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Valutazione degli effetti relativi all'applicazione di reti monofila multifunzione su melo (Malus domestica) biologico

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

Corso di Laurea Magistrale in

Produzioni agroalimentari e gestione degli agroecosistemi

Valutazione degli effetti relativi all’utilizzo di reti

monofila multifunzione su melo (Malus domestica)

biologico

Relatore

Candidato

Prof. Damiano Remorini

Camilla Gualdani

Correlatore

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INDICE

INDICE ... 1 RIASSUNTO ... 3 1 INTRODUZIONE ... 4 1.1 Il melo ... 4 1.1.1 Origini e diffusione ... 4

1.1.2 Classificazione botanica e caratteristiche morfologiche ... 4

1.1.3 Il mercato delle mele ... 7

1.2 La coltivazione del melo ... 12

1.2.1 Portinnesti e propagazione ... 12

1.2.2 Sesti di impianto e forme di allevamento ... 15

1.2.3 Principali varietà coltivate ... 16

1.3 Principali avversità del melo ... 19

1.3.1 Carpocapsa (Cydia pomonella) ... 20

1.4 Principali strategie di difesa ... 23

1.5 Scopo della tesi ... 28

2 MATERIALI E METODI ... 29

2.1 Materiale vegetale e descrizione del sito di prova ... 29

2.2 Descrizione del sistema di copertura impiegato (Keep in touch® system) ... 31

2.3 Campionamento dei frutti ... 32

2.4 Rilievi eseguiti in campo ... 33

2.5 Rilievi eseguiti in laboratorio ... 34

2.5.1 Determinazione dei parametri pomologici ... 34

2.5.2 Determinazione del contenuto in fenoli, antociani, carotenoidi e clorofille totali .... 35

2.5.3 Determinazione della capacità ossidante ... 38

2.6 Analisi statistica dei dati ... 39

3 RISULTATI ... 40

3.1 Rilievi fisiologici ... 40

3.1.1 Fotosintesi netta ... 40

3.1.2 Conduttanza stomatica ... 40

3.1.3 Concentrazione intercellulare della CO2 nella foglia ... 41

3.2 Rilievi pomologici ... 42

3.3 Parametri chimici, nutritivi e nutraceutici ... 50

3.3.1 Contenuto in composti fenolici ... 50

3.3.2 Antociani ... 52

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3.3.4 Capacità antiossidante ... 55

3.3.5 Carico fruttifero ... 57

4 DISCUSSIONE ... 58

4.1 Rilievi fisiologici ... 58

4.2 Caratteristiche qualitative dei frutti ... 60

4.2.1 Caratteri qualitativi estrinseci ... 60

4.2.2 Caratteri qualitativi intrinseci ... 62

5 CONCLUSIONI ... 68

Bibliografia ... 70

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RIASSUNTO

L’impiego di sistemi di copertura è sempre più diffuso negli impianti di alberi da frutto. Nei meleti le reti svolgono una funzione protettiva nei confronti dalle principali avversità abiotiche, in particolare grandine e intensa radiazione solare, e biotiche, soprattutto insetti tra cui la Carpocapsa (Cydia

pomonella). L’ombreggiamento causato dalle reti, tuttavia, può modificare il microclima all’interno

del frutteto e ridurre la luce intercettata dalla pianta, con ripercussioni sulla produzione e sul profilo qualitativo e nutraceutico delle mele.

Nella presente tesi sperimentale è stato valutato l’effetto di una copertura monofilare (sistema Keep in

touch) sulle caratteristiche qual-quantitative dei frutti in un meleto biologico commerciale della

Valdichiana aretina. Il principale effetto registrato è stato l’incremento del carico fruttifero e l’assenza di danni da grandine, carpocapsa o scottature in due varietà (Goden Deliciuos e Red Chief). L’utilizzo delle reti ha però influito negativamente su alcune caratteristiche qualitative dei frutti come peso, sovraccolore e contenuto in zuccheri in Red Chief, probabilmente a causa del ridotto tasso fotosintetico dovuta all’ombreggiamento, anche se i frutti risultavano migliori in durezza e concentrazione fenolica. Il sistema di copertura utilizzato non ha mostrato variazioni significative sulle attività fisiologiche della pianta e su alcune delle caratteristiche qualitative in Golden Delicious, sebbene le reti abbiano influenzato negativamente il profilo nutraceutico dei frutti.

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1 INTRODUZIONE

1.1 Il melo

1.1.1 Origini e diffusione

Le piante di melo attualmente coltivate sono il risultato di una complessa e lunga evoluzione genetica, avvenuta in natura, presumibilmente in epoca preistorica (Sansavini e Fideghelli, 2008). Malus ×

domestica Borkh è una delle specie da frutto più coltivate del genere Malus che comprende circa

25-30 specie e molte sottospecie, alcune delle quali sono coltivate come alberi ornamentali per la loro abbondante e attraente fioritura (Janick et al., 1996). Il centro di origine del genere Malus è rappresentato dalle regioni situate tra l’Asia minore, il Caucaso, la Russia asiatica centrale e la Cina occidentale (Way et al., 1991), come ebbe modo di dimostrare già negli anni ’50 dello scorso secolo il celebre agronomo, botanico e genetista russo Nikolai Vavilov (Pereira-Lorenzo et al, 2009). Il melo coltivato deriva dal pool genico di Malus sieversii, presente proprio in questo areale, precisamente nelle montagne del Tien Shan in Kazakistan. In base alle attuali informazioni di carattere storico, archeologico, botanico e genetico, si ritiene plausibile che alcuni nuclei di M. sieversii siano migrati a partire dal loro centro di origine sia verso est in direzione della Cina sia verso ovest in direzione dell'Europa. La prima dispersione avvenne ad opera di uccelli e grandi mammiferi come orsi e cavalli e, a partire dal Neolitico, anche ad opera dell’uomo, che imparò a sfruttare le rotte migratorie degli stessi animali poi diventate rotte commerciali note con il nome di Via della Seta. Durante questi spostamenti, il verificarsi di ripetuti fenomeni di incrocio con altre specie selvatiche del genere Malus ne hanno ulteriormente arricchito il genoma. Tra le specie che probabilmente hanno contribuito alla composizione genetica del melo domestico si annovera Malus orientalis del Caucaso, Malus sylvestris europeo, Malus baccata della Siberia, Malus prunifolia della Cina, Malus asiatica e Malus fluribunda. Queste specie, nonostante non eccellessero in qualità, in quanto dotate di frutti di piccole dimensioni e dal sapore aspro ed astringente, verosimilmente hanno facilitato l’introgressione di geni responsabili di caratteristiche importanti quali la resistenza alle malattie e agli insetti, l’adattabilità alle diverse condizioni climatiche, la maggiore conservabilità e unitamente a pratiche colturali come la selezione di semenzali e la propagazione vegetativa mediante innesto hanno facilitato il mantenimento della variabilità genetica durante il processo di domesticazione.

1.1.2 Classificazione botanica e caratteristiche morfologiche

Nel 1753 il medico e botanico svedese Linneo riunì le differenti specie di melo sotto il genere Pyrus insieme al pero e al cotogno classificandole come Pyrus malus, distinguendo le diverse tipologie di

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diversi. Il genere Malus appartiene alla famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia Pomoideae. Le specie primarie sono suddivise in 5 sezioni (Malus, Sorbomalus, Eriolobus, Chloromeles, Docyniopsis) tra cui la più importante è la sezione Malus suddivisa, a sua volta, in tre subsezioni (Pumilae, Sieboldinae,

Kansuenses). Le prime due subsezioni comprendono le specie che hanno contribuito alla selezione

delle varietà coltivate oggi, classificate come Malus × domestica Borkh (Fideghelli, 2008).

Il melo coltivato è una specie arborea a foglia caduca le cui dimensioni, su franco, variano dai 5 ai 12 metri di altezza, ma che nella frutticoltura moderna sono molto generalmente ridotte grazie all’utilizzo di portinnesti nanizzanti. L’apparato radicale è fascicolato e superficiale, il portamento può essere di diverse tipologie tra cui le più comunemente diffuse sono l’eretto, l’espanso e il pendulo. La forma della chioma dipende principalmente dall’angolo di inserzione delle branche primarie sul tronco e dalle branche secondarie sulle primarie, ma anche dalla vigoria e dalla frequenza dei diversi tipi di rami da frutto. Le piante nate da seme sono caratterizzate da una lunga fase giovanile di durata variabile da 4 a 8 anni; durante questo periodo improduttivo le piante sono spinescenti, presentano foglie di piccole dimensioni e non differenziano gemme miste. La corteccia dei rami è di norma di colore rosso-bruno, liscia e presenta lenticelle evidenti. La corteccia del tronco e delle branche, di colore grigio, nella fase di crescita manifesta evidenti screpolature e con il trascorrere degli anni diventa rugosa. I rami sono germogli lignificati di un anno di età che possono essere distinti in rami a legno, se provvisti di sole gemme a legno, o rami a frutto se presentano sia gemme a legno sia gemme miste. Quest’ultime nel melo sono sempre in posizione apicale o subapicale e dal momento che contengono l’apice vegetativo e i primordi dei fiori, risultano più grandi e tondeggianti rispetto alle gemme a legno che sono piccole, appuntite e in posizione laterale. Particolari tipi di rami a legno sono i succhioni originati da gemme avventizie o gemme latenti presenti sulle branche e i polloni originati dalle radici o dal colletto. Nel melo i rami a frutti comprendono il brindillo, la lamburda, la borsa e il ramo misto. Il brindillo coronato è un ramo esile lungo da 10 a 30 centimetri che presenta una gemma apicale mista e gemme laterali a legno mentre il brindillo vegetativo si differenzia da quello fertile per la presenza di sole gemme a legno. La lamburda si distingue in lamburda vegetativa e in lamburda fiorifera. La prima è un ramo molto corto (lunghezza massima7-8 cm), tozzo, provvisto di una sola gemma terminale a legno che nell’anno successivo evolverà in lamburda fiorifera provvista di una gemma mista terminale. La borsa, così chiamata per la forma, deriva dall’ingrossamento della parte basale dell’asse dell’infiorescenza dell’anno precedente e porta gemme vegetative che danno origine a lamburde e brindilli. Una borsa che supera i tre anni di età prende il nome di zampa di gallo. Le foglie del melo sono alterne, di colore verde intenso, di forma ovale e di dimensioni variabili. La pagina superiore è generalmente glabra, mentre quella inferiore è tomentosa; la lamina fogliare può essere piatta, concava o ondulata. Il margine può essere crenato, dentato o seghettato. Il picciolo ha una lunghezza diversa in base alle varietà ed è generalmente provvisto alla base di stipole. I fori sono monoici ed ermafroditi, raggruppati in infiorescenze (corimbi), portati da gemme miste che si differenziano l’anno precedente quello della fioritura (solitamente in luglio). Il fiore del melo (Figura 1) è quello tipico delle Rosaceae e dunque

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pentalobato, costituito da un calice con 5 lobi, persistente nei giovani frutti, in alcune specie caduco alla maturazione del frutto o poco prima e da 5 petali di colore generalmente bianco o bianco rosato, ma anche rosa o rosso, di forma e dimensioni diverse. L’androceo è costituito da stami in numero di 15-20 con antere di colore giallo, il gineceo è invece composto dall’ovario in posizione infera, suddiviso in 5 logge contenenti ciascuna due ovuli e provvisto di 5 stili filiformi con stimmi di colore giallastro. Il numero di carpelli è inferiore a 5, fino a un minimo di 2 (Malus fusca). I fiori, in numero di 4-9, sono riuniti in un corimbo provvisto di una rosetta di foglie. La fioritura del corimbo inizia dal fiore centrale dotato di peduncolo più corto, il cosiddetto ‘king flower’, dura 10-15 giorni e avviene, alle nostre latitudini, nel mese di aprile.

Figura 1 - Sezione verticale del fiore di melo (Fonte Comune di Cles).

Dal king flower ha origine un frutto che frequentemente è temporalmente il più precoce e di dimensioni maggiori rispetto agli altri. Nonostante la presenza del fiore ermafrodita che potrebbe indicare la possibilità di un’autoimpollinazione, il processo di evoluzione ha portato alla formazione di barriere genetiche che impediscono la fecondazione tra i fiori della medesima pianta, promuovendo così l’allogamia. Il melo, infatti, a causa di una sterilità di tipo fattoriale, è generalmente autoincompatibile e la fecondazione avviene solo attraverso incrocio intervarietale compatibile. Per la costituzione di un meleto in campo, è quindi necessario che esso sia composto da più cultivar tra loro intercompatibili, di cui almeno una sia buona impollinatrice e che produca abbondante polline, compatibile e germinabile. Essa deve fornire una fioritura piuttosto lunga, almeno contemporanea o lievemente anticipata rispetto alla cultivar da impollinare. L’entità della fioritura e la qualità di questa è determinata dalle caratteristiche genetiche delle cultivar, dalle condizioni ambientali e dalla gestione agronomica (Koutinas et al., 2014). Il polline del melo è relativamente pesante e grumoso, l’impollinazione è entomofila e necessita di insetti pronubi. Dall’impollinazione incrociata del melo si

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cutinizzata e cerosa chiamato epicarpo, da un mesocarpo polposo solitamente di colore bianco-bianco crema, e da un endocarpo coriaceo composto da 5 logge, avvolte da 5 carpelli, contenenti due semi ciascuna avvolti nel midollo del ricettacolo (Figura 2). All’esterno si trovano una cavità peduncolare e dalla parte opposta una cavità calicina. Si tratta di un prodotto che matura nell’arco di tre mesi a seconda della varietà e del ciclo di maturazione, ma che può essere consumato lungo tutto l’anno per le sue capacità di conservazione (Janick et al., 1996).

Figura 2 - Sezione longitudinale della mela e conformazione della sua buccia (Fonte CRIOF).

1.1.3 Il mercato delle mele

Il melo è la quarta coltura frutticola mondiale più importante dopo gli agrumi, l’uva da tavola e le banane (Forsline et al., 2003), ed è la specie da frutto più coltivata nelle zone temperate dopo vite, olivo ed agrumi. Nel 2019 la superficie destinata alla coltivazione del melo ha sfiorato i 4,8 milioni di ettari con una produzione mondiale di oltre 87 milioni di tonnellate (FAOSTAT, 2019) destinate al consumo fresco e in piccola parte alla trasformazione per mano dell’industria alimentare. Di seguito sono analizzati l’andamento delle produzioni melicole (Figura 3) e delle relative superfici di coltivazione a livello globale dal 1961 al 2019 (FAO).

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Figura 3 - Andamento della produzione e delle superfici coltivate a mele a livello mondiale dal 19961 al 2019 (FAOSTAT).

La produzione globale di mele nel 1961 ammontava complessivamente a 17.053.651 tonnellate, proveniente da una superficie di coltivazione di 1.720.998 ettari. Nel 1970 la produzione venne censita in 27.005.725 t, maggiore quasi del 59% rispetto al 1961, grazie all’aumento di circa il 64,4% dell’area di coltivazione, che nel 1970 raggiunge i 2.777.907 ha. Anche negli anni successivi le rese aumentarono più o meno costantemente registrando nel 1979 una produzione globale pari a 36 milioni di tonnellate e nel 1990 di oltre 41 milioni. La massima estensione dell’area coltivata a melo è stata raggiunta nel 1995 ed è stimata in 6.331.232 ha, destinati a diminuire negli anni successivi. La produzione corrispondente a tale estensione massima ha sfiorato i 49 milioni di tonnellate. La causa principale dell’aumento della produzione mondiale negli anni ‘90 è da attribuire alla esponenziale espansione del melo nel continente asiatico, in particolar modo in Cina. Nel 2000 la produzione mondiale di mele è stata censita in 59.130.404 t, mentre la superficie coltivata ha evidenziato un andamento decrescente rispetto al 1995, con 5.448.972 ha a melo. L’aumento più che proporzionale delle produzioni melicole rispetto alle relative aree di produzione è il risultato di un binomio che vede, da un lato, l’introduzione di nuove varietà con elevata capacità produttiva e, dall’altro, l’incremento della densità d’impianto. Nel 2009 sono state raccolte 71.638.292 t di mele e negli anni successivi la produzione ha continuato a crescere fino ad arrivare a quasi 86 milioni di t prodotte nel 2018, su di una superficie di 4.645.405 ha. Dal confronto della produzione del 2019 con quella globale degli anni precedenti si evince un aumento del 47,5% rispetto al 2000, del 112,5% rispetto al 1990, del 157% rispetto al 1980 e addirittura dell’400% rispetto al 1961. In Figura 4 è riportato l’andamento della produzione mondiale con riferimento ai diversi continenti nell’anno 2019 (FAO). Le aree maggiormente coinvolte sono l’Asia, che nel complesso contribuisce con il 65%, seguita dall’Europa con il 20% e dal continente americano con l’11%.

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Figura 4 - Produzione di mele per continente nell’anno 2019.

Il maggior contributo produttivo è fornito dalla Cina, leader mondiale nella produzione di mele con oltre 42 milioni di t di frutti raccolti nel 2019. Al secondo posto dei Paesi produttori si trovano gli USA con una produzione di quasi 5 milioni di tonnellate seguiti dalla Turchia con 3,6 milioni di t di mele. In riferimento al panorama europeo, nel 2019 sono state prodotte 12.044.780 t di mele su di una superficie di 518.140 ha, attualmente le nazioni che ricoprono il ruolo dei maggiori produttori sono la Polonia, l’Italia e la Francia, seguite da Germania e Spagna. Nel 2019 la produzione di mele in Europa è calata del 19% rispetto alla produzione record dell’anno precedente, il maggior produttore di mele è stato la Polonia con 3 milioni di t, seguita dall’Italia e dalla Francia con 1,7 milioni di t. Il mercato melicolo in Polonia e in Italia è diminuito rispetto al 2018, subendo una riduzione rispettivamente del 39,50% e 7,42% (Figura 5). Questo è il risultato di un’annata caratterizzata da condizioni climatiche difficili, dovute alla presenza di gelate, a temperature eccessivamente elevate nel mese di luglio e forti venti e grandinate. Il mercato delle mele francese, invece, ha subito una crescita dell’11,78% rispetto alla stagione precedente.

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Figura 5 - Produzione di mele in UE.

L'Italia è attualmente il secondo produttore comunitario di mele con 55 mila ha coltivati e una produzione che supera i 2 milioni di t all'anno. Le mele sono coltivate in tutta la penisola italiana ma quasi il 90% delle mele italiane è prodotto nelle regioni del Nord, in particolare nella zona dell’arco alpino e in minor misura nella Pianura Padana (Gregori et al., 2019). Stando ai dati Istat, le produzioni italiane di mele si concentrano in due grandi poli che raccolgono più del 70% della superficie totale investita: la provincia di Trento e quella di Bolzano. Durante il 2019, l’Alto Adige ha prodotto oltre 970.000 t di mele che rappresenta quasi il 50% del totale italiano, nonostante una riduzione quasi del 2% rispetto al 2018 (Figura 6). Un dato che Assomela/CSO prevede in ulteriore calo per l’anno 2020. Il trentino è secondo nella produzione melicola italiana con oltre 472 tonnellate ma con un calo che supera il 16% rispetto al 2018. Altre regioni protagoniste a livello produttivo sono il Piemonte (10%), il Veneto (8%) e l’Emilia Romagna (8%).

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La mela più diffusa in Italia è la Golden Delicious (Figura 7) con una produzione di oltre 802 mila t nel 2019, seguita da Gala (351 mila t), Red Delicious (224 mila t), Granny Smith (128 mila t) e Fuji (158 mila t).

Figura 7- Produzione di mele in Italia suddivisa per varietà.

L’Italia è il primo produttore di mele biologiche in Europa e vanta ben 6 mele a denominazione di origine riconosciute dalla UE: Mela Val di Non Dop, Mela Alto Adige Igp, Mela del Trentino Igp, Melannurca Campana Igp, Mela Valtellina Igp, Mela Rossa Cuneo Igp. La produzione di mele biologiche è in continua crescita, tanto che, per la stagione 2020 è prevista una produzione di quasi 178 mila tonnellate di mele certificate, pari all’8,5% della produzione totale, e un aumento del 14% rispetto al 2018. Sul fronte economico, la mela è il frutto italiano più esportato in assoluto ed è anche quello tra i primi quattro (mele, uva da tavola, kiwi, pomodori) a presentare l'incremento in termine di valore più importante dal 2000 con un +227% (Eurostat). Nella campagna 2019/20 la Germania si è confermata il primo cliente, con un forte incremento sia in valore (+26%), sia in quantità (+22%) rispetto alla campagna precedente. In riferimento alle importazioni italiane di mele, negli ultimi anni è stato registrato un trend crescente fino al picco massimo raggiunto nella campagna 2017/18, allorquando, in concomitanza con un raccolto 2017 deficitario per il nostro Paese, sono state importate circa 75 mila t di mele. L’approvvigionamento di mele dell’Italia avviene per lo più attraverso i partner comunitari ed in particolare Austria, Francia, Ungheria. Tra i fornitori extra UE spicca il Cile che è il terzo fornitore dell’Italia con 3.300 tonnellate ed una spesa di circa 4 milioni di euro.

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1.2 La coltivazione del melo

Il melo rappresenta ad oggi la specie frutticola dei climi temperati più importante e diffusa a livello mondiale, sia in termini di produzione che di superficie coltivata (Gregori et al., 2017). Le ragioni di tale successo risiedono nella grande adattabilità pedo-climatica di questa specie, nella facilità di propagazione, nelle elevate proprietà nutritive del frutto, nel costo sostanzialmente accessibile, nell’idoneità al trasporto e soprattutto nella facilità di conservazione dei frutti nella fase post-raccolta. Tutti questi fattori hanno portato ad un forte incremento della produzione mondiale negli ultimi anni rispetto ad altri frutti da consumo fresco. Il melo ha la capacità di adattarsi a svariati ambienti, è una coltura tipica dei climi temperato freddi ma si adatta bene ai climi piuttosto rigidi e può spingersi anche a latitudini e altitudini relativamente elevate. La specie è coltivata in tutti i continenti, in genere entro un range di latitudini compreso fra 35′ e 50′, Nord e Sud (Pereira-Lorenzo et al., 2009; Sansavini, 2008), spingendosi fino agli estremi limiti settentrionali della coltivazione delle piante da frutto (es. Siberia) e, verso sud, arrivando fino agli altipiani e alle aree montane (oltre 3000-3500 m) delle regioni subtropicali (per es. Messico, Brasile e Sudan). Inoltre, l’introduzione di varietà con maggiore adattabilità alle alte temperature (Granny Smith, Fuji, Cripps Pink) e la diffusione dell’irrigazione hanno permesso l’espansione della coltura anche in paesi a clima più caldo.

Nel nostro paese il melo è coltivato a tutte le latitudini, tollera un'escursione termica annua di circa 60 °C (da - 20 °C a + 40 °C), necessita di una temperatura media di almeno 15 °C per completare il ciclo riproduttivo (Valli, 1996).

Il melo è una pianta legnosa e perenne che inizia a produrre dopo il terzo anno dalla messa a dimora, entrando in piena produzione tra l’undicesimo ed il ventesimo anno. È caratterizzato da una buona longevità, tanto che può vivere dai 60 a 100 anni, durante i quali può ancora mantenere un’elevata produzione (Oukabli et al.,2003; Pereira-Lorenzo et al., 2009; Mimida et al., 2015). Le elevate potenzialità della pianta hanno stimolato la necessità di ridurne la vigoria, motivo per il quale verso la fine degli anni ’60 è stato proposto un nuovo sistema di coltivazione che permettesse una riduzione nel vigore per intensificare la produzione, utilizzando portinnesti a debole vigoria (Mantinger e Vigl, 2008).

1.2.1 Portinnesti e propagazione

A causa della scarsa capacità rizogena del melo non è possibile ottenere piante autoradicate da talea e le piante moltiplicate in vitro presentano caratteri che le rendono poco adatte per i frutteti moderni, ad

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campo del miglioramento genetico. Da più di 2000 anni la tecnica più utilizzata per la moltiplicazione delle varietà è l’innesto, che ha lo scopo di creare un’unione salda tra la parte radicale del portinnesto e la parte aerea della varietà, il nesto. Inizialmente la maggior parte dei portinnesti proveniva dal seme, dal quale si originava il portinnesto franco dotato di buon adattamento ai diversi tipi di terreno, buona stabilità ma anche un’elevata vigoria (Figura 8) ed una tardiva entrata in produzione.

Figura 8 – Crescita relativa delle piante di melo innestate su portinnesti diversi (Fonte Reinhold Stainer).

Il miglioramento genetico moderno dei portinnesti del melo è stato condotto prevalentemente in Inghilterra, presso la stazione di ricerca di East Malling. Da tale centro nacque la serie EM, comunemente M, e in seguito, dalla collaborazione con il centro di orticoltura John Innes di Merton, nacque la serie MM (Malling-Merton). I portinnesti della serie M afferiscono alla varietà botanica

Malus pumila paradisiaca e sono indicati con la lettera M seguita da un numero arabo, mentre i

portinnesti clonali della serie MM sono riconducibili alla varietà botanica Malus pumila praecox

gallica e vengono indicati con la sigla MM seguita da un numero arabo da 101 a 115. La melicoltura

mondiale è oggi basata sul portinnesto clonale M9, selezionato negli anni ’20 del secolo scorso da Ronald Hatton presso la stazione sperimentale di East Malling (Stainer, 2008). La frutticoltura moderna richiede che la pianta non vegeti eccessivamente, abbia un volume contenuto per facilitare e ridurre l’impiego di manodopera, non richieda troppi interventi di potatura e garantisca in breve tempo la messa a frutto con elevate produzioni annuali di frutti di qualità. Con il portinnesto M9, nella maggior parte dei casi si riescono ad ottenere tali risultati ed è per questo motivo che oggi in Europa è il portinnesto più utilizzato nella coltivazione del melo. I pregi di M9 sono la ridotta vigoria della pianta, l’adattabilità a varie situazioni pedoclimatiche, la precoce entrata in produzione e la buona qualità dei frutti che risultano di pezzatura maggiore e colorazione più intensa, e una buona resistenza al marciume del colletto (Phytophthora cactorum). Nonostante questi numerosi aspetti positivi si riscontrano anche punti deboli come la suscettibilità al fuoco batterico e all’afide lanigero, la bassa resistenza al freddo e l’attitudine pollonifera (Guerra e Holler, 2011). I programmi di selezione in atto

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mirano ad ottenere delle alternative a M9, puntando su portinnesti resistenti al colpo di fuoco batterico, alla stanchezza del terreno, agli scopazzi e in grado di contenere la vigoria della pianta. Per quanto riguarda i portinnesti della serie MM, pur essendo meno utilizzati, trovano impiego in certi ambienti collinari o dedicati alla melicoltura biologica. Inoltre, sono dotati di resistenza verso l’afide lanigero del melo (Eriosoma lanigerum), essendo stati selezionati da incroci tra Northen Spy (fonte di resistenza) e alcune selezioni della serie EM. Per la moltiplicazione dei portinnesti clonali si adottano tecniche di auto-radicazione, il metodo più diffuso è la margotta di ceppaia (Figura 9).

Questa tecnica consiste nella messa a dimora delle barbatelle che daranno origine alle piante madri, ovvero le ceppaie. Le barbatelle vengono generalmente poste a 50 cm di distanza sulla fila e 150 cm tra le file. Durante il primo anno le piante madri crescono e poco prima della ripresa vegetativa del secondo anno vengono cimate a livello del terreno, in modo tale da provocare l’emissione di numerosi germogli. Al raggiungimento di una lunghezza di 10-15 cm, i germogli vengono ricoperti con terra alla base. Nel corso dell’estate dalla parte eziolata dei germogli si sviluppano le radici e all’inizio del periodo invernale, le barbatelle così ottenute vengono separate dalla ceppaia e messe a dimora in vivaio.

Figura 9 - Propagazione tramite margotta di ceppaia: A) Preparazione della pianta madre, B) rincalzatura alla base dei germogli emessi dalla ceppaia, C) emissioni delle radici alla base dei germogli, D) ceppaia dopo l'asportazione delle

barbatelle, E) barbatella separata dalla ceppaia (Fonte I.S.I.S.S Domenico Sartor).

Nel melo la tecnica d’innesto più usata è il chip-budding, una variante dell’innesto a gemma dormiente che si pratica in estate quando la pianta è in piena attività vegetativa. A fine inverno si provvede alla messa a dimora dei portinnesti in vivaio; dopo aver vegetato per alcuni mesi, in agosto si procede con l’innesto. La tecnica consiste nell’asportare con un bisturi uno scudetto di corteccia dal portinnesto a circa 10 cm di altezza e sostituirlo con uno di uguale forma e dimensione prelevato da un ramo anticipato della pianta madre e provvisto di gemma (Hartman et al.,1990). La primavera seguente

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utilizzato nelle pomacee, in particolar modo nel melo, perché le piante crescono senza l’angolazione del punto d’innesto ed anche perché la percentuale d’attecchimento dell’innesto è molto elevata.

Figura 10 - Innesto a chip budding (Fonte CRA- Centro di ricerca per la frutticoltura, Roma).

Oggi molti impianti di melo vengono realizzati con astoni preformati in vivaio. Si tratta di piante di due anni a radice nuda rivestite alla base con rami anticipati (4-6). In quasi tutte le cultivar di recente introduzione tali rami sono dei brindilli coronati, questo permetterà già al primo anno di impianto di avere una fruttificazione. La produzione di astoni preformati in vivaio è ormai uno degli obiettivi per gli impianti specializzati ad alta densità poiché permettono, con condizioni agronomiche e tecniche di coltivazioni ottimali, una più precoce entrata in produzione dell’impianto e una più rapida crescita e realizzazione della struttura dell’albero.

1.2.2 Sesti di impianto e forme di allevamento

Negli ultimi 50-60 anni, il melo ha subito una forte evoluzione, sia nelle forme di allevamento delle piante messe a dimora, sia nei sistemi d’impianto prescelti. Il processo di modernizzazione della frutticoltura è stato spinto dall’obiettivo di raggiungere produzioni elevate e regolari, con frutti di qualità e ottenuti con il minor costo di produzione (Mantinger e Vigl, 2008). Gli impianti tradizionali erano costituiti da piante di grandi dimensioni e chiome espanse, che venivano mantenute in vita per molto tempo, ma che richiedevano anche molti anni prima di concludere la loro formazione e quindi prima di entrare in piena produzione. Venivano praticate potature vigorose che comportavo uno stato di squilibrio vegeto-produttivo negli alberi e di conseguenza un rapido invecchiamento della zona produttiva, che veniva nel tempo sostituita dal rinnovo vegetativo. In passato, la forma tradizionale espansa più diffusa era il vaso, oggi in disuso negli impianti intensivi. Essa, infatti, presenta notevoli limiti di gestione, determinando in particolare alti costi di potatura e raccolta e scarsa attitudine alla meccanizzazione. Nella gestione è importante assicurare ottimi livelli di areazione e illuminazione

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all'interno della chioma, per evitare di accentuare la naturale tendenza della pianta a vegetare verso l’alto, ostacolando, per moltissime varietà, la colorazione dei frutti e una difesa razionale dalle malattie. Negli ultimi decenni si è manifestata la necessità di avere piante accessibili per eseguire da terra le operazioni colturali di potatura, dirado e raccolta dei frutti, e la ricerca di una mole ridotta è diventata sempre più spinta: sono stati introdotti impianti ad alta e altissima densità in cui la potatura è ridotta a pochi interventi nanizzanti e al controllo della produzione, portando a piante ricche di rivestimenti formati precocemente, ottenute su portinnesti di debole vigore (M9 e suoi derivati). La forma d'allevamento oggi maggiormente adottata per il melo, in impianti a medio-alta densità, è il fusetto; la pianta viene allevata ad asse unico con le branche a formazione di un gradiente conico. Le branche sono inserite con angolo aperto e allevate con una cima assurgente fino al taglio di ritorno, che ne fissa le dimensioni finali. La forma di allevamento consiste, dunque, in uno scheletro ridotto al solo asse centrale sul quale sono inserite le branche fruttifere di lunghezza decrescente man mano che si procede verso la cima. Se nella forma di allevamento a fusetto adottiamo portinnesti di medio vigore (es: MM106 e M111) si possono eliminare i tutori fissi (pali e fili), con notevole contenimento dei costi di impianto. In questo caso le distanze di impianto saranno di 4/4,5 x 1,5/2,5 metri con una densità compresa tra 888 e 1666 piante ad ettaro.

1.2.3 Principali varietà coltivate

Il panorama varietale del melo dal secondo dopoguerra a oggi è radicalmente mutato. Siamo passati da una melicoltura di tipo promiscuo nella quale si coltivavano cultivar locali ottenute da semenzale, tipica degli anni ’50, ad una frutticoltura specializzata grazie all’introduzione di un elevato numero di varietà ancora oggi utilizzate. A partire dagli anni ’60 si sono diffuse in modo esponenziale varietà appartenenti al gruppo Golden Delicious e Red Delicious, alle quali si sono poi aggiunte la Granny Smith e il gruppo Gala, Fuji e Braeburn. Queste nuove cultivar, ad elevata uniformità genetica e ottenute per moltiplicazione agamica, hanno portato ad un’evoluzione delle tecniche produttive ed una maggiore meccanizzazione dell’intero processo produttivo. Nel panorama italiano dominano i seguenti gruppi varietali:

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Gruppo Golden Delicious

La Golden Delicious è una varietà autunnale ottenuta da seme, derivata molto probabilmente da un incrocio naturale tra il polline di Golden reinette e l’ovario di Grimes Golden negli Stati Uniti attorno al 1890. L’albero è mediamente vigoroso e con portamento espanso, caratterizzato da un’elevata produttività ed

una veloce messa a frutto. Il frutto (Figura 11) ha una forma allungata tronco-conica, un

colore giallo in prossimità della raccolta e risulta molto adatto per la lunga conservazione.

L’epidermide è liscia o leggermente rugginosa, di colore verde virante al giallo, con lenticelle evidenti e ben distribuite. In presenza di abbassamenti di temperatura e di elevate umidità relative nel periodo antecedente la maturazione, tende ad assumere una sovraccolorazione rosa, la cosiddetta “faccetta”. La polpa, di colore crema, è compatta e croccante, succosa, leggermente acidula, molto aromatica, di buon tenore zuccherino ed acidità. Poco sensibile all’oidio, ma suscettibile alla ticchiolatura e cancro, oltre ad essere sensibile a virus e fitoplasmi.

Gruppo Gala

Varietà neozelandese, selezionata nel 1920 attraverso l’incrocio tra Golden Delicious e Kidd’s Orange. Molti esemplari della varietà sono stati poi selezionati e sviluppati in ulteriori incroci, per il loro intenso colore rosso. Tra i cloni presenti sul mercato il più noto tra le varietà spur è Red Chief e tra quelle standard Erovan. La pianta presenta una vigoria medio-forte, un portamento tendenzialmente assurgente e le fruttificazioni sono portate sulle lamburde. Il frutto (Figura 12) ha una pezzatura media e una forma tronco-conica breve. L’epicarpo è di colore rosso brillante, con estensione del sovraccolore rosso, minimo sul 30% della superficie per la Gala standard e sul 65% nei cloni migliorativi. La polpa è bianco crema, aromatica e non farinosa, con una durezza media ed una succosità elevata. Il tenore zuccherino minimo supera gli 11 °Brix. I difetti principali di questa varietà sono la sua suscettibilità alla ticchiolatura, al cancro rameale e alle spaccature dell’epidermide nella zona della cavità peduncolare, specie se la raccolta è ritardata. La maturazione dei frutti è scalare a partire dalla seconda metà di agosto; si raccoglie quindi in più stacchi.

Figura 11 - Mele Golden Delicious

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Gruppo Red Delicious

La Red Delicious è stata scoperta per caso nel 1800 in Lowa, negli Stati Uniti. I vivaisti Stark ne acquistarono i diritti di propagazione, lanciandola nel 1895 con il nome di Stark Delicius e arrivando in Italia nel 1914. La pianta è caratterizzata da una forte vigoria, un portamento delle branche assurgente ed una lenta entrata in produzione, sebbene al suo

raggiungimento si abbiano produzioni elevate e costanti. Il frutto (Figura 13) è di pezzatura medio-grande, forma trono-conica oblunga e caratterizzata alla base da cinque lobi. L'epicarpo è spesso, poco ceroso e di un colore sorro intenso, esente dalla rugginosità e resistente alle manipolazioni. Sull’epicarpo si notano, inoltre, lenticelle di colore bianco. La polpa è bianco crema, dolce e poco acidula, e dotata di elata

croccantezza e succosità. I frutti però, sono dotati di limitata tenuta di maturazione e serbevolezza. Le cultivar del gruppo Red Delicious sono caratterizzate da un’ instabilità nella colorazione del frutto e problemi da allegagione legati alla sensibilità verso il ritorno ai freddi.

Fuji

Fuji è un gruppo di mele giapponesi selezionato negli anni ’30 dall’incrocio tra Red Delicius e Virginia Ralls Genet.

Varietà invernale ad elevata vigoria, portamento semiaperto e rapida messa a frutto.Viene impollinata dalle varietà Golden Delicious, Gala e Red Delicious e fiorisce a fine aprile. Il frutto è di pezzatura medio-grande, forma rotondeggiante e di colore rosso-arancio (Figura 14). La polpa è bianca, molto croccante e succosa, e ricca in zuccheri. di recente introduzione, che si sono affermate per i frutti dolci, croccanti e succosi. La raccolta avviene a partire da metà ottobre. Varietà ad elevata serbevolezza ma caratterizzata da una forte alternanza di produzione che rende necessario un importante diradamento negli anni di carica.

Figura 13 - Mela Red Delicious

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Granny Smith

La Granny Smith è originaria dell’Australia, dove fu proprio la frutticultrice Maria Ann Ramsey Sherwood Smith, all’inizio del 900’ a scoprire per caso e propagare un ibrido derivato da un melo selvatico. Pianta ad elevata vigoria, con portamente inizialmente assurgente e poi alquanto espanso ed entrata in produzione rapida. Il frutto è di pezzatura medio-grossa, sferoidale, con epicarpo di colore verde brillante, lievemente ondulato e ceroso e dotato di lenticelle bianche (Figura 15). La polpa è croccante, succosa ed acidula, molto apprezzata dal mercato nord europeo. La maturazione dei frutti avviene nella seconda decade di ottobre.

1.3 Principali avversità del melo

Oltre alle avversità meteorologiche quali pioggia, grandine e vento, che possono essere causa di traumi alla vegetazione, con pesanti perdite produttive e compromissione degli impianti arborei, come la maggior parte delle colture, il melo è interessato da numerose malattie causate da microrganismi di diversa natura, che possono influenzare l o stato vegetativo e la capacità produttiva durante la fase di coltivazione e richiedono, quindi, le opportune contromisure. Il melo è sensibile a diverse malattie che possono essere causate da agenti biotici (funghi, batteri, virus, nematodi e micoplasmi) o da fattori non infettivi abiotici (temperatura, umidità, nutrienti, condizioni del suolo e sostanze chimiche). La gravità della malattia dipende dalla suscettibilità dell'ospite, dall'aggressività dell'agente patogeno e dall'ambiente. I fattori che influenzano la suscettibilità dei meli includono la resistenza genetica, l’età degli alberi, il vigore e la densità di impianto. La maggior parte dei microrganismi infettivi attraversa un ciclo vitale che include un periodo di dormienza durante il quale l'organismo non può causare malattie. Quando però l'agente patogeno non è dormiente altri fattori come il suo stato naturale di virulenza (aggressività) e la densità della popolazione possono influenzare la gravità della malattia. Anche le condizioni ambientali giocano un ruolo chiave nei focolai di malattie e la gravità di una malattia è correlata alla presenza di un ambiente ideale al suo sviluppo. Nei meleti commerciali la principale avversità è rappresentata dalla ticchiolatura e da altre malattie fungine come l’oidio e cancri rameali da nectria. La ticchiolatura si manifesta costantemente negli anni con una gravità più o meno elevata in dipendenza dall’andamento climatico; infatti, le infezioni risultano favorite da periodi piovosi e a elevata umidità. L’agente della ticchiolatura del melo è un fungo ascomicete che per sopravvivere utilizza due forme di riproduzione, una sessuata e l’altra agamica, che si alternano fra di

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loro durante il ciclo vegetativo della coltura. La forma agamica vive a spese della pianta in maniera parassitaria e, a partire dalla ripresa vegetativa, dà origine a un numero variabile di generazioni capaci di attaccare le foglie e i frutti del melo sui quali compaiono macchie di colore olivaceo scuro, con un aspetto vellutato. Se l’infezione colpisce i giovani frutticini in fase di accrescimento, può provocare gravi malformazioni, fessurazioni e cascola anticipata. Quando l’attacco interessa frutti già sviluppati, le lesioni sono più contenute con macchie più piccole e uniformemente scure. L’oidio è la seconda

malattia fungina del melo in ordine di importanza e può causare gravi danni, specialmente su cultivar ad elevata suscettibilità ed in condizioni pedoclimatiche favorevoli. Anche in questo caso, l’agente della malattia è un fungo ascomicete con due forme riproduttive. A differenza della ticchiolatura, lo sviluppo del mal bianco è favorito da andamenti climatici poco piovosi e caldi poiché una pioggia eccessiva andrebbe ad ostacolare la germinazione dei conidi. Il nome di mal bianco è giustificato dall’aspetto che caratterizza gli organi della pianta colpiti, che si presentano più o meno estesamente ricoperti da una muffa biancastra di aspetto polverulento, costituita dall’insieme del micelio fungino e delle spore (Brunelli, 2008). Rispetto alla ticchiolatura, il mal bianco risulta una malattia meno insidiosa poiché non distruttiva nei confronti degli organi colpiti e per il fatto di essere più aggressiva per le foglie che per i frutti. Di scarsa rilevanza sono, fortunatamente, sul melo gli attacchi dei batteri, anche se la recente comparsa in Italia del colpo di fuoco da Erwinia amylovora richiede una costante vigilanza sulla coltura, in particolare sulla cultivar Gala, che risulta particolarmente sensibile. Il melo è, inoltre, sensibile all’attacco di malattie dovute alla presenza di fitofagi che, aggredendo vari organi della pianta durante l’intero ciclo vegetativo, causano danni più o meno rilevanti. Gli insetti più dannosi appartengono essenzialmente all’ordine dei Lepidotteri e degli Emitteri, e sono rispettivamente la Carpocapsa (Cydia Pomonella) e l’afide grigio (Dysaphis plantaginea).

Il cambiamento climatico, l’innalzamento delle temperature e la sempre più frequente resistenza agli insetticidi ad ampio spettro che in passato venivano impiegati in modo reiterato, hanno favorito l’insasprimento degli attacchi dell’insetto chiave delle pomacee, la carpocapsa tanto da essere il fitofago più temuto dagli agricoltori. Di seguito sono riportate alcune informazioni relative alla Carpocapsa, con una descrizione del suo ciclo biologico anche in rapporto allo sviluppo vegetativo della coltura e i relativi danni causati.

1.3.1 Carpocapsa (Cydia pomonella)

Cydia pomonella L., comunemente chiamata carpocapsa o verme delle mele (Figura 16), è un

lepidottero tortricide originario del centro Europa, area geografica in cui vive il melo selvatico a grossi frutti (Malus sylvestris). Da tale area d’origine si è poi estesa, già in tempi antichi, verso l’Asia e dal 1700 è presente anche negli USA (Pollini, 2008).

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Figura 16 - Adulto di Cydia pomonella

La ragione della diffusione cosmopolita è da riscontrare nell’azione antropica del commercio della frutta e dell’esportazione di piante. La carpocapsa è l’insetto che più mette a rischio le produzioni melicole di tutto il mondo e il suo controllo è imprescindibile per la coltivazione del melo (Tasin et

al., 2008; Pasqualini, 2010) poiché, essendo un carpofago obbligato, è in grado di arrecare danni di

un’entità tale da causare la completa perdita della produzione. Le principali piante ospiti sono il melo, il pero, il cotogno e il noce. C. pomonella si caratterizza per essere una specie mono o polivoltina, con un numero di generazioni annuali variabile da 1 a 4 in funzione della latitudine, dell’altitudine e dell’andamento climatico stagionale. In Italia, si segnalano una o due generazioni nelle zone settentrionali e tre per le regioni centromeridionali. Il fitofago trascorre l’inverno allo stato di larva matura (V età) in diapausa, racchiusa entro un bozzolo sericeo tessuto sotto la corteccia della pianta ospite, nel terreno e a volte tra le cassette di raccolta della frutta. In primavera, quando le piante di melo si trovano nello stadio dei bottoni fiorali, si formano le crisalidi e dopo circa 2-3 settimane avviene lo sfarfallamento. Gli adulti sono attivi al tramonto, con temperature notturne che superano i 15 °C. Le femmine possono accoppiarsi una o più volte e riuscire a deporre da 60 a 80 uova per esemplare, principalmente durante le prime due settimane. Le uova vengono normalmente deposte isolate, più raramente in coppia, sulle foglie vicine alle fruttificazioni o direttamente sui frutti della pianta. Il periodo di incubazione delle uova si completa in circa 90 gradi-giorno (sommatoria delle temperature medie giornaliere superiori ai 10 °C), durante il quale l’uovo passa dall’essere bianco-opalescente, poi con un anello rosso, ad avere la testa nera della larva. Le larve neonate hanno attitudine al vagabondaggio per un tempo variabile in funzione della temperatura, dell’umidità, dell’evaporazione e della luce, che può durare fino a 2 giorni. Durante tale periodo, e prima di penetrare nel frutto, le larve neonate possono rodere lievemente la superficie delle foglie e dei frutti, ributtando le parti staccate dopo averne spremuto il contenuto cellulare (Pasqualini, Angeli, 2008). Compiuta la prima muta le larve entrano nel frutto e vi scavano una galleria che raggiunge le logge seminali, distruggendole (Figura 17).

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Figura 17 - Larva di Cydia pomonella all’interno di una mela.

Dopo 3-4 settimane, raggiunta la maturità, le larve assumono un colore rosa intenso e fuoriescono dal frutto infestato per incrisalidarsi. Si origina poi una seconda generazione, seguita a fine estate da una terza, le cui larve sono destinate a svernare. Cydia pomonella è uno degli insetti più dannosi per le Pomacee; le sue larve, carpofaghe, danneggiano direttamente i frutti, provocando gravi perdite produttive qualitative e quantitative. L’attività trofica delle larve di lepidottero può danneggiare i frutti delle pomacee sia dalle fasi iniziali del loro sviluppo sino alla maturazione. I frutti infestati, che costituiscono il cosiddetto “bacato fresco”, sono facilmente riconoscibili dalla presenza di una tipica rosura di colore marrone che copre il foro di entrata della larva (Figura 18). I frutti in questione sono destinati a cadere, scartati dalla pianta o alterati da marcescenze conseguenti all’insediamento di patogeni (Studhalter, 2010). Gli attacchi tardivi, che possono non essere notati in fase di raccolta, comportano problematiche durante la fase di conservazione in quanto il frutto bacato marcisce compromettendo anche quelli vicini. Quando l’azione trofica delle giovani larve è bloccata dalla morte naturale di quest’ultime, si ha il così detto “bacato secco”, ossia la presenza di erosioni superficiali cicatrizzate che comportano un danno estetico e di conseguenza un deprezzamento del prodotto. Le varietà di mele più suscettibili agli attacchi del lepidottero sono quelle del gruppo Red Delicious.

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1.4 Principali strategie di difesa

A causa dell’alto valore commerciale del melo e degli standard di qualità rigorosi per i mercati locali e di esportazione vi è una tolleranza zero per i danni causati da Cydia pomonella. Le strategie di difesa adottate nei confronti dell’insetto chiave delle pomacee sono radicalmente mutate negli ultimi anni a seguito di problematiche di natura tecnico-legislativa. Dall’ottocento e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso erano comunemente impiegati arseniati di piombo, poi sostituiti con principi attivi di sintesi appartenenti alle famiglie dei cloroderivati, fosforganici e carbammati. Nel corso della stagione gli agricoltori erano soliti impiegare gli insetticidi in modo preventivo e reiterato, seguendo la “lotta a calendario”. Nell’intento di minimizzare le infestazioni è stato fatto un ampio uso di insetticidi col risultato di favorire la selezione di popolazioni resistenti ad una vasta gamma di prodotti chimici nelle principali zone di produzione delle pomacee (Reyes et al., 2007). Negli anni l’acutizzazione del problema, unito alla progressiva diminuzione dei principi attivi a disposizione a seguito della revisione europea dei fitofarmaci, la necessità di una riduzione degli input chimici per la salvaguardia dell’ambiente e della salute dell’uomo e, infine, le richieste sempre più restrittive della GDO di frutti con numero limitato di residui, hanno favorito una progressiva diminuzione degli interventi fitosanitari e l’affermazione della lotta guidata e integrata. La lotta integrata prevede una drastica riduzione dell’uso di insetticidi chimici di sintesi (fosforganici, carbammati, regolatori di crescita), e laddove sia possibile, la loro sostituzione con mezzi alternativi più compatibili con l’ambiente, la sicurezza alimentare e quella dei lavoratori, oltre a promuovere una sostenibilità a lungo termine. Nei programmi di gestione integrata l’applicazione degli insetticidi è regolata dalle indicazioni di monitoraggio, avviene nel momento opportuno e solamente in caso di superamento della soglia di intervento. L’inasprimento degli attacchi verificatosi negli ultimi anni in seguito ai cambiamenti climatici unito all’aumento delle temperature giornaliere e alla diffusione di biotipi resistenti ai principi attivi, ha reso necessaria l’adozione di strumenti di monitoraggio atti a studiare la popolazione dell’insetto e l’andamento delle sue generazioni. Nell’ambito delle strategie di difesa, l’attenta valutazione del momento ottimale di posizionamento dei trattamenti insetticidi in ragione dello stadio di sviluppo del carpofago e la diffusione di sistemi biotecnici sono, al momento, gli aspetti cardinali per fronteggiare il fenomeno. Per cercare di prevedere l’andamento dell’infestazione e di conseguenza programmare un piano di difesa, possiamo avvalerci di strumenti quali: il modello previsionale per valutare la dinamica dell’ovodeposizione e delle nascite larvali durante la stagione e i campionamenti visivi che sfruttano la facile individuazione delle uova per determinare l’entità dell’ovodeposizione, oltre alla presenza di fori di penetrazione sui frutti. Un altro strumento insostituibile per il monitoraggio ambientale della carpocapsa sono le trappole a feromoni. In natura le femmine emettono i feromoni sessuali per attrarre e richiamare i maschi della medesima specie, la trappola a feromoni sfrutta proprio questo meccanismo andando a replicare le sostanze attrattive che normalmente rilasciano le femmine e catturando gli esemplari maschi adulti al loro interno. In questo modo le trappole a feromoni ci

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consentono di ottenere informazioni riguardo la diffusione del fitofago oltre a stimare l’andamento degli sfarfallamenti (curve di volo), determinando il momento opportuno per l’intervento di lotta. Solitamente viene collocata una trappola per ogni ettaro di coltura. Al superamento della soglia di intervento fissata a due sole catture per trappola in una o due settimane, o alla presenza dell’1% di fori iniziali di penetrazione su almeno 100 frutti/ha, si interviene con il trattamento di lotta opportuno. Dal momento che il controllo della popolazione tramite il monitoraggio con trappole a feromoni non sono sufficienti a scongiurare ogni danno, in agricoltura biologica e nelle aree dove si sono verificati fenomeni di resistenza ai principi attivi da parte di Cydia pomonella, fondamentale è l’impiego di mezzi biotecnologici della confusione e del disorientamento sessuale, in prossimità con l’inizio del volo. La metodologia della confusione sessuale (mating distruption) consiste nell’applicazione, alla sommità delle piante, di un numero di erogatori variabile da 200 a 1000 ad ettaro, che rilasciano una grande quantità di attrattivo sessuale (100-150 g/ha) simile ai feromoni rilasciati dalle femmine, in modo da saturare l’ambiente e creare una nube feromonica artificiale che compromette la capacità olfattiva dei maschi di ritracciare le femmine. Dall’applicazione di questo metodo deriva una sostanziale riduzione degli accoppiamenti e di conseguenza del numero di uova deposte, nel tempo riassumibile in un calo della capacità riproduttiva del lepidottero e dunque in un abbassamento della densità di popolazione nel frutteto. Il metodo del disorientamento si basa sull’istallazione di un numero maggiore di erogatori (2000-4000 per ettaro) rispetto al metodo della confusione sessuale, che liberano quantità di feromoni di sintesi basse (20-40 g/ha) ma comunque superiore ai richiami emessi dalle femmine. Il principio di funzionamento è quello di creare delle false tracce che entrano in competizione con quelle naturali liberate dalle femmine. In questo modo i maschi vengono attratti dagli erogatori, non riuscendo a localizzare l’esemplare dell’altro sesso e rendendo impossibili gli accoppiamenti. L’efficacia di queste metodologie varia in funzione della dimensione degli appezzamenti, della densità di popolazione dell’insetto e dalle condizioni climatiche della zona, infatti i risultati migliori si registrano in zone a climi freddi dove il lepidottero compie al massimo due generazioni all’anno. In genere, in agricoltura biologica, occorre integrare i metodi di confusione sessuale con altre strategie di lotta di tipo biologico e meccanico. Quando il lepidottero è allo stadio larvale possiamo agire con un’efficace lotta biologica che comprende l’impiego di organismi entomopatogeni, parassitoidi e predatori. Il virus della granulosi (CpGV) è uno dei patogeni più efficaci e selettivi contro la Carpocapsa ma assolutamente innocuo per gli insetti utili, largamente impiegato sia in agricoltura biologica che integrata. L’infezione si origina in seguito all’ingestione da parte della larva neonata dei granuli. Successivamente il virus si diffonde nelle cellule dell’insetto provocandone la morte nel giro di 3-5 giorni. Il prodotto non è quindi ad azione istantanea, le larve dopo essere state infettate continuano a nutrirsi per qualche giorno causando così una leggera rosicchiatura dell’epidermide detta “bacato secco”. Il più grande difetto del prodotto però, è quello di essere fotolabile e per questo risulta

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posizionato alla schiusa delle prime uova ossia nei masi di maggio e giugno. Anche in questo caso, per determinare il momento esatto per effettuare il trattamento ed avere un risultato ottimale è importante il monitoraggio dell’insetto e delle ovature oltre a controllare la sommatoria dei gradi giorno per stabilire l’inizio dell’ovodeposizione o della schiusa. La seconda e la terza generazione può essere tenuta sotto controllo utilizzando un insetticida ammesso anche nel biologico, lo Spinosad. Il principio attivo che deriva da un batterio del suolo agisce per ingestione e contatto, ed avendo uno spettro di azione piuttosto ampio è consigliabile limitarne l’impiego. Nei frutteti biologici in post raccolta, da metà settembre a metà ottobre, è poi possibile intervenire con trattamenti a base di nematodi entomopatogeni con l’obiettivo di abbassare la popolazione del fitofago. È stato dimostrato che Steinernema feltiae è in grado di agire efficacemente contro le larve svernanti di terza generazione, penetrando nelle aperture naturali dell’ospite e liberando un batterio simbionte che si riproduce dando origine a tossine letali per il fitofago. I formulati presenti in commercio vanno irrorati su tutta la pianta in corrispondenza con precipitazioni o abbondanti irrigazioni ed affinché il trattamento sia efficace occorre che la temperatura minima sia superiore a 12 °C. Fra le tecniche alternative e i prodotti che si sono diffusi negli ultimi anni, dei quali ho già trattato (virus della granulosi, confusione sessuale, ecc.), che hanno rivoluzionato le strategie di controllo sia nel biologico ma anche in produzione integrata, sono senza dubbio da menzionare le reti anti-insetto, protezioni a maglia fitta in polietilene. Un metodo efficace per prevenire i danni da Carpocapsa consiste nella copertura del frutteto utilizzando le reti protettive come barriera fisica contro l’ingresso di insetti pericolosi per la coltura. I sistemi di protezione si distinguono in reti fotoselettive, in grado di limitare l’energia luminosa ricevuta dalle foglie (modificando sia l’intensità radiativa che lo spettro delle lunghezze d’onda), reti anti-grandine e reti anti-insetto. Le reti colorate, chiamate reti fotoselettive, sono realizzate in polietilene o polipropilene e sono caratterizzate da diverse dimensioni e tipologie di maglie a seconda dell’intensità del colore che si vuole avere (Sivakumar et al., 2017). Esse sono divise in “colored-ColorNets”, le quali presentano colori brillanti e ben visibili (giallo, rosso, verde o blu) e in “neutral-ColorNets”, che invece assorbono tutte le lunghezze d’onda più lunghe o corte rispetto a quelle visibili. Le reti fotoselettive sono costituite dalla combinazione di diversi cromofori che permettono alle reti di filtrare specifiche lunghezze d'onda in base alle risposte fisiologiche desiderate e garantiscono il parziale raggiungimento della luce solare nella parte interna delle chiome (Zoratti et al., 2015); esse sono in grado quindi di modificare e migliorare la diffusione della luce incidente sulle foglie che può influenzare lo sviluppo e la crescita delle piante e modificare gli spettri delle radiazioni che raggiungono le piante sottostanti, migliorando le risposte morfogenetiche/fisiologiche di quest’ultime (Ilić and Fallik, 2017).

La rete che rappresenta sia una tecnica innovativa di contrasto nei confronti degli insetti, e in particolare del carpofago Cydia pomonella, che di protezione della grandine è la rete multifunzionale. Quest’ultima è stata ideata nel sud della Francia nel 2005 (Severac e Romet, 2007) per contrastare la carpocapsa delle pomacee in un areale fortemente infestato e per questo sono state chiamate ‘Alt

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Carpò’. La pratica messa a punto dai francesi consiste nel coprire il frutteto con una rete a maglia più stretta (2,2 x 5,4 mm) rispetto alla antigrandine classica (3 x 7 mm). Rappresenta un adattamento migliorativo poiché, nonostante sia stato dimostrato che le reti antigrandine svolgano l’interessante effetto collaterale di riduzione delle popolazioni di C. pomonella, grazie sia all’effetto barriera sia al disturbo arrecato dalla rete nelle fasi di corteggiamento (Demaria et al., 2006, 2008; Tasin et al., 2007, 2008), le antigrandine lasciano passare circa il 47% degli individui. L’utilizzo di queste reti multifunzionali, che isolano completamente le piante e inibiscono gli accoppiamenti (Sauphanor et al., 2012) permettono di raggiungere i massimi benefici. Il sistema Alt Carpò si basa sull’isolamento della coltura dagli attacchi dei fitofagi attraverso due diverse sistemazioni: il monoblocco che prevede l’intera copertura dell’impianto secondo uno schema che segue l’impianto antigrandine però con l’aggiunta della chiusura perimetrale o l’impianto monofila dove ogni singolo filare è ricoperto dalla rete. La maggior parte delle conferme sperimentali sull’efficacia del metodo riguardano il sistema monofilare (Sévérac e Romet, 2008; Kelderer et al., 2010; Caruso e Vergnani, 2010). La principale zona melicola italiana, Trentino Alto Adige, è situata nella parte settentrionale del nostro paese, un’area frequentemente interessata a intense grandinate. Il danno da grandine ha come effetto primario la comparsa di ferite che causerebbero la formazione di tessuti necrotici sui frutti e sui germogli; l’effetto secondario determina, a partire dalle zone danneggiate dei frutti, lo sviluppo di malattie fungine oppure l’ovodeposizione di insetti dannosi per la coltura, assieme alla diminuzione dell’area fogliare attiva, riducendo la capacità fotosintetica (Arsov et al., 2015).

Secondo alcuni autori (Botzen et al.,2010), i danni causati dalle grandinate aumenteranno in futuro se il riscaldamento globale porterà a un ulteriore aumento della temperatura. Questo scenario rende indispensabile la copertura dei frutteti con reti antigrandine, un investimento economicamente dispendioso ma duraturo. In Piemonte, dove la copertura antigrandine è ampliamente diffusa, si sono svolte delle prove sperimentali volte a valutare l’efficacia dell’Alt Carpò applicando la versione monoblocco per la sua maggiore adattabilità al territorio in quanto più sostenibile a livello economico. La prova, condotta dal Centro di ricerca e sperimentazione per l’ortofrutta piemontese, si è svolta nel 2010 su un impianto di Golden Delicious già coperto da rete antigrandine e ad elevata pressione di

Cydia pomonella, anche a causa della sua vicinanza con un appezzamento allevato a noce.

L’appezzamento è stato diviso in due parcelle, una dotata di rete a maglia più fine (2,2 x 5,4 mm) ai lati e l’altro fuori copertura anti-insetto, per valutare l’efficacia della copertura tramite il monitoraggio settimanale dell’insetto (trappole a cairomoni) e del danno sui frutti. I risultati hanno mostrato una presenza di carpocapsa molto bassa su entrambe le parcelle e dal monitoraggio del danno sui frutti, si sono rilevati valori inferiori sotto copertura anti-insetto rispetto al testimone. La sperimentazione ha dimostrato che la conversione dei sistemi antigrandine in sistemi Alt Carpò con rete laterale a maglie più fitte rappresenta una barriera fisica non completamente impermeabile al fitofago ma in grado di

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dispendioso, potrebbe azzerare i trattamenti per il controllo del lepidottero. Il monofilare può, per contro, ostacolare molte operazioni colturali, superabili con il sollevamento della rete. Queste reti non sono efficaci unicamente nei confronti della Carpocapsa, ma influiscono positivamente su molteplici aspetti legati ad una buona conduzione di un impianto a melo. Le maglie fitte della rete costituiscono una barriera fisica anche nei confronti di altri lepidotteri ricamatori (Pandemis cerasan, Argyrotaenia

pulchellana, Archips podanus), andando di conseguenza a limitarne i danni. Inoltre, la copertura con

reti annulla i danni da grandine (meno efficace il sistema monofilare) impedendone l’azione battente sui frutti. La riduzione dell’irraggiamento limita i fenomeni di scottatura da parte dei frutti più esposti e delle varietà più suscettibili e, nel caso di piante particolarmente vigorose, ha un effetto brachizzante che si traduce in una riduzione delle ore di manodopera necessarie per la potatura. L’utilizzo delle reti può essere sfruttato, inoltre, per il controllo dell’allegagione. L’azione antiallegante degli impianti monofila è stata confermata in vari ambienti e su più cultivar di mele. Lo stesso Sévérac, ideatore di Alt Carpò, ha osservato nelle sue prove in Francia una riduzione dell’allegagione dal 145% del testimone al 59% sotto rete. Il posizionamento delle reti nel periodo della fioritura va ad ostacolare il volo e l’attività impollinante dei pronubi, rappresentando una barriera fisica verso il polline ed aumentando l’ombreggiamento che influenza alcuni meccanismi fisiologici durante la fecondazione del fiore. L’effetto antiallegante varia in base all’epoca di chiusura delle reti, alle condizioni climatiche, alla zona di coltivazione e alle cultivar in oggetto. Per le varietà che allegano facilmente, è consigliato chiudere le reti uno o due giorni dopo l’apertura dei primi fiori centrali sul legno vecchio, invece per le varietà sensibili all’ombreggiamento occorre posticipare la chiusura ad alcuni giorni dopo la piena fioritura per evitare un sovradiradamento (Figura 19).

Un altro fattore influente è rappresentato dal colore delle reti multifunzionali poiché in grado di influenzare gli aspetti produttivi e funzionali del frutteto. Attualmente, nonostante abbiano una minore durata, le più diffuse sono quelle bianche, che migliorano la colorazione dei frutti e riducono l’umidità e quindi l’insorgere di malattie fungine, e le nere impiegate in regioni calde dove sono frequenti i danni da scottature. Dalle numerose sperimentazioni presenti in letteratura si può dedurre come l’utilizzo di strutture di copertura siano in grado di apportare numerosi vantaggi, riscontrabili in un aumento della produzione annua, una riduzione dei costi di irrigazione per un uso più efficiente dell’acqua oltre ad una riduzione dei costi di diradamento. Non solo, le reti rappresentano una strategia di difesa alternativa e sostenibile in grado di proteggere la coltura da condizioni climatiche estreme come intense grandinate, forti venti e danni dovuti ad un’eccessiva esposizione solare. Dall’altro lato un impianto di copertura potrebbe modificare il microclima all’interno del frutteto e ridurne la luce intercettata, ripercuotendosi negativamente sulle caratteristiche qualitative ed organolettiche del frutto. Un’influenza negativa su alcune delle caratteristiche qualitative quali una riduzione del grado zuccherino o della colorazione esterna della mela non solo comporterebbe una sua declassazione ma sarebbe difficilmente apprezzata anche dal consumatore. Risulta perciò importante valutare l’influenza che questi sistemi di difesa hanno nei confronti delle caratteristiche organolettiche e nutrizionali.

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Figura 19 - Epoca di chiusura indicativa della rete per ottenere un’azione diradante.

1.5

Scopo della tesi

Da quanto illustrato nella parte introduttiva, nella coltivazione del melo risulta sempre più necessaria l’adozione di strategie di difesa alternative ai prodotti di sintesi in quanto più sostenibili in termini ecologici ed economici ed in grado di garantire una maggiore sicurezza ai lavoratori ed ai consumatori. L’alternativa environmently-friendly è rappresentata dalle reti multifunzionali, strutture di protezione in grado di isolare la coltura dalle principali avversità biotiche ed abiotiche. In letteratura sono numerose le sperimentazioni che hanno ampliamente dimostrato l’efficacia delle reti nei confronti della carpocapsa, garantendo così una forte riduzione dei trattamenti e dei relativi costi. Dall’altra parte però, l’uso dei sistemi di copertura può modificare il microclima e ridurre l’irraggiamento solare all’interno del frutteto, andando ad interferire con la fisiologia della pianta e di conseguenza influenzare i caratteri quanti-qualitativi del frutto.

Lo scopo di questo lavoro è stato quindi quello di valutare gli effetti di una copertura artificiale monofila sulle condizioni vegetative, sulla produttività e sulla qualità dei frutti, facendo attenzione alle caratteristiche qualitative dei frutti di due differenti varietà di mela coltivate seguendo i principi dell’agricoltura biologica in una zona collinare della Valdichiana aretina.

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2 MATERIALI E METODI

2.1 Materiale vegetale e descrizione del sito di prova

Le prove sono state condotte nel 2020 presso l’azienda Villa La Morina di Luigi Giannelli, situata in località Montecchio del Loto a Cortona in provincia di Arezzo (43°13’32’’N 11°55’26’’E). L’azienda, in possesso di certificazione biologica ormai da dieci anni, si estende su una superficie totale di circa 21 ettari dei quali 6 destinati al meleto mentre i restanti sono occupati da seminativi ed oliveti. Il centro aziendale si trova ad un’altitudine compresa tra i 275 e i 300 m s.l.m., il terreno interessato ha una pendenza dell’8-9% e la tessitura del suolo è prevalentemente argillosa e in parte limosa.

Le piante di melo sono allevate a spindel e sottoposte a cure colturali ordinarie, innestate su M9 e M26 a seconda della cultivar, e piantate nel 1990 in file singole e spaziate di 4 x 0,5/1 m.

Nel biennio 2008/2009 l’azienda ha istallato il sistema di copertura Keep in touch® system per proteggere il frutteto dai danni dal temibile lepidottero Cydia pomonella. L’impianto è inoltre dotato di un sistema di irrigazione a goccia (Figure 20 e 21).

Figura 20 – Meleto di Villa La Morina oggetto della prova sperimentale.

Le pratiche agronomiche comprendono fertilizzazioni con prodotti pellettati a base di azoto, fosforo e potassio, l’inerbimento naturale del terreno, controllato mediante uno sfalcio generalmente effettuato i primi giorni del mese di agosto, e una potatura invernale finalizzata al mantenimento dell’equilibrio vegeto-produttivo delle piante, in modo da ottenere una produzione costante nel tempo e frutti di buona qualità e pezzatura. L’azione diradante delle reti è rifinita da operazioni di diradamento manuale (a

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reti aperte) che l’azienda esegue per evitare alternanze di produzione a cui il melo è naturalmente soggetto.

Alla raccolta le reti vengono sollevate e rimarranno così per tutto l’inverno, per poi riaprirle due o tre giorni dopo la fioritura (quando il 20% dei fiori è impollinato). L’impianto comprende quattro varietà di melo non resistenti alla ticchiolatura e aventi una differente epoca di raccolta: Red Chief (15/9), Golden Delicious (20/09), Stayman (05/10) e Fuji (10/10). Per motivi logistici la sperimentazione ha coinvolto solo le prime due cultivar, impiantate rispettivamente su portinnesto M26 ed M9 con un sesto di impianto di 4 x 1m e 4 x 0,5 m. Le principali problematiche del frutteto, oltre alla presenza di carpocapsa, contro la quale non viene effettuato alcun trattamento, riguardano le malattie fungine e gli attacchi di afidi. Contro le prime, in prefioritura l’azienda procede con trattamenti a base di olio giallo attivato seguiti da poltiglia Disperss a ¼ di dose consigliata sull’etichetta del prodotto. In caso di piogge viene impiegato polisolfuro di calcio a basso dosaggio. L’adozione di un sistema di protezione aumenta il rischio di attacchi da parte di afidi contro i quali l’azienda in prefioritura effettua trattamenti con olio di neem e piretro, ed olio estivo o una soluzione a base di aceto e alcol etilico (30 kg/ha di aceto, 5 kg/ha alcol etilico) in post-fioritura a reti aperte.

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