo, non si erano verificate con il necessario nerbo e l’assetto letterario ed editoriale italiano era ancora succube di restrizioni politiche. Tuttavia, in questo clima, definito meschino dallo stesso Arbasino, questa prima raccolta è emblema di arditezza argomentativa perché rispetto ai prodotti letterari coevi boicotta l’engagement italiano postbellico: «facendo finta di parlare di vacanze, di estati, in realtà si decretava la fine del neorealismo ed è per quello che a molti non è piaciuto quel libro, perché […] non c’erano i partigiani, non

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c’erano le SS, e non c’era “Bella ciao”, insomma…».3 Il vigore di una nuova voce è manifesto e il trasferimento nella capitale, avvenuto tra il 1957 e il 1958, ne darà conferma.

Di fatti, gli anni romani, definiti «ruggenti», sono tra i più fervidi e attivi, perché brulicanti di esperienze personali e prove culturali, di cui si ha un parziale assaggio nell’articolo pubblicato su «La Repubblica».4 I sodalizi instaurati con personalità, quali Anna Banti, Roberto Longhi, Federico Zeri, Attilio Bertolucci e altri, impegnate in progetti culturali coraggiosi per propositi critici e creativi, hanno sia provato il valore della sua formazione sia sollecitato un confronto intellettuale acuto sia promosso il suo inserimento in ambienti giornalistici che continuano a saggiarne la forgia di erudito.

Alcuni degli articoli, interviste e interventi di questo periodo confluiscono, dopo un’opportuna cernita, nel 1960 in Parigi o cara, una miscellanea che documenta con venature antologiche ed educative una ricerca culturale vastissima, esplorando letteratura, politica, teatro, economia, cinema e osservazione di costume. Il viaggio è sia il collante di un accorpamento così eterogeneo sia il riscontro pratico della sua irrefrenabile e vorace curiosità. Si rende necessario precisare, a tal proposito, che, nonostante l’intensa attività giornalistica di questi anni, il trasferimento a Roma era stato motivato in primis dall’ambizione di un inserimento nell’organico accademico. Infatti, vi giunge in qualità di assistente alla cattedra di Diritto Internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche, ruolo espletato attraverso numerosi viaggi che, pur muovendo da esigenze di ricerca universitaria, gli offrono la possibilità di intrattenere

rendez-vous con intellettuali carismatici (Eliot, Forster, Auden e altri) e di apprestarsi a

3 Francesco Pacifico, Memorie del reduce Arbasino, «Il Sole 24 Ore», 21 novembre 2012 4 A. A., Quando ci vedevamo da Feltrinelli, «La Repubblica», 19 febbraio 2003

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quella critica di costume costruttiva, perché supportata da esperienze dirette, che tanto lo assorbirà in seguito. Già in Parigi o cara se ne intravedono i primi resoconti, però solo a distanza di molti anni, precisamente nel 1997, molte di queste esperienze degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta saranno narrate nella lettura avvincente di Lettere da Londra. Qui, Arbasino ci presenta i grandi autori del Novecento non con effetti di noiosa e manualistica retorica d’occasione, ma con il tratteggio familiare di chi ci accompagna tra i suoi amici, evocandone senza solennità o prostrazione le oneste proporzioni attraverso «l’ineffabile abilità di scegliere sempre nella presentazione del singolo caso quell’episodio in cui la personalità si rivela appieno, nella sua ricca stravaganza. Il che dà anche alla più breve delle interviste o al più rapido degli incontri una vivacità incomparabile».5

Quanto detto finora è la fucina culturale, apprestata nonostante i restrittivi e vincolanti anni del secondo dopoguerra, che ne farà durante gli anni Sessanta uno degli intellettuali più rappresentativi della Neoavanguardia.

I.2 Gli anni Sessanta e la Neoavanguardia

Il boom economico degli anni Sessanta reca nel panorama italiano una ricchezza creativa e critica tale da scacciare quella sorta d’immobilismo culturale meschino, protratto durante il decennio precedente, che aveva piegato molti letterati alle esigenze di mercato con una letteratura dozzinale e piatta secondo Arbasino. La reale sprovincializzazione della cultura italiana avviene attraverso due canali: da un lato la

5 Nadia Fusini, Che bei tempi quando nella City s’incontrava Eliot, in Alberto Arbasino, a cura di Marco

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circolazione di testi degli anni Venti e Trenta (Barthes, Jakobson, Lévi-Strauss ecc.) fondamentali in questi anni e dall’altro il proliferare di nuovi profili giornalistici che sconvolgono, con la loro ventata rivoluzionaria, l’industria culturale – tra questi «Il Giorno» e «L’Espresso» - e di riviste vecchie e nuove che, promuovendo opposte metodologie letterarie, sono indicative del fervore intellettuale. Le principali sono: «Il Mondo», diretto da Mario Pannunzio dal 1949, che declina l’invenzione stilistica e preferisce una prosa più semplice e diretta; «Il Verri», diretta da Luciano Anceschi dall’autunno del 1959, incline alla sperimentazione linguistica; infine, «Paragone», diretta da Roberto Longhi e di cui paleremo debitamente poi, anch’essa sperimentale per propositivi culturali.

Arbasino orbita attorno alla seconda rivista le cui esperienze hanno preceduto il movimento letterario della neoavanguardia che si definisce, con le opportune riserve circa la sua organicità, nella prima metà di questo decennio e le cui disquisizioni sullo stato della letteratura partono dall’assunto che «un’epoca di buona salute letteraria sia in ogni caso un’epoca disposta a sopportare un massimo di presenza della critica nelle sue forme più diverse».6 Proprio la mancanza di un piglio critico, gloria e vanto per molti letterati dell’epoca, non figurava «un tempo di vivacità, di energia inventiva», bensì «un avvertimento di rilassatezza, e di stanchezza di intelligenza, un timore poveramente calcolato del rigore e della responsabilità».7 L’eco del «Verri» si protrae sino al 1963, anno in cui una compagine della rivista e nuove voci intellettuali, che nell’insieme configurano il Gruppo ’63, si incontrano a Palermo con il proposito di approfondire le istanze della letteratura d’avanguardia, che «non accetta l’esistenza

6 Gruppo 63. Critica e teoria, p. 240 7 Ibidem

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della lingua colta corrente come una garanzia e non considera le sue strutture come razionali ma semplicemente come storiche»,8 e il contesto con cui essa si misura. Il collante programmatico, declinato liberamente dagli autori aderenti, si snoda nei seguenti punti:

la polemica contro le filosofie nazionalistiche e dogmatiche, contro il realismo letterario; il rimprovero, rivolto alla generazione di intellettuali del dopoguerra (in particolare Cassola, Bassani e, sebbene in misura diversa, Pasolini) di aver privilegiato in letteratura l’ambito pratico, di aver peccato di contenutismo allineandosi con forme e strutture conservatrici, col naturalismo ottocentesco; il rifiuto di un impegno di tipo luckasiano che riduce la letteratura a specchio delle strutture approntate per la politica e l’economia e le riconosce semmai l’unico privilegio di abbellirle.9

Le metodologie critiche dello strutturalismo e del formalismo, perseguite dalla maggioranza, avranno come esito una letteratura che sposta il fulcro della problematica dall’ambito contenutistico a quello formale. Nei lavori dei neoavanguardisti il linguaggio acquisisce un’autonomia e un’autosufficienza contrastive circa la dominante esperienza neorealista che ne aveva perseguito, invece, un uso quale trascrizione dell’oggetto. Non bisogna, però, ridurre il confronto avanguardia-tradizione alla semplicistica opposizione assunzione privilegiata del linguaggio della prima e assunzione privilegiata dell’ideologia della seconda, perché, con ferma consapevolezza, «non si dà operazione ideologica che non sia, contemporaneamente e immediatamente, verificabile nel linguaggio. Ed è anche

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Il dibattito in occasione del primo incontro del Gruppo a Palermo nel 1963, in Gruppo ’63. Critica e

teoria, p. 265

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troppo evidente che per linguaggio non si ha da intendere, con una sorta di riduzione materica, la mera superficie stilistica dell’opera, ma la sua struttura espressiva, in generale».10

Arbasino, partecipe di questo gruppo, sperimenta quanto più possibile le potenzialità formali del linguaggio, «dallo stravolgimento delle strutture sintattiche tradizionali, al riciclaggio di formule linguistiche inflazionate, al recupero di stralci di dialoghi e rumori di conversazioni dove le parole, beffeggiate nei significati, sono piegate al gergo, alla moda, al pastiche».11 La commistione di modi espressivi e materiali eterogenei, la cui direttrice aurorale è rintracciabile in Gadda, offre al testo un’apparenza torrentizia ed è motivata fisiologicamente dalla necessità di demistificare la caoticità del reale, rispetto cui l’operazione letteraria d’avanguardia non esprime una qualsiasi idea, bensì propone opinioni e umori tra loro spesso contraddittori, tendenziosi e occasionali.

Con Arbasino siamo finalmente in presenza di un narratore che la nascente neoavanguardia può adottare, far proprio, indicare come esempio; anche se in realtà egli non aveva atteso l’«arrivo dei nostri» per compiere le sue scelte, attraverso un cammino sostanzialmente solitario, che non era andato esente da compromessi dovuti appunto all’immaturità di quegli anni.12

La solitaria formazione, di cui parla Barilli, lo aveva reso autonomamente consapevole di uno dei tratti più caratterizzante il nuovo movimento: l’adozione di un «io» che si opponga all’insopportabile oggettività del neorealismo e che, volendo essere lungi da una dimensione di scavo interiore o peggio di confessione, assuma un ruolo mediano

10

Maria Luisa Vecchi, Arbasino, p. 272

11 Ibidem, p. 16

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con cui poter avvertire una partecipazione attiva. Tale scelta, ideologicamente necessaria, è motivata dalla volontà di ridimensionare la mediazione di un italiano codificato e di legittimare il ricorso a una lingua fluida, modellata sull’uso e sul parlato, tant’è che la diarchia linguistica registro letterario-registro dialettale, propria di alcune personalità del gruppo, in Arbasino, sempre fedele vassallo della realtà oggettuale, cede il posto alla dilalia, sottocategoria del plurilinguismo.

Questo coacervo di propositi si dipana magistralmente nella pietra miliare della sua produzione narrativa, Fratelli d’Italia (1963), un antiromanzo che s’impone nel clima d’avanguardia perché irriducibile a un unico sistema interpretativo e perché esempio del più vivo neosperimentalismo italiano. Rimaneggiato in più occasioni, precisamente nel ’67 e nel ’91, è il caso più emblematico della sua propensione a ritornare su quanto già scritto, dettata sia da un’attenta valutazione a posteriori sia dalla viscerale connessione degli scritti, che rende indecifrabile la scala gerarchica vigente tra narrativa e riflessione critica, di cui parleremo a breve. Alla luce di ciò una domanda sorge spontanea: saranno le prove creative a sommuovere riflessioni e posizioni teoretiche o saranno queste ultime a rinfrancare lo sperimentalismo e la mistura stilistica briosa delle prime? Se gli esiti, esperiti nei due ambiti, si collocassero in momenti tanto distinti, la risposta potrebbe ovviamente far leva sulla precedenza cronologica delle pubblicazioni, ma la vicinanza editoriale ci priva di un criterio temporale che risolva il quesito, maggiormente intricato per via del riutilizzo di materiali e del rimando degli uni agli altri. Questo perché «aprirsi in tutte le direzioni, spalancarsi a ogni possibilità, proliferando selvaggiamente, procedendo per accumulo, disporsi a tutti i significati probabili, senza chiudersi nessuna strada, inglobando i

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materiali più eterogenei»13 rimangono gli intenti perseguiti tanto nella narrativa quanto nel giornalismo culturale, il quale segna sia un’opportunità di analisi e approfondimento sia un importante e imponente serbatoio di materiali e riflessioni da reinventare e riutilizzare; basti pensare ai reportage per «Il Mondo», che confluiranno in progetti editoriali più corposi e conclusi.

La levatura culturale, maturata sul campo, gli consente non solo di soddisfare le attese formali della neoavanguardia raggiungendo prodotti narrativi notevoli, ma anche di rispondere alla necessità ideologica e programmatica di una componente critica, che si declini in vario modo e grado nei prodotti letterari e che promuova una saggistica volta a incrementare una riflessione arguta e a favorire l’inserimento dei nostri letterari nel dibattito critico estero. L’eccesso teorico, di cui spesso è tacciato, rientra nella volontà di spiegare il proprio lavoro creativo, motivato in duplice maniera: la repulsione per la letteratura industriale e preconfezionata negli esiti e la predilezione per il romanzo-coacervo che ricorra a «strumenti espressivi molto eterogenei, narrativa e saggistica, tragedia e farsa, ideologia e scurrilità, frou-frou allucinante, divagazioni dissennate, eruditi elenchi, bri-à-brac mondano»14 per mimare la natura composita del reale. In

Certi romanzi del 1964, che è «insieme una storia delle trasformazioni interne del

romanzo come organismo narrativo nei decenni che vanno da Flaubert a Musil, e nello stesso tempo è una specie di diario di letture e riflessioni critiche»,15 risuona, attraverso la rassegna di formalisti e strutturalisti francesi e russi, quest’accesa avversione verso i romanzi tradizionali con una fabula lineare e scontata. Ciò che, invece, si confà ai suoi propositi culturali è la linea ironica ed enciclopedica che si

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A. A., Fratelli d’Italia, p. 530

14 A. A., Conversazione con Nello Ajello. I ciambellani della memoria, in Alberto Arbasino, p. 93 15 Ibidem

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dipana nella storia della letteratura da Petronio e che giunge a Rabelais, Cervantes, Flaubert, Proust e Gadda. La letteratura engagé italiana, gravida di seriosità, e la saggistica fragile e preziosa, perché di nicchia, suscitano il biasimo del Nostro, poiché, stroncando il ricorso alla sprezzante ironia e al caustico sarcasmo, rigettano quella parvenza di leggerezza necessaria a una critica più partecipativa. Prima di apporre l’ultimo tassello alla produzione critico-letteraria con la pubblicazione di una raccolta di ritratti, recensioni, profili, interventi e ripensamenti su autori prediletti (Sessanta

posizioni del 1971), si concede un’altra prova anti-narrativa, Super-Eliogabalo.

Scritto nel ’68, era la trama finita male di un giovane facoltoso rivoluzionario in lotta contro ben quattro madri terribili, tutte anni Trenta e Parioli, volpi bianche e telefoni bianchi, e in polemica col Pontefice, un personaggio drammatico perché a capo di una gang di produttori di miracoli, però essendo l’unico a credere davvero in Dio. Ma non potendolo confessare a nessuno, per non venir preso in giro dai dipendenti.16

Aldilà della benevola presentazione dello stesso autore questo testo non ha nulla del classico plot romanzesco. Sempre puntuale all’appuntamento con il divertimento, Arbasino ci trasporta in una dimensione barocca, articolata sulla commistione stilistica, che evade dalla costrizione di uno stile impostato e che rifugge la midcult, tanto deprecata. Qui la concezione di romanzo quale narrazione consecutiva rimane osteggiata e il dato realistico annaspa in un sapientissimo pastiche e in un’eminente parodia, che ribadisce «la (sua) convinzione che […] l’unico modo di operare

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equivalente al vecchio Sublime sia lo Scherzo».17 I corposi elenchi «che sfruttano lo sciocchezzaio giornalistico-televisivo e […] le memorizzazioni becere della cultura bassa - non […] consunte ma perline dell’immondezzazio locutorio»18 storicizzano la disarmante volgarità seguita al boom economico.

Siamo nel 1968 e le concause intellettuali della neoavanguardia si stemperano fino a naufragare, perché provate dalle nuove contingenze storiche, che incoraggiano Arbasino a ben altre prove.

I.3 L’impegno ‘civile’

Alla fine degli anni Sessanta il disagio sociale circa l’assetto politico italiano, emerso purtroppo in modo cruento, non lascia presagire un assopimento e una risoluzione immediata delle spinte conflittuali. Il clima di tensione si protrae sino agli anni Novanta e gli avvenimenti politici italiani ed esteri destabilizzano l’opinione pubblica. È quanto accade anche per il Nostro il quale profonde tutta la sua energia nell’osservazione più perspicace possibile dei fatti.

Inizia in queste circostanze la sua fase di kulturkritiker, ancora attiva, che lo rende «il più feroce (e, nello stesso tempo, rattristato e melanconico) critico di quel periodo di storia italiana che va dalla fine degli anni Settanta agli anni Novanta».19 Tuttavia è alla fine degli anni Settanta che Arbasino, tralasciando l’ambito narrativo, si concentra

17

Giuliano Gramigna, Arbasino reinventa il suo Eliogabalo, «Corriere della sera», 21 aprile 2001

18

Ibidem

19 Giuseppe Panella, Alberto Arbasino e la Vita bassa. Indagine sull’Italia degli anni Ottanta in cinque

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sull’analisi sociale, culturale e linguistica del nostro Paese, le cui motivazioni sono esposte nell’incipit di Fantasmi italiani del 1977:

Questo non-libro si fonda su una decisione: seguire oggi non qualche simpatico o suggestivo Altrove ma l’attualità politica e culturale italiana giorno per giorno, con tutti i rischi della immediatezza troppo “a caldo”; e per tener dietro a una realtà molto in movimento, tentare una scrittura / struttura affatto seriosa o solenne o “sistematica”, ma piuttosto frammentaria, rapsodica, aforistica, molto corporea. […] I “temi” di questi esercizi sono interrogazioni elementari e familiari. Di fronte ai disturbi culturali e politici che colpiscono la vita italiana contemporanea: si tratta di inopinati bubboni, deplorevoli e “mai visti” […]? Oppure di vecchie solfe, orrende “costanti” antropologiche e ataviche molto nostre che continuano a riaffacciarsi camuffate da novità preoccupanti?20

La riflessione diretta sulle oscillazioni in atto, di cui Arbasino stesso fiuta i pericoli e le distorsioni possibili, è emblema di singolare coraggio per un periodo in cui gli intellettuali, temporeggiando in un mutismo paralizzante, attendono prudentemente la fine degli eventi per render noti pensieri e memorie. La totale libertà d’opinione e l’incuria circa le accuse di frivolezza per la veste stilistica dell’indagine sociale, da sempre punti di forza della sua attività, sono alla base della «performance del tutto corale, aperta, spalancata, registrazione e rappresentazione “personale” e “politica” rimescolata con gli infiniti paragoni e rinvii che emergono spontanei o coatti dalla cultura, dalla letteratura, dai precedenti storici, dalle analogie inevitabili»21 di In questo

stato.

20 Giuseppe Panella, Alberto Arbasino e la Vita bassa. Indagine sull’Italia degli anni Ottanta in cinque

mosse, «Cahiers d’études italiennes», N. 14, 2012

21

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Lungi dalla convinzione dilagante che i letterati siano soltanto artisti e non reporter e che in virtù di questo non possano, senza incorrere nell’errore, misurarsi immediatamente con eventi loro contemporanei, non essendo ancora divenuti materiale storico e letterario, il Nostro scrive il testo poc’anzi citato sul trauma politico e istituzionale del caso Moro e su un’opinione pubblica italiana incapace e inetta. Il giudizio sulla storia culturale, politica e sociale del nostro Paese, già rovinoso nei saggi del ’77 e del ’78, è rimarcato nelle pagine di Un paese senza, dove le riflessioni, sparse in frammenti di lunghezza variabile sugli anni Settanta ormai conclusi, dissolvono la tradizionale forma del saggio in un lavoro di circoscrizione espositiva che ne agevoli una lettura a balzi, pur non pregiudicandone la coesione e la vena pungente. È il 1980 e questa ennesima prova saggistica “in diretta” conferma la sua grandezza d’intellettuale nel praticare l’«esercizio della critica in nome di una conoscenza della realtà che si trasformi poi in un modello letterario capace di sfidare il Passato, se non forse il Futuro».22

Animato dal «desiderio di entrare nell’eletta schiera di autori che non sono stati gestiti dal loro tempo»,23 negli anni Ottanta Arbasino mira in veste di letterato ‘civile’ a una ricostruzione dei fatti narrati mai disgiunta dall’indignazione e dal senso di responsabilità annesso. Sebbene nel frattempo si collochino nuove sfide, tra cui l’approdo nel 1983 alla poesia civile con Matinée. Un concerto di poesia e la serie di libri di viaggio, inaugurata dal reportage su dieci Paesi del Medio ed Estremo Oriente,

Trans-Pacific-Express (1981), e conclusa da Mekong (1995), a distanza di anni ritornerà

22

Giuseppe Panella, Alberto Arbasino e la Vita bassa. Indagine sull’Italia degli anni Ottanta in cinque

mosse, «Cahiers d’études italiennes», N. 14, 2012

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alla saggistica impegnata con la spigliatezza e l’ironia di sempre: prima nel 1990 con La

caduta dei tiranni, un reportage sulla morte delle ideologie e sulla caduta delle illusioni

circa il socialismo sociale, e poi nel 1998 con Paesaggi italiani con zombi, dove la critica della società civile e della ricostruzione del costume italiano ha nuovo spazio e nuovo vigore.

Il cambiamento d’indagine e il passaggio dalla narrativa alla saggistica, avvenuti per circostanziali motivazioni storiche, non comportano un piatto, sterile e omologante adeguamento ai parametri di genere tradizionali, anzi lo sperimentalismo espressivo è ancora perseguito. D’altronde la veste linguistica, cui l’autore volge sempre una spiccata premura sia in ambito creativo sia in quello analitico, non si genuflette alle convenzioni e non ricerca il compiacimento facile; non teme le accuse di frivolezza mosse da un pubblico medio, disatteso circa gli aspetti formali, perché incapace di discernere la serietà e lo spessore intellettivo del sarcasmo e dell’ironia, sintomatici del distacco che ogni ‘giusto’ osservatore sociale e di costume dovrebbe mantenere con costanza. D’altronde, quanto si evince dai suoi molteplici progetti editoriali, i ruoli di narratore e di operatore culturale perdono di distintività, l’uno fagocita l’altro, per cui la veste linguistica non può che essere la medesima nell’atto creativo e nell’atto saggistico.

I.4 La ‘figura’ narrata

Abbiamo lasciato in ultima sede la produzione d’arte, perché abbraccia un arco temporale che si sovrappone a quelli evidenziati poc’anzi dei quali condivide alcune caratteristiche.

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È il clima culturale romano degli anni Cinquanta a innestare l’interessamento verso la materia figurativa e artistica in generale, che si articola in due direzioni complementari: un approfondimento teorico, che ne accresca sempre puntualità e valenza formativa, e una conoscenza diretta che, come abbiamo visto anche per la fase ‘civile’, è approccio propedeutico e privilegiato per un impegno di alta cultura. Entrambe le linee direttive sono mutuate dal sodalizio instaurato con Roberto Longhi il quale ha saputo imprimere una sferzata alla stagnante critica d’arte italiana, rinnovandola sapientemente dall’interno e aprendola al dibattito internazionale, ed esperite magistralmente nella collaborazione con riviste di arti figurative e letteratura e con editoriali. È inevitabile che in quegli anni Arbasino subisca il fascino intellettuale della critica longhiana, giacché essa sancisce nel metodo e nei risultati uno dei momenti più originali della critica d’arte moderna. Per capirne appieno l’importanza dobbiamo necessariamente risalire al primo Novecento, quando il dibattito sugli approcci critici possibili nello studio dei manufatti artistici era stato particolarmente acceso e articolato.

In Italia il pensiero crociano, fondato sia sul valore spirituale e sull’autonomia dell’arte, intesa come sintesi d’intuizione ed espressione, sia sull’esclusione nella valutazione di valori extra artistici (intellettuali, scientifici, tecnici), si opponeva alla critica d’arte accademica che, d’altro canto, essendo ancorata a una ricerca d’archivio (quindi spoglio di fatti, date e opere affini a quella presa in esame), approdava soltanto alla ricostruzione storica del manufatto. All’interno di questo quadro oppositivo, cui si aggiungono correnti di pensiero straniere ugualmente interessanti, la grandezza critica di Longhi non risiede nel rinnegare una metodologia per seguitarne pedissequamente un’altra, ma nel valutare le potenzialità e le deficienze di ciascuno e nell’attingere i

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suggerimenti più consoni al suo proposito. Atteggiamento, dunque, riservato sia alla critica accademica, il cui immobilismo derivante dalla sola ricerca d’archivio tralasciava l’intuizione primigenia che nei fatti decreta la vera cultura dell’opera, sia al pensiero crociano, la cui concezione monadistica del prodotto artistico escludeva una dialettica relazionale e intertestuale che ne ricreasse il contesto creativo. A rinfrancare l’aspirazione di incidere sulla situazione culturale artistica saranno anche le esperienze editoriali degli anni giovanili, apparse su «La Voce» di Prezzolini, le quali, oltre ad essere sintomatiche del progressivo affrancamento dalle frange più stantie della cultura moderna, consentono a Longhi di risalire alla cultura letteraria e artistica francese del secondo Ottocento, gravida di esempi di ecfrasis moderna che, pur muovendo da basi tecniche, colgono lo specifico tono lirico dei singoli artisti.

La gestazione dell’innovativo approccio longhiano abbraccia un periodo piuttosto ampio, in cui ciascuna prova decreta una graduale limatura. La piena maturità è sancita dagli scritti degli anni Trenta che, essendo «costruiti a due piani […] al primo corrisponde il testo, l’analisi dei fatti stilistici, la traduzione letteraria delle ricerche figurative; al secondo l’apparato filologico e documentario, affidato alle note o alle appendici»,24 sono una summa delle più variegate istanze metodologiche adattate a un originale tessuto linguistico e stilistico. Inoltre, il piano della resa letteraria del dato pittorico è dedotto «dalla tradizione letteraria e moderna e interroga la pittura nei suoi aspetti formali e stilistici, nonché nei suoi elementi poetici e di sostanza umana, psicologica e sociale».25 Gli ultimi elementi non possono essere desunti da un’analisi d’archivio che, pur vertendo su una filologia attributiva rilevante sul fronte scientifico e

24 Gianni Carlo Sciolla, La critica d’arte del Novecento, p. 157 25 Ibidem

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storico, manca purtroppo del raffronto con l’opera. A tal proposito, sarà la lettura dei letterati francesi di metà Ottocento, frequentatori di ateliers e mostre espositive e, quindi, promotori di una letteratura d’arte militante, a porgere due validi suggerimenti tra loro consequenziali: la critica artistica deve svolgersi in presenza, poiché solo attraverso una fruizione diretta è possibile espungere la liricità dell’opera; una volta desunta, occorre un tessuto linguistico e stilistico consono a trasporne l’essenza e la scelta più proficua ricade sul linguaggio letterario, unico a offrire tutte le sfumature lessicali necessarie.

Questo è solo un accenno (nei capitoli successivi ne approfondiremo i dettagli) alle concause che rendono Longhi un critico d’arte d’avanguardia, del quale è impossibile non cogliere la portata culturale delle innovazioni così com’è altrettanto impossibile non percepirne il fascino intellettuale che ha tanto ammaliato lo scrittore di Voghera. La critica in presenza è il primo elemento che acquisisce, perché si allinea a quella funzione reportistica della concezione d’intellettuale da lui figurata. I tanti viaggi degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se intrapresi per motivazioni primariamente accademiche e diplomatiche, gli offrono la possibilità di frequentare mostre ed eventi artistici non solo nazionali e di affinare una critica d’arte di raffronto. Le esperienze dirette si susseguono inarrestabili e i relativi articoli, finemente curati, appaiono su diverse testate giornalistiche, tra cui «Corriere della Sera» e «La Repubblica», con cui collabora rispettivamente dal 1967 e dal 1976 (la seconda collaborazione è ancora attiva). Si annoverano, inoltre, anche inserti sulle pagine della rinomata rivista d’arte «FMR» e su quelle dell’«Espresso». Approntarne una raccolta sarà il nuovo proposito editoriale.

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È il 1985 e Arbasino, dopo una meticolosa cernita degli articoli, pubblica presso l’editore Garzanti Il meraviglioso, anzi, che dietro la veste di «vademecum per quanti sono andati o stanno andando alle mostre»,26 porge al lettore l’ennesima prova di kulturkritik, brillante e briosa, dove «i dati di memoria sono allineati con uno speciale gioco metaforico ovvero l’esercizio di un «dilettante» che mescola allegramente le cosiddette competenze».27 L’avvicendarsi delle mode artistiche, lo sfruttamento delle preferenze di un pubblico medio per una scelta espositiva più redditizia e i criteri culturali delle mostre italiane degradate sia dall’assenza di opportune sale d’esposizione sia dall’allestimento in luoghi già di per sé densi di cultura sono solo alcune delle riflessioni che emergono dalla lettura progressiva di questa raccolta. Inoltre, qui confluisce anche parte della storia sociale dell’arte che, sviluppatasi in Europa a partire sempre dagli anni Cinquanta, contrapponeva alla visione dell’arte come sistema autonomo e in sé chiuso l’idea che essa appartenga a un sistema di relazione strutturale e sovrastrutturale. La considerazione del prodotto artistico quale documento storico-sociale e, dunque, portavoce dell’ideologia di un preciso ceto si evince in diversi luoghi della raccolta, nello specifico laddove si presta attenzione alle componenti costitutive del bene culturale: «funzione sociale dell’artista, processo di produzione, committenza, pubblico e istituzioni artistiche».28 A proposito del concetto di ‘bene culturale’, proprio a metà degli anni Sessanta un dibattito legislativo, cui tra l’altro partecipa anche Longhi, aveva tentato di affrontarne la definizione, approfondendo anche le relative problematiche di tutela, restauro, valorizzazione e fruizione. Arbasino, sempre più prossimo alla fase ‘civile’, non si sottrae a un impegno

26

Gianni Carlo Sciolla, La critica d’arte del Novecento, p. 160

27 Letizia Paolozzi, Il critico delle mostre, «L’Unità», 20 luglio 1985 28 Gianni Carlo Sciolla, La critica d’arte del Novecento, p. 234

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intellettuale tanto che la sua posizione risuona in queste pagine e nei testi pubblicati in seguito. Lo sguardo, volto durante tutto l’arco della sua attività di critico d’arte alle questioni suddette, parte dalla visibile disparità tra il ricco e pregiato patrimonio nazionale e, purtroppo, la scarsa competenza espositiva italiana; a ciò si aggiunge il contatto, avvenuto nei molti viaggi, con istituzioni museali estere le cui politiche, sebbene, come vedremo, discutibili per taluni aspetti, hanno comunque il merito di porgere i meritevoli omaggi al patrimonio culturale attraverso misure di allestimento pensate ad hoc. Questa nervatura argomentativa permane, quale sostrato critico, nei numerosi articoli che dal 1985 si avvicendano ancora oggi sulle pagine del quotidiano «La Repubblica», impegnandolo in quel giornalismo culturale che lo ha sempre visto attivo.

Tuttavia, ne tralasciamo l’analisi in questa sede per motivazioni logistiche che ci spingono a occuparci delle pubblicazioni maggiori; il che fa sbalzare cronologicamente il prospetto al 2000, anno di pubblicazione di Le muse a Los Angeles, testo in cui «si è felicemente risucchiati in un gigantesco mosaico ecfrastico, un’appassionata anabasi culturale di fine Novecento attraverso i musei della California che ospitano le grandi collezioni d’arte classica ed europea».29 A differenza della precedente prova editoriale, questo volume non è un compendio di articoli, sebbene alcuni inserti siano estrapolati da materiale giornalistico riadattato opportunamente. Esso nasce, infatti, da un’ambizione più alta: il progetto iniziale, risalente all’estate del 1999, prevedeva già l’idea di una visita guidata per il lettore all’interno del nuovissimo Getty Center, ma la prima stesura aveva da subito denunciato «un che di frettoloso e di monco, quasi il

29 Roberto Andreotti, «Le Muse a Los Angeles» Un viaggio come un romanzo tardo antico, in Alberto

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senso di una limitazione autoimposta per non uscire dal quadro invadendo la cornice»;30 da qui, «l’immediata percezione della necessità di ampliare, di trasformare la «visita guidata» in una libera escursione»,31 giocata su divagazioni, aneddoti, paragoni e associazioni. Questo ha permesso il raggiungimento di quello stile ‘arbasinesco’ di cui parla Raffaele La Capria nella presentazione del saggio per il Premio Ischia:

Con [questo libro] Alberto Arbasino aggiunge un altro capitolo alla sua Commedia, non divina e nemmeno umana, bensì “linguistica” […]. Servendosi di vari generi, romanzo, saggio, diario, libro di viaggio, reportage giornalistico ecc… - di una lingua resa duttile, vibrante, ironica, febbrile, iperbolica – di una struttura fatta di accumulo, di estro, di continui rimescolii e di irresistibili accostamenti […] egli ha divorato […] uomini e cose, situazioni ed eventi, oggetti e soggetti, opere d’arte e opere letterarie. […] Raramente capita di leggere un saggio sull’arte e scoppiare a ridere per il divertimento, per il piacere di conoscere, e per il piacere del testo, come capita leggendo questo libro.32

Un saggio coinvolgente e frizzante che, pur proponendo una piacevole scoperta delle tante opere d’arte emigrate nel continente americano, non manca di conversazioni venate di frequenti punte polemiche. La potenzialità di una critica d’arte di raffronto, che l’occasione reca in sé, è qui totalmente sfruttata e declinata in più direzioni: ancora una volta Arbasino si abbandona alla denuncia della situazione artistica e museale italiana che non ha possibilità alcuna di gareggiare con quella statunitense circa sedi espositive e politiche di acquisizione. Nulla rimane taciuto in queste pagine di

30

Elena De Angeli, Editing, in Alberto Arbasino, p. 291

31 Ibidem 32 Ibidem

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vorticoso parlare: istantanee di quadri il cui passato secolare racconta circostanze storiche che ne motivano il soggetto, esperienze biografiche degli autori che ne supportano l’atto creativo, avvicendamenti di proprietà che ne scandiscono le vicissitudini, raffronti con altre opere che ne illuminano o la relazionalità o l’autonomia del soggetto e molto altro di cui parleremo nei capitoli successivi.

L’ultima tappa monolitica è la monografia dedicata ad Antonio Allegri detto il Correggio, pubblicata nel 2008 dalla casa editrice Electa nella collana Pesci rossi, la quale ospita quella tipologia di saggi brevi illustrati con riferimento al racconto del quadro omonimo di Matisse scritto da Emilio Cecchi nel 1920. Questo testo spicca non soltanto perché, all’interno della sua produzione d’arte, è il primo esempio di monografia, ma anche perché fornisce un’opportuna galleria d’immagini a supporto della seducente e avvincente esplorazione di questo maestro del Rinascimento italiano, racchiusa in sole venti pagine. Nonostante la brevità del testo, spiazzante se si pensa alla caratterizzante scrittura-fiume dell’autore, l’insolita capacità di traduzione dell’immagine da trasferire sulla pagina, che oltrepassa ogni rigida e precostituita categoria critico-metodologica, non è inficiata, anzi qui, più che altrove, la forza espressiva gareggia magnificamente con il dato descritto. Tuttavia, il primo approccio con il “pittore che dipingeva l’aria” avviene già nel 1990, quando scrive in collaborazione con lo storico d’arte inglese, Francis Haskell, La cupola del Correggio in

S. Giovanni a Parma: dopo il restauro. Già qui l’intento di restituire l’eccezionalità

riformatrice di un genio, spesso surclassato dai grandi artisti del XVI secolo (Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Leonardo), mostra il doversi misurare con quello «stile dolcemente fluido, capace di creare un universo vorticoso, nuvolare e visionario che schiude le buie e tenebrose cupole e volte delle cattedrali medievali, suscitando

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nei fedeli l’illusione dell’immensa gloria dei cieli».33 Per smentire le consuete opinioni di un Correggio troppo «grazioso, sdolcinato, smanceroso, manierato»,34 si impegna a elogiarne «l’incanto musicale e il tepore poetico»,35 servendosi di «destrezze verbali che appaiono ragguagli e formali razionalizzazioni»36 del dato visivo.

Trasporre la sublime grazia del Correggio si rivela, dunque, una prova ardua e impegnativa, soprattutto perché il primario intento di questa monografia è quello di rendere i dovuti omaggi a un artista per troppi anni rimasto incompreso e in sordina, ma Arbasino vi riesce egregiamente con quello sferzante humour che apre «indubitabilmente a nuovi e inattesi orizzonti emozionali e interpretativi».37

Volto al termine questo camminamento ecfrastico, che lo vede attivo sin dagli anni Cinquanta e i cui risultati stilistici saranno approfonditi nei prossimi capitoli, si può agilmente dedurre che

all’operazione arbasiniana sembra esservi sottesa una nuova teoria della critica d’arte, poiché perdendosi nel mare magnum delle affermazioni, delle citazioni e dei fatti riportati in modo frammentario e insolito, ci si ritrova disorientati, a testimonianza forse della indicibilità e incomprensibilità di quel meraviglioso visibile

parlare che lascia tralucere in superficie solo sbalordente bellezza.38

In questa sede, essendo liminare, abbiamo proposto la contestualizzazione dei principali volumi incentrati sull’arte figurativa, anche se è bene ricordarne altri - quali

Ritratti italiani, Sessanta posizioni, Un paese senza, Dall’Ellade a Bisanzio - che, pur

33

Giuseppe Varone, Le riscritture dell’inverosimile: Correggio di Alberto Arbasino.

34 A. A., Su Correggio, p. 7 35

Ibidem

36

Giuseppe Varone, Le riscritture dell’inverosimile: Correggio di Alberto Arbasino.

37 Ibidem 38 Ibidem

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presentando argomenti politici, sociali e culturali, offrono una casistica di riferimenti e riflessioni circa la condizione artistica italiana e no suppletiva che non andrebbe trascurata.

Prima di addentrarci nello studio formale e argomentativo dei testi figurativi di Arbasino sinora menzionati, è opportuno tracciare il percorso che genera la cosiddetta ‘funzione’ Longhi che tanto ha ispirato, motivato e investito la produzione ecfrastica del Nostro.

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CAPITOLO II

Le prospettive metodologiche di Roberto Longhi

Il magistero di Longhi, irradiatosi dalle lezioni universitarie bolognesi e fiorentine di storia dell’arte, cui partecipano intere generazioni di futuri romanzieri, poeti, cineasti, dalle iniziative editoriali, dalle esposizioni e dalle mostre storiche, si estende in realtà a un’area più vasta della letteratura italiana del secondo Novecento. Alcune delle sue peculiarità stilistiche sono presenti in personalità letterarie italiane che a vario titolo sono strettamente legate allo studioso e alla rivista da lui fondata, «Paragone». Il primo numero appare nel gennaio del 1950 e, essendo una rivista bipartita in una sezione letteraria e in un’altra storico-artistica, catalizza la vita culturale non solo italiana. Fra i membri del comitato editoriale si alternano, oltre naturalmente a Banti, Bassani e Bertolucci, anche Gadda, Giovanni Raboni, Cesare Segre, tutti accomunati dall’intento sia di proporre le novità letterarie e artistiche più interessanti sia di promuovere correlazioni culturali tra questi due campi semiotici, perseguendo la convinzione intellettuale di una loro intima interdipendenza. Tra gli scrittori, che collaborano a «Paragone», si trova anche Arbasino, nei cui scritti l’importanza del

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‘metodo Longhi’ sembra configurarsi quale valida alternativa ai presupposti soggettivistici della psicologia e della gnoseologia più tradizionali.

«Ripercorrere il filo dei rapporti di Arbasino con il più grande storico dell’arte del Novecento, quale emerge dai suoi testi, sarebbe impresa non peregrina».39 Infatti, il nome di Longhi è più volte evocato in termini intellettuali, ma anche sinceramente affettuosi. Numerosi sono gli articoli in cui nostalgicamente lo scrittore lombardo rammenta il periodo probabilmente più stimolante e creativo della nostra cultura, quando l’eterogeneità delle personalità coinvolte pungolava la sperimentazione creativa e la commistione metodologica dei differenti campi artistici. In una lettera del 28 aprile 2008, Arbasino rievoca i primi incontri con Longhi:

C’era ogni estate il mitico Caffè Roma al ‘quarto platano’ di un viale al Forte dei Marmi. Qui si trovavano in ogni fine di pomeriggio, in abiti modestissimi, i villeggianti abituali con casette locali: Longhi e Banti, Bertolucci e Bianchi con le mogli, Carrà e Pea con baschetto blu, Giuseppe De Robertis […]. Verso le sette, arrivavo lì in Lambretta […] con l’impressione che parecchi numeri di “Paragone” venissero preparati lì, fra un cinzanino e un crodino.

Oltre ad ammirarne il ruolo culturale, Arbasino ne offre al lettore l’immagine di un amico brioso e ironico, ricordandolo in più occasioni mentre si cimentava nelle «imitazioni di Mina alla Bussola, per spiazzare gli ossequiosi. Gettando nell’angoscia i carrieristi dei concorsi e delle cattedre»40 o nell’«imitazione di Sam Jaffe, il capo- gangster ‘scientifico’ di Giungla d’asfalto».41 Meritano di essere annoverate en passant

39

G. Agosti, Dal neoclassico al postmoderno, in Alberto Arbasino, p. 211

40

A. A., Quando ci vedevamo da Feltrinelli, «La Repubblica», 19 febbraio 2013

41

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anche alcune pagine narrative dove la figura del critico muove interi episodi o dove il suo lavoro funge da ambientazione: una dell’Anonimo lombardo dove il protagonista e il ragazzo da lui amato si incontrano nelle sale della mostra longhiana Dal Moroni al

Ceruti; altre di Fratelli d’Italia dove le visite alla mostra mantovana del Mantegna e a

quella veneziana del Crivelli sono una trascrizione dello scritto longhiano Due mostre

interferenti e la cultura artistica del 1961; infine, una pagina della Bella di Lodi in cui il

critico piemontese appare come avventore di un caffè della Versilia. Le dichiarazioni di devozione e ammirazione circa il lavoro e il metodo del celebre critico nascono, invece, dal legame strettamente professionale esperito nelle prime prove letterarie del Nostro, comparse sulla rivista «Paragone» fin dagli anni Cinquanta. L’eredità di chi, insieme a Gadda, è stato un maestro operante «nel palazzo della letteratura come un sultano o un maragià»,42 è un evidente sostrato all’interno del lavoro critico arbasiniano e lo si evince soprattutto in talune scelte stilistiche, come lui stesso ammette:

Io ho sempre avuto la tendenza (per istinto, o magari per abitudine), invece che ad usare degli aggettivi più o meno generici, a servirmi in funzione aggettivale dei riferimenti visivi che in un’epoca come la nostra sono immediatamente chiari a tutti. Quando si cercano cinque o sei sinonimi di una parola che esprime un concetto qualunque, si esauriscono in un momento e l’effetto ovviamente rimane molto più generico e astratto. Queste similitudini sono gli equivalenti verbali all’esperienza visiva, un po’ come faceva Longhi con i quadri. 43

42

A. A., Le camicie casual di Roberto Longhi, «La Repubblica», 1 settembre 1992

43

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Occorre precisare in limine che Longhi funge per il nostro autore da modello sia per le direttive relative la descrizione ecfrastica sia per la scrittura saggistica sia per le questioni orbitanti intorno al mondo dell’arte, cui dedicheremo opportune sezioni senza però trascurare gli apporti e le soluzioni personali di Arbasino. D’altronde, che il critico d’arte piemontese sia una figura strategica e incomparabile nel panorama saggistico per le sue copiose, specifiche, tecniche, illuminanti e lungimiranti trattazioni artistiche è inopinabile, ma ciò di cui ci occuperemo in questa sede sarà più nello specifico l’eco stilistica del suo operato, perché ricordando le parole di Contini «Longhi non fu un critico e storico più scrittore. La realtà dell’uno fu, con corrispondenza che m’attenterei a chiamar biunivoca, la realtà dell’altro».44 Vedremo di seguito in primo luogo i momenti salienti della formazione e della ricerca longhiane, che lo decreteranno il più grande storico dell’arte italiano del Novecento, e in secondo luogo quali siano gli strumenti retorici e stilistici avvertiti dalla schiera d’intellettuali a lui prossima, e più specificatamente da Arbasino, come risposta alternativa alle prescrizioni tradizionali.

II.1 La tensione longhiana alla perfezione

Il commento di Longhi non si confonde con quello di nessun altro. Il suo discorso di fronte all’opera d’arte, luminoso e preciso, nell’elaborazione finale assumeva un tono vivo, esigente e ricercato. Questo dono riconosciuto da tutti non fa di lui soltanto un grande

44

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scrittore […]; mi sembra piuttosto dimostrare che una certa volontà di stile può essere uno dei mezzi indispensabili per lo storico.45

Apriamo intenzionalmente con questa citazione, affinché sia chiaro il punto focale dell’indagine che si articolerà di seguito, ossia «l’ampiezza, la dignità e l’efficacia uniche»46 della pagina longhiana. Tuttavia, non possiamo esimerci dal considerare l’eterogeneo sostrato intellettuale e critico in cui egli si forma, la cui trattazione per la complessa e multiforme natura meriterebbe di debordare dallo spazio qui dedicatogli.

L’operazione di Longhi, sebbene storiografica nei suggestivi resoconti di intere epoche e ambienti professionali e culturali, «si può iscrivere agevolmente nella narratologia, per l’ovvia ragione che risalire da alcuni dati sperimentabili a ricostruzioni di fatti e a serie di ipotesi è sempre dare spago a sistemi narrativi».47 Gli insegnamenti accademici del Toesca, che miravano alla considerazione dell’opera d’arte come intimo documento della vita, del costume, della storia di un periodo, si riflettono nel pensiero più volte ribadito dall’allievo che “l’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto” e, proprio perché prodotto umano immerso nella storia dell’arte, essa è giudicabile eminentemente per comparazione e correlazione. In tale approccio si rispecchia, come ricorda Mengaldo, il panorama della critica italiana dell’epoca e il suo carattere tendenzialmente antimonografico. «L’adesione alla storia Longhi la realizza nella lettura dell’opera, mai in quella dei documenti che la riguardano, e tanto meno, in quella, spesso soltanto ipotetica, o addirittura fantastica, […] una vera opera d’arte

45

André Chastel, Roberto Longhi: il genio dell’«ekphrasis», in L’arte di scrivere sull’arte, Previtali, pp. 56-57

46

Ibidem, p. 57

47

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~ 38 ~

non riflette ma esprime».48 La lettura diretta dell’opera come documento parlante si esprime nell’antica pratica dell’atto letterario di fronte al manufatto artistico. L’interrogazione continua e personale del bene culturale permette l’intendimento di quella che è «la trama più sottile del tessuto di gesti infinitesimali e continui che l’hanno composta»,49 in cui convergono sia l’aspetto scientifico dello studio filologico e attribuzionistico dell’opera figurativa sia quello psicologico e imponderabile delle reazioni emotive dello spettatore.

II.2 I due volti del giovane Longhi

Le Avvertenze per il lettore del 1961, poste a introduzione degli Scritti giovanili, rappresentano un valido supporto per la comprensione dei propositi e della biografia culturale di Longhi e offrono una visione più meditata e strutturata dell’apporto metodologico scientifico, essendo state concepite a una distanza cronologica di quasi quarant’anni dalla pubblicazione degli scritti stessi. Gli anni che abbracciano la formazione universitaria e giungono sino al 1914 sono probabilmente i più densi e decisivi, poiché egli consuma esperienze che per qualità e quantità rivelano la vastità e la profondità della sua ricerca, desiderosa di valicare i limiti di una critica oramai sepolta e avvizzita.

Alla severa linea di filologia visiva del periodo accademico, trascorso sotto l’egida prima di Pietro Toesca a Torino e poi di Adolfo Venturi a Roma, si affianca un’indagine

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Briganti, La giornata di Longhi, in L’arte di scrivere sull’arte, a cura di Previtali, p. 42

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autonoma e alternativa che parte dal confronto con l’estetica di Benedetto Croce per approdare dapprima ai saggi di Bernard Berenson e poi ai teorici della puravisibilità. Le restrizioni accademiche, in cui si forma, sono ben tracciate a posteriori sempre nelle

Avvertenze per il lettore:

Basti rammentare che, ferma restando la presenza di due grandi figure di studiosi come il vecchio Venturi e il Toesca, storia e critica d’arte procedevano disgiunte. La ricerca storica durava in un indistinto carattere tra archivistico e informativo, puramente nozionale; la critica, specialmente d’arte moderna, non aveva alcun sentore del grande rinnovamento artistico europeo del cinquantennio precedente.50

Sarà la formula del docente torinese, «parole non possono dire», a instillare nel giovane la necessità di una soluzione critica che risolva l’impossibilità di tradurre il fatto figurativo in linguaggio cui si aggiungeranno, tra l’altro, la presa di coscienza di agire in un ambiente universitario arroccato in teorie stantie e limitanti e la consequenziale esigenza di partecipare a quelle «discussioni sbandate» sulla critica d’arte esterne proprio a questo contesto. Infatti, nel 1912, sebbene continui la carriera accademica presso la scuola di perfezionamento di Adolfo Venturi a Roma, il discrimine tra ricerca storica e critica figurativa continua a crucciare Longhi i cui tentativi di risoluzione si possono dedurre dalle collaborazioni intraprese con «La voce» e «L’Arte», le quali gli consentono sia di cimentarsi in una critica militante sia di soddisfare, per il differente spirito editoriale delle due riviste, l’ambivalenza intellettuale che lo pungola. «Per un giovine lacerato dai contrasti delle idee e

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