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Le novelle, folclore e fantasia, rito e sacrificio Cominciando dalle novelle raccolte in Terra vergine, San Pantaleone e Il libro

delle vergini, scritte tra 1880 e 1888, che rappresentano l’esordio di D’Annunzio

come narratore, è possibile osservare l’evoluzione della poetica dannunziana che va a scavare nell’anima della sua gente, per cercare di capire il mistero della vita, rinchiuso in tanti simboli terreni. Il suo interesse per i fenomeni religiosi è indiscusso e la ricerca del mistero include:

lo spirito scientifico, lo spirito religioso, la pietà per la sofferenza, il sentimento di giustizia, il misticismo sociale, il fascino dei fatti misteriosi, forse anche

rischiosi, un bisogno di armonia universale; 35

Così il poeta, con la sua sensibilità, si sente l’unico capace di penetrare il mistero

e di rivelarlo come un mistico profeta, come un prodigioso suggeritore. Ho cercato di rintracciare nelle novelle le immagini dei rituali religiosi, delle

processioni, delle preghiere, delle bestemmie, degli esorcismi, dei lamenti funebri, delle pratiche superstiziose, che emergono entro i confini del sacro, da una vasta, multiforme e caotica esperienza umana, dei suoi impulsi, delle sue violenze, delle sue redenzioni, delle sue interpretazioni istintive e collettive della vita e

dell’universo. A diciotto anni, D’Annunzio si era trasferito a Roma nel 1881 per iscriversi alla

Facoltà di Lettere della Sapienza, ma la vita mondana della capitale lo distolse presto dalle lezioni universitarie. Il D’Annunzio di quel periodo era un giovane

35 F. Paulham, Nouveau Mysticisme, in Stefano Iacomuzzi, D’Annunzio e il simbolismo, il

linguaggio liturgico- sacramentale, Atti Del Convegno su D’Annunzio e il simbolismo europeo,

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ambizioso, che aspirava ad entrare a pieno titolo nella vita culturale capitolina e che subito si impone come interprete dello spirito della Roma di fine secolo, impegnandosi nei salotti mondani e nelle redazioni di numerose riviste dove si distingue come “il cronista del bel mondo”, secondo la definizione di Piero Chiara.36

Nel 1882 vedono la luce, dal Sommaruga, la prima raccolta di novelle, Terra

vergine, un libro dove la natura vitale dell’Abruzzo prende forma.

Nel 1884 esce la seconda edizione, dove ai primi nove racconti originali (Terra

vergine, Dalfino, Fiore Fiurelle, Cincinnato, Campane, Lazzaro, Toto, Fra’Lucertola, La gatta) vanno ad aggiungersi altri due, Bestiame ed Ecloga fluviale.

Nel 1884 esce anche Il libro delle vergini, e dei quattro testi iniziali, solo due La vergine Orsola e La vergine Anna, ne faranno parte della raccolta finale, Le

Novelle della Pescara, del 1902.

A Napoli, nel 1892, D’Annunzio pubblica Gli idolatri, presso Pierro Editore. Poi, nel 1902, dopo il ritorno in Abruzzo a distanza di cinque anni, pubblica presso il Treves, a Milano, il volume, Le novelle della Pescara, dopo un’accurata selezione delle novelle precedentemente scritte. Sicuramente il ritorno in Abruzzo non fu l’unico incentivo a rivedere e ripubblicare le novelle. D’Annunzio aveva anche bisogno di denaro per far fronte ai debiti che aveva lasciato suo fratello fuggito in America. Tuttavia, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, il peso della

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suggestione legata alla riscoperta delle radici abruzzesi non può essere

sottovalutato.

Terra vergine e Novelle della Pescara, racchiudono i topoi che poi ritroveremo

nelle prose successive, i germogli dell’opera futura. La prima raccolta rimane immutata nei testi e nel titolo, mentre la seconda ripropone racconti già pubblicati, escludendo solo cinque novelle considerate, per la loro tematica, non adatte al contenuto popolare e di ambientazione abruzzese. D’Annunzio aveva pensato di intitolare Terra vergine, Figure abruzzesi, presentando più esplicitamente la raccolta come il risultato del lavoro a quattro mani, condotto insieme a Michetti, lui con la penna e il pittore con il pennello, per rappresentare un mitico Abruzzo. Il poeta osserva l’umanità ai suoi margini, il muto, lo storpio, l’idiota, che si muove nei paesaggi colorati e intensi della campagna:

Vedremmo rappresentati con vigore e con sobrietà alcuni tragici idilli piscatori e campestri dove le persone dai detti e dai gesti veementi si muovevano all’urto di una passione semplice e brutale.37

Annamaria Andreoli ha cercato di spiegare il ritorno di D’Annunzio “alle novelle degli esordi improntate a un verismo di maniera, bozzettistico e locale” in un momento di rinnovamento estetico sotto gli influssi simbolisti, e ha mostrato come il poeta rimetta in gioco l’immagine e la memoria dell’Abruzzo,

concentrandosi sul mito e sul folclore. Ricordiamo che solo dopo un anno della pubblicazione delle Novelle della Pescara, nel 1903, egli scrive la tragedia pastorale La figlia di Iorio, la storia di Mila a Aligi ambientata in uno scenario abruzzese arcaico, che viene evocato mettendo in evidenza l’immutabilità della

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natura umana e l’andamento ciclico delle vicende che da essa derivano. Nella tragedia, l’Abruzzo è uno spazio mitico ancora vivo nel presente e aperto. Come sempre nell’opera dannunziana, le ragioni della produzione passata vengono riprese e piegate alle motivazioni delle opere più recenti, seguendo delle linee portanti di sviluppo dell’intera opera.

La critica ha ampiamente dimostrato l’importanza che hanno avuto nella composizione delle novelle, i modelli stranieri, - Zola, Maupassant, Flaubert, - e i modelli italiani, come Boccaccio e Verga, soprattutto in quanto autore di Vita

dei campi, raccolta pubblicata nel 1880. Ma l’asse portante della produzione

novellistica dannunziana sta nella tendenza di materializzare il profondo legame dell’autore con la terra natale, racchiudendo nella cornice naturalistica un quadro pieno di elementi tipici di quella carne, di quella mentalità, de quel sentire. La natura dell’Abruzzo forma l’ossatura di tutte le novelle, ma anche del romanzo Il

trionfo della morte e delle tragedie La figlia di Iorio e La fiaccola sotto il moggio.

Nelle novelle, D’Annunzio ha già descritto il mare, le montagne, le colline, rappresentandole in tutte le variazioni giornaliere e stagionali possibili e questo ha rappresentato per lui una sorta di esercizio, in prospettiva della composizione di

romanzi storici e psicologici. In un primo momento dell’analisi delle novelle, sembrerebbe che la scrittura di

esse richiedesse meno sforzo, meno impegno da parte del narratore, in quanto sono più brevi dei romanzi o delle opere drammatiche, ma non è così. Lo sforzo è maggiore in quanto D’Annunzio deve concentrare l’azione e i personaggi in poche pagine, epurando la narrazione da elementi superflui.

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Annamaria Andreoli ha fatto notare come e quanto D’Annunzio si sia ispirato ai quadri di Michetti per scrivere le novelle Gli idolatri e L’eroe, soprattutto

rifacendosi alla pittura del “Voto” e naturalmente al dipinto intitolato “La figlia di Iorio” per l’omonima tragedia. Nelle Novelle della Pescara, l’attitudine di D’Annunzio nei confronti della sua appartenenza alla terra abruzzese diventa più distaccata e critica rispetto a quella esibita in Terra Vergine, e a tratti sfoggia in una denuncia, venata di sarcasmo, del

mal costume di quella società primitiva da cui egli si sentiva tanto distante. Non si può dimenticare , del resto, che D’Annunzio fu accusato di plagio diverse

volte, sulla base delle indiscutibile affinità che certe sue novelle presentano rispetto alle opere di Flaubert, Un coeur simple che sembra, per esempio, una fonte diretta per La vergine Anna, e di Maupassant , Saint Julien l’Hospitalier, dal quale avrebbe tratto direttamente ispirazione Veglia funebre, Il traghettatore,

La fine di Candia, L’eroe.38 Per valutare criticamente le novelle, tuttavia, bisogna ricordare - come già si

accennava - che D’Annunzio mescola l’esperienza diretta, la memoria personale e le suggestioni di quello che aveva letto altrove. Prevale ovviamente, nella sua rappresentazione, un Abruzzo figurativo, michettiano, indagato anche attraverso i controlli effettuati sugli studi etnografici delle tradizioni popolari di De Nino e di

Finamore39. Durante gli anni Ottanta, come già si accennava nel II capitolo, il poeta trascorse

38 M. Bani, Note onomastiche su Terra vergine, in Il nome nel testo, Rivista internazionale di

onomastica letteraria. Il Nome Manipolato, Atti del XII Convegno Internazionale di Onomastica e Letteratura, Università degli Studi di Pisa, 31 Maggio-1 Giugno2007.

39 De Nino, Usi e costumi abruzzesi, sei volumi, 1879-1897.

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lunghi periodi in Abruzzo, spesso ospite dell’amico Michetti. Dalle esperienze vissute in questi soggiorni nella terra natale nascono pagine commosse, ricordo delle cavalcate, dei bagni nel mare, delle feste e della sua gente. Durante una di queste escursioni che D’Annunzio e Michetti affrontano, un con il taccuino e l’altro con la macchina fotografica, i due amici incontrano la figlia di Iorio di persona:

vedemmo irrompere una donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa,

inseguita da una torma di mietitori imbestiati dal sole, dal vino e dalla lussuria. 40

In una lettera all’amico Nencioni, D’Annunzio parla con emozione delle le sue esperienze:

Ho assistito a certe strane feste nei santuari dei dintorni. Se tu vedessi che singolari spettacoli barbarici! Incredibili!41

Le tradizioni popolari sono un nucleo tematico essenziale nelle novelle, nel

Trionfo della morte e nella Figlia di Iorio. Sicuramente l’interesse di D’Annunzio

per la cultura della sua gente, per le tradizioni cristiane e pagane che convivono nel mito e nel folclore si evolve dopo l’incontro con l’estetica di Nietzsche e di Wagner, ma il momento delle novelle rimane il punto di partenza nella creazione di un’idea personale di mitologia e di ritualità.

D’Annunzio, consapevole dell’ambigua eredità della sua terra, sposta

continuamente l’attenzione del lettore da una dimensione favolosa, idillico e quasi sacrale, ad una brutalità barbarica in cui è difficile vivere, lavorare, amare, dove l’individuo perde ogni dignità ed è egli stesso metafora della morte. Il fascino

40 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1992, pag.37.

41 G. D’Annunzio, Lettere a Nencioni, in Catalogo delle Lettere di G. D’Annunzio al Vittoriale,

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della narrativa dannunziana consiste proprio in questa sua naturale abilità di creare atmosfere paniche e simboliche alle quali si mescolano elementi realistici e

folclorici che arricchiscono e rendono autentico il testo. Il primo elemento folclorico essenziale per D’Annunzio è il canto popolare,

l’espressione considerata più autentica del suo popolo; poi la musica, che nei romanzi successivi sarà presentata come il mezzo principale di elevazione

dell’animo umano. Il poeta racconta i suoi pensieri che riguardano la musica nelle pagine del Libro Segreto:

La canzone popolare è quasi una rivelazione popolare del mondo. In ogni canzone popolare, vera, terrestre, nata dal popolo, è un’immagine di sogno che interpreta l’Apparenza. La melodia primordiale che si fa nelle canzoni popolari ed è modulata in diversi modi dall’istinto del popolo, mi sembra la più profonda parola sull’Essenza del mondo.42

Attraverso il canto, l’individuo riesce ad esprimere le proprie emozioni soggettive, pur restando nel solco della tradizione. Attraverso l’interpretazione personale di una canzone i protagonisti si esprimono e affermano la loro individualità. Spesso è proprio la musica che rende speciali alcuni personaggi, caratterizzandoli per la loro sensibilità: e in questo modo D’Annunzio li sottrae alla “massificazione” del

gruppo, conferendo loro un’identità ben distinta. D’Annunzio proietta il lettore in un Abruzzo quasi magico che si nutre di mito,

dove la natura di alcuni personaggi è instabile. Molte volte questi personaggi tendono ad autodistruggersi poiché non sono capaci di resistere ai loro

irrefrenabili impulsi.

42 G. D’Annunzio, Cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire,

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Per esempio, Mena, nella novella Fra’ Lucerta, torna dai campi insieme ad altre donne e tutte insieme cantano per alleggerire la fatica:

Tutte le fundanelle se so’ sseccate, pover’amor mi! ’more de sete, Tromma larì lirà,vvivà ll’amore!43

In questo coro però, la voce di Mena è sempre l’ultima a spegnersi, ed è quella che conquista il frate, che lo spinge a rompere tutte le inibizioni. Fra’ Lucerta risponde involontariamente al richiamo erotico del canto delle contadine e la fresca e primitiva energia delle donne turba il povero monaco che si ritrova intrappolato nella severità della sua vita clericale. L’effetto del canto sul

personaggio è quello di ricreare un collegamento fra il suo stato emotivo e quello fisico che lo riporta ad una condizione di verginità giovanile in cui egli risente il violento stimolo dei sensi. Il canto di Mena può essere paragonato al canto di una sirena, che incanta e distrugge.

Angela Tumini, nella sua monografia, Il mito nell’anima: magia e folklore in

D’Annunzio, osservava come il canto fosse utilizzato nelle novelle per tracciare

una linea divisoria fra la realtà socio - culturale maschile e quella femminile. I canti popolari intonati dagli uomini riguardano delle situazioni ed esperienze che si svolgono al di fuori del focolare domestico. Il canto femminile invece ha la funzione di ridurre la tensione causata dalla posizione di inferiorità in cui la donna vive rispetto all’ uomo e di concederle momenti di supremazia, attimi di potere sul maschio.

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Ad un certo punto la canzone di Mena si pone in contrasto diretto con le preghiere e le litanie monastiche e sulle quali prevale con forza, rispecchiando di conseguenza il trionfo dell’istinto carnale sul misticismo di Fra’ Lucerta:

Il frate ascoltava inebriato; Quelle note gli giungevano lì nella cella buia come voci della Natura; quella melodia molle in tono minore gli risvegliava mille fantasmi dormienti entro il cervello. […] prese il libro delle preghiere, e

s’inginocchio davanti al Cristo inchiodato. Ma sentiva che qualche cosa, lì tra il Cristo e lui, che lo rigettava indietro: si curvò ancora più, quasi con ira; volle pregare: ’Signore Dio mio, non ti allontanare da me; volgiti per aiutarmi: poiché mi sono levati contro pensieri vani e gran paure’…Inutile: quel benedetto ‘mi’ l’aveva ancora nell’orecchio, lungo, insistente, sfumato.

Tromma larì lirà,vvivà ll’amore!44

È importante ricordare che nell’invenzione dannunziana Fra’ Lucerta è giovane, ha 35 anni ed è diventato monaco per necessità, quando - morta la madre, - il padre lo ha mandato a studiare in convento, dove il suo stato d’animo è cambiato, trasformandolo in un individuo “ cupo, solitario, pensoso” e ancora più solo dopo la morte del padre. La scelta di ritirarsi in convento, insomma, non è stata dettata dalla fede, da una particolare inclinazione per quella vita di preghiera e di

rinuncia. E infatti, la carne si ribella e lo mette alla prova, così egli cerca di resistere e chiede pietà a Cristo:

Ma eran calme brevi; la battaglia interiore ricominciava più dolorosa: egli la covava con una forza pertinace ed intensa; e negl’ stati supremi stringeva i denti come un soldato sotto i ferri del chirurgo.[…] Dopo circa quindici anni resto solo

nel convento.[..] In un’alba di maggio, Dio gli si confuse con la buona Natura.45

44 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, pag. 40-41. 45 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, pag. 43.

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La solitudine è la caratteristica principale dei personaggi dannunziani: Fra’Lucerta è solo, lo è Mila nella Figlia di Iorio, lo è Giorgio Aurispa nel Trionfo della

Morte. I personaggi sono travolti da una feroce lotta interiore, tra la fede e l’istinto

carnale, e per loro non esiste altra soluzione che la morte. L’unico modo per

trovare pace è sacrificare la vita. D’Annunzio affronta in questa novella, il tema della verginità, in questo caso al maschile, molto prima di scrivere le due novelle del Libro delle vergini. La verginità significa la rinuncia ad una vita piena, dove il corpo e l’anima

dovrebbero essere in armonia. Da Terra vergine alle Novelle della Pescara, le figure dei personaggi dannunziani

vanno incontro ad una sorta di maturazione, diventano capaci di analizzarsi psicologicamente, cercando di capire quello che succede a loro e magari di

scegliere come reagire. Nel mondo antico, la vita religiosa era percepita come un ordine mitico - rituale e

sociale che guidava le vite delle persone, che serviva per proteggere gli individui e la società nei momenti di crisi, risolvendo i problemi e ristabilendo i rapporti

pacifici attraverso l’integrazione del divino nell’umano. Tuttavia, la vita semplice e rituale di Fra’Lucerta, tutta preghiera e lavoro, non gli

assicura la salvezza, e ciò che è stato represso, viene fuori con una forza distruttiva. Le figure di questa novella sono emblematiche rispetto all’intera narrativa dannunziana perché danno corpo i primi miti che il narratore mette in evidenza: il mito della verginità, il mito della superfemmina nemica, che incanta e distrugge, l’eterno conflitto tra corpo e anima.

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D’Annunzio tende sempre, nelle sue novelle, a sottolineare come le

manifestazioni religiose siano intrise di fanatismo e di superstizione. Religione e superstizione s’intrecciavano, del resto, sia nella vita di tutti i giorni, sia nei giorni di festa, durante i quali si celebravano le funzioni sacre, messe e processioni, in onore dei santi. Il popolo però viveva, spesso in condizioni di ristrettezze

economiche. E queste difficoltà si riflettevano anche nel rapporto con la religione, poiché la miseria e l’ignoranza spingeva la povera gente a chiedere l’aiuto divino per ottenere qualche miracoloso miglioramento, in uno scenario, in cui i santi diventavano niente altro che la versione cristianizzata degli antichi dei pagani,

preposti ciascuno ad una sfera della vita materiale e quotidiana. Questo tipo di religiosità viene rappresentato nelle novelle più importanti, La

vergine Orsola, La vergine Anna, Gli idolatri e L’eroe.

Se un tempo venivano venerati e invocati gli dei per avere la loro protezione, in epoca moderna questi riti erano rivolti ai santi.

Un altro elemento essenziale per la mentalità abruzzese era il senso di fatalità che incombeva sulla vita delle persone: le catastrofi naturali, le malattie, si

abbattevano da sempre sulla popolazione incapaci di contrastarle, e cosi solo la fede, come un talismano potentissimo, poteva allontanare quelle tremende

minacce. Il più delle volte, però, il fanatismo religioso si trasforma in carneficina, come

D’Annunzio racconta negli Idolatri e nella Guerra del ponte, denunciando i gesti quasi folli di un gruppo di fedeli che celebrando la statua del santo, andavano in processione per le vie della città:

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Le vetrate balenavano quasi contenessero lo scoppio d’un incendio interno; le figurazioni sacre prendevano un’aria viva di colori e di attitudini […] Volgevano dalle strade alla piazza gruppi d’uomini e di femmine vociferando e gesticolando. In tutti gli animi il terrore superstizioso ingigantiva rapidamente; da tutte quelle fantasie incolte mille immagini terribili di castigo divino si levavano; i commenti, le contestazioni ardenti, le scongiurazioni lamentevoli, i racconti sconnessi, le

preghiere, le grida si mescevano in un mormorio cupo d’uragano imminente.46

I Radusani festeggiano San Pantaleone; il suono delle campane da inizio alla processione, lo spettacolo è sorprendente:

- San Pantaleone! San Pantaleone! Fu un immenso grido unanime di disperati che chiedevano aiuto. Tutti in

ginocchio, con le mani tese, con la faccia bianca, imploravano. -San Pantaleone! 47

Emblematico è anche il nome del parroco del paese, Don Consolo, che mantiene un atteggiamento cauto e spaventato davanti a quella folla bestiale di credenti. Tutta la fede si trasforma in veleno quando arriva Pallura, un ragazzo che deve portare le candele per la processione, che è stato quasi ucciso dalla gente di Mascàlico. E cosi la processione diventa una manifestazione di guerra contro gli abitanti del paese limitrofo:

E, come un antico odio ereditario ferveva contro il paese di Mascàlico, posto di contro su l’altra riva del fiume, Giacobbe disse con la voce rauca, velenosamente: - Che i ceri siano serviti a San Gonselvo? Allora fu come una scintilla d’incendio. Lo spirito di chiesa si risveglio d’un tratto in quella gente abbrutita per tanti anni nel culto cieco e feroce del suo unico idolo. Le parole del fanatico di bocca in bocca si propagarono. […] Il nome del Santo rompeva da tutte le gole, come un grido di guerra. 48

46 G. D’Annunzio, Gli idolatri, in Tutte le novelle, pag.178. 47 G. D’Annunzio, Gli idolatri, in Tutte le novelle, pag.181. 48 Idem pag.183.

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La processione, che dovrebbe essere un’espressione collettiva della fede e della speranza, si è trasformata in una guerra tra villaggi vicini e soprattutto in un