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II. Seguendo le tracce dell’etica aristotelica di Alberto: il secondo commento all’Etica Nicomachea

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Academic year: 2021

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Dal capitolo preso in considerazione emergono numerose tematiche di carattere etico, morale, politico, ma non solo. Nonostante si tratti di un’esegesi biblica, Alberto attinge a tutto il suo bagaglio di sapere, toccando i più svariati ambiti, dalla teologia alla filosofia, dalle scienze naturali all’astronomia. Anche gli auctores cui fa riferimento e da cui trae le numerose citazioni sono molteplici, tra padri della chiesa, autori classici, pensatori greci e latini. Ma tra le molteplici influenze che emergono nell’argomentare di Alberto, una su tutte spicca con incontestabile chiarezza: quella di Aristotele. Al di là dei frequenti richiami espliciti, lo spirito aristotelico è percepibile in ogni tratto, tanto di lui è stato assimilato da Alberto, non solo per quanto riguarda i contenuti teorici particolari, ma anche per la stessa concezione generale dell’intero sapere e della logica come suo “organon”. Quando infatti Alberto si trova a scrivere il commento a Matteo, aveva già da alcuni anni avviato il suo progetto di un commentario completo dell’intero corpus aristotelico, nell’intento dichiarato di «renderlo intelligibile ai latini». La totalità delle opere di Aristotele era stata resa disponibile proprio allora, nei primi decenni del XIII secolo, grazie ad un nuovo ed intenso lavoro di traduzioni che, a partire dalla seconda metà del XI secolo, coinvolse le migliori forze intellettuali europee e permise finalmente la conoscenza e la diffusione di testi greci, arabi, ebraici fino ad allora sconosciuti all’Occidente latino.

Per meglio comprendere il pensiero etico di Alberto è dunque imprescindibile il suo rapporto con l’Etica Nicomachea di Aristotele. Due sono in realtà i commenti

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realizzati da Alberto sull’Etica aristotelica: il primo1, in forma di quaestiones, raccoglie il frutto delle lezioni che il maestro domenicano svolse a Colonia tra il 1248 e il 1252; il secondo2 invece si colloca una quindicina di anni dopo, verso la fine degli anni ’60, ed è in forma di parafrasi. Entrambi i commenti si basano sulla traduzione realizzata nel 1246-7 da Roberto Grossatesta, grazie al cui lavoro si rese per la prima volta disponibile al mondo latino una versione integrale del testo aristotelico, arricchita dalle annotazioni di commentatori greci, che andò a sostituire quelle parziali, incomplete, ma fino ad allora le uniche circolanti, dette Ethica Vetus (libri II-III) e Ethica Nova (libro I). Alberto Magno fu il primo a cimentarsi nel commento della versione del Grossatesta, costituendo così l’impostazione di base su cui si sviluppò in seguito, tra la fine del tredicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo, la riflessione sulle problematiche etiche e politiche sollevate dallo studio dell’opera in questione.

Considerando che il commento al vangelo di Matteo, secondo le ricostruzioni, deve essere stato scritto a Colonia nel periodo compreso tra il 1257 e il 1264, esso viene a collocarsi proprio tra i due commenti all’Etica. Come già accennato, a partire dal 1240 il magister domenicano aveva dato inizio alla produzione di commenti sull’intero corpus aristotelico, cosa che lo tenne occupato per il successivo ventennio. Fu con tutta probabilità il progressivo procedere in questo studio che rese poi necessaria la stesura di un secondo commento all’Etica: alcuni punti andavano infatti rivisti alla luce della lettura di opere fondamentali come la Metafisica e la Politica, entrambe commentate da Alberto a metà degli anni ’60 e quindi successive di una decina d’anni al primo commento. Tra i cambiamenti apportati, si può citare ad

1 Super Ethica commentum et quaestiones [Super Ethica], ed. W.Kübel, in Alberti Magni Opera

Omnia, vol. XIV.1-2.

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esempio quello che riguarda la comprensione del rapporto tra bene comune e bene individuale nel primo libro dell’Etica, illustrato da M. S. Kempshall nel saggio dedicato ad Alberto all’interno del suo The Common Good in Late Medieval Political Thought3: da un confronto tra le due successive versioni, risulta infatti evidente come da una concezione puramente quantitativa della differenza tra bene comune e bene individuale, che vede il primo come il risultato della somma dei secondi, si passi invece nel commento posteriore a una differenza secundum speciem: il bene comune è ora considerato come un intero potenziale, presente in ognuna delle sue parti solo in potenza; i singoli beni sono tali infatti solo per analogia, in quanto cioè derivano da uno stesso principio e tendono ad uno stesso fine, che è il bene comune, e di quest’ultimo partecipano in modo inversamente proporzionale alla loro distanza da esso. Tale sviluppo, continua Kempshall, si può meglio comprendere facendo riferimento ad altre due opere aristoteliche: se è al primo libro della Politica che si deve risalire per rintracciare una descrizione della comunità civile come entità organica in sé autosufficiente le cui parti, vale a dire i singoli cittadini, hanno senso solo in rapporto ad essa, come le membra in rapporto all’intero organismo, è invece nel quarto libro della Metafisica che si trova illustrato il rapporto analogico, in base al quale è possibile stabilire una connessione tra singole entità nel caso condividano un comune termine di riferimento.

Ma torniamo ora al capitolo dal quale siamo partiti e andiamo a ricercare nel secondo commento all’Etica quelle stesse tematiche che nel commento a Matteo sono sì presupposte, vista la sua posteriorità rispetto al primo commento, ma nello stesso tempo non ancora così ben definite come nel secondo.

3 M. S. Kempshall, The Common Good in Late Medieval Political Thought, Clarendon Press, Oxford

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II.1. La virtù

Cominciamo con il concetto di virtù, che nel commento a Matteo, lo ricordiamo, veniva definito come quell’habitus che in unoquoque genere operum voluntariorum et rationabilium honorum facit attingere optimum4, e che, nonostante sia unico, nel suo essere un "tutto potenziale", comprende in sé una molteplicità di elementi. Analogamente, nell’Ethica albertina virtus è habitus ex quo bonus homo fit et a quo suum opus bonum reddit. Alberto si rifà a Socrate: ogni virtù, di qualsiasi cosa essa sia, perfeziona ciò di cui è virtù e rende un bene la sua azione5. Essa è il grado sommo di perfezione e compiutezza cui può giungere una qualunque potenza6. Ogni ente avrà perciò una propria specifica virtù nella quale la sua essenza troverà piena realizzazione. Anche la virtù per l’uomo viene quindi definita in conformità alla sua essenza, vale a dire ciò che caratterizza l’uomo in quanto uomo.

Ma homo in quantum homo est, intellectualis et rationalis est7. Di conseguenza

la virtù per l’uomo sarà ciò che, relativamente all’anima dell’uomo, tutto dispone al raggiungimento di quell’optimum, di quel sommo bene umano che consiste nel massimo dispiegamento della potenza razionale.

L’anima umana infatti, nonostante sia una e indivisibile in quanto sostanza incorporea, molteplice è invece secundum esse et rationem, per il fatto cioè di essere atto del corpo e quindi dei diversi organi8. Ricondurre sotto il controllo della ragione

4 Alberti Magni, Super Matthaeum, ed. Schmidt, Aschendorff 1987, vol.XXI - 1, cap. V, p. 103, rr.

21-45

5 Ethica, II-II, c. 2, Borgnet, 171

6 «Virtus ultimum est potentiae in unoquoque: ultimum autem in unoquoque completum est et

perfectum», Eth., I-I, c.1, Borgnet, 2

7 Eth., I-I, c. 1, Borgnet, 13

8 «anima una substantia est ex qua diversae fluunt potentiae, quarum quaedam conjunctae sunt

corpori, quaedam autem separatae …potentiae istae sunt partes potestativae animae et virtuales, non differentes secundum substantiam, sed secundum esse et rationem. …anima secundum quod in genere substantiae incorporeae est, indivisibilis est: secundum autem quod actus corporis est, diversimode immergitur in corpus, et sic diversarum efficitur potentiarum», ibid. I-IX, c.3, Borgnet, 142

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le varie potenze in cui l’anima si esplica nonché moderare le passioni a cui è soggetta, è proprio ciò in cui consiste la virtù, che perciò è definita ordinans circa passiones e in ordine tenens ne affectu abducatur a meta mentis: due distinte fuzioni su cui poi si sviluppa la distinzione tra virtù morali e virtù intellettuali9.

La ragione infatti si può dire direttiva in modo duplice: o in quanto dà forma alla facoltà appetitiva attraverso un atto intellettuale interiore, oppure in quanto mostra e indica tale forma, ma non la dà attivamente10, nel senso che essa è già stata assimilata per consuetudine dalle potenze inferiori ex actu voluntario saepius reiterato. Nel primo caso, dove si ha l’intervento attivo della facoltà razionale, si parla di virtù intellettuali, nel secondo invece, dove un ruolo preponderante è ricoperto dall’abitudine e dalla disposizione naturale, si ha a che fare con virtù morali.

Natura, consuetudine, ragione sono, si può dire, gli ingredienti che costituiscono ogni virtù, anche se l’apporto di ciascuno varia nelle due classi individuate. Se infatti è vero che nessuna virtù è già dispiegata nell’uomo per natura, è tuttavia per disposizione naturale che siamo potenzialmente capaci di assumerle: i primi semi della virtù sono quei principi primi della ragione che per natura appartengono ad ogni uomo in quanto tale per derivazione diretta dalla causa prima, origine di ogni esistenza e dell’intelligibilità stessa, e che pertanto sono naturalmente

9 Ethica, I-I, c. 1, Borgnet, 13

10 «quo homo efficitur propria operatione operativus…non est nisi natura quae est rationalis…natura

quaedam rationem habentis. Sed adhuc rationem habens dupliciter est. Quoddam enim rationale: quia secundum suiipsius naturam ratiocinativum est. Aliud autem rationale…quia ratione excitatur et informatur ad opus: et ideo dicitur rationale sicut persuasibile a ratione et obedibile rationi, sicut partes sensibilis animae quae dicuntur concupiscibilis et irascibilis», Eth., I-VI, c. 6, p. 90; «opus hominis ut homo est, est operatio animae, secundum rationem vel non sine ratione…: quia vel ratio per se operatur ipsum, vel inferior potentia quae rationem participat secundum persuasibile esse a ratione», Eth., I-VI, c. 7, p. 93; «Ratio est dirigens in omni virtute…dirigens est duplex. Unum quidem per modum eius quod dirigit dando formam, et per consequens dat ea quae sequuntur formam, quae sunt modus, locus, et finis. Alterum autem est quod est dirigens sicut ostendens et indicans formam et non dans, et sic dirigit ratio in moralibus virtutibus…», Eth., I-VII, c. 3, Borgnet, 109

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orientati al bene11. Da questi primi germi possono poi svilupparsi le varie virtù solo attraverso l’esercizio e la pratica costante di azioni virtuose, tramite le quali la virtù si consolida come habitus12 e diventa così possesso stabile dell’uomo buono. Per

questo, riguardo le virtù, si può dire che la potenza preceda l’atto, sebbene sia una precedenza solo temporale: l’atto viene realizzato esclusivamente grazie a una ripetuta applicazione, la forma perfetta e compiuta è il risultato di un graduale processo di perfezionamento13. Questo del resto lo ritrovavamo già nel commento a Matteo, dove, citando la celebre metafora di Aristotele14, Alberto affermava che, come la primavera è costituita da un succedersi di giorni via via più sereni e non da un solo unico giorno, così per un animo perfetto si richiede una virtù consolidata in tutte le sue parti tramite una lunga consuetudine15.

Quanto detto va inoltre a confermare la sensatezza propria della scienza morale: se la virtù fosse infatti qualcosa di totalmente indipendente dalla volontà umana, perché dono divino oppure frutto esclusivamente della natura o del caso, non

11 «sumus natura nati suscipere virtutem, ita quod virtutum inchoatio ex ipso ordine rationis ad

bonum in nobis per naturam est. …prima semina virtutum intellectualium sunt lumina intellectualia ab intellectualitate prima procedentia. Instrumenta autem sunt prima principia, quae sunt communi animi conceptiones, quas quisque probat auditas. …similiter oportet quod sit in moralibus», Eth. II-I,

c. 2, Borgnet, 152

12 «exercitium enim causa potestatis est in omni potentia operativa: quia sicut in universalibus

potentia primo fluctuat non coadunatis virtutibus subiecti …successivis autem exitibus operationum continue adunatur habitus, et semper perfectiores reddit operationes», Eth. II-I, c. 4, Borgnet, 155; «ex non operari autem haec nullus utique fit bonus …sed multi haec quidem non operantur facientes aliquid simile, ac si bene virtutis sit in solo scire. Et ideo ad ratione confugientes exstimant philosophari de moribus et sic fore studiosi, neglecta electione et operatione …nec isti bene habebunt secundum animam tantum philosophantes», Eth. II-I, c.11, Borgnet, 167

13 «virtutes non habuimus, sed potius accepimus operantes et ab usu operationum. Unde prius in

talibus est usus operationum, et potius haec acceptio virtutum»; «…unde in talibus quamvis potentia naturalis sit, ex natura tamen actus et complementum est in operationibus. Et ideo operationes procedunt sicut causa, et complementum sequitur. Unde in talibus potentia praecedit actum tempore in eodem, quamvis in diversis actus potentiam praecedat et tempore et ratione et substantia: sicut et in omni natura stat ordo iste», Eth. II-I, c. 3, Borgnet, 153

14 Aristotele, Eth. Nic. l.1 c.6 1098a 18-19

15 «Perfectus autem animus non est ex una virtute nec ex parva consuetudine virtutis, sed ex virtute

antiquata per consuetudinem et adunata cum omnibus in animo. Non enim idem est esse perfectam potentiam per virtutem et perfectum esse animum. …Propter quod dicit Aristoteles, quod una clara dies non facit vernum tempus, sed vernum tempus facit clarior dies continue succedens clarae», SM,

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avrebbe senso parlare di scienza in ambito etico; ma dal momento invece che la virtù umana si fonda su principi razionali e si consegue attraverso azioni volontarie di cui siamo pienamente padroni16, essa va annoverata tra i scibilia bona e può essere a pieno diritto oggetto di scienza17. Ne consegue quindi che la virtù, per quanto ha di razionale, possa essere insegnata, mentre per quanto in essa dipende dal frequente agire in un determinato modo, essa si costituisca per abitudine18. Quale di questi due aspetti della virtù sia preponderante, se cioè sia più discibilis o più assuescibilis, dipende dalla distinzione precedentemente introdotta tra virtù morale e virtù intellettuale. Alla prima tipologia giova poco o nulla il sapere inteso in senso speculativo o in senso universale, scollegato cioè dal qui e ora in cui si agisce19: la funzione moderatrice delle passioni che contraddistingue la virtù morale, come accennato più sopra, non richiede alcun intervento da parte della ragione, seppure con quest’ultima venga mantenuta in ogni caso una connessione imprescindibile per il fatto che comunque si ha a che fare con un habitus in-formato, e quindi in un certo senso razionale20, e che il concetto di medietà cui nelle virtù morali si fa costante

16 «Omnes virtutes sunt proprietates hominis ut homo est…quaedam sunt intellectuales, et quaedam

morales. …tam intellectuales quam morales causatae sunt ab homine ut homo est. homo autem dominus operationum suarum non est nisi per voluntatem», Ethica, II-I, c. 1, Borgnet, 150

17 Eth., I-I, c. 1, Borgnet, 4 18 Eth., I-VII, c. 3

19 «ad virtutes et virtutum opera scire quidem parum aut nihil prodest ad bene et optime virtutum.

…quia etiam a non sapiente, et non intelligente, et non sciente aliquando melius fit: et sic scire nihil confert quantum ad laudabilitatem operis, sed ad hoc quod opus sit, parum confert, tantum scilicet ne ignoratum sit vel involuntarium per ignorantiam …propter quod et parum scire sufficit», Eth. II-I, c.

11, Borgnet, 166

20«in anima duplex agens. … agens primum est intellectus praticus ad morales virtutes. Agens autem

proximum est appetitus ratione participans per voluntarium, cuius principium est in ipso consciente singularia, in quibus est actus. …non ergo operatio secundum quod circa passionem est, generat virtutem, sed potius secundum quod informata sit sic forma primi et activi intellectus, et forma proximi elicientis operationem», Eth., II-I, c.3, Borgnet, 153; «quia licet consuetudo per modum naturae sit, tamen in virtute morali si consuetudo ab ordine rationis separetur, virtutem moralem non perficit. …licet forma rationis non sit forma proxima et constitutiva virtutis moralis, tamen est forma prima», Eth., I-VII, c.3

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riferimento, sia pur sempre indicato dalla ragione21. Se anche quindi nelle virtù morali non si nega l’apporto della facoltà intellettiva, tuttavia predomina nel loro processo generativo l’aspetto consuetudinario. Diversamente, le virtù intellettuali plurimum ex doctrina habet generationem et augmentum22, in conseguenza del fatto che in esse la ragione e i suoi principi primi svolgono un ruolo attivo nell’ordinare e tenere sotto controllo le facoltà inferiori ad essa subordinate. Più facilmente possono quindi essere oggetto di studio e di insegnamento.

Fatte queste dovute precisazioni, conviene tuttavia sottolineare ancora una volta la quasi totale disponibilità delle virtù rispetto al volere umano, sia che vengano ottenute ex more o al contrario ex doctrina: chiunque infatti possiede una capacità intellettiva nella norma (e qui si escludono i “bruti”, gli insufficienti mentali e i bambini) può fare in modo di acquisire la virtù, se solo lo voglia23.

II.2. La felicità

La virtù costituisce quindi la massima realizzazione dell’uomo in quanto uomo, in quanto cioè essere dotato di ragione. Nella sua perfezione e completezza, essa è raggiungibile solo tramite un processo che richiede tempo, disciplina e esercizio per lo sviluppo di tutte le singole virtù. Sebbene infatti si possa parlare al singolare della virtù umana, si deve tuttavia essere consapevoli che con il termine si indica una

21 «Quamvis enim virtus moralis moderativa et ordinativa sit passionum, moderari non respicit ad

rationem, sed ad naturae facultatem et medium. Ordinare autem de necessitate respicit ad formam rationis. …Formam igitur medii secundum hoc virtus moralis accipit a natura, et non a ratione. Sed hoc verum est, quod hoc medium naturae indicat ratio»; Eth., I-VII, c. 3

22 Eth., II-I, c.1

23 «Possibile est quod hoc bonum omnibus consistat per quamdam disciplinam et studium, qui non

sunt orbati ad virtutem…in quantum scientia vel sapientia est et per studium frequentis operationis generatur in homine in quantum assuescibile bonum est, ab omnibus acquiretur studium et disciplinam apponentibus: hoc autem omnes facere possunt qui non sunt orbati ad virtutem. Orbati autem ad virtutem sunt, qui ex distractione intellectus et rationis, capaces virtutis non sunt, sicut moriones et fatui» Eth., I-VII, c. 7, Borgnet, 116

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realtà non semplice ma composta, e non al modo di un aggregato, costituito dalla somma delle parti che lo compongono, ma di un totum potestativum, di un intero cioè le cui parti costituenti sono presenti in esso potenzialmente e in funzione di esso soltanto si realizzano. Le diverse virtù pertanto vanno comprese e ricercate in vista di quell’obiettivo ultimum che è la virtù perfetta e pienamente compiuta, il massimo bene per l’uomo. Ma tale sommo bene, altro non è che la felicità stessa24. La felicità è quindi quello status et actus omnium bonorum congregatione perfectus25 che si

consegue con l’esercizio delle virtù. Ritroviamo qui una locuzione praticamente identica a quella con cui nel commento al capitolo V del vangelo di Matteo veniva definita la beatitudo, ossia la felicità somma26, sennonché là la distinzione tra status e actus veniva rafforzata da una specificazione terminologica per cui lo status veniva definito come beatitudo, l’actus sive operatio invece identificava la felicitas in senso stretto. Nell’Ethica, nonostante non sia riproposta la stessa distinzione a livello di termini, si trova tuttavia corrispondenza a livello concettuale: sulla base infatti della conformazione stessa dell’intelletto, per cui questo presenta due volti, l’uno rivolto alle potenze inferiori dell’anima, l’altro invece all’intelligenza prima, si distingue tra due diversi tipi di felicità, o, per meglio dire, tra due diversi gradi: ad un livello inferiore si parla di una felicità operativa, che riguarda le azioni, e che consiste nell’esercizio della virtù, ossia nel controllo e nella direzione delle facoltà inferiori

24

«Summum bonum quod ultimum est per analogiam, ipsum est ratio et causa quare omnia bona sunt, et omnium bonorum virtus virtualiter est in ipso, sicut in duce exercitus virtualiter colligitur virtus cuiuslibet eorum qui sunt in exercitu. Propter quod dicit Aristoteles…quod felicitas bonum compositum est ex omnibus bonis quae sunt sub ipsa. Dico autem “compositum” non collective, quod discrete singula contineat, nec integraliter, sed quod essentialiter partes in se multas habeat ordinatas ad unum, sed sicut totum potestativum, in quo virtualiter potestates omnes particularium virtutum et potentiarum perficiunt operationes. Omne enim quod ex multis fluit causaliter se habentibus ad ipsum, quamvis in essentia sit simplex, in se tamen habet omnium antecedentium virtutes» Eth., I-V, c.

1, Borgnet, 57; «Bonum hominis modo quodam est plura, simpliciter autem unum ultimum et

optimum», Eth., I-VI, c. 1, Borgnet, 85

25 Eth., I-VII, c. 1

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da parte della ragione; da questa si ha poi direttamente accesso al livello superiore della felicità contemplativa, in cui l’intelletto, svincolato dal peso delle passioni e delle potenze corporee, può finalmente dedicarsi alla contemplazione, nella quale raggiunge quello stato di stabilità e di quiete perfetta che costituisce il sommo tra tutti i beni ottenibili dall’uomo27. In questa condizione infatti l’anima intellettiva, specifica dell’uomo nella sua essenza, si trova quanto più vicino le è possibile - finché rimane connessa al corpo - alla fonte prima non solo di ogni cosa esistente, ma anche dell’intelligibilità in quanto tale, e che dell’anima stessa costituisce il fondamento e il costante riferimento28. Apriamo qui una brevissima parentesi: che la conoscenza umana derivi per illuminazione dalla causa prima di ogni realtà, è quanto, tra l'altro, risultava anche in un passo del commento al Vangelo di Matteo, dove la distinzione tra intelletto agente e intelletto possibile ne rivelava già l'ascendenza aristotelica29. Sennonché altrove si precisava anche che tale conoscenza diretta della causa prima, cioè di Dio, è in realtà quella della fede, sulla quale poi si

27 «Intellectus duplex est facies, scilicet ad intelligentiam agentem, a qua intelligentia ad ipsum fluit

illuminatio: et illa facies quae est ad inferiores potentias, in quas ab ipso fluit forma per quam efficiuntur persuasibiles et obedibiles. …In duplici ergo facie acceptus intellectus, necesse est quod duos fines habeat: unum scilicet operationum, et alterum contemplationum. Cum igitur felicitas operativa perficiens hominem et purgans a passionibus, operetur ad impassibilitatem intellectus, ne passione alterius ducatur et abducatur: passionibus autem non subjacens, sed aversus ab eis et depuratus et liber, perfectus sit ad contemplandum: constat quod felicitas civilis operativa ulterius ordinatur ad felicitatem contemplativam, quae est ultimum omnium bonorum», Ethica, I-VI, c.1,

Borgnet, 85; «bonum firmae et purae contemplationis et delectationis, super quod homo nihil potest

quaerere amplius secundum facultatem vitae humanae…in hoc statu homo perfectus est secundum modum hominis. Et iste finis scientiae moralis», Eth., I-I, c. 1, Borgnet, 14

28 «Lumen intellectuale emanans a fonte primae causae, omnium est constitutivum…idem enim

principium est in esse rei quod est illuminativum ad cognoscere … continua emanatio luminis intellectualis a fonte primae causae est faciens existentia»; «Ratio hominis et intelligentia, imago illius intellectualis est luminis, et est uniusciusque summum. Sic attingere suum superius quantum potest, erit rationis summum. Assimilatio quantum potest per intellectum adeptum ad intellectuale lumen purum et sincerum. Nec in hoc ratio proficiens aliquid a se diversum accipit: sed in hoc quod est, coadunatur et depuratur, ut ad ultimum veniat suae potestatis: et tunc est in virtute», Eth., I-VI,

c.7, Borgnet, 93

29 «…anima hominis lucem habet intellectus agentis. Cum infunditur lux increata, commiscetur et

emissione luminis serenat et immaterialem facit animam in ea parte qua recipere habet veritatem, et haec pars vocatur intellectus possibilis» SM, Schmidt, 152, rr. 17-22

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fonda la conoscenza, derivata, che ha per oggetto le cose, vale a dire la scienza30. Questo per sottolineare una differenza significativa tra l'Alberto commentatore di Aristotele e l'Alberto esegeta che reinterpreta le teorie aristoteliche rendendole funzionali ai propri scopi. Solo quando l'anima dunque, dopo un tale processo di risalita, riesce a trovare pace nel principio stesso da cui ha origine, si può a buon diritto parlare di status; per il resto la felicità umana è essenzialmente operativa, operatio cum ratione31 naturalmente indirizzata al bene in cui risiede la sua stessa condizione di possibilità, ma che, nel rimanere comunque condizionata da un’esistenza corporea e terrena, non può evitare di realizzarsi nel mondo reale, la cui imperfezione costitutiva la costringe ad essere costantemente atto, processo verso la perfezione, e quasi mai, se non sporadicamente e per brevi momenti di “grazia”, perfezione raggiunta nella quiete del primo principio.

La felicità contemplativa avvicina l’uomo a uno stato divino, e in questo consiste il sommo bene per lui raggiungibile. Ma anche la felicità tutta terrena che si realizza nell’agire razionale ha una sua propria condizione di perfezione. Questa è raggiunta quando, con l’esercizio della virtù, o meglio delle virtù, e con il concorrere di beni esteriori quali la ricchezza, il potere, gli amici, si arriva a possedere tutto ciò che è richiesto per una vita perfettamente autosufficiente e da nulla impedita nell’operare proprio dell’uomo. Bisogna però precisare che qui autosufficienza non implica affatto il poter condurre un’esistenza appartata e solitaria; un individuo che vivesse in una simile condizione sarebbe piuttosto simile a una bestia. Al contrario,

30 «Hic tangit lucem verae sapientiae quoad illminationem fidei de cognitione dei. Haec enim

sapientia vere est lux; quia lux et lumen differunt, quia lux est in prima et propria natura, lumen autem est immutatio lucis in medio. Unde lux dicitur cognitio divinae sapientiae, sed lumen ab illa resultans cognitio est omnium aliarum scientiarium», SM, Schmidt, 119, rr. 31-38

31 «Operationem cum ratione esse diximus felicitatem et humanum bonum. Ergo humanum bonum est

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l’uomo, secondo la sua natura, non solo è un essere razionale, e quindi capace di rendersi buono e perfetto in sé attraverso la virtù, ma è anche un animal civile, per il quale condurre con i suoi simili una vita comune costituisce un aspetto irrinunciabile al fine della compiuta e perfetta realizzazione della propria essenza32. Se è vero inoltre che la felicità richiede una certa quantità di beni esteriori33, è tuttavia da considerare che essa essenzialmente dipende dall’esercizio della virtù, cosa che rientra completamente nel potere della volontà umana34. Sbaglia perciò chi ritiene la felicità un dono divino o del caso, perché se i beni terreni possono accrescerla e renderla perfetta, essa rimane pur sempre la conseguenza diretta di una vita condotta secondo virtù, che è quanto di più stabile un uomo possa arrivare a ottenere con le sue sole forze durante la sua esistenza, e che neanche una sorte avversa è in grado di sottrargli35. Questo della virtù come condizione fondamentale e irrinunciabile della felicità è un aspetto che già emergeva nel commento a Matteo: anche lì infatti si affermava che, contrariamente a quanto ritengono i più, il grado massimo di infelicità

32 «felicitas per se sufficiens bonum est. Per se sufficiens: quo habito nullo indiget homo ad boni

operationem humanam. Bonum autem humanum in optimo statu suo non consideratur in hoc quod vivat sibi soli vitam solitariam, sed quod vivat sufficienter et parentibus et filiis et uxori: et universaliter loquendo, quod vivat amicis et civibus ad sufficientiam: quia homo et natura homo est, ut sibi vivat: et natura coniugale animal et domesticum, ut parentibus et filiis et uxori vivat: et ut amicis et civibus vivat, natura civile animal homo est», Eth., I-VI, c. 3, Borgnet, 87

33 «Multa quidem operata enim optima sunt, non quidem essentiali operatione, sed quemadmodum

operentur per organa, hoc est, instrumentaliter deservientia, sicut per amicos et divitias et civilem potentiam. Haec enim pricipia sunt inter exteriora bona. …felicitas haec requirit in copia», Eth.

I-VII, c. 1, Borgnet, 105

34 «operationes quae sunt circa finem et ea quae sunt ad finem, fiunt secundum liberam electionem

nostram … sequitur ergo quod et virtus sit in nobis sive in nostra potestate», Eth., III-I, c. 16,

Borgnet, 218

35 «In operatone bonorum consistit felicitas, et non fortuna», Eth., I-VII, c. 8, Borgnet, 118; «virtutes

sunt dominae felicitatis…ditiores sunt bonorum et pulchrorum possessione, quam ipsa felicitas quae status et actus est omnium bonorum aggregatione perfectus. … aliud est esse existens in potentia, et aliud est esse existens in actu: et secundum modum virtus essentialiter salvatur operatione felicitatis. …virtutes et virtutum operationes et maximae felicitas quae operatio est secundum virtutem perfectam, fortunae non subjicitur»; «Circa nihil humanorum operum tanta existit constantia, quanta est circa operationes quae sunt secundum virtutem», Eth., I-VII, c. 11, Borgnet, 123; «si dicamus felicem qui in nullo deficit essentialium felicitati, et etiam exterioribus optime utitur et abundat, adhuc ille talis non facile movebitur ex felicitate, neque permutabitur etiam in exterioribus facultatibus, ex quibusdam infortuniis quae a contingentibus causis frequenter accidunt», Eth., I-VII, c. 14, Borgnet,

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è quello di colui che è privo di virtù, mentre in mancanza di qualsiasi altro tipo di bene il livello di infelicità è senza dubbio minore36.

Su felicità e virtù abbiamo per ora detto a sufficienza. Passiamo quindi a considerare ciò che contraddistingue l’atto deliberativo e quanto concerne la sua valutazione dal punto di vista morale.

II.3. La deliberazione e la sua valutazione morale

Nel commento al quinto capitolo di Matteo l’importanza della deliberazione, e quindi del ruolo di ragione e volontà, per la valutazione dell’atto morale, come abbiamo già visto, emerge in più punti. Ciò che rende un atto giusto o sbagliato non è tanto quindi l’effetto reale cui esso dà luogo quanto l’interna disposizione di chi lo ha realizzato: «virtutis enim opus plus consistit in modo quam in factis37». Comportarsi correttamente per timore di un’eventuale punizione, non è agire bene; lo è invece quando lo si fa cum gaudio et ex habitu iustitiae. È quanto già sosteneva Agostino, che Alberto riporta a sostegno della propria argomentazione: «nemo invitus bene facit, etsi bonum est quod facit»38. Ed è proprio su questa linea interpretativa che Alberto distingue tra vecchio e nuovo popolo, vecchia e nuova alleanza, vecchia e nuova legge: con l’annuncio di Cristo si sarebbe passati da una giustizia puramente esteriore, che considera solo l’oggettività dei fatti e ottiene il rispetto della legge attraverso minacce e punizioni, a una giustizia interiore di cui ciascun individuo possiede in sé i principi e li riconosce come propri, diventando in questo modo egli stesso legge viva. Per giudicare quindi di un’azione, è al cuore degli uomini che ora

36 «Maxime tamen infelix est, qui privatur virtute animi; et minus illo infelix est, qui privatur facilitate

operandi; minime autem, qui privatur bonis fortunae instrumentaliter felici deservientibus, et hunc tamen imperitum vulgus maxime vocat infelicem» SM, Schmidt, 104, rr. 30-35

37 SM, Schmidt, 165, rr. 3-4

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bisogna guardare, e quindi dare un maggior rilievo a quei minima della legge indicativi rispetto all’interiorità del soggetto morale, rispetto invece ai maxima, che consistono esclusivamente nell’osservanza formale di quanto prescritto dalla lettera della legge.

Nel commento all’Etica troviamo conferma a questa impostazione generale, anche se qui il tema è naturalmente più articolato e approfondito, in modo da permetterci di sciogliere quelle ambiguità, dovute ad un uso impreciso dei termini volontà e ragione, che riscontravamo nel commento a Matteo. L’electio infatti, termine che traduce la proairesis aristotelica, viene definita in diversi modi: “judicativa medii39”, “consiliativus habitus judicativus perfectissime rationis

judicio40”, “appetitus consiliativus41”, “voluntas judicativa ex ratione42”, “appetitus in forma rationis iudicantis et consiliantis43” e così via. Ciò che indiscutibilmente risulta evidente in queste definizioni è la natura composita dell’electio, nella quale confluiscono e collaborano sia la facoltà intellettiva–raziocinante, che giudica e “consiglia”, sia la facoltà appetitiva, sede del semplice volere. L’electio infatti si distingue dalla volontà tout court per il fatto che la prima comporta l’intervento attivo della ragione che giudica, mentre la seconda è simplex appetitus, il quale, pur mantenendo una certa qual forma razionale, che lo contraddistingue in quanto facoltà umana, tuttavia tale forma la possiede come propria, e si trova quindi nella condizione di poter del tutto prescindere dalle direttive della ragione44. Prova di

39 Ethica., III-I, c. 14, Borgnet, 213 40 Ibid.

41 Ibid.

42 Eth., c. 15, Borgnet, 215 43 Eth., c.16, Borgnet, 218 44

«neque electio voluntas est, quamvis propinqua esse videatur. Voluntas enim simplex appetitus est vel rationalis, vel in rationali natura existens. Electio autem judicativa ex ratione est voluntas»; «Voluntas simpliciter appetitus est, et non ordinatus, nec ab aliquo, nec ad aliquid…sine judicio rationis», Eth., III-I, c. 15, Borgnet, 215; «Appetitus enim in concupiscibili et irascibili, non ita

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questa differenza sostanziale è innanzitutto il fatto che, mentre l’electio opera ristrettamente all’ambito del possibile, vale a dire di ciò che realmente è attuabile in conseguenza dell’operare del soggetto agente, la volontà invece prende spesso di mira cose impossibili, o perché assolutamente irrealizzabili o perché semplicemente al di fuori della portata del soggetto che le vuole45; inoltre, la volontà guarda direttamente a ciò che si pone come fine da raggiungere, quando invece l’electio considera invece i mezzi e i modi per ottenerlo46. Per quanto detto perciò, pur rimanendo vero il contrario, ossia che ogni atto deliberativo è in quanto tale anche volontario, tuttavia non omne voluntarium est electio, ma solo quello che implica il giudizio della ragione47. L’electio inoltre presuppone una facoltà intellettiva pienamente sviluppata, il che ne fa prerogativa dei soli adulti normalmente dotati per natura e condizioni di vita48. In conclusione, per ribadire, la differenza specifica che identifica la deliberazione rispetto al genere dell’azione volontaria è la disposizione gerarchica nella quale in essa si trovano le facoltà coinvolte: si ha electio solo quando l’intelletto domina sull’appetito, cui impartisce le sue direttive49. Da ciò

refertur ad rationem quin propriam formam retineat, per quam non est necesse quod semper sequatur formam rationis», Eth. I-VII, c.3

45 «electio non est impossibilium, voluntas autem etiam impossibilium est»; «Voluntas est etiam circa

ea quae nequaquam per nos ipsos operata sunt vel operabilia… Talia autem nullus eligit, sed potius eligit ea quaecumque existimat fieri per seipsum»; «Omnis electio videtur esse circa ea quae in nobis sunt et in facultate nostra», Eth., III-I, c.15

46

«Voluntas finis est magis, electio autem est eorum quae sunt ad finem»; «Electio autem finis non est, quia finis praestitutus est et volitus: ea vero quae sunt ad finem, comparantur et ponderantur quid plus vel minus expediet ad finis consecutionem», Eth. , III-I, c.15; «voluntas quae simpliciter est appetitus animae rationalis, finis est tantum», Eth., III-I, c. 20, Borgnet, 226

47 «omne igitur electum voluntarium est, sed non omne voluntarium consequenter electum est», Eth.,

III-I, c. 14

48 «voluntarium est in bruti et pueris et adultis. Electio autem nullo modo est in pueris et in brutis:

quia consiliativus habitus judicativus perfecte est perfectissimo rationis judicio», Eth. III-I, c. 14

49 «hoc voluntarium solum eligibile est, quod est praeconsiliatum, hoc est, e consilio diffinitum.

Electio enim cum ratione et intellectu est. …electio igitur propositorum compositorum vel diversorum dispositorum et ordinatorum et judicio rationis ponderatorum est appetitus: et sic componitur ex eo quod est rationis et voluntatis …non tamen quod ex aequo veniant in compositionem electionis intellectus et appetitus, sed intellectus precedenter, et appetitus, consequenter. …electio appetitus est et voluntatis secundum quod appetitus est in forma rationis judicantis et consiliantis», Eth., III-I, c.

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consegue anche che l’electio di per sé, in quanto determinata dalla ragione che è naturalmente indirizzata al bene, sia sempre buona; quando al contrario l’appetito ha il sopravvento, è facile che ne sorga un male50. In un certo senso si può qui dare ragione dell’intellettualismo etico socratico, dal momento che l’azione malvagia sembra così risultare dal difetto di conoscenza di chi non tiene conto dei precetti dell’intelletto51. È anche per questo motivo che l’uomo studiosus, colui che è assiduo nell’esercizio della virtù, è detto regula et mensura verorum bonorum: solo lui infatti, in quanto ha raggiunto la perfezione, attraverso una costante disciplina, nel seguire la ragione evitando le distrazioni, è in grado di riconoscere il vero bene, il bene in sé e per sé, e di farne quindi l’oggetto della sua volontà. Il vizioso al contrario, in completa balia dei suoi appetiti, persegue invece ciò che gli sembra buono nel qui e ora del momento presente, un bene dunque instabile e del tutto contingente52.

Ad ogni modo, fatte le dovute distinzioni, la volontarietà di un atto rimane ciò che fa sì che questo sia imputabile, vale a dire possa essere fatto oggetto di un giudizio morale. La volontà è infatti causa libertatis, e in essa noi siamo pienamente

50 «In appetitu autem electivo duo sunt: unum ex electione, alterum ex appetitu. In malo autem id

quod est in appetitu, dominatur et ad se trahit electionem et claudit oculum ad rationem eligibilis secundum quod ex electione determinatum est: et talis clausura error est et ignorantia … Bonus autem e contra dominium habet ex electione super appetitum», Eth., III-I, c. 10, Borgnet, 206

51 «Omnis igitur malus ignorans est. Ignorans dicitur quia rationem eligibilis non sequitur. …haec

ignorantia non est quae excusat: non enim involunterium opus facit, et operando avertit se a lumine quod ipsum dirigeret si ad illud converteretur», Eth., III-I, c. 10, Borgnet, 206

52 «studioso quidem sive virtuoso, voluntabile est secundum ipsam voliti naturam et substantiam.

Pravo autem voluntabile est, quodcumque contingit huic et nunc et hic bonum videri. …sicut regula et mensura verorum bonorum existat studiosus. … homo igitur per bonum rationis, boni virtutis quod simpliciter bonum est, regula et mensura est in potentia et imperfecta: studiosus autem qui perfecte bonum rationis attingit, regula et mensura est boni per se perfecta et completa», Eth., III-I, c. 20,

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padroni delle nostre azioni53. Perciò la valutazione morale dell’agire dipende più dalla disposizione interna del soggetto agente che dall’azione in sé54.

Pienamente volontario quindi è detto ogni atto il cui principio risieda nel soggetto che agisce libero da costrizioni e in condizioni note55. Deroghe infatti alla volontarietà di un’azione si hanno quando vi è nell’agente un difetto di volontà, dovuto o a violenza esterna56 o a ignoranza dei particolari in cui ci si trova a operare, i quali, se fossero conosciuti, comporterebbero senz’altro una mutazione dell’agire57. Per giudicare correttamente però occorre tenere ben distinta quest’ultima, l’ignoranza dei particolari, da quella che viene definita ignorantia universalis, che è l’ignoranza di quelle norme del diritto naturale e positivo che regolano ogni convivenza interumana e che ogni uomo, in quanto essere razionale e civile, è tenuto a conoscere. In questo caso dunque, colui che ignora è pienamente imputabile riguardo alle azioni commesse, poiché in lui stesso, vale a dire nella sua indolenza, distrazione e noncuranza, risiede la causa della propria ignoranza58. Si può infatti considerare

53«Quod vero primum causa libertatis est, voluntas est»; «Voluntarium secundum quod libertatem

confert operanti et operi, pro certo determinare habet moralis», Eth., III-I, c. 1, Borgnet, 195

54 «bene in opere virtutis in operante est plus quam in opere, si scilicet sciens, et si eligens, et eligens

propter hoc, et si firme sine tremore potentiae, et si immobilis a passione ab opere quod operatur. …laudabilitas operationis est in operante et non in opere nisi parum», Eth. II-I, c. 10, Borgnet, 165

55 «voluntarium est id cuius principium operis in ipso faciente est, qui determinata scientia et certa

dignoscat singularia in quibus est operatio», Eth. III-I, c. 13, Borgnet, 210

56

«violentum est cuius principium movens est extra operantem», Eth., III-I, c. 3, Borgnet, 197

57 «voluntarium ab actu volendi dicitur, et non a potentia vel habitu. Tale autem voluntarium inter duo

est, scilicet inter volentem a quo exit, et inter volitum quod est movens volentem, et ratio voluntarii, et forma, et finis movens per formam a volente conceptam et affectum. … voluntarium ergo privari potest ex parte volentis, vel ex parte voliti. Ex parte volentis non privatur nisi per violentiam. Ex parte voliti autem…non privabitur nisi per privationem formae voliti ut volitum est: et hoc non potest nisi per ignorantiam circumstantiarum quae faciunt ipsum volitum ut volitum est. …in involuntario propter ignorantiam, dissensus requiritur et molestia postquam scitur», Eth., III-I, c. 8, Borgnet, 203

58 «universalis etiam ignorantia involuntarium non facit, sed potius ea quae in singularibus est…quia

qiucumque ignorant aliquod singularium in quibus est actus, involuntarie operantur. … Universalia dicuntur quaecumque sint principia operabilium in operabilibus dirigentia, sive sint juris naturalis, sive juris positivi, sive etiam per rationem determinata si nulla auctoritate statuta sint: talia enim ignorans tenetur scire. …in talibus non fit peccatum quod voluntati non imputetur, eo quod rationem non consequitur in operabilibus dirigentem. Et ideo hoc peccatum aggravat et non involuntarium facit. … Haec ignorantia…nec ex difficultate scibilium causatur, sed potius ex voluntete subtracta iacet, quae est voluntas non inquirendi vel considerandi rationes operabilium», Eth., c.11, Borgnet,

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involontario solo ciò la cui causa si trova al di fuori della portata del volere di chi agisce.

La disposizione interna del soggetto agente, se pure è il principale, non è tuttavia l’unico criterio secondo il quale si giudica della qualità morale di una determinata azione. Concorrono infatti nel giudizio anche la considerazione dell’azione in sé, nonché della sua utilità pubblica59. Ad esempio, si può dare il caso che uno menta per la salvezza altrui o dello Stato: la sua azione presa in sé rimane un male, ma gli può essere concesso il perdono in vista del bene maggiore arrecato alla comunità per suo tramite. Lo stesso vale nel caso di un adulterio commesso per ingannare e sconfiggere un tiranno che tiene i cittadini in condizioni di schiavitù. Non sempre però il fine giustifica i mezzi: ci sono atti che per il loro livello di oscenità, per il fatto che vanno contro i più elementari principi della legge naturale, civile e consuetudinaria, in nessun caso si è autorizzati a commettere, e rispetto ai quali sarebbe preferibile la morte60. Vale la pena qui ricordare che, anche nel commento a Matteo, Alberto considerava l'utilità pubblica come l'unico criterio in base al quale ciò che costituisce in sé un male può essere considerato lecito e tollerabile: se infatti questo consente di evitare un male peggiore e di garantire la pace pubblica, allora, e solo in questo caso, il legislatore è legittimamente autorizzato

207; «negligentiae eorum qui scire poterant vel praeparare se ad opera et noluerunt, a legislatoribus

imputatur: quia talis negligere ipsi negligentes sunt causa», Eth., III-I, c. 21, Borgnet, 229

59 «turpia quae fieri coguntur, ad tria mensuranda sunt, scilicet ad statum facientis, et ad

obscoenitatem facti, et ad reipublicae utilitatem vel nocumentum», Eth., III-I, c. 5, Borgnet, 200

60 «Quamvis mendacium malum sit et semper malum, tamen a legislatore civili non imputatur, eo

quod redimitur pietatis officio. …ad idem reducitur civiliter adulterium…ut tyrannum cives in servitutem volentem redigere probat in sinu… Non enim redimerentur nisi mala essent, nec redimuntur ad hoc quod mala non sint, sed redimuntur ad hoc quod a legislatore non imputentur in poenam propter utilitatem communem quae ex talibus aliquando causatur. Obscena autem quae nimia sua obscoenitate redimi non possunt, eo quod rationem et virtutem et natura et consuetudinem subruunt, nullo modo facienda sunt, nec causa metus, nec causa alicuius violentiae: sed potius moriendum est», Eth., III-I, c. 5, Borgnet, 200

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a venir meno al precetto altrimenti primario che il male non va assolutamente commesso61.

II.4. La giustizia

A questo proposito, possiamo conseguentemente introdurre la trattazione sulla giustizia, alla quale è dedicato per intero il quinto libro dell’Etica Nicomachea. Nel commento a Matteo, la questione della legge e del diritto emerge a più riprese nell’intero capitolo. Già nel trattare delle beatitudini, in riferimento alla quarta (beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam), Alberto, nel definire la giustizia, fa esplicito riferimento proprio al quinto libro dell’Etica aristotelica62. Più avanti, nella digressione sulla legge, la definizione di moralia e iudicialia dimostra come nella concezione di Alberto in questo ambito, distingua un diritto universale e assoluto, di origine naturale, e uno contingente e convenzionale, di origine storica63. Ancora, quando tratta del giuramento64, Alberto riconosce come motivo dell’esigenza del diritto da parte degli uomini la stessa natura sociale dell’essere umano, nonché la sua instabile volontà, per cui si rende necessario che la comune convivenza sia regolata da norme ben precise. Queste stesse posizioni, espresse nei limiti che l’esegesi impone, trovano nell’Ethica una più esauriente delineazione.

Nell’Ethica, la virtù della giustizia è quella tra le virtù morali che più riguarda le opere esteriori piuttosto che l’interiorità dell’animo, e ciò per il fatto che fa

61 SM, Schmidt, 146, rr. 23-54 62 SM, Schmidt, 109, rr. 1-41 63 SM, Schmidt, 124, rr. 72-88 64 SM, Schmidt, 149(r.7)-150(r.71)

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riferimento all’intero Stato piuttosto che al singolo individuo65. L’ambito privato delle passioni individuali esula infatti dalla considerazione del potere pubblico, il quale giudica invece delle azioni in base alle ripercussioni che esse hanno sull’intera comunità66. Inoltre la giustizia, rispetto alle altre virtù morali, è caratterizzata da un maggior uso della ragione, il che la avvicina alle cosiddette virtù intellettuali facendone quasi una virtù “ibrida” con funzione di congiunzione tra le due classi67.

Per definizione la giustizia ha per oggetto tutto ciò che, sia essenzialmente che strumentalmente, pertiene alla realizzazione e conservazione della felicità della comunità civile, ossia del cosiddetto bene comune68. L’uomo infatti è per natura e necessità un essere che convive con i suoi simili, visto che nessuno da solo è in grado di ottenere quell’autosufficienza, morale e materiale, in cui consiste la felicità69. L’indigentia propria dell’essere umano perciò fa sì che elemento imprescindibile della piena realizzazione di ciascuno nella sua essenza sia il far parte di una comunità civile che sia buona, la cui vita cioè sia regolata da norme che preservano e

65 «Iustitia moralis est, eo quod in operationibus et passionibus est. …sed justitia principaliter est in

operationibus, eo quod per operationes et non per passiones ad rempublicam refertur et ad politicum: et in operationibus eius medium quaeritur», Ethica, V-I, c. 1, Borgnet, 229

66 «Politicus non praecipit aliquid de passionibus…politicus nec punit nec renuntiat passionem, sed

opus…haec est causa quare virtutes speciales a iustitia generali secundum formam sunt distinctae et differentes. …circa passiones ordinatio civilis esse non potest: aliquando enim in potestate non sunt. …iustitia generalis secundum formam genus est specialis iustitiae», Eth., V-I, c. 3, Borgnet, 335

67 «Haec virtus magis est similis arti quam aliae morales in hoc quod bene ipsius in opere operato est

magis quam in operante. …Huius causa est duplex. Una quidem, quia virtus non tota in appetitu consistit, sed potius in ratione proportionante, judicante, et determinante quid cui debitum sit… Secunda est, quia conjectatio medii eius semper in altero, et non in operante. …haec igitur causa est quod inter morales ultima ponatur. Minus enim de more habet et plus de ratione quam aliqua aliarum moralium…quia multiplicitatem habet, ex eo quod rationis relatae ad morem, ex principiis virtutum quae simpliciter morales sunt, determinari non potuit: sed alia principia ponere oportet: et ideo extra conjungenda, ut iste liber quasi continuatio quaedam sit moralium ad intellectuales», Eth., V-I, c. 1,

Borgnet, 330

68 «Iusta dicimus quaecumque sunt factiva et conservativa felicitati et omnium particularum ipsius,

sive essentialiter, sive instrumentaliter ad felicitatem referantur communicatione politica, quae rempublicam respicit, et ad beatitudinem civium ordinantur», Eth., V-I, c. 3, p 335

69 «Indigentia causa commutationis est. In contrafacere enim proportionale civitas commanere potest:

civitas enim non commanet nisi indigentiae civium suppleantur: suppleri autem non possunt sine tali commutatione rei unius ad alteram. Nullus enim omni suae indigentiae ex seipso habet supplementum»; «indigentia humana multa requirit et valde diversa, quae ab uno perfici non possunt: sed oportet quod a multis multa fiant», Eth., V-II, c. 9, Borgnet, 355-357

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infondono la virtù in tutti i cittadini. Proprio di questo si occupa la giustizia, e per questo motivo appunto è definita la più perfetta tra le virtù: essa infatti è tale sia perché riguarda il bene comune, che, per quanto detto, è superiore e divinius rispetto a quello individuale70 − e qui ritroviamo il motivo già incontrato nel commento a Matteo71 −, sia perché comprende in qualche modo sotto di sé, in quanto cioè totum potestativum, tutte le altre virtù come sue species, ordinandole ad alterum in vista del bene della comunità e cercando di infonderle e preservarle per via legale nei cittadini72. Virtù e giustizia sono quindi identiche quanto a sostanza; mentre per quanto riguarda il loro essere reale invece, la giustizia si distingue dalle altre virtù perché ad alterum per legis ordinationem ordinata, mentre quelle rimangono semplicemente habitus rivolti alla gestione di passioni e azioni nel ristretto ambito dell’individualità di ciascuno73. La giustizia si realizza esattamente nella promozione e salvaguardia di queste ultime attraverso la legge. A dispetto infatti di quanto sostenuto dai pitagorici, e a quanto pare anche dallo stesso Platone74, Alberto ci tiene

70 «iustitia generalis sola inter virtutes virtus perfecta est. Sola enim ad bene operandum facit

hominem… Propria enim quae communia esse non possunt non respicit lex: et in his non est homo perfectus, nisi ad seipsum. …virtute quae perficit eum in seipso, perfectus non est, sed virtute quae perficit ipsum in quantum civilis est. Divinius enim est civile bonum quam oeconomicum, et divinius est oeconomicum quam proprium» Eth., V-I, c.4, Borgnet, p. 337

71 SM, Schmidt, 104, rr. 12-20

72 «Iustitia generalis quodam modo omnis virtus est, eo quod in ipsa omnis virtutis opus est debito

legis informatum»; «Forma iustitiae generalis…quae forma participata est ab aliis virtutibus quodam modo omnes facit esse species istius vel supposita speciebus subjecta. Sicut igitur et omnis virtus est, et perfecta maxime virtus in eo quod perfectae virtutis in opere usus est. Perfecta autem ideo non est, quia qui habet ipsam ut habitum non tantum ad seipsum, sed etiam ad alterum quemlibet potest uti virtute secundum opus»; «Iustitia generalis non quaedam pars virtutis est, sed tota virtus…etiam specialis iustitia pars potentialis est ipsius. Generalis autem totum virtutis est potestativum», Ethica,

V-I, c. 4, Borgnet, 337-338

73 «Iustitia…est quidem virtuti eadem secundum subjectum et materiam circa quam virtus est. Esse

autem quod specificae formae est actus, non est idem. Iustitia enim est virtus in esse ad alterum per legis ordinationem ordinata. Simpliciter autem et absolute virtus est, secundum quod in passionibus privatis et operationibus est talis habitus secundum se consideratus qui qualem facit habentem et opus eius tale reddit», Eth., V-I, c. 4 , Borgnet, 338

74 «Pythagoras dixit, “leges non esse inventas ad hoc ut homines boni et iusti sint, sed potius ad hoc

ne sibiinvicem sint injuriosi” et in hoc etiam consensit Plato qui in urbanitatibus suis legitur dixissse, “leges inventas esse non ut cives beati sint et beate vivant, sed ne iniusti efficiantur”», Eth., V-II, c. 8,

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a sottolineare che la legge non ha affatto una funzione principalmente negativa e coercitiva, volta cioè a limitare, attraverso obblighi e divieti, i danni che le azioni ingiuste commesse da cittadini malvagi infliggerebbero al resto della società, ma al contrario suo compito primario è quello di educare alla virtù, e questo non solo rispetto alla situazione presente, ma anche e soprattutto nella prospettiva futura di un continuo miglioramento che culmini nella realizzazione della perfetta urbanitas75.

Risulta qui più chiaro ciò che nel commento a Matteo era già presente: in esso infatti la funzione positiva della legge costituiva un elemento centrale della distinzione tra vecchio e nuovo ordinamento. Accanto alla consapevolezza che il ricorso ad una legislazione scritta articolata in ordini e divieti è richiesto dalla necessità di continere multitudines76, il fatto che il nuovo adempimento promosso da Cristo abbia come scopo quello di inscrivere la legge nei cuori in modo tale che gli atti esteriori derivino da una corretta intenzione e che si sia in grado di comportarsi con giustizia anche al di fuori del vincolo imposto da una qualsiasi formalizzazione legale, esprime quanto di positivo vi è nella nuova concezione del diritto resa possibile dall'avvento della grazia. Mentre dunque la vecchia legge poteva permettersi

75 «Lex praecipit vivere secundum unamquamque virtutem, et prohibet vivere secundum

unamquamque malitiam intendens proficere virtutem in civibus, prohibere autem malitiam: et ideo quaecumque virtutis factiva sunt et malitiae impeditiva, lex ordinat. …Quaedam enim legalium sunt quae non praecipiunt qualiter vivere oportet: sed de hoc enarrant qualiter cives civiliter dispositi fiant secundum virtutem. Prudens enim legislator…multo principalius intendit de disciplina eorum qui futuri sunt boni, qualiter scilicet lex talis ponatur, propter cuius ordinem malitia universaliter removeatur, et omnes disponantur ad optimum. …Prudens enim legislator principaliter intendit cives iustos facere, et disciplinam talem dat, qua omnes diriguntur ad iustum», Eth. V-II, c. 2, Borgnet, 341

76 «omne, quod commune est plurium, oportet lege ordinari, quia aliter amor privati boni induceret ad

hoc quod unus faceret iniuriam alteri» SM, Schmidt, 147, rr. 47-50; «Illi [legislatores]…continere non possunt multitudines, nisi tribus se modis habeant ad multitudinem populi, quaedam enim concedunt et praecipiunt et quaedam indulgent et volunt et quaedam permittunt et ordinant» SM,

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unicamente la funzione negativa di cohibere manum tramite minacce e punizioni, ora invece si può ambire a rendere gli animi interius lege informatos77.

Quanto detto riguarda la giustizia intesa in senso generale. Per giustizia speciale invece si intende una virtù particolare, che si distingue dalla prima per differenza specifica e che sotto di essa è compresa insieme alle altre virtù. La giustizia speciale consiste nella giusta e adeguata ripartizione dei beni esteriori tra i cittadini, in proporzione alla dignità di ciascuno, e ne regola lo scambio in modo che avvenga equamente78. Quanto alla ripartizione dei beni, la giustizia considera ogni cittadino in base ai suoi meriti e ai suoi demeriti, in relazione cioè al contributo che questi ha apportato al bene della comunità79; nello scambio invece si escludono dalla valutazione gli individui coinvolti80 per considerare unicamente i beni oggetto della transazione, che vengono equiparati in base al loro valore d’uso81. Quando tale giustizia è espressa e definita sotto forma di legge, si è nell’ambito della politica.

77 «Attende igitur, quia omnis legislator intendit eum cui dat legem, producere ad legislatoris

intentionem. Est autem intentio legislatoris duplex in communitate. Una est beatitudo pacis in statu rei publicae. Altera est pax exterior ad minus, ut non turbetur qui studet laudabilibus studiis. Primam intentionem non consequitur, nisi faciat eos quibus legem dat, interios lege informatos, ut "ipsi sibi sint lex", etiam si nemo legem poneret, sicut et ipse legislator lex est viva sive animata. Aliam autem intentionem consequitur per poenas, ut per cruces et culliones, quia illi qui non sunt informati iustitia legis, turbarent pietatem et iustitiam colentes, nisi essent cruces et culliones et alia genere tormentorum» SM, Schmidt, 132, rr. 34-48; «…lex talionis inventa est pro pace, "ut quietam vitam agamus", ut dicitur I Petr. IV. Sed quia non facit pacem nisi exterius tantum, Christus implet eam, quod veniat in viscera et cor… hoc enim quietat corda et pacem interiorem confert, ex qua procedit pax dulcis exterior… Quia lex mundi et vetus lex Moysi non potest cohibere nisi manum, Christus autem cor ponit in tranquillo pacis, ex qua procedit etiam pax exterior» SM, Schmidt,

158(r.78)-159(r.6)

78 «[De divisione iustitia specialis]: …una quidem est species quae est in distributionibus, sive honori

quae in titulis et demonstrationibus, sive in pecuniis… sive in aliis quaecumque partibilia sunt…proportione habita ad dignitatem qua communitati contulit. … Alia autem in commutationibus, qua res possessa ab uno civem commutatur in alterum» , Ethica, V-II, c. 3, Borgnet, 343

79 «Distributivum quidem est iustum eorum quae semper sunt communium, et ab ipsa communitate vel

rectore civitatis distribuenda pro dignitate meriti quod aliquis contulit reipublicae», Eth., V-II, c. 6,

Borgnet, 348

80 «Iustum autem quod est in commutationibus, est quidem etiam aequale vel inaequale secundum

arithmeticam proportionem … in talibus nullam differentiam facit personae vendentis vel ementis dignitatis… Lex informat animam iudicis: et ideo ad differentias personarum non respicit», Eth., V-II,

c. 6, Borgnet,348

81 «Commutatio autem non fit nisi in aequalitate proportionis. …Oportet igitur quod ista accipiantur

non absoluta, sed comparata aliqualiter ad valorem secundum indigentiae usum, et aliter non erit commutatio ipsorum», Eth., V-II, c. 9, Borgnet, 355

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Politico viene definito infatti tutto ciò che riguarda la vita comune in funzione di quell’autosufficienza in cui consiste la felicità, definizione a cui per altro si rifà ogni tipo di iustum, ma lo iustum politicum risulta inoltre stabilito legalmente. Esso pertanto è identico quanto a sostanza al giusto speciale, vale a dire, lo ricordiamo, quello che ha a che fare con l’equa ripartizione dei beni e il loro scambio, ma se ne distingue per il fatto di essere sancito dalle legge82.

La legge in quanto tale è ciò che regola la vita comune. Essa presuppone il pubblico riconoscimento e riguarda solo la comunità dei cittadini, persone quindi di uguale condizione, la cui diversità è unicamente questione di merito. Di fronte alla legge dunque, tutti i cittadini si trovano in una situazione di parità83. Anche quando ci trova a constatare casi in cui ciò sembra non venire rispettato, quando, ad esempio al princeps viene riservato un trattamento particolare, bisogna considerare che in gioco qui è il valore non della singola persona in sé, bensì in quanto rappresentante del potere pubblico, dell’intero Stato, e quindi dello stesso bene comune. Per questo il crimine di lesa maestà è più grave di azioni simili nella sostanza ma che hanno per oggetto invece comuni cittadini. E per lo stesso motivo all’autorità statale è concesso di esercitare una certa violenza, pur rimanendo però nei limiti stabiliti dalla legge84. Perché se il princeps, per il ruolo che ricopre, è al sopra dei cittadini, tuttavia rimane

82 «Politicum iustum est id quod communicativum est per rationem vitae humanae debite ordinatae ad

hoc quod per se sufficientia sit in ipsa, et ex suis sibiipsi sufficiat ad omnem indigentiae suppletionem, secundum quod hoc possibile est humanae vitae. …et quamvis idem sit politicum iustum cum iusto distributivo et commutativo subjecto et substantia, tamen secundum rationem et esse non est idem. Politicum enim est secundum quod sub legis ordine stat: justitia autem est secundum quod ad actualem refertur debiti redditionem vel distributionem vel commutationem», Eth., V-III, c. 1,

Borgnet, 364

83 «Politicum iustum…oportet ergo quod sit inter liberos qui secundum conditionem aequales sunt…

servus enim a domino per rationem iustitiae nihil repetere potest. …Est enim vere dictu iustum in personis his quibus lex aequalis est ad ipsos», Eth., V-III, c. 1, Borgnet, 364

84 «Princeps percutiens ex autoritate habet quod percutit: peccat autem in hoc quod non secundum

legem percutit: et ideo non tota percussio iniusta est: propter quod ad tantum et tale non contrapatitur. …In magnum ergo damnum cederet urbanitatis, si princeps contrapateretur. Adhuc si princeps percutiatur, crimen laesae majestatis incurritur: quod fit ex laesione communis boni, quod magis intendit salvare legislator quam proprium», Eth., V-II, c. 8, Borgnet, 353

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pur sempre al di sotto della legge, dalla quale dipende totalmente per quanto riguarda l’esercizio del suo potere. L’eventuale violazione della legge infatti comporta per il sovrano stesso il decadimento dalle sue funzioni e la destituzione. Il capo dello stato rimane tale solo fintanto che si erge a custode del giusto e in rapporto ad esso guida la comunità, ma non appena viene meno al suo compito, è automaticamente da considerarsi decaduto85.

La legge, autorità suprema alla quale devono far riferimento tutti gli appartenenti alla comunità civile, a partire dal sovrano giù fino all’ultimo dei cittadini, possiede una doppia origine, in base alla quale si distingue tra uno iustum naturale e uno iustum legale86. Il primo deriva dai principi razionali presenti in ogni essere umano in quanto tale; è quindi universalmente riconosciuto e possiede una validità assoluta che prescinde da tempi e luoghi. Il secondo è invece un giusto convenzionale, costruito sulla base del primo ma reso specifico dal confronto costante con la particolarità delle diverse situazioni reali e dalla continua stratificazione storica delle consuetudini nel succedersi temporale delle varie civiltà87. Se quindi il diritto naturale è uno solo, valido universalmente, quello legale,

85 «iustum politicum, quod principi pro anima est. Propter quod si bene eligatur

princeps…consentimus principari rationem. Ratio enim…faciens currere causam in causatum, qui cursus non nisi rectus esse potest. Si enim principetur homo…sibiipsi plus tribuit bonorum, et minus malorum: et sic efficitur tyrannus in subditos, et cadit a ratione principis. Est enim princeps custos iusti:…princeps ergo alteri laborat, ad rempublicam referens opera», Eth., V-III, c. 1, Borgnet, 365

86 «Politici autem iusti duae sunt species…Una quidem species naturale iustum: alia autem iustum

legale», Eth., V-III, c. 3, Borgnet, 366

87 «Naturale quidem iustum est, quod ubique et apud omnes homines quantum ad sui principia in

communi sigillatim accepta vel sumpta, eadem habet potentiam ad obligandum, et quantum ad sui principia non consistit in videri vel non videri, sicut jus positivum quod positum est ex ratione utilitatis communis ex his quae videbantur sapientibus et plebibus vel principibus, qui rempublicam pro tempore gubernant, et secundum casus emergentes ad utilitatem reipublicae statuerunt quae videbantur esse convenientia, vel ad boni communis promotionem, et ad mali exclusionem vel temperamentum. …innata ius ex genere potest esse, et ex specie. …si est ex genere…ad quod obligat, per instinctum naturalem obligat et non per modum iusti…Naturale autem ex specie est, quod unicuique dictat ratio ex solis rationis principiis informata, et non ex his quae inquisitione vel discussione inventa sunt. Et hoc modo dicit Tullius, quod “de iure naturali sunt religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia, et veritas”»; «iustum naturale ubique eamdem habet potentiam…Potentiam

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