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Il trionfo della morte, l’uomo moderno, la religione e il rito

Nel documento Gabriele D'Annunzio e le varianti del rito (pagine 60-102)

Come abbiamo visto i protagonisti delle novelle dannunziane erano contadini e persone di umile condizione e poca cultura, che vivono con ardore e quasi sempre anche con fanatismo ogni momento della vita religiosa della comunità.

Nelle opere successive, il narratore sposta invece la sua attenzione sul

comportamento di figure che fanno parte della borghesia o dall’aristocrazia, per arrivare alla stessa conclusione: che gli esseri umani di poca intelligenza e di poco spirito considerano la religione un modo per conquistare favori e benessere

materiale. Nel romanzo Il trionfo della morte, pubblicato nel 1994, D’Annunzio attraverso

la voce di Giorgio Aurispa, esprime i suoi desideri, i suoi sogni, ma torna anche a riflettere sulle credenze e superstizioni della gente abruzzese. Il protagonista è un giovane di venticinque anni, che dedica molto tempo e attenzione all’analisi della sua interiorità: una persona ipersensibile, un “malato di nervi”, che sogna di

scoprire il segreto del mondo. Questa volta, D’Annunzio ambienta la vicenda a Roma, in un ambiente cupo e

decadente, dove il male di vivere si manifesta in ogni momento. Il rifiuto della vita urbana che si percepisce nel romanzo è la proiezione di una sofferenza che l’autore stesso pativa nella vita reale. Come sappiamo anche dall’epistolario e dalle cronache mondane, egli senti svariate volte il bisogno di abbandonare la vita frenetica della capitale per rifugiarsi nel silenzio e nella natura abruzzese. Le forze

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benefiche del mare e della montagna avevano infatti un’influenza positiva sullo spirito del poeta e, quindi, indirettamente, sull’elaborazione letteraria di alcuni dei suoi personaggi.

Come sottolineava Angela Tumini nel suo libro Il mito nell’anima, magia e

folklore in D’Annunzio71, il narratore mostra un atteggiamento problematico nei

confronti delle figure femminili, che distingue idealmente dividendole in due categorie: da una parte Eva con le sue eredi, donne che hanno un’influenza negativa sui protagonisti maschili, e dall’altra parte la Madre Maria, e tutte le madri che sono donatrici di vita e di conforto nei momenti di crisi e di sofferenza. Nel Trionfo della morte, Giorgio Aurispa è alla ricerca della sua felicità, del senso della sua esistenza. Il dibattito interiore è l’elemento essenziale del romanzo. Il poeta vuole dare voce a “una particolar vita, sensuale, sentimentale, intellettuale, di un essere umano collocato nel centro della vita universale.”72

Come aveva osservato il critico Renato Barilli nello studio La poetica dell’anti-

romanzo, D’Annunzio ha saputo analizzare gli aspetti essenziali della vita del suo

personaggio, mettendo in discussione il rapporto tra scienza e mistero, cercando di capire quali fossero le forze che governano la vita e gli esseri umani. Cosi la prosa dannunziana mescola ad ogni passo “la precisione della scienza” con “le seduzioni del sogno”. D’Annunzio attraverso il suo alter ego Giorgio,

…si agita, ricerca, sperimenta senza sosta, compulsando febbrilmente ogni nuovo apporto scientifico, o estetico, o misteriosofico, riprendendo senza tregua

71 A. Tumini, Il mito nell’anima, magia e folklore in D’Annunzio, Casa editrice Rocco Carabba,

Lanciano, 2004.

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l’autopsia sul cervello del protagonista, attribuendogli una mole spropositata di stati, di reazioni, di percezioni, impostando via via equazioni diverse per tentare di spiegarne le modalità di funzionamento, nell’unica consapevolezza che, comunque, queste sono aperte, dinamiche, sfrangiate.73

La mancanza di azioni, di fatti, viene sostituita con un fiume di parole. Renato Barilli ha osservavo il fatto che D’Annunzio aveva condotto una sua coerente revisione di tutte le parti che compongono “il poema”: la “fabula” cioè la storia, dove l’azione viene messa in secondo piano, mentre “l’ethos”, il carattere, viene concentrato in una sola persona, e poi, il “lexis”, un nuovo linguaggio, di

confessione, tratto dall’eloquenza latina, dalla lingua degli asceti e dei predicatori. Nel romanzo, rispetto alle novelle, l’ambiente e le persone diventano più raffinate, più ricercate, più sofisticate. Ma tutto questo non gli aiuta a comprendere i misteri della vita.

La modernità appare volgare, opprimente, non resta che evocare le

ombre del passato, sperando che queste aprano la porta del futuro.74

Le tematiche affrontate nel romanzo sono molteplici: il rapporto con la donna, l’amore che si trasforma in odio, il rapporto difficile con la famiglia (l’affetto per la madre e lo scontro con il padre), il rapporto con le proprie origini, con il popolo

e la propria terra. Come ho cercato di fare nei capitoli precedenti, anche in questo analizzerò i riti e

il modo in cui D’Annunzio descrive le tradizioni della sua terra, la religione e le

pratiche superstiziose che governano la vita delle persone.

73 R. Barilli, D’Annunzio in prosa, Civiltà letteraria del Novecento, Mursia, Milano, 1993, pag.90 74 Idem pag.92

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Il protagonista, Giorgio Aurispa ritorna alla casa natale, a Guardiagrele, richiamato dalla madre per risolvere delle questioni famigliari che soltanto lui, come primogenito, aveva il diritto e il dovere di fare. Il confronto con la propria famiglia fanno emergere delle differenze inconciliabili. Affetto e odio,

attaccamento e ripulsa si mescolano e si alternano, a seconda delle persone che

Giorgio si trova di fronte. Con il ramo maschile della famiglia è guerra fredda, invece con le donne i rapporti

sono affettuosi. Nel complesso, comunque, Giorgio si sente un estraneo nella propria casa.

L’unico legame che resiste al tempo e alle vicissitudini della vita è quello con il defunto zio Demetrio, che “era stato il suo vero padre”, “il suo vero unico parente”.

In principio, Giorgio sembra sollevato dall’atmosfera che si sprigiona dal paesaggio abruzzese, dalla natura trionfante:

La luna di maggio splendeva sui vetri dei balconi. […] un’immensa pace regnava nella valle sottostante e la Maiella, tutta ancora candida di nevi, pareva ampliare l’azzurro col suo semplice e solenne lineamento. Guardiagrele dormiva, simile a

un gregge biancastro, intorno a Santa Maria Maggiore.75

D’Annunzio, come il suo personaggio Giorgio, vuole fare parte di questo mondo antico, ma allo stesso tempo, se ne vuole differenziare nell’umanità e negli ideali di vita:

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Le donne, i fiori, il bosco, il mare, tutte quelle cose libere e inconsapevoli che respiravano la voluttà della vita intorno a lui, gli blandivano la superficie

dell’anima, gli sopivano il sentimento abituale ch’egli aveva del proprio essere gli davano un sentimento progressivo, armonico, quasi ritmico d’una facoltà nuova, che egli si svolgesse a poco a poco dall’intimo della sostanza e gli si rivelasse in una maniera assai vaga, come in una specie di visione confusa d’un segreto divino.[…] straordinario, il sentimento della mistica potenza che teneva alle

radici la grande razza indigena da cui egli medesimo proveniva.76

Già dalla prima sera passata nella casa natale, Giorgio è spettatore curioso e partecipe dalla morte del vicino di casa, Don Defendente Scioli:

Un grido improvviso risonò nel silenzio, dalla finestra illuminata, un grido di donna. Poi altri gridi seguirono; poi segui un singhiozzare continuo che si elevava e si abbassava come un canto cadenzato. L’agonia era finita. Si disperdeva uno spirito nella notte omicida e calma.77

Giorgio ha come un presentimento funesto, di perdita delle forze e volontà di vivere. Vede nella vita “un agonia” a cui l’essere umano è sottoposto per volontà sconosciute e l’unico modo per liberarsene è la morte. Per il momento, la

sofferenza che prova è dovuta alla lontananza della donna amata, senza la quale “ è impossibile la vita.”

Giorgio assiste a una prima cerimonia religiosa raccontata nel romanzo, un rituale funebre:

Escivano dalla porta gli accompagnatori funebri, con le insegne. La barra era portata da quattro uomini incappati, su le spalle. Due lunghe file di incappati seguivano tenendo in mano torchietti accesi. […] e i torchietti si struggevano lacrimando. Ciascun incappato aveva a fianco un fanciulo scalzo che raccoglieva

76 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, pag.59. 77 Idem pag.62.

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la cera liquefatta nel concavo d’ ambe due le mani. Come fu tutto svolto nella strada, il corteo, una banda di suonatori vestiti di rosso e impennacchiati di bianco

intonò la marcia funebre. I mortuari misurarono il passo sul ritmo della musica. Il mistero della morte avvolge tutto, il ritmo della marcia funebre accompagnava

il lamento funebre delle donne di casa. Il lento fluire della processione richiama per analogia il lento scorrere della vita. È da notare che il rito funebre si svolge al cospetto di tutta la comunità, che partecipa in segno di rispetto per il defunto e per dare sostegno alla famiglia che ha subito una perdita importante. Ma, come spesso accade nella narrativa dannunziana, la solennità del momento evocato viene incrinata dal ragionamento della mente fredda e dalla sofferenza interiore del protagonista.

Giorgio pensava: «Che onoranza triste e ridicola segue la morte d’un uomo!» Vide sé stesso nella barra, chiuso tra le assi, portato da quegli uomini mascherati, accompagnato da quelle torce, da quell’orribile strombettio.78

La cerimonia religiosa non trasmette a Giorgio il messaggio che viene ricevuto dalla gente comune, egli si sente soltanto disgusto per quello spettacolo grottesco. La fredda lucidità non può far altro che sottolineare il destino che incombe su ogni essere vivente. Anche le parole della madre confessano i pensieri sulla vita e sulla morte: “E entrato nella pace; e noi restiamo a penare.”

La vita è vista come un calvario e la morte si trasforma nella pace tanto agognata. Lo stesso pensiero è stato espresso da Giorgio all’inizio del romanzo: “Beati i

morti perché non dubitano più.” Il fatto che Giorgio e la madre hanno lo stesso pensiero davanti alla morte, anche

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se in momenti diversi, dimostra il collegamento tra le due anime tormentate, “le rispondenze misteriose del sangue comune”.

Il pensiero ossessivo della morte tormenta Giorgio continuamente, dal momento in cui era entrato nelle stanze dell’adorato zio Demetrio:

Egli aveva ereditato il possesso di quelle stanze, insieme con tutta la fortuna del suo zio. Le aveva conservate intatte, religiosamente, come reliquarii.79

Come ha Ernesto De Martino in Morte e pianto rituale nel mondo antico è necessario far morire in noi i defunti per poter continuare a vivere. Giorgio non compie questo passaggio: al incontrario, accresce l’importanza della figura idealizzata di Demetrio, “il fiero e gentile sangue”, e tutto quello che egli ha fatto diventa affascinante, vita e morte, nella stessa misura. 80

Giorgio, chiuse la porta, si trovo al fine solo, libero, nella casa del defunto, in compagnia invisibile. Rimase fermo, qualche minuto, come sotto un’influenza magnetica. Profondissimo gli divenne il sentimento del fascino soprannaturale che dal sepolcro esercitava su di lui quell’uomo esistente fuor dalla vita. […] Per me, esiste!81

Giorgio entra nelle stanze dello zio con estrema cura e attenzione ed esse

assumono le sembianze di un luogo sacro, mentre le emozioni diventano sempre più intense e sconvolgenti. È un mondo fatto di simboli: il letto dove giaceva il corpo di Demetrio viene ricordato come un altare, il violino dorme nella custodia

79 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, pag.119.

80 E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento funebre antico al pianto di

Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

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come fosse un corpo, gli spartiti con le opere musicali che i due suonavano insieme simboli della comunione affettiva.

Il desiderio di trovare pace nella morte, come ha fatto Demetrio, si fa sempre più forte, ma sorgeva una domanda difficile: come morire? morire narcotizzato, aspettando il sonno eterno, o spararsi, per vedere gli effetti che la sua morte ha sulla madre e sulla dona amata? L’unico rammarico di Giorgio è di morire in quella piccola città, dove la gente non può comprendere il suo gesto. Egli vorrebbe morire in una grande città, dove gli amici lo conoscono e potrebbero ammirare per quel gesto che sarebbe stato un’affermazione di vita, compiuto “per

non aver potuto rendere la sua vita conforme al suo sogno.” Giorgio immagina il proprio funerale, prevede la processione, la veglia funebre a

lume di ceri, il feretro coperto de corone di fiori, il discorso di un amico che salutava il defunto, la disperazione e la follia di Ippolita. Giorgio si definisce, come Demetrio e D’Annunzio, “ascetico senza Dio”, un’anima religiosa, ma che

non trova conforto in Dio. Paradossalmente Giorgio vive in comunione con il morto e non con i vivi. Né

l’amore di Ippolita, né l’affetto della madre e della sorella Cristina, riusciranno a colmare il vuoto che ha dentro.

D’Annunzio ha riversato nel profilo del suo personaggio, Giorgio Aurispa il disaggio sociale degli intellettuali che sono partiti per il mondo, lontani dalla terra natale, che hanno coltivato i nuovi interessi per le scienze, ma hanno perso di sensibilità e di umanità, fino a dimenticarsi di vivere la vita vera, “intelletti

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singolari, spiriti rari, dediti alle più alte speculazioni della scienza moderna, freddi esploratori della vita, che hanno il culto appassionato del sogno.”82

In Giorgio Aurispa sembra di vedere uno degli intellettuali di fine secolo, che lo studioso Max Nordau83 aveva descritto come individui “egoisti e impulsivi, sofferenti di malattie nervose che posso trasformarsi in pazzia.” Il degenerato” Giorgi si nutriva di musica, e la sua sensibilità e eccitabilità erano viste come segno di superiorità intellettuale. Nordau descriveva il “degenerato” come sdegnoso della massa, del popolo considerato volgare e limitato mentalmente, sempre tormentato dalle paure di tutto e di tutti. Oltre che in sé stesso, Giorgio vede i segni degenerativi nel nipotino Lucchino, bambino fragile e pauroso,

malato e troppo sensibile. D’Annunzio mette in scena un rituale funebre, nel quale sembra che Giorgio e la

sorella Cristina preparino il corpicino gracile per la morte, invece che per il sonno: Egli la guardava mentre svestiva il bimbo. A poco a poco ella lo svestiva con cautele infinite, come temendo di infrangerlo; ed ogni gesto di lei rivelava dolentemente la miseria di quelle membra esili ove già incominciavano ad apparire le deformazioni della rachitide incurabile.[…] Giorgio provo una pietà dolorosa fino allo spasimo scorgendo quelle piccole ascelle gracili che parevano rivelare pur in quel semplice atto la pena d’uno sforzo contro il languore letale ove la tenue vita sta per estinguersi.[…] Poi prese le mani del bimbo: gli mosse quella dal dito fasciato, nel segno della croce, dalla fronte al petto, dall’una all’altra spalla; glie le congiunse nel amen. Una gravità funebre era in ogni cosa. Quel bimbo pareva già un morticino, nella sua lunga camicia bianca. […] Fratello e sorella, ancora una volta confusi nella medesima tristezza, sedettero al

capezzale, da una parte e dall’altra. E non parlarono. […] entrambi erano assorti

82 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, pag. 81-82.

83 Max Nordau, Degeneration, in Angela Tumini, Il mito nell’anima, magia e folklore in

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nella contemplazione di quel sonno che ad entrambi dava imagine delle morte.[…] Passo un tempo indefinito.84

Lo pseudo – rituale si svolge in un tempo sospeso, che avvolge fratello e sorella in una profonda tristezza, dove solo l’elemento intimo e sacro può dare un minimo conforto e un po' di forza nell’accettare un tale destino crudele. Giorgio vede nel nipote Luchino, sé stesso e, forse anche la prefigurazione di un suo ipotetico

erede, che sarebbe, a sua volta, predestinato alla morte. Se da una parte la famiglia si disgrega per motivi economici, i suoi membri recano

i segni evidenti di un disfacimento fisico. Giorgio vive intensamente il dramma del nipote e si commuove profondamente assistendo a quel rituale intimo, privato, che la sorella e il figlio mettono in scena: la lentezza dei movimenti, la cura che essa mette nel vestire il bambino, il letto sembra un catafalco, il silenzio che avvolge le anime, la tristezza e la paura della morte. La sorella Cristina è incinta e spera con tanto ardore che il futuro nascituro sia sano e possa portare in famiglia

un lume di speranza. L’affetto che lega Giorgio alla sorella rimanda al mito dell’amore della sorella

amante, un legame totalizzante a cui il protagonista aspira anche nella relazione con l’amante Ippolita. Il destino vuole che Giorgio abbia perso una sorella di nome Ippolita, e anche per questo, lui vede nella donna sia la sorella che l’amante. Cosi come Cristina è l’unica capace di consolare il figlio, anche Giorgio vedeva nella madre l’unica persona capace di capire le sue sofferenze e di alleviarle. Giorgio, alter ego di D’Annunzio, trova sollievo nella saggezza della madre, nella

sua cultura religiosa e dedita alla cura della famiglia.

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È importante ricordare il rapporto che D’Annunzio ha avuto con sua madre: un legame strettissimo, come se il cordone ombelicale non fosse mai stato reciso, un

legame il cui ricordo attraversa tutta l’opera dannunziana. La sua morte, avvenuta il 17 gennaio 1917, sconvolse la vita di D’Annunzio,

inaugurando un periodo di solitudine e di tristezza profonda, fatto testimoniato nella corrispondenza con Marietta Camerlengo, domestica fedele della famiglia.

Cara Marietta, il 27 prossimo e il Trigesimo della morte della nostra Santa. Io speravo di tornare a Pescara e di risalire al Cimitero. Ma non sono riuscito a togliermi di dosso il mio malessere…Per ciò ti prego di portare molti fiori sulla tomba, e di far dire una gran messa. Mario mi ha scritto che tu avevi stabilito un servizio settimanale col fioraio, per 40 lire. Ti accludo cento lire. Le restanti sessanta servono ai fiori del Trigesimo. Portale da parte mia molte violette, e mandami tre violette in memoria.

Io penso sempre la mia morta. Scrivo ad Antonino per il monumento, che conterrà due arche: una per la santa e una per me. Ti raccomando la casa, e specialmente le due stanze sacre.85

D’Annunzio, con il suo stile ricercato, con un tono quasi biblico, commemora la madre come fosse una santa. Dal testo della lettera emerge la preferenza per le violette, fiori che venivano utilizzati dai tempi dei greci e dei romani per addobbare le tombe dei defunti. Nel romanzo Il trionfo della morte, le violette ritorneranno insieme a tanti altri fiori e piante, il ginepro, l’agrifoglio, l’alloro, l’ulivo, simboli della comunione dell’uomo con la natura.

85 F. Di Tizio, Il Camarlingo alla Camerlengo, Carteggio inedito Gabriele D’Annunzio-Marietta

Camerlengo, Centro Nazionale di Studi Dannunziani e della Cultura in Abruzzo, Ediars, Pescara,

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Il simbolo naturale più importante per D’Annunzio lo rappresenta la montagna, la Maiella, madre santa della razza abruzzese, “ceppo originale”, altare, simbolo di elevazione dello spirito che sta al di sopra delle vite ordinarie. I pellegrinaggi alle montagne sacre simboleggiavano il graduale distacco dal piano della quotidianità e l’ascensione spirituale. Tante volte gli antichi sacrari montani erano visti come covi segreti dove si ritrovavano gli spiriti malvagi e per cancellare i culti pre- cristiani venivano innalzate delle croci e costruite delle piccole chiese.86

Nel Trionfo della morte, D’Annunzio affianca la figura della madre alla montagna sacra, per preservare la sacralità ed il carattere divino della donna. Nella

narrazione, egli fonde i simboli pagani con i simboli cristiani, nell’intento di scoprire il divino. Il sentimento di riverenza che deriva dall’affetto filiale del poeta si lega al bisogno si conoscere il sovrannaturale, di scoprire i misteri della vita, le gradi forze che muovono gli esseri umani. Giorgio Aurispa, cosi come lo zio Demetrio e come D’Annunzio “[…] amava gli emblemi della religione, la musica sacra, l’odore dell’incenso, i crocefissi, gli inni della chiesa latina. Era un mistico, un ascetico, il più appassionato contemplatore della vita interna. Ma non credeva in Dio.”87

Nel documento Gabriele D'Annunzio e le varianti del rito (pagine 60-102)